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Dal mondo verso Gaza, per fermare il genocidio
Dopo le partenze di Barcellona e Genova, la Global Sumud Flotilla salperà il 7 settembre da Catania. Da lì, la flotta si unirà alla componente in partenza dalla Tunisia e si avvierà quindi verso Gaza. Si è già scritto e detto molto su questa iniziativa che, a differenza di altri tentativi di solidarietà internazionale durante questi due anni di genocidio, è riuscita ad acquisire notevole visibilità mediatica. Vale però la pena ricordare alcuni tratti fondanti di questa azione e della sua storia. Lo Steering Committee della Global Sumud Flotilla è formato da più soggetti internazionali (Global Movement to Gaza, Freedom Flotilla Coalition, Maghreb Sumud Convoy e Sumud Nusantara). La nave ha scelto volutamente la nonviolenza come strategia operativa per garantirsi legittimità, sicurezza e sostegno internazionale. Gli obiettivi sono chiari: rompere l’assedio navale, sostenere concretamente con aiuti umanitari la popolazione, denunciare il genocidio in corso e la complicità e l’inazione dei governi internazionali. > Si chiama Global Sumud Flotilla perché sumud è una parola araba molto densa, > significa “capacità di resistenza con determinazione” ed è stata da anni > associata come tratto distintivo della resistenza palestinese all’apartheid. La flotta nasce a partire dalla richiesta esplicita di molti gruppi della società civile palestinese e cerca in ogni dichiarazione e comunicato di porre l’attenzione sulla situazione attuale a Gaza e sulle motivazioni dell’azione, nonostante i media mainstream spesso si focalizzino sulle persone celebri che sono salite a bordo. Anche gruppi palestinesi, oltre a quelli della richiesta iniziale, in questi giorni si uniscono nel sostegno. Non è la prima Flotilla che vuole rompere l’assedio, si ricorderà la Mavi Marmara, attaccata dall’esercito israeliano nel maggio 2010, causando 12 morti tra i membri dell’equipaggio. Altre imbarcazioni hanno tentato l’impresa nel 2011, nel 2015 e nel 2018. Più recentemente, in questi due anni dall’inizio del genocidio, due piccole imbarcazioni – Handala e Madleen – a distanza di pochi mesi hanno tentato di portare aiuti, terminando con arresti, deportazione dell’equipaggio e sequestro dell’imbarcazione. Questa volta la flotta cerca di evitare di essere repressa in modo così brutale grazie al profilo mediatico, alla presenza di persone conosciute e all’impatto dato dalle dimensioni notevoli – più di 50 barche e centinaia di persone nell’equipaggio. Colpisce e fa ben sperare la reazione del movimento di solidarietà alla Palestina rispetto alla missione. A Genova e a Barcellona una folla notevole ha voluto salutare le partenze delle navi, e in questa settimana si sono moltiplicate iniziative a supporto praticamente in ogni parte della penisola. Giovedì – data inizialmente ipotizzata per la partenza da Catania – è stata chiamata come giornata di mobilitazione e sono innumerevoli gli eventi pubblici in solidarietà con le imbarcazioni in partenza. Nella sola città di Roma tra il 4 e il 6 settembre sono previste 15 iniziative che culmineranno con un grande corteo notturno la sera di domenica 7 settembre – giorno ufficiale di partenza da Catania – concentramento alle 19.00 da Piazza Vittorio e la richiesta esplicita di presenza solo di bandiere palestinesi e della pace, come già accaduto a Genova. Tra i motivi della crescente attenzione mediatica senza dubbio vi è pure il fatto che la mobilitazione è riuscita a raccogliere il sostegno di una quantità significativa di personalità del mondo artistico, culturale e politico. Molte di queste in coerenza con quanto fatto finora, alcune che invece avevano tenuto un profilo più basso fino a questo momento. Tuttavia è evidente che questo non sia il momento storico di discutere sulla coerenza o meno del sostegno offerto da singoli soggetti, è il momento invece di unire le forze e riuscire a costruire un movimento di massa per porre fine alle atrocità in corso a Gaza. > L’aggravarsi della situazione umanitaria nella Striscia rende evidente a > chiunque che non saranno i tanti alleati di Israele a interrompere il > genocidio in corso: agire dal basso e creare pressione è l’unica alternativa > possibile. Le 50mila persone che hanno manifestato a Genova la sera del 31 agosto dimostrano che c’è una solidarietà forte radicale e incondizionata in questo Paese, che forse non ha trovato sempre gli spazi adeguati di espressione, a volte anche per i limiti stessi delle mobilitazioni costruite. Ora lo spazio potenziale di allargamento è presente, ed è necessario coglierlo nel modo migliore. La Global Sumud Flottilla ha la capacità di avere un significato concreto e al tempo stesso di irrompere nell’immaginario globale, quale forza lillipuziana che prova a fermare una potenza nucleare che da due anni conduce un genocidio mentre il mondo assiste in diretta senza agire. La Global Sumud Flotilla ha la capacità di promuovere quella forma di solidarietà internazionale concreta e agita con il proprio corpo, che è stata impedita in questi due anni, e che sa generare speranza. Questo il “Canale Romano” a supporto della Global Sumud Flotilla https://t.me/sumudsupportersroma con aggiornamenti mobilitazioni, appuntamenti, dirette, iniziative, interventi dalla GSF L’immagine di copertina è di Gulcin Bekar, concessa tramite il sito globalsumudflottilla.org SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Dal mondo verso Gaza, per fermare il genocidio proviene da DINAMOpress.
