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L’Europa abbandona Big Tech?
Per conformarsi a un ordine esecutivo del presidente americano Donald Trump, nei mesi scorsi Microsoft ha sospeso l’account email di Karim Khan, procuratore della Corte penale internazionale che stava investigando su Israele per crimini di guerra. Per anni, scrive il New York Times, Microsoft ha fornito servizi email al tribunale con sede a L’Aja, riconosciuto da 125 paesi tra cui l’Italia (ma non da Stati Uniti, Israele, Cina, Russia e altri).  All’improvviso, il colosso di Redmond ha staccato la spina al magistrato per via dell’ordine esecutivo firmato da Trump che impedisce alle aziende americane di fornirgli servizi: secondo il successore di Biden, le azioni della Corte contro Netanyahu “costituiscono una inusuale e straordinaria minaccia alla sicurezza nazionale e alla politica estera degli Stati Uniti”.  Così, di punto in bianco, il procuratore non ha più potuto comunicare con i colleghi.  C’è stata una mediazione, ricostruisce il New York Times: dopo una riunione tra Redmond e i vertici della Corte si è deciso che la Cpi avrebbe potuto continuare a utilizzare i servizi di Microsoft. Anche perché l’azienda, secondo la ricostruzione del quotidiano, sarebbe stata fondamentale per la cybersecurity dell’organizzazione, finita nel mirino degli hacker russi dopo l’inchiesta per i crimini di guerra in Ucraina.  Il discorso, però, non vale per Khan, il cui account resta bloccato: cittadini e aziende statunitensi rischiano conseguenze serie – multe e persino l’arresto – se forniscono “supporto finanziario, materiale e tecnologico” a chi viene identificato come pericoloso per la sicurezza nazionale (spesso sulla base di ragionamenti dal sapore politico). Insomma, in una paradossale inversione di ruoli, il procuratore è diventato un criminale, trattato alla stregua di un nemico pubblico.  Le conseguenze non si sono fatte attendere. Tre dipendenti con contezza della situazione hanno rivelato al quotidiano newyorchese che alcuni membri dello staff della Corte si sarebbero rivolti all’azienda svizzera Protonmail per poter continuare a lavorare in sicurezza. Il giornale non chiarisce il perché della decisione, né se tra essi vi sia lo stesso Khan. Una conferma al riguardo arriva dall’agenzia Associated Press. Protonmail, contattata da Guerre di Rete, non ha commentato, spiegando di non rivelare informazioni personali sui clienti per questioni di privacy e di sicurezza. UNO CHOC PER LE CANCELLERIE Quello che conta è che la situazione ha scioccato le cancellerie europee: quasi tutte – e  il quasi è un mero ossequio al dubbio giornalistico – impiegano software, servizi e infrastrutture statunitensi per le proprie normali attività. Ma nel clima pesante di questi mesi sono saltate le classiche e paludate convenzioni della diplomazia: Trump negozia nelle cancellerie come farebbe con i colleghi palazzinari, senza andare troppo per il sottile. Non è possibile, non lo è per nessuno, prevedere la prossima mossa. Il punto è che correre ai ripari non è semplice: sia perché  uscire dalla “gabbia” creata dalle aziende, il cosiddetto “vendor lock in”, richiede tempo, formazione, strategia; sia perché esistono contratti in essere e la questione può diventare spinosa dal punto di vista giuridico. Ma anche perché – ed è una questione centrale – al momento le alternative, quando esistono, sono poco visibili. La situazione è seria. Per dare un’idea, l’Irish Council for Civil Liberties ha rivelato che il parlamento europeo ha un contratto di fornitura di servizi cloud con Amazon. L’accordo imporrebbe di utilizzare solo modelli linguistici di grandi dimensioni “ospitati” su Amazon Web Services. Somo, ong olandese che si occupa da cinquant’anni di monitorare l’attività delle multinazionali, ha rivelato in un recente rapporto gli accordi capestro che le società di intelligenza artificiale hanno dovuto sottoscrivere con Big Tech per sostenere i costi di sviluppo dell’AI (comprese società europee come Mistral e Aleph Alpha).  E tutte le aziende di riferimento, da Microsoft ad Amazon a Oracle a Google a Intel, sono statunitensi e possono quindi potenzialmente ricadere tra i destinatari degli ordini esecutivi di Trump.  LA DIFESA DI MICROSOFT Per riguadagnare fiducia e mercato – i clienti governativi spostano cifre importanti anche per una Big Tech – nei mesi scorsi Microsoft ha cercato di rassicurare i propri utenti europei.  Il presidente Brad Smith a fine aprile ha schierato l’azienda a fianco di Bruxelles: “Oggi ci impegniamo solennemente”, ha detto in una conferenza del think tank Atlantic Council. “Se in futuro un qualsiasi governo, in qualsiasi parte del mondo, dovesse emettere un ordine che intenda obbligare Microsoft a sospendere o cessare le operazioni e l’assistenza per l’Europa, faremo ricorso al tribunale. Percorreremo ogni via legale per opporci a un simile ordine”. Non solo: se le cause fossero, alla fine, perse, “i nostri partner europei avrebbero accesso al nostro codice sorgente di cui conserviamo una copia in un repository sicuro in Svizzera”, paese neutrale per antonomasia.  CHI STA GIÀ LASCIANDO LE BIG TECH Ma c’è qualcuno che, nonostante tutto, sta già lasciando le Big Tech? Due città danesi (Copenhagen e Aarhus) starebbero abbandonando Microsoft per il timore di finire tra le braccia di un monopolista. Il parlamento olandese, dal canto proprio, nelle scorse settimane ha approvato alcune mozioni per spingere il governo a non fare più affidamento sulla tecnologia cloud statunitense. Il timore è il cosiddetto vendor lock in, cioè la politica commerciale alla base della creazione degli ecosistemi in stile Apple: tutto griffato, tutto dello stesso brand, o dentro o fuori. Chi usa un certo elaboratore di testi avrà, così, la strada spianata se sceglierà di impiegare anche il foglio di calcolo e l’applicazione di videoconferenze della stessa società; andrà, invece, incontro a parecchie (e strategicamente posizionate) difficoltà nel caso dovesse decidere di avvalersi dei servizi di un’azienda concorrente. Ricordate i tempi in cui cambiare operatore di cellulare richiedeva di accollarsi il rischio di restare settimane senza telefono? Funziona esattamente allo stesso modo: uscire non è facile, perché l’obiettivo è proprio complicare la vita a chi decide di farlo.  Ma in questo caso la posta in gioco è molto più alta, perché non parliamo di singoli, per quanto importanti come i giudici di una corte internazionale, ma di intere amministrazioni. Lo US CLOUD Act firmato da Trump nel corso del primo mandato consente alle forze dell’ordine di imporre alle società tech di fornire accesso ai dati custoditi nella “nuvola” per investigare crimini particolarmente gravi: difficile mettersi al riparo.  Dall’altra parte, a un esame anche basilare di cybersecurity molti politici sarebbero bocciati: un’indagine della Corte dei conti olandese ha scoperto che molti ministri del governo hanno usato cloud di Google, Microsoft, Amazon senza essere consapevoli dei rischi potenziali. E non c’è ragione per pensare che altrove vada meglio. Italia compresa.    Qualcosa sta cambiando? Guerre di rete ha chiesto ad alcuni soggetti direttamente coinvolti se la copertura mediatica degli ultimi anni abbia alzato il livello di consapevolezza del pubblico e delle aziende sul tema.  “Negli ultimi dieci anni aziende e consumatori hanno cominciato a cambiare”, afferma al telefono Alexander Sander, policy consultant della Free software foundation. “Il problema è sbarazzarsi del vendor lock in, che significa essere ostaggio dell’ecosistema del fornitore: oggi è difficile passare da un prodotto all’altro, tutto funziona bene e facilmente solo se si utilizzano servizi di una sola azienda. Lo si è visto chiaramente nel periodo pandemico, quando la gente cercava disperatamente servizi di videoconferenza e tendeva a scegliere quelli dell’azienda con cui già lavorava: oggi vale anche per l’intelligenza artificiale, che devi pagare anche se non ti interessa, non ne hai bisogno o semplicemente preferisci usare quella di un’altra società”. Questo, prosegue l’esperto, “significa che alla fine costruisci una relazione con un solo marchio: migrare è complicato e costoso. Non solo: molti dei servizi commercializzati in Europa, lo vediamo, non rispettano le norme continentali dal punto di vista della privacy e della cybersecurity: il Patriot Act non rispecchia le nostre normative, e quindi – nel caso di un’azienda Usa che vende servizi in Europa – i servizi segreti possono avere accesso ai file”.  Sander suggerisce di usare software open source, “il cui codice sorgente è pubblico e in cui si possono anche cercare eventuali backdoor: se le individui puoi sistemarle tu stesso, o incaricare qualcun altro di fare le modifiche del caso. Con il software delle grandi multinazionali del tech, invece, devi scrivere all’azienda, che a propria volta ti risponderà se può o meno mettere mano al codice”. E, come visto, oltre alle decisioni di business conta anche il clima politico.  C’è un altro tema, rimarca Sander: “Un conto è negoziare con un paese come l’Italia o la Spagna, un conto è quando al tavolo si siede una piccola azienda”. In questo caso le tutele sono rasenti lo zero.  