L’automazione non ci ha reso liberi dal lavoro, e dallo sfruttamento
Immagine in evidenza: linea produttiva Ford – Immagine di pubblico dominio da
Picryl
Il timore che le intelligenze artificiali (AI) possano sostituire i lavoratori è
al centro di un dibattito acceso. Un dibattito che però trascura l’impatto di
queste tecnologie sulla qualità delle condizioni di lavoro esattamente come in
passato è avvenuto per varie forme di automazione industriale.
Per approfondire questo tema, ci siamo avvalsi della lente di ingrandimento di
Jason Resnikoff, professore di Storia contemporanea all’Università di Groninga
(Paesi Bassi) e autore del libro “Labor’s End: How the Promise of Automation
Degraded Work”.
Resnikoff è specializzato in storia del lavoro, storia del capitalismo globale,
storia intellettuale e storia della tecnologia e ha un’esperienza pregressa tra
le file della United Auto Workers, sindacato statunitense che rappresenta i
lavoratori dell’industria automobilistica, oltre ad altri settori come
l’istruzione superiore, la sanità e il gaming.
LE RICADUTE DELL’AUTOMAZIONE SECONDO RESNIKOFF
Secondo Resnikoff, l’automazione porta con sé un paradosso: presentata come una
spinta verso una società migliore, in realtà ha contribuito ad aumentare,
accelerandolo, lo sfruttamento del lavoro. Un argomento che appare molto attuale
in relazione all’odierno dibattito sull’impatto dell’AI. In poche parole, si
parla molto di come l’AI renderà le imprese più produttive o competitive, o di
come le macchine sostituiranno dei lavoratori o faranno lavori noiosi al posto
nostro, e si parla molto poco di come invece questa nuova ondata tecnologica
potrebbe ampliare lo sfruttamento del lavoro (umano).
Labor shortage e skill mismatch
Se ci spostiamo negli Stati Uniti, scopriamo che si stanno verificando due
fenomeni in antitesi tra loro. A dicembre del 2023 è stato misurato il
cosiddetto labor shortage. In sintesi, c’erano circa 8 milioni di posti di
lavoro vacanti e 6,8 milioni di disoccupati, per cui anche occupando tutte le
persone senza impiego resterebbero posti vacanti. Parallelamente, il costo della
vita spinge molti americani a svolgere più di un lavoro. Il risultato è
interessante: le IA, almeno per il momento, non stanno togliendo impiego né
stanno sostituendo i lavoratori.
Il secondo aspetto, noto come skill mismatch, racconta invece la trasformazione
delle competenze richieste dalle imprese. Tra queste troviamo la creatività, il
pensiero analitico e l’uso di big data e intelligenze artificiali. Traducendo:
le imprese cercano qualifiche che i lavoratori non hanno. Ancora una volta,
viene meno il timore della sostituzione di lavoratori com’è stata spesso
immaginata. Se anche non ci sono prove che nell’insieme del mondo del lavoro le
IA, i robot e le automazioni in genere stiano falcidiando impieghi, ciò non
significa che non esistano altri problemi, anche più profondi. C’è dell’altro:
l’automazione non crea aumenti salariali in linea con la crescita della
produttività a cui questa conduce, perché i maggiori introiti vengono incamerati
dalle aziende e non vengono neppure parzialmente redistribuiti ai lavoratori. E
questo non è un tema nuovo, già aleggiava nel 2019.
Nel suo libro Resnikoff entra nei meandri dell’automazione negli Stati Uniti a
partire dalla seconda metà del secolo scorso, rilevando da subito il paradosso
secondo il quale, benché dovesse migliorare la società, l’automazione ha portato
a un rapido sfruttamento del lavoro. Per Resnikoff, sono la globalizzazione e la
sovrapproduzione a causare le maggiori perdite di posti di lavoro e non
l’automazione in sé, alla quale però riconosce il demerito di creare “una razza
di schiavi costituzionalmente incapaci di ribellione”.
Tutto ciò malgrado nei decenni passati molti analisti dell’automazione fossero
ottimisti e credessero in un mondo utopico in cui si sarebbe lavorato meno a
parità di stipendio, nota il professore, ovvero qualcosa di simile a ciò che si
ipotizza oggi parlando delle AI e della robotica.