La comunità solidale si stringe attorno a Marah e alla Palestina: «Che questa tomba sia un punto di partenza, che il silenzio finisca»
Oltre cinquecento persone si sono raccolte nel parco della pace Tiziano Terzani di San Giuliano Terme, provincia di Pisa, per dare l’ultimo saluto a Marah Abu Zuhri. La giovane ventenne, arrivata in Italia nella notte tra il 13 e 14 agosto con un volo dell’aeronautica militare partito da Eliat, è morta nella notte di Ferragosto a causa della malnutrizione indotta dalle pratiche genocidiarie di governo ed esercito israeliano. Ai funerali hanno presenziato autorità civili e militari, rappresentanze istituzionali dei comuni della zona, tra i quali Campi Bisenzio e Sant’Anna di Stazzema, rappresentanti delle comunità islamiche della regione e l’ambasciatrice della Palestina in Italia Abeer Odeh. Assenti le amministrazioni locali di centrodestra. Un funerale che ha visto la partecipazione di una comunità sempre presente per portare la solidarietà al popolo palestinese. Movimenti sociali locali, coordinamenti studenteschi solidali con la Palestina attivatisi in Università e città in questi anni di mobilitazione, associazioni e sindacati. Tra questi, i collettivi Studentx per la Palestina e Al-tadamun, i movimenti No Base né a Coltano né altrove e Stop Rearm Europe, le associazioni Arci e Un Ponte Per, e le delegazioni del sindacalismo di base e del Collettivo di Fabbrica – GKN. Senza la loro costante presenza, anche la pur vicina morte di Marah Abu Zuhri, sarebbe stata solo l’ennesimo numero anonimo. La cerimonia si è aperta con il monito del sindaco di San Giuliano Terme, Matteo Cecchelli, a «riconoscere lo Stato di Palestina» e l’invito alle istituzioni presenti a far sì «che Marah sia l’ultima. Che questa tomba sia un punto di partenza, che il silenzio finisca.» Dopo di lui, sarebbe stato previsto l’intervento di Abeer Odeh, il quale è stato invece affidato al proprio portavoce perché l’ambasciatrice «non ha ancora le credenziali di ambasciatrice presso il Presidente della Repubblica italiana». Dal microfono arriva il messaggio di un popolo spezzato dalla violenza genocidiaria ma non vinto, custode della «forza di continuare a vivere, ad amare, a reclamare un futuro in cui nessuna vita venga più spezzata dalla fame, dall’oppressione, dal razzismo e dalla discriminazione. Dignità per tutti i popoli del mondo e Palestina libera». Poco dopo è intervenuta la madre di Marah Abu Zuhri, accolta da un lungo applauso. Un discorso sintetico e diretto il suo: «Ho lasciato Gaza per curare mia figlia, ma lei ha lasciato la vita terrena. Lascio una parte del mio cuore da voi. Essere vicino a lei significa essere vicino al popolo palestinese. Ho deciso di rientrare a Gaza, se mi sarà permesso.» A questi sono seguiti altri interventi degli Imam di Firenze e Pisa, di AssoPace, e delle istituzioni locali. Per ultimo è intervenuto il presidente della regione Eugenio Giani, accolto dal pubblico con fischi e cori per la Palestina libera. Giani non ha perso occasione per rivendicare in piena campagna elettorale la recente approvazione della delibera per il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte della Regione Toscana. Intervento certamente tardivo e strumentale, la cui benevolenza è stata tradita dalle risate fuori schermo – e fuori luogo – contornate da accattonaggi elettorali di Giani ed équipe di partito sulle elezioni regionali di ottobre. La storia di Marah Abu Zuhri è forse una storia come tante, anzi troppe, viste da noi occidentali con la dovuta distanza emotiva che quando ci arriva vicina inizia a far rumore tanto da chiamare a raccolta un’intera comunità, da chi è sempre stato al fianco del popolo palestinese a chi si è avvicinato solo a ridosso della propria campagna elettorale. UNA STORIA COME TANTE, UNA STORIA DIVERSA Marah Abu Zuhri è atterrata nell’aeroporto militare di Pisa con altri undici pazienti ed accompagnatori nella notte tra il 13 e 14 agosto. L’operazione di trasporto medico della 46° brigata aerea, composta principalmente da velivoli cargo da aviotrasporto C-130J, è stata accolta in pompa magna dalla stampa quasi a cercare di mascherare le operazioni militari con la ragione umanitaria; cercando di nascondere sotto al tappeto le comprovate complicità di forze armate, aziende militari e governo, con il genocidio palestinese. Sette di loro sono trasferiti nell’ospedale di Massa, tre al Meyer di Firenze, ed una, Marah, all’ospedale Santa Chiara di Pisa. Ricoverata d’urgenza in condizioni critiche, la giovane è deceduta a Ferragosto per un arresto cardiaco in seguito a un rapido aggravamento del suo stato di salute. Tra le cause del decesso, il collasso degli organi interni causato dallo stato di malnutrizione. Una storia come tante quella di Marah, di quelle passate in sordina come un numero tra i tanti in questi decenni di genocidio, di cui solo gli ultimi due trasmessi in diretta; una storia diversa, capace di disvelare le ipocrisie occidentali quando la ragione umanitaria non basta a salvare la faccia davanti ad un genocidio che si sceglie di iniziare a vedere solo ora. La diversità della storia di Marah, la capacità di