C’è un’azienda che fa peggio delle altre, chiediamo, in termini di rispetto dei diritti digitali? “In realtà, credo sia più un problema di modello di business. Dobbiamo crearci delle alternative. E penso che Stati e governi dovrebbero avere un ruolo nello stimolare i mercati in questo senso. L’Europa si è mossa bene con il Digital markets act: qui non ci mancano tanto le idee, quanto l’implementazione. E poi bisogna educare cittadini e consumatori a comprendere come funzionano certi modelli di business”.  Qualche passo in avanti si comincia a vedere: in Francia c’è il progetto La Suite numerique, che offre una serie completa di servizi digitali sotto la bandiera del governo di Parigi. In Germania c’è Open Desk di ZenDis, il Centro per la sovranità digitale di Berlino fondato nel 2022 come società a responsabilità limitata di proprietà del governo federale. Anche qui, c’è tutto il necessario per una pubblica amministrazione. La strada, però, è ancora lunga. LA VERSIONE DI PROTONMAIL E poi ci sono i privati. Protonmail (lo abbiamo già incontrato poco sopra) è un servizio email sicuro nato nel 2014 da scienziati che si sono incontrati al Cern di Ginevra. “Lo abbiamo creato per fornire una risposta alla crescente domanda di sicurezza e privacy nella posta elettronica, e anche perché ci siamo resi conto che internet non stava più lavorando nell’interesse degli utenti”, dice a Guerre di Rete Anant Vijay Singh, head of product della società elvetica. “L’email non rappresenta solo uno strumento di comunicazione importante, ma anche la nostra identità online. Noi assicuriamo all’utente di avere il pieno controllo sui  propri dati: li criptiamo, per cui nemmeno noi possiamo analizzare, monetizzare o accedere a informazioni personali. È così che siamo diventati attraenti per chi è stanco di società che sfruttano i dati personali per farci soldi, spesso senza il consenso degli utenti”.  Singh afferma che l’azienda si basa solo sugli abbonamenti: il servizio di base è gratuito, gli upgrade a pagamento. “Il maggiore azionista è la Proton Foundation, che è una non profit, il che significa che quando pensiamo a un prodotto mettiamo davanti le persone, e non i soldi. E questo in definitiva porta a un’esperienza utente migliore”.  Il manager conferma che qualcosa si muove. “Negli anni scorsi abbiamo visto che la gente ha cominciato a rifiutare il capitalismo della sorveglianza e a cercare alternative più sicure e rispettose della privacy: nel 2023 abbiamo superato i 100 milioni di account, e questa tendenza ha accelerato negli ultimi mesi su entrambe le sponde dell’Atlantico”.  Proton, assicura Singh, opera sotto la legge svizzera, “che sulla privacy è tra le più stringenti al mondo. Ma le normative cambiano, e se non bastassero c’è sempre la matematica [cioè la crittografia, ndr] a difendere gli utenti”. “Inoltre tutti i nostri prodotti sono open source e sottoposti a regolari verifiche sulla sicurezza da terze parti indipendenti”. I dati sono conservati in Svizzera, ma alcune porzioni, prosegue, anche in Germania e Norvegia. Singh non nasconde che la Rete ha tradito le aspettative dei creatori. “Per anni i giganti del web l’hanno plasmata sulla base dei propri interessi e la natura centralizzata di molti servizi ha esacerbato i problemi: grandi società controllano enormi quantità di dati. Anche la sorveglianza governativa ha giocato un ruolo nell’erodere la fiducia: le rivelazioni sui programmi di sorveglianza di massa hanno mostrato quanto sia grande il potere degli esecutivi nel monitorare le attività online”. Ma la gente “è sempre più consapevole che alternative esistono, e vuole acquistare ‘europeo’, perché conscia della eccessiva dipendenza da servizi americani”.    L’alternativa elvetica a WeTransfer C’è un altro servizio, sempre basato in Svizzera, che sta spopolando da qualche tempo e tra i clienti vanta molti grossi nomi corporate. Si chiama Swiss Transfer ed è l’alternativa al notissimo WeTransfer, nato olandese e recentemente comprato dall’italiana Bending Spoons. Infomaniak è la società madre. “Abbiamo creato Swiss Transfer innanzitutto per testare su larga scala la nostra infrastruttura basata su OpenStack Swift”, dice a Guerre di Rete Thomas Jacobsen, a capo della comunicazione e del marketing. “Offrire un servizio free e utile al pubblico è  un modo per dimostrare l’affidabilità e la robustezza delle nostre soluzioni. Ma, al di là dell’aspetto tecnico, è anche un modo per aumentare la consapevolezza di cosa sia Infomaniak senza fare affidamento sui tradizionali canali promozionali, come Facebook, Instagram, Google e Linkedin, che richiedono grossi budget per acquisire visibilità. Abbiamo preferito creare un tool che parla da sé, rispetta la privacy, non traccia e offre un valore quotidiano all’utente. E funziona. Milioni di persone usano Swiss Transfer, spesso senza sapere che dietro ci siamo noi. Direi, anzi, che è ironico: in alcuni paesi il brand è più conosciuto della società che ci sta dietro. Ma lo consideriamo un successo”.  Le informazioni, spiega Jacobsen, sono custodite in data center proprietari in Svizzera, protetti dalla legge elvetica. “E dal momento che lavoriamo con l’Europa, ci conformiamo al Gdpr”.  Il modello di business è particolare. “Infomaniak è una società svizzera indipendente, posseduta dai propri stessi dipendenti: oggi gli azionisti sono circa trenta. Questa autonomia assicura indipendenza, e il rispetto dei nostri valori: protezione della privacy, sostenibilità ambientale e supporto per l’economia locale. Tutto è prodotto e sviluppato in Svizzera: i nostri team sono qui, sia quello di sviluppo che il customer care, il che ci dà il controllo totale su tutta la catena del valore, senza intermediari. Significa trasparenza, massima reattività e alta confidenzialità dei dati del cliente, che non verranno mai usati per altri fini se non quello di fornire i servizi richiesti”.   Chiediamo: ma siete davvero sicuri di essere in grado di sostituire i prodotti delle grandi multinazionali? “Sì. È sbagliato pensare che solo le Big Tech possano soddisfare le esigenze di grandi organizzazioni: lavoriamo già con oltre tremila media company tra cui radio e televisioni, ma anche banche centrali, università, governi locali e anche infrastrutture critiche”. Jacobsen sa che uno dei colli di bottiglia è la paura delle difficoltà nella migrazione, e parla di supporto personalizzato 24/7 . “La nostra filosofia è semplice: ci guadagnamo da vivere solo con i nostri clienti, non con i loro dati. Non li vendiamo e i servizi gratuiti sono interamente finanziati da quelli a pagamento: può sembrare strano, ma paghiamo tutti i nostri stipendi in Svizzera, e nonostante ciò  spesso riusciamo a offrire prezzi più competitivi. E funziona da trent’anni”. I dipendenti sono trecento, in crescita: “Ma siamo per la biodiversità digitale: il mondo ha bisogno di alternative locali dovunque”. Jacobsen va oltre: “I dati sono le materie prime dell’intelligenza artificiale e un asset strategico, ma l’Europa continua a spendere milioni di euro di soldi pubblici in soluzioni proprietarie come quelle di Microsoft, Amazon o Google senza reali benefici locali [sul tema lavora anche la campagna Public money, public code, ndr]. Queste piattaforme portano i profitti in America, creano posti di lavoro lì e aumentano la nostra dipendenza. Ma c’è di più: Big Tech investe un sacco di soldi per portare via i nostri migliori ingegneri e ricercatori, spesso formati con denaro pubblico. Per esempio, Meta ha recentemente assunto tre ricercatori dell’ufficio di Zurigo di OpenAI con offerte che a quanto pare hanno raggiunto i cento milioni di dollari. Nel frattempo, quando si presenta una necessità tecnologica negli Stati Uniti, il governo federale non esita ad aprire linee di credito eccezionali per supportare i player locali con contratti da miliardi di dollari, come nel caso di Palantir, OpenAI o cloud provider come Oracle. E l’Europa? Che sta facendo? Firma contratti con società straniere, anche se esistono alternative forti vicino a casa: noi in Svizzera, ma anche Scaleway  e OvhCloud in Francia, Aruba in Italia o Hetzner in Germania”.  Se davvero conquisteremo la biodiversità digitale, lo scopriremo nei prossimi anni. Certo, per cambiare rotta, ci vuole coraggio. E, come dice ancora Sanders, tempo. “C’è un movimento verso il software libero più o meno in tutti i paesi. Dieci anni fa era molto più difficile. Oggi governi e amministrazioni stanno cercando di cambiare passo dopo passo per uscire da questo vendor lock in, e non solo per i pc desktop: si stanno rendendo conto che si tratta anche delle infrastrutture, come i server.Il processo  non è immediato, un’amministrazione non dice all’improvviso: voglio passare al software libero. Ma piuttosto, quando si pone la necessità di acquistare un servizio, comincia a considerare le alternative”. Del resto, se ci sono voluti trent’anni per arrivare fin qui, è difficile immaginare che si possa invertire la rotta dall’oggi al domani L'articolo L’Europa abbandona Big Tech? proviene da Guerre di Rete.