Per capire meglio, gli abbiamo fatto alcune domande.
Professor Resnikoff, come e perché pensa che l’automazione degradi il lavoro?
“I dati storici mi portano a questa conclusione. Il termine ‘automazione’ è
stato coniato dal dipartimento motori della Ford negli anni ’40 per evocare
l’idea di progresso tecnologico e contrastare il movimento sindacale
industriale, che l’azienda aveva da poco dovuto riconoscere per imposizione del
governo federale. Nel dopoguerra, la parola ‘automazione’ non indicava una
tecnologia specifica. John Diebold, definito dal New York Times l’evangelista
dell’automazione, ha affermato che per i dirigenti d’impresa definire
l’automazione era complesso quanto per i teologi definire il peccato. Questo
dimostra come il termine fosse usato indiscriminatamente per descrivere
qualunque cambiamento tecnologico nel luogo di lavoro.
L’automazione è stata soprattutto una narrativa secondo cui il progresso
tecnologico porta inevitabilmente a una diminuzione del lavoro umano. Questa
idea ha avvantaggiato le grandi aziende, che hanno sfruttato l’utopismo
tecnologico e l’ottimismo per sostenere che il lavoro umano non contribuisce (o
presto non contribuirà più) al processo produttivo”.
Cosa è quindi l’automazione?
“È tanto una copertura retorica per il degrado del lavoro quanto un processo
materiale. Gli esempi del periodo postbellico sono numerosi: l’introduzione dei
computer nel lavoro d’ufficio e l’introduzione degli utensili elettrici nel
confezionamento della carne sono due esempi particolarmente toccanti. Oggi,
tutto ciò viene fatto dai datori di lavoro invocando l’intelligenza artificiale.
Amazon ha affermato che la fatturazione nei negozi fisici fosse automatizzata,
ma era svolta da lavoratori in India. Oppure, Presto Automation ha attribuito a
sistemi automatizzati il servizio nei fast-food statunitensi, in realtà gestito
da lavoratori nelle Filippine.
Ciò che viene chiamato ‘automazione’ si potrebbe definire ‘outsourcing’, che
peggiora le condizioni dei lavoratori locali obbligandoli a competere con
manodopera a basso costo. Dall’inizio della rivoluzione industriale, i datori di
lavoro hanno utilizzato macchine per frammentare lavori qualificati, assumendo
manodopera meno costosa e aumentando i ritmi di lavoro. Nel dopoguerra, il
termine ‘automazione’ ha camuffato questo fenomeno come risultato naturale del
progresso tecnologico, nascondendo il vero intento di controllo del processo
lavorativo e compressione dei salari”.
L’automazione può davvero creare dei “nuovi schiavi” o è una provocazione?
“L’automazione, tecnicamente parlando, non fa nulla. Non è un processo
tecnologico o storico ben definito. Sostengo che gran parte di ciò che viene
chiamato automazione sia ben poco tecnologico, ma piuttosto una narrativa che i
datori di lavoro usano per degradare il lavoro (piuttosto che abolirlo
tecnologicamente). Piuttosto, suggerirei che questa sia la suggestione legata
all’idea di automazione, in particolare per i datori di lavoro, ma talvolta,
sorprendentemente, anche per dirigenti sindacali, utopisti di sinistra e alcuni
lavoratori stessi.
Aristotele sosteneva che alcune persone fossero ‘schiavi naturali’. Nel XX
secolo, spesso si è invocata l’idea dell’automazione per sostenere che i nuovi
‘schiavi naturali’ fossero le macchine. Ritengo che questo modo di pensare sia
pericoloso per i lavoratori, poiché presuppone che gran parte del lavoro, in
teoria, debba essere svolto in condizioni coercitive e degradate. Il problema
principale è che i lavoratori umani rimangono (e rimarranno) essenziali per
l’economia e, perpetuando questa idea di lavoro, saranno costretti sempre più a
lavorare in condizioni degradanti”.
Secondo lei, le aziende preferiscono l’automazione o la sostituzione dei
lavoratori con altri lavoratori (delocalizzando quindi dove il lavoro costa
meno)?