far sentire a noi più prossima la piena gravità del genocidio in atto, si comprende dai dettagli. Subito dopo la notizia del decesso, le autorità israeliane hanno avviato la macchina della propaganda sionista dichiarando che la ragazza fosse affetta da leucemia. Un maldestro tentativo di salvare la faccia. Così Tel Aviv ha negato la morte per fame di Marah, ventenne di appena 36 chili. LE ELEZIONI ALLE PORTE L’accusa di errata diagnosi è stata mossa contro la sanità regionale in seguito a un’operazione umanitaria, condotta da forze militari, che il governo nazionale aveva cercato di tenere nascosta. Il presidente della Regione, Eugenio Giani, in piena campagna elettorale per la rielezione, ha subito colto la palla al balzo per marcare il campo di distinzione con l’avversario sul piano ideologico. In una regione dove la destra ha tra i suoi capi bastione esponenti apertamente anti-islamici, come i leghisti Roberto Vannacci e Susanna Ceccardi, ed esponenti meloniani di spicco come Giovanni Donzelli e Raffaele Latrofa – ex capo del comitato No Moschea a Pisa –, lo scostamento discorsivo sul tema ha piena rilevanza. Restringendo ancor di più il campo al territorio provinciale, è esplicita la reticenza a non considerare il genocidio del popolo palestinese come tale da parte del centrodestra. Il caso dell’iniziativa popolare promossa da “Pisa per la Palestina” per il riconoscimento dello Stato di Palestina e la rottura dei rapporti istituzionali con Israele presso il Comune di Pisa è esemplificativo di come funzionino gli schematismi in materia. Nella seduta di discussione il gruppo consigliare di centrosinistra ha appoggiato la proposta popolare pur mal sopportando la mancata condanna di gruppi terroristici come Hamas, mentre i consiglieri di centrodestra hanno attaccato frontalmente la proposta definendola «inaccettabile, [..] per i suoi contenuti fortemente ideologizzati, [..] perché chiudere gli occhi di fronte al terrorismo e proporre il boicottaggio di uno Stato significa prendere una posizione politica estrema e pericolosa.» Se il rifiuto del centrodestra di riconoscere lo Stato palestinese era ampiamente atteso, il voto del centrosinistra è stato inaspettato. Una mossa che dimostra l’utilità contingente di un opportunismo politico che, sebbene tardivo, è utile al fine più grande del fermare il genocidio del popolo palestinese. Il presunto distanziamento del centrosinistra toscano è tradito nei fatti dalle pesanti relazioni coltivate con Marco Carrai, presidente della Fondazione Meyer e di Toscana Aeroporti, nonché console onorario di Israele. Giani, si è mostrato sordo alle continue richieste di associazioni e movimenti di rimuovere Carrai dai ruoli di direzione a lui affidati, non rispondendo alle accuse addossate all’imprenditore di difesa dei crimini commessi da governo, esercito e coloni israeliani. Un peso difficile da rimuovere, tuttavia gestibile in una società civile a cui sembra mancare memoria dell’immediato passato e con un crescente astensionismo alle urne. LA RAGIONE UMANITARIA SOTTO GLI AFFARI MILITARI La vicenda è una chiara fotografia dell’asincronia tra tessuto sociale impegnato a porre pressioni affinché cessino le complicità con lo stato di Israele e cessi il genocidio, un’economia industriale-finanziaria completamente asservita alla ragione bellica, ed un panorama politico-istituzionale quasi interamente piegato alla ragione imperialista imposta dall’asse USA-UE con i regimi amici dell’area medio-orientale. Il tentativo di legittimare le istanze economiche e politico-istituzionali con quelle sociali a mezzo dell’intervento umanitario attuato dalle forze armate, è oggi dato dalla necessità di recuperare consenso ad un montante rifiuto sociale della guerra e delle sue complicità. L’intervento umanitario annunciato a mezza bocca dal governo arriva tardi, quasi a rappresentare una remissione dei peccati: mentre con una mano si lanciano aiuti umanitari sulla popolazione affamata da anni di genocidio e accerchiata dalle forze di occupazione, dall’altra si continuano a stipulare contratti miliardari con governo ed aziende israeliane. Non solo. Entità, tardività e metodologie di distribuzione degli aiuti sono parte del problema. L’accentramento della distribuzione di aiuti umanitari nei quattro punti gestiti dalla Gaza Humanitarian Foundation è stato funzionale alla chiusura dei centinaia di siti d’aiuto gestiti da UNRWA, ONU ed associazioni; l’uso di contractor per il pattugliamento delle aree di distribuzione ha rappresentato la rottura di ogni logica di esclusività dell’uso della forza da parte degli Stati; lo sterminio conclamato del non-ebreo è ormai la norma, in una Palestina ormai divenuta tomba di centinaia di migliaia di persone e di qualsivoglia diritto o ordine internazionale. Tutte le immagini sono dell’autore SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo La comunità solidale si stringe attorno a Marah e alla Palestina: «Che questa tomba sia un punto di partenza, che il silenzio finisca» proviene da DINAMOpress.
«Vi affido la Palestina. Non dimenticate Gaza». Le ultime parole di Anas al-Sharif, ennesimo giornalista ucciso da Israele.