Chi controlla le terre rare controlla il mondo
Immagine in evidenza da Unsplash Quando a fine anni ’80 Deng Xiaoping affermò che “il Medio Oriente ha il petrolio, la Cina le terre rare”, in pochi diedero il giusto peso alla dichiarazione dell’allora leader della Repubblica Popolare cinese. Come invece sempre più spesso accade, il Dragone asiatico dimostrò di avere la capacità di immaginare e mettere in atto strategie di lungo termine: le terre rare, infatti, rappresentano oggi uno dei maggiori motivi di frizione geopolitica nel mondo, a causa dell’elevata richiesta e del loro complesso approvvigionamento, di cui la Cina detiene il monopolio. Praticamente nessun settore industriale ad alta tecnologia può farne a meno, da quello militare – per missili guidati, droni, radar e sottomarini – a quello medico, in cui sono impiegate per risonanze magnetiche, laser chirurgici, protesi intelligenti e molto altro ancora. Non fa eccezione il settore tecnologico e in particolare quello legato allo sviluppo e all’utilizzo dell’intelligenza artificiale. Come spiega Marta Abbà, fisica e giornalista esperta di temi ambientali, le terre rare possiedono qualità magnetiche uniche e sono eccellenti nel condurre elettricità e resistere al calore, e anche per questo risultano essenziali per la fabbricazione di semiconduttori, che forniscono la potenza computazionale che alimenta l’AI, per le unità di elaborazione grafica (GPU), per i circuiti integrati specifici per applicazioni (ASIC) e per i dispositivi logici programmabili (FPGA, un particolare tipo di chip che può essere programmato dopo la produzione per svolgere funzioni diverse).  Sono inoltre cruciali per la produzione di energia sostenibile: disprosio, neodimio, praseodimio e terbio, per esempio, sono essenziali per la produzione dei magneti utilizzati nelle turbine eoliche.  Senza terre rare, quindi, si bloccherebbe non solo lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, ma anche quella transizione energetica che, almeno in teoria, dovrebbe accompagnarne la diffusione rendendola più sostenibile. Insomma, tutte le grandi potenze vogliono le terre rare e tutte ne hanno bisogno, ma pochi le posseggono. TERRE RARE, MINERALI CRITICI E AI Le terre rare (REE) sono un gruppo di 17 elementi chimici con proprietà simili e spesso presenti insieme nei minerali: lantanio, cerio, praseodimio, neodimio, promezio, samario, europio, gadolinio, terbio, disprosio, olmio, erbio, tulio, itterbio, lutezio, ittrio e scandio. Le materie prime critiche, di cui possono far parte anche alcune terre rare, sono invece quei materiali identificati dai vari governi come economicamente e strategicamente essenziali, ma che presentano un alto rischio di approvvigionamento a causa della concentrazione delle fonti e della mancanza di sostituti validi e a prezzi accessibili. Nel 2024 il Consiglio dell’Unione Europea ha adottato il Regolamento europeo sulle materie prime critiche, elencandone 34, di cui 17 definite “strategiche”, il cui controllo o accesso influisce direttamente su obiettivi di sicurezza, sviluppo tecnologico e autonomia industriale. Le terre rare, in realtà, spiega ancora Marta Abbà, non sono rare, ma la loro presenza nel mondo non è omogenea e l’estrazione e la lavorazione risultano molto costose e inquinanti.  Le maggiori riserve sono possedute dalla Cina, in cui ammontano, secondo le stime, a 44 milioni di tonnellate, con una capacità estrattiva che nel 2024 ha toccato la cifra di 270mila tonnellate all’anno. Altri stati che possiedono significative riserve sono il Brasile (21 milioni di tonnellate, attualmente ancora pochissimo sfruttate), l’Australia (5,7 milioni di tonnellate), l’India (6,9 milioni di tonnellate), la Russia (3,8 milioni di tonnellate) e il Vietnam (3,5 milioni di tonnellate).  A questo gruppo di paesi si è aggiunta di recente la Groenlandia, salita alla ribalta delle cronache per i suoi enormi giacimenti di materie prime critiche e per il conseguente interesse mostrato da Stati Uniti, Unione Europea e Cina. Il sito più rilevante, Kvanefjeld, nel sud dell’isola, è considerato uno dei più promettenti a livello globale e, secondo le stime della società che ne detiene la licenza estrattiva, potrebbe contenere fino al 15% delle riserve mondiali conosciute di terre rare. A far gola alle grandi potenze tecnologiche sono in particolare l’alluminio, derivato della bauxite, e il silicio, necessari per la produzione dei wafer (la base di silicio su cui vengono costruiti i microchip) e per l’isolamento dei chip, il niobio, utilizzato nei cavi superconduttori, il germanio, necessario per i cavi in fibra ottica utilizzati per la trasmissione di dati ad alta velocità, cruciale per l’AI, e ancora gallio, tungsteno, neodimio, ittrio, tutti componenti essenziali per l’industria dei microchip.    Per via delle loro applicazioni nell’industria high tech, molti di questi materiali ed elementi sono stati identificati come strategici sia dall’Unione Europea che dagli Stati Uniti e sono per questo oggetto di accordi e trattati bilaterali con i paesi produttori.  Nonostante la presenza di alcune riserve di terre rare in entrambe le regioni, il fabbisogno risulta infatti di gran lunga superiore alla capacità produttiva domestica, obbligando di fatto sia Washington che Bruxelles a importare le materie dall’estero, prima di tutto dalla Cina e in secondo luogo, per quanto riguarda l’Unione Europea, dalla Russia.  Per questo motivo, Dewardric L. McNeal, direttore e analista politico della società di consulenza Longview Global, ha affermato alla CNBC che “gli Stati Uniti devono ora trattare le materie prime critiche non come semplici merci, ma come strumenti di potere geopolitico. Come la Cina già fa”. IL POTERE DEL DRAGONE ASIATICO E LE RISPOSTE USA Dopo settimane di tensioni e accuse reciproche per i dazi imposti dall’amministrazione Trump, il governo di Pechino ha deciso di rallentare l’export di terre rare tra aprile e maggio, come già fatto in precedenza sia nel 2023 che nel 2024, quando alla scrivania dello studio ovale sedeva ancora Joe Biden e il tema caldo di discussione era l’isola di Taiwan. Per farsi un’idea della portata di questa mossa, basti pensare che, come stimato dal Servizio Geologico degli Stati Uniti (USGS), se la Cina imponesse un divieto totale sulle esportazioni dei soli gallio e germanio, minerali utilizzati in alcuni semiconduttori e in altre produzioni high tech, il PIL statunitense potrebbe diminuire di 3,4 miliardi di dollari. Anche per questo, il tono di Washington da inizio giugno è diventato più conciliante e il rapporto tra le due potenze si è andato normalizzando, fino ad arrivare il 28 giugno al raggiungimento di un accordo tra i due paesi. Nonostante i dettagli siano ancora scarsi, il segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Scott Bessent, ha dichiarato che la Cina ha accettato di facilitare l’acquisizione da parte delle aziende americane di magneti, terre rare cinesi e altri materiali fondamentali per l’industria tecnologica.  Quella che Trump ha festeggiato come una sua grande vittoria diplomatica, ha però reso ancor più evidente come le catene di approvvigionamento dei minerali critici siano molto concentrate, fragili e soprattutto troppo esposte all’influenza e al controllo di Pechino. Come abbiamo visto, la Cina è il paese in cui si trovano le maggiori riserve mondiali di terre rare, ma non è solo questo elemento a spostare l’ago della bilancia geopolitica a favore del dragone asiatico. L’influenza della Cina abbraccia infatti anche i paesi “amici”, come la Mongolia e il Myanmar, secondo produttore mondiale di terre rare pesanti (più scarse e più difficili da separare), le cui principali operazioni minerarie sono significativamente partecipate da Pechino, estendendo ulteriormente il controllo effettivo della potenza asiatica. La posizione dominante della Cina è determinata anche dal fatto di possedere il monopolio di fatto della raffinazione, cioè la complessa operazione metallurgica per trasformare la materia prima grezza in materiali utilizzabili. Un processo non solo complesso, ma altamente inquinante e di conseguenza quasi impossibile da eseguire in Europa o negli Stati Uniti, a causa dei più elevati standard di compliance ambientale che ne farebbero schizzare il costo alle stelle.  Il processo di raffinazione richiede infatti un uso estensivo di sostanze chimiche, in particolare acidi forti (come l’acido solforico, nitrico o cloridrico) per separare le terre rare dai minerali a cui sono legate, creando delle scorie tossiche molto difficili da smaltire, se si seguono, appunto, standard elevati di tutela ambientale. Un esempio del devastante impatto ambientale di questo processo è particolarmente visibile nella città di Baotou, nella vasta area industriale della regione cinese della Mongolia Interna, dove il panorama è dominato da un lago artificiale del diametro di circa 9 chilometri, composto interamente da fanghi neri e sostanze chimiche tossiche, risultato degli sversamenti di rifiuti di scarto derivanti dall’estrazione e raffinazione delle terre rare. L’Occidente, in pratica, ha scelto di esternalizzare le negatività ambientali derivanti dall’estrazione di terre rare in Cina e questa, da parte sua, ha accettato di buon grado, dando priorità al potere economico e geopolitico che ne deriva rispetto alla salute dei suoi cittadini e alla tutela del proprio ambiente naturale. La dipendenza delle catene di approvvigionamento occidentali diventa ancor più evidente se si prende come esempio la miniera di Mountain Pass in California, una delle maggiori operazioni statunitensi nel settore delle terre rare. Nonostante produca circa il 15% degli ossidi di terre rare a livello globale, si trova a dover inviare l’intera produzione in Cina per le fasi di separazione e raffinazione.  