La corsa al nucleare di ChatGPT e gli altriImmagine in evidenza: Centrale nucleare di Three Mile Island da Wikipedia – CC
BY-SA 4.0
I data center che alimentano l’intelligenza artificiale richiedono una quantità
di energia enorme, di gran lunga superiore rispetto a quella utilizzata dai
social media o dalle ricerche in rete. Secondo Raul Martynek, amministratore
delegato dell’azienda di settore DataBank, un rack di chip avanzati per l’AI
(ovvero una struttura che ospita numerosi semiconduttori per aumentare la
potenza di calcolo) può necessitare di oltre 100 kilowatt di energia, aumentando
di molto la richiesta dell’infrastruttura che lo ospita.
Alla luce di tutto ciò, e vista la crescente diffusione di questa tecnologia, le
Big Tech si stanno muovendo per cercare una soluzione che possa rispondere al
fabbisogno energetico dei data center, permettendo al contempo di raggiungere
l’obiettivo di zero emissioni di carbonio entro il 2030. E stanno guardando
all’energia nucleare.
Di recente, Microsoft ha fatto sapere di aver preso accordi per rimettere in
funzione la centrale nucleare di Three Mile Island in Pennsylvania, chiusa lo
scorso 2019 per ragioni economiche. Amazon e Google hanno invece annunciato
piani per costruire piccoli reattori nucleari modulari (SMR) per alimentare i
data center. Insomma, è evidente che le grandi compagnie tecnologiche “hanno il
desiderio di crescere in modo sostenibile e, al momento, la risposta migliore è
il nucleare”, come ha spiegato Aneesh Prabhu, amministratore delegato di S&P
Global Ratings, una compagnia statunitense che si occupa di rating e analisi di
credito.
Ma le Big Tech non sono da sole in questa corsa al nucleare. Prima di passare il
testimone a Donald Trump, il Presidente Joe Biden ha approvato una legge – il
cosiddetto Advanced Nuclear for Clean Energy Act – finalizzata ad accelerare lo
sviluppo dell’energia nucleare nel paese, sia attraverso lo stanziamento di
importanti risorse finanziarie, sia attraverso la semplificazione della
burocrazia per le compagnie che scelgono di inserirsi in questo mercato.
“Rilanciare il settore nucleare in America è importante per incrementare
l’energia a zero emissioni di carbonio nella rete e per soddisfare le esigenze
della nostra economia in crescita, dall’AI e i data center all’industria
manifatturiera e all’assistenza sanitaria”, aveva commentato l’allora segretario
dell’energia Jennifer M. Granholm.
Negli ultimi decenni, i progetti relativi alla costruzione di nuove strutture
per il nucleare negli Stati Uniti non sembrano però essere andati a buon fine:
sono stati conclusi i lavori di soli due reattori e questo sta portando i più
critici a chiedersi se davvero le Big Tech riusciranno a superare i tanti
ostacoli. E se anche ci riuscissero, che cosa significherebbe questo per
l’economia statunitense e globale? Quali sarebbero i vantaggi in termini
ambientali? E quale la spinta per lo sviluppo di nuovi progetti legati
all’intelligenza artificiale? Prima di rispondere a queste domande, cerchiamo di
capire quali sono davvero i piani che Microsoft, Google, Amazon e le altre
grandi aziende tecnologiche hanno per il nucleare e l’intelligenza artificiale.
AMAZON E GOOGLE PUNTANO SUGLI SMR
Impazza la corsa delle Big Tech per l’energia nucleare, ma lo scorso ottobre è
stato Google “a firmare il primo accordo aziendale al mondo per l’acquisto di
energia nucleare prodotta da alcuni piccoli reattori modulari (SMR) che saranno
sviluppati da Kairos Power”, una compagnia con sede ad Alameda, in California.
L’obiettivo del colosso tecnologico è quello di avere a disposizione 6 o 7
reattori entro il 2035, con il primo in consegna nel 2030, così da poter
alimentare i data center dedicati ai suoi progetti AI. “Complessivamente, questo
accordo consentirà di immettere nelle reti elettriche statunitensi fino a 500 MW
di nuova energia, 24 ore su 24 e 7 giorni su 7, priva di emissioni di anidride
carbonica, e di aiutare un maggior numero di comunità a beneficiare di
un’energia nucleare pulita e a prezzi accessibili”, ha affermato Google nel
comunicato che ha accompagnato l’annuncio della collaborazione con Kairos Power.