Pubblichiamo il testamento di Anas al-Sharif, giornalista di Al Jazeera, ucciso da un bombardamento delle forze di occupazione israeliane, insieme ad altri quattro colleghi. Anas sapeva di essere nel mirino dell’esercito israeliano: il Committee to Protect Journalists aveva lanciato l’allarme proprio il mese scorso riguardo alla sua incolumità, in seguito alle accuse di «combattente di Hamas» che Israele rivolgeva al giornalista. Sempre senza alcuna prova a supporto di accuse che invece i giornali mainstream italiani, da Repubblica al Foglio, hanno immediatamente rilanciato, ribadendo il ruolo embedded dei «grandi» giornali di questo paese. Il numero di giornalisti uccisi a Gaza dal 7 ottobre ha raggiunto le 242 unità, una cifra di gran lunga maggiore di qualunque altro conflitto. Israele non vuole testimoni del genocidio che sta perpetrando, a maggior ragione adesso in presenza di una drammatica carestia e alla vigilia dell’invasione di terra di Gaza City. Se nel corso di questi due anni il mondo ha potuto ricevere informazioni da Gaza non filtrate da Israele è grazie a un gruppo di giornalisti/e, spesso giovani, che hanno documentato la distruzione e la morte, ma anche la determinazione dei e delle gazawi. Rischiando appunto la vita. Esprimiamo tutta la nostra solidarietà e vicinanza alla famiglia di Anas e al popolo palestinese. Palestina Libera! Questa è la mia volontà e il mio messaggio finale. Se queste parole vi giungono, sappiate che Israele è riuscito a uccidermi e a mettere a tacere la mia voce. Prima di tutto, la pace sia su di voi e la misericordia e le benedizioni di Dio. Dio sa che ho dedicato tutto l’impegno e la forza che avevo per essere un sostegno e una voce per il mio popolo, fin da quando ho aperto gli occhi alla vita nei vicoli e nelle strade del campo profughi di Jabalia. La mia speranza era che Dio prolungasse la mia vita così da poter tornare con la mia famiglia e i miei cari nella nostra città natale, Asqalan (al-Majdal) occupata. Ma la volontà di Dio è venuta prima e il Suo decreto è stato eseguito. Ho vissuto il dolore in ogni suo dettaglio. Ho assaporato il dolore e la perdita molte volte. Eppure non ho mai esitato un solo giorno a trasmettere la verità così com’è, senza falsificazioni o distorsioni. Che Dio sia testimone contro coloro che sono rimasti in silenzio, coloro che hanno accettato la nostra uccisione, coloro che hanno soffocato i nostri respiri e coloro i cui cuori sono rimasti insensibili ai corpi dei nostri bambini e delle nostre donne, e che non hanno fatto nulla per fermare il massacro che è inflitto al nostro popolo da più di un anno e mezzo. Vi esorto a tenere stretta la Palestina, il gioiello della corona dei musulmani e il cuore pulsante di ogni persona libera in questo mondo. Vi esorto a prendervi cura del suo popolo, dei suoi bambini oppressi a cui non è stata data la possibilità di sognare o di vivere in sicurezza e pace, i cui corpi puri sono stati schiacciati da migliaia di tonnellate di bombe e missili israeliani, fatti a pezzi, i cui resti sono stati sparsi sui muri. Vi esorto a non lasciarvi mettere a tacere dalle catene o fermare dai confini. Siate ponti verso la liberazione della terra e del popolo, finché il sole della dignità e della libertà non sorgerà sulla nostra patria rubata. Vi esorto a prendervi cura della mia famiglia. Vi esorto a prendervi cura della pupilla dei miei occhi, la mia amata figlia Sham, che la vita non mi ha permesso di vedere crescere come sognavo. Vi esorto a prendervi cura del mio amato figlio Salah, a cui desideravo stare accanto finché non fosse diventato forte, per portare il mio fardello e continuare  la missione. Vi esorto a prendervi cura della mia amata madre, le cui preghiere benedette mi hanno portato dove sono. Le sue preghiere sono state la mia fortezza, la sua luce il mio cammino. Chiedo a Dio di confortare il suo cuore e di ricompensarla grandemente per me. Vi esorto anche a prendervi cura della mia compagna di vita, la mia amata moglie, Umm Salah, Bayan, dalla quale la guerra mi ha separato per lunghi giorni e mesi. Eppure è rimasta fedele alla sua promessa, salda come il tronco di un ulivo che non si piega, paziente e fiduciosa in Dio, portando la responsabilità in mia assenza con forza e fede. Vi esorto a stringervi attorno a loro e ad essere il loro sostegno dopo Dio Onnipotente. Se dovessi morire, morirei saldo nei miei principi. Rendo testimonianza davanti a Dio che sono contento del Suo decreto, certo di incontrarLo e convinto che ciò che è con Dio è migliore ed eterno. O Dio, accettami tra i martiri. Perdona i miei peccati passati e futuri. Fa’ che il mio sangue sia una luce che illumini il cammino della libertà per il mio popolo e la mia famiglia. Perdonami se ho mancato e prego per la mia misericordia, perché ho mantenuto la mia promessa e non l’ho mai cambiata né tradita. Non dimenticate Gaza… E non dimenticatemi nelle vostre sincere preghiere per il perdono e l’accettazione. Anas Jamal al-Sharif, 6 aprile 2025 L’immagine di copertina è tratta dal profilo Instagram di Anas Jamal al-Sharif SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo «Vi affido la Palestina. Non dimenticate Gaza». Le ultime parole di Anas al-Sharif, ennesimo giornalista ucciso da Israele. proviene da DINAMOpress.