Per questo motivo, il Pentagono nel 2020 ha assegnato 9,6 milioni di dollari alla società MP Materials per la realizzazione di un impianto di separazione di terre rare leggere a Mountain Pass. Nel 2022, sono stati investiti ulteriori 35 milioni di dollari per un impianto di trattamento di terre rare pesanti. Questi impianti, spiega il Center for Strategic and International Studies, sarebbero i primi del loro genere negli Stati Uniti, integrando completamente la catena di approvvigionamento delle terre rare, dall’estrazione, separazione e lisciviazione (un processo chimico che serve a sciogliere selettivamente i metalli desiderati dal minerale) a Mountain Pass, fino alla raffinazione e produzione di magneti a Fort Worth, in Texas. Tuttavia, anche quando saranno pienamente operativi, questi impianti saranno in grado di produrre solo mille tonnellate di magneti al neodimio-ferro-boro entro la fine del 2025 — meno dell’1% delle 138mila tonnellate prodotte dalla Cina nel 2018. Non sorprende, dunque, che gli Stati Uniti, come vedremo, stiano cercando strade alternative in grado di diversificare maggiormente la propria catena di approvvigionamento di questi materiali. Ne è un esempio l’accordo fortemente voluto dall’amministrazione USA con l’Ucraina che, dopo un tira e molla di diverse settimane, culminato con la furiosa lite di fine febbraio nello studio ovale tra Donald Trump e JD Vance da una parte e Volodymyr Zelensky dall’altra, ha infine visto la luce a inizio maggio. L’accordo, in estrema sintesi, stabilisce che l’assistenza militare americana sarà considerata parte di un fondo di investimento congiunto dei due paesi per l’estrazione di risorse naturali in Ucraina. Gli Stati Uniti si assicurano inoltre il diritto di prelazione sull’estrazione mineraria pur lasciando a Kiev l’ultima parola sulle materie da estrarre e l’identificazione dei siti minerari. L’accordo stabilisce infine che la proprietà del sottosuolo rimarrà all’Ucraina, cosa non scontata date le precedenti richieste da parte di Washington in tal senso. Quello con l’Ucraina è solo uno dei tanti tavoli di trattativa aperti dalle diverse amministrazioni statunitensi con paesi ricchi di materie critiche: dall’Australia al vicino Canada, passando per il Cile, ricchissimo di litio, e poi ancora il Brasile, dove si estrae il 90% del niobio utilizzato per la produzione di condensatori, superconduttori e altri componenti ad alta tecnologia, e il Vietnam, con cui l’allora presidente Joe Biden ha siglato un accordo di collaborazione nel settembre 2023. È evidente come gli Stati Uniti, da diversi anni, stiano mettendo in campo tutte le risorse economiche e diplomatiche a disposizione per potersi assicurare il necessario approvvigionamento di materie critiche e terre rare, senza le quali la Silicon Valley chiuderebbe i battenti in pochi giorni. LA GLOBAL GATEWAY EUROPEA In Europa la situazione è anche peggiore rispetto agli Stati Uniti. Non solo l’Unione Europea importa oltre il 98% delle terre rare raffinate, con la Cina ovviamente nel ruolo di principale fornitore, ma è anche sprovvista di giacimenti importanti. Uno dei pochi siti promettenti è stato individuato nel 2023 a Kiruna, nella Lapponia svedese, e secondo l’azienda mineraria di stato svedese LKAB potrebbe arrivare a soddisfare, una volta a pieno regime, fino al 18% del fabbisogno europeo di terre rare.  C’è però un enorme problema, oltre a quello già descritto dell’impatto ambientale: è difficile pensare che possa entrare in produzione prima di almeno una decina di anni. Troppi, considerato che le battaglie per la supremazia tecnologica e per la transizione energetica si stanno combattendo ora. Un discorso a parte merita la Groenlandia, territorio autonomo posto sotto la Corona danese, ricchissima di materie prime critiche, terre rare e anche uranio, ma dove le leggi attuali sono molto restrittive in termini di estrazione e che, per di più, è entrata nel mirino dell’amministrazione Trump, diventando oggetto di forti frizioni politiche.  L’interesse dell’Unione Europea nei confronti della grande isola artica è sancito dall’accordo firmato nel novembre del 2023 tra le due parti, che dà il via a un nuovo partenariato strategico tra i due soggetti, il cui cuore pulsante è rappresentato dallo sfruttamento congiunto delle materie prime. Anche in questo caso, però, come per il giacimento di Kiruna, si tratta di un progetto a lungo termine che difficilmente potrà vedere la luce e dare risultati concreti in tempi brevi. L’Unione Europea ha quindi deciso di muoversi sulla scia degli Stati Uniti e della “Nuova Via della Seta” cinese, cercando di chiudere accordi bilaterali di investimento e scambio commerciale con diversi paesi ricchi di materie prime critiche. La strategia “Global Gateway” lanciata nel 2021 rappresenta uno dei più grandi piani geopolitici e di investimento dell’Unione, che ha messo sul tavolo oltre 300 miliardi di euro fino al 2027, con l’obiettivo dichiarato, tra gli altri, di diversificare le fonti di approvvigionamento delle materie critiche. La Global Gateway, a cui si è aggiunto nel 2023 il Critical Raw Material Act, che pone obiettivi specifici di approvvigionamento al 2030, ha portato a diversi accordi fondamentali per la sopravvivenza dei piani di transizione digitale ed energetica del continente: Argentina, Cile e Brasile in America Latina; Kazakistan, Indonesia e Mongolia in Asia; Namibia, Zambia, Uganda e Rwanda in Africa sono alcuni dei paesi con cui la Commissione Europea ha già siglato delle partnership strategiche o ha intavolato delle discussioni di alto livello per agevolare degli investimenti comuni nell’estrazione di terre rare, proprio come fatto dagli Stati Uniti con l’Ucraina.   Considerata la volontà dell’Unione Europea di competere nel settore dell’intelligenza artificiale, quantomeno per ciò che riguarda l’espansione dei data center sul territorio, una robusta e diversificata rete di approvvigionamento delle materie prime critiche è fondamentale. Come si legge infatti sul sito della Commissione Europea, “nel corso del 2025, la Commissione proporrà il Cloud and AI Development Act, con l’obiettivo almeno di triplicare la capacità dei data center europei nei prossimi 5-7 anni e di soddisfare appieno il fabbisogno delle imprese e delle pubbliche amministrazioni europee entro il 2035. La legge semplificherà l’implementazione dei data center, individuando siti idonei e snellendo le procedure autorizzative per i progetti che rispettano criteri di sostenibilità e innovazione. Allo stesso tempo, affronterà la crescente domanda energetica promuovendo l’efficienza energetica, l’adozione di tecnologie innovative per il raffreddamento e la gestione dell’energia, e l’integrazione dei data center all’interno del sistema energetico più ampio”. Il piano non solo è ambizioso in termini di obiettivi, ma tiene strettamente legate le due facce della strategia generale europea, ovvero lo sviluppo tecnologico e la transizione verde entro il quale deve essere inquadrato. Impossibile pensare di fare l’uno o l’altra, tantomeno entrambi, senza le materie prime necessarie.  AFRICA, VECCHIA E NUOVA TERRA DI CONQUISTA In questo quadro geopolitico già di per sé complesso, un discorso a parte meritano i paesi del Sud Globale e in particolare quelli africani, che come si è visto sono quelli in cui si trovano le maggiori riserve di materie prime critiche e terre rare.   