Al di là dei dettagli dell’accordo, è interessante notare che questo rappresenta
una svolta importante nell’evoluzione dei piccoli reattori modulari, dotati di
una potenza massima di 300 megawatt e in grado di produrre più di 7 milioni di
chilowattora di energia al giorno. Per la prima volta, questi hanno ottenuto una
dimostrazione di fiducia da parte di un colosso come Google, convinto che
contribuiranno ad accelerare la diffusione del nucleare.
Le dimensioni ridotte e il design modulare dei reattori – che vengono
sostanzialmente prodotti in fabbrica – possono infatti ridurre non solo i tempi
e i costi di costruzione, ma anche “consentire la messa in opera in un maggior
numero di luoghi e rendere più prevedibile la consegna del progetto finale”. In
poche parole, i piccoli reattori modulari potrebbero essere la soluzione ai
ritardi accumulati dagli Stati Uniti nei progetti di costruzione delle nuove
strutture dedicate al nucleare. O almeno così crede Google. E anche Amazon.
Appena qualche giorno dopo l’annuncio di Big G, anche il colosso dello shopping
online ha infatti dichiarato di aver siglato tre diversi accordi per poter
sfruttare l’energia nucleare per alimentare i suoi data center. Tra questi
figura anche un accordo con Energy Northwest, un consorzio di aziende pubbliche
statali, finalizzato alla costruzione di 4 piccoli reattori modulari che si
prevede genereranno circa 320 megawatt (MW) di energia (con l’obiettivo di
arrivare a 960 MW), al fine di contribuire a “soddisfare il fabbisogno
energetico previsto per il Pacifico nordoccidentale a partire dall’inizio del
2030”. A questo si aggiunge la collaborazione con X-energy, società leader nello
sviluppo di SMR e combustibili di nuova generazione, che punta a portare più 5
gigawatt di energia priva di emissioni di carbonio alla rete statunitense entro
il 2039. L’accordo con la società di servizi Dominion Energy mira invece allo
sviluppo di un piccolo reattore modulare vicino all’attuale centrale nucleare
North Anna, in Virginia, che produrrà circa 300 MW di energia per alimentare la
rete della regione.
Infine, Amazon ha siglato un accordo per la costruzione di un data center
accanto all’impianto nucleare di Talen Energy in Pennsylvania, così da
garantirne l’alimentazione “con energia a zero emissioni”, oltre che a
preservare il funzionamento del reattore. Una strategia che punta anche a
migliorare l’immagine aziendale. Come riferito dalla stessa Amazon, gli
investimenti nel settore nucleare contribuiranno a “creare e preservare fonti di
energia priva di emissioni di carbonio”, ma anche a “fornire una spinta
economica alle comunità locali” che ospiteranno gli impianti di produzione di
energia, siano essi di nuova costruzione o preesistenti.
PICCOLI REATTORI MODULARI: COME FUNZIONANO E QUANTO SONO SICURI
Negli ultimi anni moltissime start-up – come X-Energy e Kairos Power – e aziende
affermate, tra cui Toshiba e Rolls Royce, si sono concentrate su progetti
dedicati allo sviluppo di piccoli reattori modulari per la produzione di
energia. Si tratta di un sistema totalmente diverso rispetto a quello utilizzato
finora dalle società energetiche tradizionali, che potrebbe cambiare per sempre
il settore del nucleare. Come prima cosa, quindi, cerchiamo di chiarire cosa
sono i piccoli reattori modulari e poi di capire come funzionano. Stando alla
definizione dell’Agenzia Internazionale per l’energia atomica (AIEA, 2022), “gli
SMR sono reattori nucleari avanzati con una capacità di potenza fino a 300 MWe
(megawatt elettrici), i cui componenti e sistemi possono essere costruiti in
fabbrica e poi trasportati come moduli in un sito per essere installati in base
alla necessità”. Allo stato attuale, “gli SMR sono in fase di sviluppo per tutti
i tipi di tecnologie di reattori (per esempio, reattori raffreddati ad acqua,
reattori raffreddati a gas ad alta temperatura, reattori raffreddati a metallo
liquido e a gas con spettro di neutroni veloci e reattori a sali fusi)”.