«Sospendiamo le collaborazioni accademiche con Israele». Lettera aperta a CRUI e Ministero degli Esteri
Pubblichiamo la lettera aperta, promossa dalla Rete Ricerca e Università per la Palestina, al Ministro degli Esteri Tajani e alla presidente della Conferenza dei Rettori Iannantuoni che richiede la sospensione del bando del Ministero degli Esteri che finanzia le collaborazioni fra università e enti di ricerca italiani e israeliani, alla luce delle violazioni dei diritti umani della popolazione palestinese riconosciuta dalle Corti Internazionali e della complicità documentata delle istituzioni accademiche israeliane nei progetti di colonialismo di insediamento e di apartheid. Form per aderire. Roma, 22 aprile 2025 Alla cortese attenzione di: Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI), On. Antonio Tajani Presidente della Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (CRUI), Prof.ssa Giovanna Iannantuoni Seconda lettera aperta al MAECI e alla CRUI per la sospensione dell’Accordo di Cooperazione Industriale, Scientifica e Tecnologica tra Italia e Israele per rischio di violazione del diritto internazionale e umanitario Ci ritroviamo per il secondo anno a rivolgerci al MAECI, e stavolta anche alla CRUI, per chiedere che venga sospeso il bando per progetti congiunti di ricerca sulla base dell’Accordo di Cooperazione Industriale, Scientifica e Tecnologica tra Italia e Israele1 . Apprezziamo l’esplicita esclusione dal bando di progetti che producono tecnologia dual use. Apprezziamo la cautela (già un obbligo, tuttavia, secondo la legislazione vigente2 ) ma questa rimane una misura insufficiente di fronte al crescente disastro umanitario di Gaza (in cui la carestia e i bombardamenti sono esplicitamente rivendicati dal governo israeliano come strumenti di pressione politica legittima), al trasferimento forzato di civili, alle espulsioni e all’incessante opera di espansione territoriale in Cisgiordania, che costituiscono assodati crimini di guerra e azioni genocidarie. Negli ultimi 19 mesi, le più importanti istituzioni internazionali hanno rilevato un plausibile rischio di genocidio, hanno condannato le innumerevoli violazioni del diritto internazionale da parte di Israele e hanno riconosciuto l’illegalità nella quale Israele opera nei Territori Palestinesi Occupati, siano questi la Cisgiordania, Gerusalemme Est o Gaza3 . Sono oltre 51.000 i morti palestinesi accertati, mentre gli studi più accreditati stimano che il numero complessivo di decessi sia di molto superiore4 . Il blocco totale degli aiuti umanitari, la distruzione degli impianti di desalinizzazione dell’acqua, la partizione geografica della Striscia e l’annientamento del sistema sanitario, educativo e infrastrutturale, scientemente operati dalle istituzioni israeliane5 hanno creato una carestia talmente grave da rendere impossibile determinare il numero complessivo dei morti. > Sottolineiamo con forza come ciascuno dei documenti e degli studi sopra citati > abbia messo in luce che le azioni genocidarie dello stato israeliano a Gaza > sono rese possibili dai trasferimenti finanziari e tecnologici e al commercio > di armamenti degli stati stranieri verso e con Israele. Da tempo le organizzazioni internazionali che lavorano per la difesa dei diritti umani, insieme a esperti e accademici, sostengono che la fornitura di armi a uno stato che agisce in violazione del diritto internazionale può configurare la complicità in tali violazioni. Nel caso di uno stato sospettato di commettere un genocidio, poi, la complicità è ancora più intollerabile sia eticamente, sia da un punto di vista legale, come afferma la Convenzione per la Prevenzione e Punizione del Crimine di Genocidio del 1948. Il parere consultivo della Corte di Giustizia Internazionale del luglio 2024 afferma l’obbligo per gli stati di porre fine alla complicità con l’occupazione illegale israeliana e con le gravi violazioni dei diritti umani e di agire per garantire il rispetto del diritto internazionale, a partire da un completo embargo militare. > La cooperazione in ambito accademico può rendere le università complici in > crimini di guerra e violazioni del diritto internazionale. Come discusso e > dimostrato da colleghi israeliani e palestinesi, il sistema universitario > israeliano è parte integrante del sistema militare, di apartheid e di > occupazione illegale dei Territori Palestinesi6 . Per evitare ogni complicità, sono decine le università nel mondo che hanno interrotto la cooperazione con le istituzioni accademiche israeliane7. Per il secondo anno consecutivo vi chiediamo di fare altrettanto, partendo dalla sospensione di questo bando. Il rapporto di co-dipendenza esistente tra il sistema accademico e quello militare israeliani rende la cooperazione istituzionale con le università italiane potenzialmente illegale. Per esempio, la Elbit System e l’Israel Aerospace Industry (IAI) non solo sviluppano le tecnologie militari e le armi attualmente utilizzate a Gaza, ma sono nate come spin-off di istituzioni accademiche israeliane e attualmente coinvolte in progetti di ricerca internazionali8. Inoltre, diverse istituzioni di ricerca israeliane hanno istituito programmi di sostegno finanziario ai soldati – per esempio, l’“Enhanced financial package”, adottato dall’Università ebraica di Gerusalemme, i “benefit” adottati dal Weizmann Institute of Technology, le iniziative di beneficenza