Il timore, come già raccontato nel reportage dall’AI Summit di Parigi, è che ancora una volta si vada a configurare un modello di estrattivismo colonialista, in cui i paesi più ricchi, dove avviene la produzione di tecnologia, si arricchiranno ancor di più, mentre i paesi più poveri, da dove vengono prelevate le materie prime, subiranno i devastanti impatti sociali e ambientali di queste politiche. Il rapporto “Rare Earth Elements in Africa: Implications for U.S. National and Economic Security”, pubblicato nel 2022 dal Institute for Defense Analyses, una società senza scopo di lucro statunitense, è molto esplicito nel prevedere un aumento dell’influenza del continente africano nel settore e le problematiche che ciò può comportare. “Man mano che le potenze globali si rivolgono ai mercati africani per rafforzare la propria influenza”, si legge nell’executive summary del rapporto, “è probabile che l’estrazione delle terre rare nel continente aumenti. In Africa si contano quasi 100 giacimenti di terre rare, distribuiti in circa la metà dei paesi del continente. Cinque paesi — Mozambico, Angola, Sudafrica, Namibia e Malawi — ospitano da soli la metà di tutti i siti di giacimento di terre rare in Africa. Attualmente, otto paesi africani registrano attività estrattiva di REE, ma a gennaio 2022 solo il Burundi disponeva di una miniera operativa in grado di produrre a livello commerciale. Tuttavia, altri paesi potrebbero raggiungere presto capacità produttive simili”. La parte che più interessa in questo frangente è però il punto in cui i ricercatori sottolineano come “la gestione delle risorse naturali in Africa e gli indicatori di buona governance devono migliorare, se si vuole garantire che i minerali di valore non portino benefici solo alle imprese americane, ma anche ai cittadini africani”. Considerando che la “Academy of international humanitarian law and human rights” dell’Università di Ginevra ha mappato 35 conflitti armati attualmente in corso nell’Africa subsahariana, di cui molti hanno proprio come causa il possesso delle risorse minerarie, sembra difficile prevedere che questa volta la storia prenda una strada diversa da quella già percorsa in passato. ROTTE ALTERNATIVE In virtù delle complessità descritte per l’approvvigionamento delle terre rare e, più in generale, delle materie prime critiche, alcune società stanno sperimentando delle vie alternative per produrle o sostituirle. La società britannica Materials Nexus, per esempio, ha dichiarato a inizio giugno di essere riuscita a sviluppare, grazie alla propria piattaforma di AI, una formula per produrre magneti permanenti senza l’utilizzo di terre rare. La notizia, ripresa dalle maggiori testate online dedicate agli investimenti nel settore minerario, ha subito destato grande interesse, non solo perché aprirebbe una strada completamente nuova per i settori tecnologico ed energetico, ma perché sarebbe uno dei primi casi in cui è l’intelligenza artificiale stessa a trovare una soluzione alternativa per il suo stesso sviluppo. Secondo Marta Abbà, se anche la notizia data da Material Nexus dovesse essere confermata, ci vorrebbero comunque anni prima di arrivare alla messa in pratica di questa formula alternativa. Sempre che – cosa per nulla scontata – la soluzione non solo funzioni davvero, ma si dimostri anche sostenibile a livello economico e a livello ambientale. È più realistico immaginare lo sviluppo di un’industria tecnologicamente avanzata in grado di riciclare dai rifiuti sia le terre rare che gli altri materiali critici, sostiene Abbà. Prodotti e dispositivi dismessi a elevato contenuto tecnologico possono in tal senso diventare delle vere risorse, tanto che l’Unione Europea ha finanziato 47 progetti sperimentali in questa direzione. Tra questi, c’è anche un promettente progetto italiano: Inspiree, presso il sito industriale di Itelyum Regeneration a Ceccano, in provincia di Frosinone. È il primo impianto in Europa per la produzione di ossidi e carbonati di terre rare (neodimio, praseodimio e disprosio) da riciclo chimico di magneti permanenti esausti. L’impianto di smontaggio, si legge nel comunicato di lancio del progetto, potrà trattare mille tonnellate all’anno di rotori elettrici, mentre l’impianto idrometallurgico a regime potrà trattare duemila tonnellate all’anno di magneti permanenti ottenuti da diverse fonti, tra cui anche hard disk e motori elettrici, con il conseguente recupero di circa cinquecento tonnellate all’anno di ossalati di terre rare, una quantità sufficiente al funzionamento di un milione di hard disk e laptop, e di dieci milioni di magneti permanenti per applicazioni varie nell’automotive elettrico. Nonostante questi progetti, l’obiettivo europeo di coprire entro il 2030 il 25% della domanda di materie prime critiche, tra cui le terre rare, grazie al riciclo, appare ancora molto distante, considerando che a oggi siamo appena all’1%. La strada dell’economia circolare è sicuramente incerta, lunga e tortuosa, ma allo stesso tempo più sostenibile di quella estrattivista e in grado di garantire una strategia di lungo periodo per il continente europeo. L'articolo Chi controlla le terre rare controlla il mondo proviene da Guerre di Rete.
Così si contrabbandano i microchip sotto restrizione
Immagine in evidenza: Hong Kong Island Skyline da Wikimedia Al cuore della competizione tecnologica tra le superpotenze del pianeta si cela un meccanismo che ricorda vagamente il gioco per bambini del “whac-a-mole” (in italiano: “acchiappa la talpa”). Da una parte ci sono gli Stati Uniti (e, in parte, la UE) che tentano di controllare il futuro dell’innovazione con strumenti normativi (embarghi, sanzioni, veti). Dall’altra c’è una rete sempre più fitta di intermediari, snodi logistici, società fantasma che cercano di eludere i controlli sull’export, spuntando dal nulla proprio come la talpa del gioco. Questo fenomeno caratterizza in particolare il settore dei semiconduttori, dove ha ormai assunto il nome di chip laundering (riciclaggio dei chip). Un termine generico che descrive un settore industriale sommerso, nato tra le pieghe della geopolitica dell’hi-tech. Il paragone più immediato è con l’elusione delle sanzioni nel settore energetico, ma il confronto regge solo in parte. A differenza del petrolio, i chip sono minuscoli, facili da trasportare, da camuffare e da occultare. Dietro il contrabbando di semiconduttori c’è più di un semplice mercato nero. C’è un panorama di paesi non allineati e di supply-chain che si rimodulano di continuo per sfuggire al controllo dei grandi centri del potere normativo di questa epoca. Un mondo che ha qualcosa di piratesco (e peraltro condivide alcuni luoghi della pirateria storica), seppur stravolto in chiave cyberpunk. Esploriamo dunque questa zona grigia, dove l’elusione delle sanzioni non è solo una pratica opportunistica. Talvolta, come vedremo, è una necessità di sopravvivenza industriale. IL CONTENIMENTO RUSSO Come è noto, i chip sono oggi componenti essenziali degli arsenali militari. Senza microprocessori, non funzionano i missili, i droni, i radar, i sensori, le comunicazioni criptate, i sistemi di logistica e di tracciamento delle unità. È in virtù di questa pervasività che i semiconduttori sono diventati l’equivalente del carburante in una guerra moderna: senza di essi, l’apparato bellico si inceppa. Nel contesto della guerra in Ucraina, tutto questo ha assunto un’importanza cruciale per la Russia, sottoposta a severe sanzioni nel campo dell’elettronica. Ogni drone contiene infatti chip di fabbricazione occidentale; ogni missile richiede componenti elettronici spesso prodotti in paesi NATO; perfino i sistemi di sparo necessitano di circuiti avanzati per funzionare. Da qui l’esplosione delle forniture parallele. Paesi come Singapore, Hong Kong, la Turchia, gli Emirati e la Bielorussia sono divenuti snodi tecnologico-logistici attraverso cui i componenti occidentali vengono “riciclati”, camuffati come beni civili, e poi reindirizzati verso l’industria bellica russa, con triangolazioni finanziarie che spesso utilizzano banche locali poco trasparenti, criptofinanza e circuiti alternativi di compensazione monetaria, come quelli sino-russi basati sul renminbi. Il risultato è un ecosistema e che prospera nel buio e che rende difficile verificare l’impatto delle sanzioni. Il paradosso, denunciato dallo stesso Zelensky, è che, mentre l’Occidente cerca di limitare il potenziale russo, ogni giorno sull’Ucraina piovono missili che contengono centinaia di brevetti tecnologici di paesi NATO. Da quando la Russia ha invaso l’Ucraina nel 2022, quasi 4 miliardi di dollari di chip soggetti a restrizioni si sarebbero riversati in Russia da oltre 6.000 aziende, alcune delle quali si trovano a Hong Kong, ha scritto lo scorso agosto il New York Times, in un’inchiesta che ha analizzato dati doganali russi (ottenuti da un’azienda terza), registrazioni aziendali, registrazioni di domini e altre informazioni sulle sanzioni. Un altro importante crocevia delle supply chain alternative è rappresentato dalla Malesia, dove diverse aziende locali, talvolta anche consolidate, svolgono la funzione di “camere di compensazione” per chip ad alte prestazioni destinati a Mosca. Alcune di queste aziende, come Jatronics, sono state sanzionate dal Tesoro Usa per aver “facilitato l’approvvigionamento di prodotti a uso duale (dual use) da parte della Federazione Russa”. Torneremo più avanti sulle ragioni per cui persino aziende con una reputazione “ufficiale” da difendere si prestano a questo gioco. I “FALSARI” DEI CHIP Il mercato parallelo dei microchip si nutre attivamente delle vulnerabilità dell’industria stessa. A cominciare da quelle più strutturali come la carenza globale di chip, accelerata dalla pandemia e ormai divenuta una sorta di “new normal” dell’industria. È proprio in questo contesto che gruppi di falsari hanno trovato terreno fertile, spacciando per autentici componenti in realtà provenienti dal riciclo di rifiuti elettronici: vecchi