L'impatto delle centrali nucleari di grandi dimensioni, SMR e microreattori -
fonte: International Atomic Energy Agency riadattamento della Clean Air Task
Force (CATF)
In linea di massima, in quasi tutti i tipi di reattori nucleari la fonte di
energia è data dalla scissione degli atomi di uranio: un nucleo dell’isotopo
instabile uranio-235 si rompe quando viene colpito da un neutrone e questo
libera altri neutroni, che colpiscono altri nuclei, dando luogo a una reazione a
catena. Una centrale nucleare convenzionale estrae l’energia risultante,
rilasciata sotto forma di calore, pompando acqua fredda attraverso il nucleo del
reattore e producendo vapore pressurizzato per alimentare turbine che generano
elettricità.
Nel progetto di X-energy l’acqua viene sostituita dall’elio. Mentre Kairos Power
prevede di utilizzare nei suoi reattori un sistema di raffreddamento a sale
fuso. In entrambi i casi si utilizza il combustibile in forma di ciottoli,
aggiunti continuamente nella parte superiore del reattore e poi rimossi dalla
parte inferiore una volta esauriti, con un funzionamento simile a quello di un
distributore automatico di palline. Una formula che si vuole presentare anche
come più sicura: una volta spento, il nocciolo di un piccolo reattore potrebbe
contenere meno calore e radioattività residua rispetto a quello di un
tradizionale reattore nucleare.
Le stesse società che seguono i progetti sostengono inoltre che i reattori
pebble-bed (quelli che utilizzano il combustibile in ciottoli), sarebbero
intrinsecamente più sicuri perché non sono pressurizzati e perché sono
progettati per far circolare i fluidi di raffreddamento senza l’ausilio di pompe
– sarebbe stata proprio la perdita di potenza delle pompe dell’acqua, infatti, a
causare il guasto di tre dei reattori della centrale di Fukushima Daiichi in
Giappone nel 2011, in seguito a uno tsunami che colpì violentemente il paese. Ma
non tutti sembrano vederla così.
Il fisico Edwin S. Lyman, direttore della sicurezza dell’energia nucleare presso
la Union of Concerned Scientists, ritiene che i piccoli reattori modulari
“potrebbero effettivamente spingere l’energia nucleare in una direzione più
pericolosa”. Secondo lo scienziato, il problema sarebbe nell’uso dell’uranio ad
alto dosaggio e a basso arricchimento (HALEU) all’interno dei piccoli reattori,
che potrebbe rappresentare un rischio per la sicurezza.
“L’HALEU contiene tra il 10 e il 20% dell’isotopo uranio-23. A partire dal 20%
di 235U, la miscela isotopica è chiamata uranio altamente arricchito (HEU) ed è
riconosciuta a livello internazionale come direttamente sfruttabile nelle armi
nucleari”, si legge in un articolo pubblicato lo scorso giugno su Science da
Lyman, in collaborazione, tra gli altri, con il fisico Richard Garwin, che ha
guidato il progetto della prima bomba all’idrogeno. “Tuttavia, il limite pratico
per le armi è inferiore alla soglia del 20% di HALEU-HEU. I governi e gli altri
soggetti che promuovono l’uso dell’HALEU non hanno considerato attentamente i
potenziali rischi di diffusione e terrorismo che l’ampia adozione di questo
combustibile comporta”.
A indebolire l’idea di un sistema più sicuro rispetto a quello delle centrali
nucleari tradizionali si aggiunge uno studio condotto dai ricercatori della
Stanford University e della University of British Columbia, che insieme hanno
portato alla luce un’amara verità sui piccoli reattori modulari. “I risultati
rivelano che i progetti di SMR raffreddati ad acqua, a sali fusi e a sodio
aumenteranno il volume dei rifiuti nucleari da gestire e smaltire tra le 2 e le
30 volte”, si legge nella ricerca pubblicata sulla rivista PNAS. Il motivo? A
quanto pare, i piccoli reattori sono naturalmente meno efficienti, perché non
garantiscono quella reazione a catena che permette ai neutroni di scontrarsi con
altri nuclei e di produrre energia. Si verifica così un processo di dispersione
di neutroni, che finisce con l’avere un impatto importante sulla composizione
delle scorie dei reattori.
“Non dovremmo essere noi a fare questo tipo di studio. I fornitori, coloro che
stanno proponendo e ricevendo finanziamenti per lo sviluppo di questi reattori
avanzati, dovrebbero essere preoccupati per i rifiuti e condurre ricerche che
possano essere esaminate in letteratura”, ha commentato Rodney Ewing, coautore
dello studio, lasciando così in sospeso la questione della sicurezza dei piccoli
reattori modulari, che potrebbero essere notevolmente inquinanti.