dell’Università di Tel Aviv a favore delle truppe impiegate a Gaza e l’acquisto di equipaggiamento da parte dell’Università di Haifa per l’esercito operante a Gaza9. > Le università giocano un ruolo importante nella costruzione della difesa di > Israele nel procedimento portato dal Sudafrica alla Corte Internazionale di > Giustizia: presso l’Institute for National Security Studies (INSS) > dell’Università di Tel Aviv da mesi si incontrano giuristi, esperti e > funzionari del Ministero della Difesa per formulare la linea difensiva del > Paese10. È noto, peraltro, che questo rapporto di co-dipendenza dalle > università israeliane è intrattenuto anche con le maggiori industrie di > armamenti nazionali. Non vogliamo essere complici e, inoltre, vi chiediamo: perché le risorse pubbliche italiane destinate alla ricerca, che sono già minime, dovrebbero servire per sviluppare conoscenza a beneficio delle università israeliane, in un momento in cui tutte le università a Gaza sono state bombardate e distrutte, uccidendo centinaia di colleghi e colleghe e migliaia di studenti e studentesse, e quelle italiane sono in una condizione di cronico sottofinanziamento e depopolamento? Perché i fondi pubblici italiani dovrebbero finanziare la ricerca in campo medico11 di un paese che ha sistematicamente bombardato e distrutto tutti gli ospedali della Striscia di Gaza – l’ultimo qualche giorno fa – e ripetutamente colpito il personale sanitario, in un momento in cui l’accesso a cure dignitose e a diagnosi in tempi utili è quasi un miraggio per chi vive in Italia? Perché i soldi pubblici italiani dovrebbero finanziare la ricerca in campo ambientale12 di un paese che è responsabile di un aumento vertiginoso dell’inquinamento globale a causa delle campagne di bombardamento incessanti su Gaza 13, in un momento in cui il nostro paese è devastato da alluvioni e fenomeni meteorologici distruttivi le cui conseguenze il governo non è in grado di gestire e le cui cause si rifiuta di riconoscere? Per queste ragioni chiediamo al MAECI di sospendere il bando e chiediamo ai rettori e alle rettrici della CRUI che le loro università non partecipino a questo bando, chiediamo loro di non stipulare nuovi accordi con le università israeliane e sospendere quelli in corso. Ricordiamo che misure drastiche in questa direzione furono prese contro la Russia all’indomani dell’invasione dell’Ucraina: è quindi possibile farlo. Infine, come docenti e personale TA di università e centri di ricerca in Italia, ci impegniamo a non partecipare a collaborazioni istituzionali e progetti che includano istituzioni israeliane, con lo scopo di mettere pressione su queste affinché rispettino il diritto internazionale e umanitario. Ci impegniamo a collaborare con colleghi e colleghe palestinesi, partecipando alla ricostruzione del sistema educativo di Gaza, a Gaza, sotto la loro guida. Immagine di copertina di DINAMOpress SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo «Sospendiamo le collaborazioni accademiche con Israele». Lettera aperta a CRUI e Ministero degli Esteri proviene da DINAMOpress.
Il nuovo progetto di Israele su Gaza ha un nome: campo di concentramento
Due settimane fa, il giornalista israeliano di destra Yinon Magal postava su X quanto segue: «questa volta, l’IDF vuole evacuare agni abitante dalla striscia di Gaza in un nuova zona umanitaria attrezzata perchè vi rimangano molto a lungo, un’area recintata, dove chiunque provi a entrare dovrà essere innanzitutto perquisite per verificare che non si tratti di un terrorista. L’IDF non lascerà che un popolo corrotto rifiuti l’evcuazione, stavolta. Chiunque rimanga al di fuori della zona umanitaria sarà coinvolto. Questo piano ha il sostegno dell’America». Il giorno stesso, il ministro della difesa israeliano Israel Katz rilasciava una dichiarazione in un video  accennando a qualcosa di simile. «Abitanti di Gaza, questo è l’ultimo avvertimento» dice. «L’attacco aereo sui terroristi di Hamas è stato solo il primo passo. La fase seguente sarà molto più cruenta, e ne farete tutte le spese. Presto l’evacuazione della popolazione dalle zone di guerra riprenderà». «Se ogni ostaggio israeliano non verrà rilasciato e la presenza di Hamas cancellata da Gaza, Israele agirà con una forza senza precedenti», prosegue Katz. «Ascoltate il consiglio del presidete degli Stati Uniti: rilasciate gli ostaggi e liberatevi di Hamas, allora si apriranno alter opzioni per voi — incluso il trasferimento in altri paesi per chi lo desideri. L’alternativa è la completa distruzione e devastazione». Chiaramente le somiglianze tra le due dichiarazioni non sono frutto di una coincidenza. Anche se Magal non avesse saputo della nuova strategia bellica di Israele direttamente da Katz o dal nuovo capo dello staff militare, Eyal Zamir, si può ragionevolmente suppore che ne sia venuto a conoscenza attraverso altre fonti in alto nella gerarchia militare.   