chip smarcati, ribrandizzati e immessi sul mercato millantando prestazioni in realtà nettamente inferiori. Qui il problema non è tanto l’evasione delle sanzioni, ma il rischio concreto che questi componenti pongono ai loro utilizzatori finali. Cosa succede se, per esempio, dei chip contraffatti finiscono nei freni di un treno ad alta velocità? Un ulteriore problema è che la distinzione tra illeciti volontari e falle strutturali è a volte sottile. I produttori di semiconduttori – pur con tutti i dovuti controlli – spesso non riescono a monitorare ciò che accade una volta che i componenti lasciano i canali ufficiali. È qui che la filiera si trasforma in un circuito fatto di documentazioni potenzialmente contraffatte e opportunità di corruzione dal basso. Tra le tipologie di chip più prese di mira dai falsari ci sono, da diversi anni, le GPU: le (costose) schede grafiche in cui si è specializzata NVIDIA e che oggi sono centrali nell’ecosistema AI. Recenti notizie dalla Cina rivelano un’evoluzione impressionante delle tecniche di falsificazione dei prodotti NVIDIA, con falsi talmente simili agli originali da trarre in inganno persino gli operatori del settore. Non si tratta più di semplici imitazioni visive o di prodotti riciclati dai rifiuti elettronici, ma di una vera e propria ingegneria del falso che sfrutta componenti autentici per costruire contraffazioni altamente credibili. Nonostante molti di questi falsi si siano rivelati non performanti, resta incerto se esistano versioni operative in grado di superare anche i controlli software. Strumenti diagnostici come GPU-Z – un software che fornisce informazione sulle caratteristiche e le performance delle schede grafiche – possono essere facilmente ingannati attraverso modifiche al BIOS, una pratica piuttosto comune in Cina. In alcuni casi, come quello della scheda grafica di NVIDIA RTX-4090(D), sono persino comparse sul mercato contraffazioni con memorie superiori a quelle dei prodotti originali (la memoria è uno degli aspetti più frequentemente modificati dei chip. Tutto ciò suggerisce che non si tratti di operazioni artigianali isolate, ma di un’industria parallela di falsificazione su larga scala: un problema non solo per i consumatori – che rischiano di spendere migliaia di dollari per dell’hardware obsoleto – ma anche per la sicurezza informatica a livello globale. In un mondo dove la qualità dei componenti elettronici determina l’affidabilità di interi sistemi, la diffusione di componenti contraffatti rischia di causare danni strutturali e difficili da controllare. DEEPSEEK E SINGAPORE Negli ultimi mesi è stato spesso sollevato il dubbio che DeepSeek funzioni grazie a chip di NVIDIA che, a partire dal 2022, non avrebbero più dovuto essere disponibili in Cina. Il sospetto è che i componenti siano arrivati a Pechino attraverso una catena di “nazioni-ponte” che avrebbe come terminale Singapore, la città-stato che, dal 2022 a oggi, ha visto salire la propria quota sul fatturato globale di NVIDIA dal 9% al 22%, un incremento dalle tempistiche quantomeno sospette. Le autorità locali negano qualsiasi coinvolgimento diretto nella questione (e hanno anzi arrestato nove persone con l’accusa di contrabbando di chip per un valore complessivo di 350 milioni di dollari), tuttavia l’assenza di meccanismi di tracciamento post-vendita lascia aperto un margine di ambiguità sufficiente a far passare una quantità significativa di chip da una parte all’altra del Mar Cinese Meridionale, senza che nessuno possa davvero impedirlo. Secondo quanto emerso da recenti inchieste giudiziarie – confermate a febbraio dal ministro della giustizia di Singapore – uno dei modi con cui i chip di NVIDIA sono giunti in Cina, per il tramite della Malesia e di Singapore, è all’interno di server, prodotti da società americane come Super Micro Computer (SMC) e Dell, e venduti da aziende di paesi asiatici non soggetti a restrizioni dirette. NVIDIA ha perciò chiesto a Dell e SMC di condurre una verifica presso i loro clienti nel Sud-est asiatico, in modo da verificare che fossero ancora in possesso dei server che avevano acquistato. È anche per questioni legate a queste falle se, dopo lo smacco subito a opera di DeepSeek, l’amministrazione Trump ha valutato anche l’inclusione dell’H20 – chip intenzionalmente depotenziato per il mercato cinese – tra i prodotti vietati all’export in Cina (è recentissima la notizia che il CEO di NVIDIA, Jensen Huang, avrebbe convinto Trump a ripensarci nel corso di una sfarzosa cena a Mar-a-Lago). LA MAXI-MULTA A TSMC Il tema si fa ancora più complesso quando entra in gioco la difficile decifrazione delle catene di fornitura “ufficiali”. Un caso emblematico, in tal senso è quello che ha coinvolto Huawei, TSMC e la cinese Sophgo. Secondo un’analisi di TechInsights, una società canadese specializzata nello studio dei semiconduttori,  un componente sotto embargo ordinato da Sophgo a TSMC — apparentemente per scopi legati al mining di criptovalute — si sarebbe rivelato parte integrante dei processori Ascend 910 di Huawei, destinati a sistemi di intelligenza artificiale con potenziali applicazioni militari. Interpellata dai media, Huwaei ha negato qualsiasi violazione delle normative internazionali, sostenendo che è dal 2020, quando cioè sono entrate in vigore le prime restrizioni, che l’azienda non utilizza componenti prodotti direttamente da TSMC.  Ma il Dipartimento del Commercio statunitense ha minacciato una multa superiore al miliardo di dollari contro TSMC, accusata di aver infranto (seppure probabilmente in modo involontario) i veti all’esportazione. È una cifra enorme, che rappresenta un precedente problematico e pericoloso non solo per l’azienda, ma per tutto il settore. TRA NECESSITÀ E AMICI DI COMODO In conclusione, torniamo alla domanda lasciata in precedenza in sospeso. E cioè: perché aziende e paesi con una reputazione da difendere scelgono di compromettersi con il mercato nero dei semiconduttori, mettendosi di traverso a quello che tuttora è il principale potere normativo mondiale? La risposta ha a che fare con l’estrema complessità della filiera dei semiconduttori. In un settore dove ogni componente attraversa decine di confini, passa per centinaia di fornitori e coinvolge processi che richiedono sapere diffuso e anni di sviluppo, esercitare un controllo totale è nei fatti impossibile. Peggio ancora: il tentativo di esercitarlo può generare strozzature tali da minacciare la sopravvivenza di interi comparti industriali. Ogni volta che un ente americano introduce un veto, un embargo o una lista nera, crea inevitabilmente un collo di bottiglia. I chip sono del resto il frutto di una catena che coinvolge materiali grezzi (come il silicio ultra-puro), macchinari di estrema precisione (prodotti da ASML e Tokyo Electron), software avanzati (strumenti di electronic design automation come quelli di Synopsys e Cadence), processi di design (NVIDIA etc), fonderie (TSMC, Samsung, SMIC) e test di validazione finale. Ogni segmento di questa catena è concentrato in poche aziende, e uno squilibrio anche minimo in un singolo anello può compromettere l’intero sistema. È in questo contesto che le aziende, specialmente quelle che operano in paesi che hanno rapporti economici vitali con diversi blocchi geopolitici, si trovano davanti a un bivio: rispettare gli embarghi e rischiare di bloccare la propria attività, perdendo molti soldi e potenzialmente la possibilità di stare sul mercato, o aggirare le sanzioni e continuare a produrre. Per molti non è una scelta etica, ma esistenziale. Nel settore dei chip, la pressione è enorme: la domanda globale cresce esponenzialmente e nessuna azienda può permettersi di restare indietro. E così, pur di tenere in funzione la macchina produttiva, si ricorre a triangolazioni logistiche, a reti di subappaltatori poco tracciabili, alla ricodifica dei componenti, alla creazione di filiali ad hoc in giurisdizioni opache. In alcuni casi, sono gli stessi governi ad adottare un atteggiamento ambiguo, tollerando certe pratiche in cambio di crescita economica e attrazione di investimenti hi-tech. Questo tema si intreccia a doppio filo con quello del cosiddetto “friendshoring”, ovvero l’incentivo alla rilocalizzazione di attività strategiche in paesi teoricamente amici o quantomeno neutrali. Paesi terzi che, in realtà, spesso si rilevano snodi funzionali a entrambi i fronti della nuova “Guerra Fredda” (un fenomeno peraltro già verificatosi nel corso della “prima” Guerra Fredda). La fedeltà geopolitica degli “amici” di convenienza non è del resto mai assoluta, ma soggetta a un costante bilanciamento tra interessi, pressioni e convenienze. Più che alleati o avversari di qualcuno, il realismo geopolitico suggerisce ai paesi “terzi” di comportarsi da broker. Per tutti questi fenomeni, il mondo dei chip somiglia sempre più a un fiume attraversato da correnti sotterranee. Chi vuole davvero comprendere dove sta andando non può ignorare le mosse dei contrabbandieri di silicio. L'articolo Così si contrabbandano i microchip sotto restrizione proviene da Guerre di Rete.