“La maggior parte delle aziende non si impegna esclusivamente in una o
nell’altra strategia. Generalmente, le aziende di successo puntano a ottenere
profitti. Se una macchina aiuta a raggiungere questo obiettivo, utilizzeranno
una macchina; se invece è il lavoro umano a essere più vantaggioso, opteranno
per quello. In genere, combinano macchine e lavoro umano per ottenere il massimo
vantaggio.
Le macchine possono essere molto costose e rappresentano costi fissi, ma possono
eseguire alcune fasi del lavoro rapidamente o contribuire a rendere più
economico il lavoro umano. Le persone possono essere licenziate, ma possono
anche essere più difficili da controllare e potrebbero organizzarsi in
sindacati. La combinazione tra macchine e lavoro umano varia costantemente.
Storicamente, i datori di lavoro hanno usato le macchine per rendere il lavoro
umano più economico, ma quel lavoro umano a basso costo è rimasto (e
generalmente rimane) essenziale per il processo produttivo.
Georges Doriot, professore della Harvard Business School negli anni ’40 e ’50,
una volta disse che la fabbrica ideale non avrebbe avuto lavoratori. Tuttavia,
quando aziende come la Ford iniziarono a considerare l’idea di costruire
fabbriche senza lavoratori (cosa impossibile all’epoca), si resero conto che
sarebbe stato incredibilmente costoso, impraticabile e fisicamente
irrealizzabile.
Quel sogno di automazione completa è semplicemente un sogno manageriale: un
sogno in cui non si dovrebbe dipendere da altre persone, ossia dai lavoratori.
Quando si tratta di fare profitti, però, quel sogno si rivela essere una
fantasia”.
È vero, secondo lei, che essere contrari all’automazione significa essere nemici
del progresso?
“No. Il concetto di progresso è, naturalmente, oggetto di dibattito. La vera
domanda è: in una società ideale, le persone lavoreranno? E se sì, che tipo di
lavoro faranno? Per quale compenso? Per quante ore alla settimana? E sotto la
supervisione di chi, se ce ne sarà una?
William Morris immaginava una società utopica in cui le persone lavoravano
ancora, ma in condizioni migliori e più significative. In modo molto diverso (e,
in parte, inquietante) anche Edward Bellamy aveva una visione simile.
Storicamente, lo stesso movimento dei lavoratori ha sostenuto che il progresso
significasse ottenere migliori condizioni lavorative per le persone comuni, non
necessariamente l’abolizione del lavoro.
L’automazione non è l’unico percorso verso il progresso; il miglioramento del
lavoro e delle sue condizioni può essere un’alternativa più significativa e
sostenibile per il benessere collettivo”.
La cooperazione uomo-macchina richiede che le macchine si adattino agli esseri
umani? Le macchine possono offrire un vantaggio ai lavoratori?
“Le macchine, di per sé, non creano situazioni sociali o politiche. Gli storici
della tecnologia definiscono l’idea che le macchine determinino automaticamente
tali situazioni come ‘determinismo tecnologico’ e, in generale, hanno respinto
questa concezione considerandola un errore storico. Gli esseri umani fanno la
propria storia, anche se non sempre nel modo in cui vorrebbero.
Il problema non sono le macchine, ma le strutture gerarchiche (o, come alcuni
potrebbero sostenere, il capitalismo). Una società veramente democratica
utilizzerebbe le macchine in modo diverso rispetto a una fortemente gerarchica.
In quel contesto, le macchine potrebbero offrire molti più benefici ai
lavoratori rispetto alla nostra società attuale. Il problema non risiede quindi
nelle macchine in sé, ma nell’alienazione delle persone comuni dalle macchine
stesse”.
Quali sono gli impatti dell’automazione sulla socialità e sulle capacità
democratiche dei governi?
“Questa è una domanda complessa. Il degrado del lavoro ha avuto conseguenze
significative nei paesi che hanno costruito il loro stato sociale sul modello
fordista, in cui la classe media veniva sostenuta da salari relativamente alti e
dal sostegno dell’industria nazionale.