In modo abbastanza profetico, il giornalista Yoav Zitun del sito di news israeliano Ynet ha messo in luce le osservazioni del Brig. Gen. Erez Wiener seguite al suo recente congedo dall’esercito israeliano dovuto a una mala gestione di documenti riservati. «Sono triste perché dopo aver “spinto la carretta in salita” per un anno e mezzo, proprio quando sembra che abbiamo finalmente raggiunto l’ultimo miglio e che questo conflitto prenderà la piega giusta (cosa che sarebbe dovuta accadere un anno fa), non sarò al timone», ha scritto Wiener su Facebook. Come osserva Zitun, Wiener non è un ufficiale qualunque. Prima di venire licenziato, ha avuto un ruolo cardine nella pianificazione delle operazioni dell’esercito a Gaza, dove ha insistito pesantemente per imporre il pieno controllo delle milizie israeliane sul territorio. Se Wiener, apparentemente invischiato in una fuga di notizie a favore del ministro di estrema destra Bezalel Smotrich, sostiene che «il conflitto prenderà la piega giusta», possiamo certo intuire a quale piega si riferisca. Tutto ciò è inoltre evidentemente in linea con quanto auspicato dal capo dello staff Staff Zamir, e con i dettagli di un piano di attacco ricevuto in una fuga di notizie dal Wall Street Journal all’inizio del mese scorso. Se uniamo tutti i puntini la conclusione è chiara: Israele si prepara a trasferire con la forza l’intera popolazione di Gaza – combinando ordini di evacuazione e bombardamenti intensi – in un territorio chiuso e probabilmente recintato. Chiunque venisse sorpreso al di fuori dei confini di tale zona andrebbe incontro alla morte e, con ogni probabilità, gli edifici nel resto dell’enclave verranno  rasi al suolo. Senza girarci troppo intorno, questa “zona umanitaria”, come l’ha definita gentilmente Magal, in cui l’esercito intende rinchiudere i 2 milioni di abitanti di Gaza, può essere riassunta in tre parole: campo di concentramento. Non è un’iperbole, è semplicemente la definizione più precisa per aiutarci a comprendere meglio ciò che ci troviamo di fronte. TUTTO O NIENTE  In modo alquanto perverso, il piano di istituire un campo di concentramento dentro Gaza potrebbe riflettere la consapevolezza da parte dei leader israeliani che la tanto sbandierata “partenza volontaria” della popolazione non è realistica nelle circostanze attuali – sia perché troppo pochi gazawi sarebbero disposti ad andarsene, anche sotto i continui bombardamenti, sia perché nessun Paese accetterebbe un afflusso così massiccio di rifugiati palestinesi. Secondo il dottor Dotan Halevy, ricercatore di Gaza e curatore del libro “Gaza: Place and Image in the Israeli Space”, il concetto di ‘partenza volontaria’ si basa su un principio ‘tutto o niente’. «Considerate questa ipotesi», mi ha detto recentemente Halevy. «Chiedete a Ofer Winter [il generale militare che, al momento della nostra conversazione, sembrava destinato a dirigere la “Direzione per le partenze volontarie” del Ministero della Difesa] se evacuare il 30%, il 40% o addirittura il 50% dei residenti di Gaza sarebbe considerato un successo. A Israele importerebbe davvero se Gaza avesse 1,5 milioni di palestinesi anziché 2,2 milioni? Questo aprirebbe la strada alle fantasie di annessione di Bezalel Smotrich e dei suoi alleati? La risposta è quasi certamente no». Il libro di Halevy contiene un saggio del dottor Omri Shafer Raviv che espone i piani di Israele per “incoraggiare” l’emigrazione palestinese da Gaza dopo la guerra del 1967. Il titolo, «Voglio sperare che se ne vadano», prende in prestito una citazione dell’allora primo ministro Levi Eshkol. Pubblicato nel gennaio 2023 – ben due anni prima che il presidente Donald Trump annunciasse il progetto “Gaza Riviera” – riflette quanto l’idea di trasferire la popolazione di Gaza sia profondamente radicata nel pensiero strategico israeliano. L’articolo rivela il duplice approccio di Israele per ridurre il numero di palestinesi a Gaza: in primo luogo, incoraggiarli a trasferirsi in Cisgiordania e da lì in Giordania; in secondo luogo, cercare Paesi in Sud America disposti ad assorbire i rifugiati palestinesi. Mentre la prima strategia ha avuto un certo successo, la seconda è fallita completamente. Secondo Shafer Raviv, il piano finì per ritorcersi contro Israele. Benché decine di migliaia di palestinesi abbiano lasciato Gaza per la Giordania dopo che Israele ha deliberatamente abbassato gli standard di vita nell’enclave, la maggior parte di loro è rimasta. Ma, cosa fondamentale, il continuo deterioramento delle condizioni di vita ha causato un certo malcontento per poi sfociare nella resistenza armata. Resosi conto della situazione, all’inizio del 1969 Israele decise di alleggerire la situazione economica della Striscia permettendo ai gazawi di lavorare in Israele, riducendo così la pressione ad emigrare. Inoltre, la Giordania iniziò a chiudere i propri confini, rallentando ulteriormente la fuga dei palestinesi dalla Striscia. Ironia della sorte, alcuni dei gazawi che si trasferirono in Giordania come parte del piano di sfollamento di Israele parteciparono in seguito alla Battaglia di Karameh nel marzo 1968 – il primo scontro militare diretto tra Israele e la nascente Organizzazione per la Liberazione della Palestina che raffreddò ulteriormente l’entusiasmo di Israele nell’incoraggiare l’emigrazione da Gaza. In definitiva, l’establishment della sicurezza israeliana è giunto alla conclusione che fosse preferibile contenere i palestinesi a Gaza, dove potevano essere monitorati e controllati, piuttosto che disperderli nella regione. Secondo Halevy, questa percezione ha guidato la politica israeliana nei confronti di Gaza fino all’ottobre 2023 e spiega perché Israele non ha cercato di costringere i residenti a lasciare la Striscia durante i 17 anni di blocco. In effetti, fino all’inizio della guerra, lasciare Gaza era un processo estremamente difficile e costoso, appannaggio