La Cina progredisce sui chip e sfida le restrizioni
Immagine in evidenza: The Computer Chip di Brian Kostiuk da Unsplash Tra gli anni ’90 e il 2016, all’epoca della iper-globalizzazione a egemonia americana, il mondo ha assistito a un processo di divisione del lavoro su scala planetaria. La specializzazione di distretti industriali e aree economiche nelle attività in cui ciascuna godeva dei maggiori “vantaggi comparati” (in termini di sviluppo, risorse, lavoro o logistica) è stata una dei motori dell’accelerazione tecnologica degli ultimi decenni.     La possibilità di ridurre l’investimento nelle infrastrutture produttive, spostando le lavorazioni in luoghi caratterizzati da costi inferiori (pensiamo alla supply chain asiatica di Apple), ha permesso all’industria dell’hardware di liberare immensi capitali da investire nell’innovazione. Tra i settori che hanno cavalcato più intensamente queste dinamiche c’è quello dei microchip (o semiconduttori): l’oggetto tecnologico alla base di tutte le tecnologie, dal banale termostato ai sistemi di guida delle testate nucleari, dalle batterie dei veicoli elettrici ai server per l’addestramento delle intelligenze artificiali. IL MODELLO DELLE FOUNDRY, LE FABLESS E LA DIVISIONE DEL LAVORO Negli ultimi trent’anni, le aziende di chip dal maggiore valore di mercato, quasi tutte americane, hanno iniziato ad appaltare gran parte della loro attività di manifattura all’estero, in paesi come Taiwan e la Corea del Sud, dove hanno trovato personale qualificato (i chip richiedono ingegneri molto formati in tutte le fasi della lavorazione) con un costo del lavoro decisamente inferiore. Ha così preso piede, soprattutto nella regione dell’Indo-Pacifico, il modello delle “foundry”: aziende di manifattura avanzatissima, che fabbricano chip per conto di aziende occidentali, le quali possono così concentrarsi sulla curva dell’innovazione, che nei chip si incarna nella celebre “legge di Moore” (ovvero l’osservazione che il numero di transistor contenuti in un chip raddoppia ogni due anni). Sui presupposti di questa divisione del lavoro è nato addirittura un nuovo modello di azienda: le cosiddette “fabless”. Scaricate interamente dai costi fissi, le “fabless” non possiedono stabilimenti di produzione e si occupano soltanto dell’ideazione di nuovi chip sempre più performanti. La più nota di queste aziende è NVIDIA, divenuta negli ultimi anni il perno materiale dell’evoluzione delle AI. LA SVOLTA PROTEZIONISTICA SUI CHIP Fino a qualche anno fa, l’estrema globalizzazione della catena del valore dei chip – proprietà intellettuali USA, progettate con software anglo-israeliani, riversate da macchinari olandesi su silicio giapponese usando componenti chimici cinesi dentro fabbriche taiwanesi – era considerata una grande festa per tutti: la tecnologia evolveva e i profitti crescevano. Non è più così: da qualche anno gli Stati, USA in testa, hanno deciso che il chip, in quanto “tecnologia di tutte le tecnologie”, è un oggetto troppo strategico – e soprattutto troppo determinante per i rapporti di potenza – per essere lasciato in balia del mercato. E così, già nel 2016, Obama chiamava Angela Merkel e vietava la vendita alla Cina di Aixtron, un’azienda tedesca di componenti chimici per microelettronica, dopodiché Trump faceva la guerra a Huwaei (anche sui chip) e, infine, Biden dedicava ai semiconduttori gran parte della sua azione normativa in campo internazionale. Dopo aver firmato, nell’agosto 2022, il CHIPS and Science Act, un piano di investimenti per la ricostruzione della manifattura americana dei semiconduttori, nell’ottobre 2022 Biden ha proclamato ufficialmente una serie di restrizioni senza precedenti all’export di chip avanzati verso la Cina. Il pacchetto di norme non si limitava a proibire la vendita diretta di chip di ultima generazione a Pechino, ma imponeva anche vincoli sulla cessione di macchinari per la loro produzione, sulla condivisione di ricerche e di brevetti e sull’assunzione di personale specializzato da parte di aziende cinesi. L’obiettivo dell’amministrazione Biden non era solo quello di mantenere il vantaggio tecnologico delle aziende americane, ma, se possibile, di ritardare/arretrare lo sviluppo della microelettronica cinese (con ricadute a cascata su tutte le tecnologie, incluse quelle militari). Le ripercussioni sulle catene del valore sono state notevoli. Giganti del settore come NVIDIA si sono visti costretti a rivedere le proprie strategie di mercato, mentre colossi della manifattura come la coreana Samsung e la taiwanese TSMC (la più importante “foundry” del mondo) si sono trovate a navigare un campo minato di regolamentazioni sempre più stringenti. La questione ha avuto anche riflessi politici: l’applicazione delle normative ha richiesto grandi sacrifici economici da parte di aziende e paesi alleati degli USA, con costi diplomatici non trascurabili. LA CORSA CINESE PER UN’INDUSTRIA AUTOCTONA La conseguenza più significativa della decisione di Biden è stata tuttavia quella di aver costretto la Cina a intensificare gli sforzi per accelerare lo sviluppo di un’industria autoctona di chip avanzati. La reazione cinese si è mossa finora su molteplici livelli, dal sostegno diretto dello Stato alla ricerca fino alla riorganizzazione delle catene di approvvigionamento interne. Pechino ha aumentato in modo significativo i finanziamenti al settore, puntando su colossi nazionali come SMIC (Semiconductor Manufacturing International Corporation) e YMTC (Yangtze Memory Technologies), le punte di diamante del suo sistema industriale. Nel solco di quanto avvenuto in altri ambiti, come la mobilità elettrica, il sostegno di Pechino non è solo finanziario ma anche normativo, logistico e strategico: sono stati varati piani per il rafforzamento della supply chain dei semiconduttori, a partire dalle materie prime, e sono stati dispiegati incentivi per attirare talenti stranieri aggirando le restrizioni di Washington. Nel breve periodo, la Cina ha inoltre adottato soluzioni creative per superare i vincoli internazionali. Una di queste è la pratica del cosiddetto “chip laundering”, ovvero l’importazione di chip avanzati attraverso paesi terzi, come Singapore o gli Emirati Arabi Uniti, che sfuggono ai controlli più stringenti degli USA. Inoltre, il governo cinese ha incentivato l’acquisto massiccio di chip prima che le restrizioni entrassero in vigore, accumulando scorte strategiche per le proprie industrie high-tech e per il settore della difesa. La vera partita tuttavia è sul lungo periodo. E su questo fronte Pechino sta spingendo sull’acceleratore dell’innovazione, con l’obiettivo di ridurre la dipendenza da fornitori occidentali per tutte le tecnologie più critiche coinvolte nella produzione di chip. LA SCOMMESSA SUI MACCHINARI LITOGRAFICI E LA SUPREMAZIA EUROPEA Un esempio è lo sviluppo dei macchinari litografici a ultravioletto estremo (EUV), ovvero le macchine con cui, tramite un processo quasi fantascientifico, si “stampano” transistor molto più piccoli di un virus. Per la stampa dei chip più avanzati, il settore è oggi un monopolio di fatto di una singola azienda, l’olandese ASML, a cui gli USA hanno imposto il veto all’export cinese, attraverso un’azione diplomatica che, nel 2023, ha visto direttamente coinvolto il governo olandese (all’epoca guidato dall’attuale Segretario Generale della NATO Mark Rutte). Lo sviluppo autonomo di macchine EUV di ultima generazione è ritenuto uno degli ostacoli più insormontabili dell’intera catena del valore dei microchip. L’implementazione della tecnologia ha del resto richiesto decenni di lavoro da parte di ASML, miliardi di investimenti e una stretta integrazione con fornitori che rappresentano l’eccellenza della meccanica e dell’ottica europea. Se il capitale da investire alla Cina non manca (sono stati destinati 37 miliardi all’impresa), il tempo