MICROSOFT PUNTA SULLA RIAPERTURA DI THREE MILE ISLAND
Rimettere in funzione la centrale di Three Mile Island, in Pennsylvania, è
invece l’ambizioso progetto di Microsoft per alimentare i data center destinati
a sostenere il funzionamento dei modelli AI della compagnia. Una notizia che ha
fatto scalpore, considerando che l’impianto è passato alla storia per essere
stato la sede del più significativo incidente nucleare nella storia degli Stati
Uniti: il 28 marzo 1979 il reattore dell’Unità 2 andò incontro a un
malfunzionamento che provocò una fusione parziale del nucleo, causando la
dispersione di materiale radioattivo nella zona e costringendo alla sua chiusura
definitiva. Il reattore dell’Unità 1, invece, continuò a funzionare
correttamente – e a produrre energia in totale sicurezza – fino al 2019, quando
fu chiuso per motivi economici. Nel prossimo futuro, però, tornerà in funzione
con il nome di Crane Clean Energy Centre, in onore di Chris Cane, amministratore
delegato della società madre Constellation, scomparso lo scorso aprile.
Ad annunciarlo è stata la stessa Constellation Energy, che ha fatto sapere di
aver chiuso con Microsoft un accordo ventennale per l’acquisto di energia
carbon-free prodotta dall’impianto. Proprio per questo, nei prossimi mesi
“saranno realizzati investimenti significativi per ripristinare l’impianto, tra
cui la turbina, il generatore, il trasformatore di potenza principale, e i
sistemi di raffreddamento e controllo”. La riapertura della centrale è prevista
non prima del 2028, considerando che il riavvio del reattore richiede
l’approvazione della Nuclear Regulatory Commission degli Stati Uniti, oltre al
rilascio dei permessi delle agenzie statali e locali competenti. Nonostante ci
sia ancora qualche anno da attendere prima di rivedere Three Mile Island in
funzione, è innegabile che il progetto di Microsoft sia ambizioso sotto
molteplici punti di vista.
“Questo accordo è un’importante pietra miliare negli sforzi di Microsoft per
contribuire alla decarbonizzazione della rete, a sostegno del nostro impegno a
diventare carbon negative”, ha dichiarato Bobby Hollis, vicepresidente del
settore energia della compagnia. Ma non è solo la sostenibilità ad essere al
centro della riapertura del Crane Clean Energy Centre. Un recente studio,
commissionato dal Pennsylvania Building & Construction Trades Council al The
Brattle Group, ha infatti rivelato che l’impianto immetterà più di 800 megawatt
di elettricità senza emissioni di CO₂ nella rete statunitense, creerà ben 3.400
posti di lavoro nella zona e aggiungerà 16 miliardi di dollari al PIL dello
stato. Numeri da capogiro per un progetto che vuole rendere l’energia nucleare
il motore dello sviluppo dell’intelligenza artificiale.
Le centrali nucleari sono spesso presentate come una soluzione ottimale alla
richiesta di energia delle Big Tech impegnate con l’AI, poiché – a differenza
delle fonti rinnovabili come l’eolico e il solare, che sono disponibili in modo
intermittente – garantiscono una produzione costante di elettricità, spesso
denominata “energia fissa”. In questo senso, la scelta di ripristinare vecchi
impianti oramai in disuso si dimostra estremamente conveniente tanto per le
aziende tecnologie quanto per le autorità governative: lo scorso marzo, per
esempio, la centrale nucleare di Palisades (Michigan) ha ottenuto un prestito
dell’importo di 1.5 miliardi di dollari dal Dipartimento dell’energia degli
Stati Uniti, finalizzato al riavvio dei reattori. Chiusa nel 2022 per
motivazioni economiche, la centrale dovrebbe riaprire nell’ottobre 2025,
diventando così il primo impianto a tornare in funzione nel paese. Una sorte che
toccherà presto anche a quella che un tempo fu Three Mile Island.