esclusivo di quei palestinesi ricchi e con conoscenze che potevano raggiungere le ambasciate straniere a Gerusalemme o al Cairo per ottenere i visti. Oggi, il modo in cui Israele pensa a Gaza sembra essersi rovesciato: dal controllo esterno e dal contenimento al pieno controllo, all’espulsione e all’annessione. Nel suo saggio, Shafer Raviv racconta un’intervista del 2005 con il Magg. Gen. Shlomo Gazit, architetto della politica di occupazione israeliana successiva al 1967 e il primo ad aver assunto la carica di Coordinatore delle Attività Governative nei Territori (COGAT) dell’esercito. Quando gli è stato chiesto del piano originario di espulsione da Gaza, che lui stesso aveva contribuito a formulare 40 anni prima, la sua risposta è stata: «Chiunque ne parli dovrebbe essere impiccato». Vent’anni dopo, con l’attuale governo di destra, il sentimento prevalente è che chiunque non parli di “partenza volontaria” dei residenti di Gaza dovrebbe essere impiccato. Eppure, nonostante il drastico cambiamento di strategia, Israele rimane saldamente intrappolato dalle sue stesse politiche. Affinché la “partenza volontaria” abbia un successo sufficiente a consentire l’annessione e il ristabilimento di insediamenti ebraici nella Striscia, si potrebbe pensare che almeno il 70% dei residenti di Gaza dovrebbe essere rimosso – il che significa più di 1,5 milioni di persone. Questo obiettivo non è minimamente realistico date le attuali circostanze politiche, tanto all’interno di Gaza che nel mondo arabo. Inoltre, sottolinea Halevy, anche solo discutere una simile proposta potrebbe riaprire la questione della libertà di movimento dentro e fuori Gaza. Dopotutto, se la partenza è “volontaria”, Israele sarebbe in teoria tenuto a garantire che coloro che partono possano anche tornare. In un articolo apparso la scorsa settimana sul sito israeliano Mako, che descrive un programma pilota in cui 100 gazawi avrebbero lasciato l’enclave per lavori di costruzione in Indonesia, si afferma esplicitamente che «secondo il diritto internazionale, chiunque lasci Gaza per lavoro deve avere il permesso di tornare». Che Smotrich, Katz e Zamir abbiano letto o meno gli articoli di Halevy e Shafer Raviv, probabilmente capiscono che la “partenza volontaria” non è un piano immediatamente eseguibile. Ma se credono davvero che la soluzione al “problema di Gaza” – o alla questione palestinese nel suo complesso – sia che non ci siano più palestinesi a Gaza, allora non sarà certamente possibile che accada tutto in una volta. In altre parole, l’idea sembra essere la seguente: prima, radunare la popolazione in una o più enclave recintate; poi, lasciare che la fame, la disperazione e l’angoscia facciano il resto. Coloro che sono chiusi all’interno vedranno che Gaza è stata completamente distrutta, che le loro case sono state rase al suolo e che non hanno né un presente né un futuro nella Striscia. A quel punto, reputa Israele, i palestinesi stessi inizieranno a spingere per emigrare, costringendo i Paesi arabi ad accoglierli. COSA IMPEDISCE L’ESPULSIONE Resta da capire se l’esercito – o persino il governo – voglia andare fino in fondo con un piano simile. La cosa condurrebbe di certo alla morte di tutti gli ostaggi, e al rischio di forti ripercussioni sul piano politico. Inoltre, sarebbe strenuamente contrastata da Hamas, che non ha perso la sue capacità militare e potrebbe infliggere pesanti perdite all’esercito, come è accaduto nel nord di Gaza fino agli ultimi giorni prima del cessate il fuoco. Un ulteriore ostacolo a questo piano è rappresentato dal logoramento dei riservisti dell’esercito israeliano, e da preoccupazioni crescenti verso il rifiuto “silenzioso” e pubblico di prestare servizio; i disordini civili generati dagli sforzi aggressivi del governo per indebolire il sistema giudiziario potranno solo intensificare questo fenomeno. Quest’ultimo è inoltre fermamente contrario (almeno per ora) sia all’Egitto che alla Giordania, i cui governi potrebbero persino sospendere o annullare gli accordi di pace con Israele. Infine, c’è la natura imprevedibile di Donald Trump, che un giorno minaccia di «aprire le porte dell’inferno» su Hamas e il giorno dopo manda inviati a negoziare direttamente con il gruppo, definendoli «dei simpaticoni». Al momento, l’esercito israeliano continua a vessare Gaza con attacchi aerei e a impadronirsi del territorio attorno al perimetro della Striscia. L’obiettivo dichiarato di Israele in questo nuovo attacco è quello di fare pressione su Hamas per estendere la fase uno dell’accordo, ovvero il rilascio degli ostaggi senza impegnarsi a porre fine alla guerra. Hamas, consapevole dei limiti strategici di Israele, rifiuta di cambiare posizione: qualsiasi accordo sugli ostaggi deve essere legato alla fine della guerra. Nel frattempo, Zamir, che forse teme davvero di non avere più un esercito per conquistare Gaza, mantiene un silenzio assordante, evitando dichiarazioni sostanziali sulle intenzioni dell’esercito. Questo articolo è stato pubblicato in inglese in data 1/04/2025 su +972mag e in ebraico su Local Call La traduzione è di Benedetta Rossi Immagine di copertina: Forced Displacement of Gaza Strip Residents During the Gaza-Israel War 23-25, by Jaber Jehad Badwan, Wikimedia SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Il nuovo progetto di Israele su Gaza ha un nome: campo di concentramento proviene da DINAMOpress.