e la ricomposizione di una filiera di fornitura autonoma rappresentano due variabili importanti che, secondo autorevoli pareri, dovevano garantire all’Occidente un vantaggio di oltre dieci anni. Ebbene, di recente questo margine potrebbe essersi assottigliato molto, almeno stando alle voci secondo cui Huawei starebbe per testare un macchinario EUV avanzato, di produzione interamente cinese. Del macchinario si sa che utilizza un sistema di produzione del plasma (per l’incisione dei transistor) di tipo diverso da quello di ASML. Un sistema la cui efficacia, scalabilità e compatibilità con altre parti del processo di lavorazione dei chip, resta da verificare. Tuttavia, se il test di Huawei si rivelasse un successo, e aprisse la strada a una produzione autoctona di macchinari EUV cinesi, ciò non solo significherebbe la perdita, per gli USA, di un’importante leva per il contenimento dell’ascesa tecnologica di Pechino ma anche un notevole danno economico, e strategico, per l’Europa, che vedrebbe ridimensionato il ruolo di ASML, uno dei suoi asset tecnologici più avanzati. UN PARADIGMA TECNOLOGICO AUTONOMO Per le aziende occidentali, sarebbe inoltre molto problematico se la Cina riuscisse, come sta provando a fare, a sviluppare macchinari basati su un paradigma tecnologico del tutto autonomo. In caso di successo, Pechino aprirebbe un fronte di sviluppo della litografia del tutto originale, con i competitor occidentali che si troverebbero di colpo a dovere inseguire e imparare (quasi) tutto da capo e soprattutto a doversi adattare a nuovi standard imposti da Pechino. Un altro fronte su cui si dispiega la strategia di Xi Jinping sui semiconduttori è il cosiddetto mercato dei “legacy chip”, ovvero i chip ai “nodi maturi”: semiconduttori non di ultimissima generazione ma essenziali per il funzionamento dell’elettronica e dell’informatica di largo consumo.  Se i chip di NVIDIA (e poche altre aziende) sono il fulcro della competizione strategica intorno allo sviluppo della AI, i “legacy chip” rappresentano l’ossatura dell’infrastruttura tecnologica globale. IL PESO DEL SEGMENTO LEGACY OVVERO I VECCHI CHIP ANCORA CONTANO Microcontrollori per elettrodomestici, circuiti integrati per veicoli, apparecchiature mediche e milioni di altri oggetti dipendono da questi semiconduttori, la cui produzione è forse meno sofisticata ma non meno strategica. Già da prima delle restrizioni di Biden, Pechino aveva messo nel mirino il segmento “legacy”, che rappresenta una fonte essenziale di entrate per storiche aziende occidentali come Intel e un elemento di cruciale sovranità tecnologica per tutti. Aziende come SMIC e Hua Hong Semiconductor stanno espandendo la loro capacità produttiva in questa fascia di mercato, con il supporto di massicci investimenti statali e incentivi fiscali. Le implicazioni di questa strategia non si limitano al semplice riequilibrio delle catene di approvvigionamento. La leadership cinese nei “legacy chip” potrebbe tradursi in un nuovo strumento di influenza tecnologica globale, fornendo a Pechino una leva nei confronti di paesi e industrie che ancora dipendono fortemente dalle forniture esterne per il loro fabbisogno di chip. La crisi globale dei semiconduttori, causata dalle interruzioni delle filiere della microelettronica durante la pandemia, ha dimostrato quanto sia pericoloso sottovalutare l’importanza dei chip tradizionali. Se la Cina riuscisse a consolidare il proprio primato in questo settore, potrebbe utilizzare la sua capacità produttiva in modo non molto diverso da ciò che l’OPEC ha fatto per decenni con il petrolio. La strategia cinese sul mercato “legacy” rischia di essere particolarmente onerosa per l’Europa. A causa dello stretto legame con l’industria automobilistica, il settore dei “legacy chip” è uno dei pochi in cui il Vecchio Continente detiene ancora quote di mercato significative. Un drastico aumento della capacità industriale cinese non avrebbe quindi solo l’effetto di rivedere al ribasso questa percentuale, ma introdurrebbe un ulteriore elemento di dipendenza dell’automotive europeo dalla Cina, in una fase già molto delicata per il comparto. C’è poi la variabile DeepSeek. Sebbene l’exploit dell’intelligenza generativa cinese non vada sopravvalutato – poiché non del tutto indipendente da tecnologie e processi occidentali – è evidente come l’ottimizzazione algoritmica di DeepSeek rappresenti una variabile potenzialmente “impazzita” per il mercato americano dei chip di fascia alta, come ha del resto testimoniato l’immediata risposta, in negativo, del titolo di NVIDIA alla diffusione della nuova AI generativa cinese. Allo stesso tempo, paradossalmente, proprio DeepSeek ha rivelato alcune delle fragilità infrastrutturali della dotazione hardware delle aziende AI cinesi, non solo a livello di chip ma anche di altri componenti cruciali come, per esempio, i sistemi di interconnessione dei server. Queste difficoltà sono altrettante testimonianze degli effetti – perlomeno nel breve termine – che il veto all’export americano ha avuto sulla microelettronica cinese. RISCHI, COSTI, LIMITI STRUTTURALI Nel lungo periodo, tuttavia, il rischio è che il regime dei veti acceleri, invece di rallentare, lo sviluppo dell’industria dei semiconduttori in Cina. È un rischio rispetto al quale il CEO di NVIDIA, Jensen Huang, mette in guardia Washington da tempo. La storia dei protezionismi è del resto piena di casi in cui l’isolamento forzato ha finito per stimolare, anziché soffocare, l’innovazione interna. La logica del “deny and deter” – negare l’accesso alle tecnologie critiche per dissuadere Pechino dal competere su un piano paritario – rischia di trasformarsi in un potente incentivo all’autosufficienza. Ciò che distingue il protezionismo sui chip da esempi del passato è la combinazione di fattori che rendono l’industria dei semiconduttori particolarmente intensiva dal punto di vista del capitale, finanziario, politico e umano coinvolto. Da un lato, il costo dell’innovazione è sempre più alto: la realizzazione di una nuova fonderia di semiconduttori avanzati può superare i 20 miliardi di dollari, una barriera all’ingresso che rende difficoltosa la scalata per qualunque nuovo attore. Dall’altro, la domanda di chip non è mai stata così diffusa e pervasiva. La transizione energetica, le infrastrutture cloud, le telecomunicazioni 5G e 6G, la biotecnologia, le AI: ogni settore critico dell’economia globale dipende oggi da semiconduttori avanzati. Non si tratta di una mera questione di hardware, ma di un’infrastruttura di potere tecnologico che ridefinisce il mondo. Ed è qui che il rischio dell’effetto boomerang si fa concreto per gli Stati Uniti. Storicamente, l’egemonia tecnologica americana si è costruita non solo sul primato dell’innovazione, ma anche sulla capacità di dettare le regole del gioco attraverso il controllo dei brevetti, degli standard e delle filiere. Se la Cina aprisse la strada a un ecosistema alternativo, la curva di innovazione dei chip potrebbe sfuggire completamente, e definitivamente, dal perimetro del controllo americano. Tutto ciò avviene oltretutto in un contesto in cui l’innovazione nei semiconduttori sta raggiungendo limiti fisici sempre più estremi. La legge di Moore, che per decenni ha guidato l’industria, è prossima alla sua “fine”. E ciò si traduce, da anni, in costi di produzione in costante aumento e sfide ingegneristiche sempre più complesse. La partita, dunque, non si gioca solo sulla capacità di progettare chip sempre più avanzati, ma anche sulla capacità di immaginare sistemi computazionali alternativi ai semiconduttori. E, come racconta un recente paper di Nature, oggi la Cina produce il doppio della ricerca degli USA nel campo dei “future computing hardware” e dei “next generation chips”. L'articolo La Cina progredisce sui chip e sfida le restrizioni proviene da Guerre di Rete.