Negli ultimi cinquant’anni, la dissoluzione del modello fordista è andata di
pari passo con un aumento delle disuguaglianze di reddito e con l’erosione della
classe media. Tuttavia, questo fenomeno non è stato causato direttamente
dall’automazione. È stato il risultato di una scelta politica intenzionale da
parte della destra, che ha smantellato progressivamente lo stato sociale. Ciò è
accaduto contemporaneamente alla frammentazione del modello fordista, che
include un uso strategico dei cambiamenti tecnologici per ridurre il potere dei
lavoratori. Tra questi, si possono citare la logistica avanzata utilizzata per
delocalizzare la produzione, le tecnologie della comunicazione che consentono in
modo simile l’esternalizzazione della produzione e l’ascesa dell’economia delle
piattaforme che consente la trasformazione di lavori propriamente detti in
occupazioni occasionali, eccetera.
Questi processi non solo hanno alterato il panorama economico, ma hanno anche
avuto un impatto sulla coesione sociale e sulla capacità dei governi di agire
democraticamente, poiché i lavoratori, spesso frammentati, hanno perso una parte
del loro potere contrattuale collettivo”.
Cosa dovrebbero fare i governi e i legislatori per sostenere una transizione
ordinata?
“Se i governi avessero veramente a cuore il benessere dei lavoratori, dovrebbero
prima separare il mantenimento del lavoro dai bisogni più basilari della vita
sociale, garantendo che l’accesso all’istruzione, all’assistenza sanitaria,
all’alloggio, alle attività ricreative e le pensioni non dipendano
dall’occupazione.
In secondo luogo, dovrebbero aiutare i sindacati a ottenere un vero potere nel
negoziare sui mezzi di produzione stessi. I lavoratori dovrebbero avere un ruolo
decisivo nel decidere quali tipi di macchine utilizzare e per quali scopi.
Infine, i governi dovrebbero emanare leggi su come sviluppare e impiegare la
tecnologia. Oltre alle condizioni di lavoro (che sono cruciali), questa è
attualmente una necessità urgente per evitare i peggiori effetti del cambiamento
climatico. Ovviamente, i governi hanno interesse a legiferare su quali tipi di
tecnologie dovrebbero esistere e come dovrebbero essere utilizzate. Allo stesso
modo in cui dovrebbero emanare leggi sulle emissioni di carbonio, dovrebbero
emanare leggi simili riguardanti l’uso della tecnologia per degradare il lavoro.
Se un nuovo software aggiunge lavoro a un compito, innanzitutto un lavoratore
dovrebbe avere il diritto di rifiutare quel lavoro extra e, almeno, dovrebbe
ricevere una compensazione aggiuntiva per il compito svolto. Se un datore di
lavoro vuole abolire tecnologicamente un lavoro completamente, dovrebbe dover
pagare il lavoratore per il lavoro che ha ora distrutto. Ma soprattutto, i
governi dovrebbero sforzarsi di dare ai lavoratori il controllo sui mezzi di
produzione. Il controllo dei lavoratori è la risposta più fondamentale a questa
questione.”
Le sue previsioni per il futuro e, infine, l’ipotesi di un reddito universale da
distribuire specialmente a chi perde il lavoro a causa dell’automazione sono
davvero plausibili?
“In un certo senso, ho già risposto a questa domanda. Penso che i datori di
lavoro continueranno a usare le nuove tecnologie per degradare il lavoro
piuttosto che eliminarlo del tutto, come fanno fin dall’alba della rivoluzione
industriale. Il problema non è che le nuove tecnologie verranno utilizzate per
fare qualcosa di completamente nuovo, ma che continueranno a essere impiegate
per perpetuare le dinamiche di sfruttamento lavorativo esistenti. Questo
rappresenta un problema, almeno dal punto di vista della gente comune.
Un reddito universale non è necessariamente un’idea pessima, ma risulta meno
efficace rispetto a un solido stato sociale che fornisca servizi
indipendentemente dal reddito individuale. Ho scritto di questo argomento di
recente: i servizi garantiti da uno stato sociale robusto piacciono a molte
persone. Tuttavia, il problema è che, nell’ultimo mezzo secolo, questi servizi
sono stati drasticamente sotto finanziati dai neoliberisti”.
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