OKLO, IL PROGETTO AMBIZIOSO DI SAM ALTMAN
Anche Sam Altman, CEO di OpenAI, di recente ha scelto di investire negli
ambiziosi progetti di Oklo, una società con sede a Santa Clara (California), che
lavora su “reattori a fissione di nuova generazione per produrre energia pulita,
abbondante ed economica su scala globale – a partire da Aurora, che può produrre
15 MW di potenza elettrica, scalabile fino a 50 MWe, e funzionare per 10 anni o
più prima del rifornimento”. Fondata nel 2013 da due studenti del MIT, la
compagnia sta lavorando allo sviluppo dei cosiddetti “reattori veloci”, in grado
di generare una maggiore quantità di energia con un minor impiego di
combustibile. Più piccoli ed economici dei normali reattori nucleari, questi
sembrerebbero in grado di riciclare il combustibile utilizzato da altri
impianti, riducendo l’impatto sull’ambiente.
Ma non è solo questo l’intento di Oklo: la società prevede di produrre energia
da vendere direttamente agli operatori dei data center, così da alimentare anche
i chip di quelle aziende che non possono permettersi di investire cifre
esorbitanti in progetti nucleari.
QUANTO CONSUMA L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE?
Definire con precisione la quantità di energia necessaria ad alimentare
l’intelligenza artificiale non è cosa semplice: da un lato, i modelli AI sono
talmente diversi tra loro da non permettere una misurazione chiara del loro
fabbisogno energetico; dall’altro, le grandi aziende di settore non forniscono
informazioni esaustive al riguardo. Una cosa è certa, però: la fase di
formazione di un modello richiede una quantità di energia decisamente superiore
a quella del suo funzionamento vero e proprio. Uno studio di settore, per
esempio, stima che l’addestramento di un modello di grandi dimensioni come Gpt-3
richieda all’incirca 1.300 megawattora (MWh) di energia elettrica, ossia una
quantità pari a quella consumata in un anno da 130 abitazioni statunitensi. Per
avere un’idea più chiara, basta pensare che un’ora di streaming su Netflix
richiede circa 0.8 kWh (0,0008 MWh) di elettricità, il che significa che
dovremmo guardare 1.625.000 ore di film e serie tv per consumare la stessa
energia richiesta dalla formazione di un modello AI di grandi dimensioni.
Si tratta di una stima approssimativa, elaborata dai ricercatori di settore
qualche anno fa, il che la rende non completamente affidabile, considerando i
passi da gigante fatti dall’AI negli ultimi mesi. Eppure, come riferisce la
ricercatrice di settore Sasha Luccioni (Hugging Face), avere una stima
aggiornata della quantità di energia richiesta dai modelli AI è quasi
impossibile, dato che le aziende hanno cominciato a condividere sempre meno
informazioni su questa tecnologia mano a mano che è diventata più redditizia.
Appena qualche anno fa, le compagnie come OpenAI condividevano con partner,
stakeholder e stampa tutte le informazioni relative all’addestramento dei loro
modelli: un’abitudine che hanno perso nel corso degli ultimi mesi. Da un lato,
secondo Luccioni, questo è legato alla volontà di non condividere con i
competitor i processi di sviluppo e formazione dei modelli AI. Dall’altro, però,
è dovuto alla volontà delle aziende di settore di evitare critiche legate al
consumo eccessivo di energia, decisamente dannoso per l’ambiente.
Ma se non abbiamo stime aggiornate sull’addestramento dell’AI, non possiamo
proprio dire lo stesso riguardo l’uso che gli utenti fanno dei modelli presenti
sul mercato. Sasha Luccioni, in collaborazione con alcuni ricercatori di Hugging
Face e della Carnegie Mellon University, ha di recente pubblicato uno studio che
contiene le prime stime sulla quantità di energia necessaria per il
funzionamento dei modelli AI. In linea di massima sembrerebbe che per portare a
termine compiti semplici, come classificare contenuti o generare testo, la
quantità di elettricità necessaria sia ridotta: tra 0.002 kWh e 0.047 kWh.
Chiaramente, generare un’immagine richiede più energia, ma il lavoro della
Luccioni ha dato una stima approssimativa anche per questa attività. L’obiettivo
della ricerca, infatti, era quella di gettare le basi per una misurazione
futura, non certo di fornirne una. Eppure, è ovvio che le Big Tech abbiano già
chiare queste stime, considerando la decisione di ricorrere all’energia nucleare
per alimentare lo sviluppo e il funzionamento dei nuovi modelli AI. Resta da
vedere, quindi, se questa basterà davvero.cg
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