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Apple, i dark pattern e la difficile battaglia contro il tracciamento
Nel 2021 Apple ha introdotto App Tracking Transparency (ATT), una funzionalità del sistema operativo iOS che permette agli utenti, che prima dovevano districarsi tra interfacce confusionarie, di impedire con un solo click qualunque tracciamento, evitando quindi che qualsiasi app presente sul loro smartphone possa raccogliere dati personali a fini pubblicitari senza il loro consenso esplicito. La funzionalità introdotta in iOS, il sistema operativo di iPhone e iPad, fornisce un servizio che, nell’internet dominata dal capitalismo della sorveglianza, rende una gran fetta di utenti più protetti. E questo l’ha resa particolarmente apprezzata: si stima infatti che il 75% degli utenti iOS la utilizzi. Eppure ATT, in Italia e in altri paesi europei, potrebbe avere vita breve: “In Apple crediamo che la privacy sia un diritto umano fondamentale e abbiamo creato la funzionalità di App Tracking Transparency per offrire agli utenti un modo semplice per controllare se le aziende possono tracciare le loro attività su altre app e siti web. Una funzionalità accolta con entusiasmo dai nostri clienti e apprezzata dai sostenitori della privacy e dalle autorità per la protezione dei dati in tutto il mondo”, si legge in un comunicato. “Non sorprende che l’industria del tracciamento continui a opporsi ai nostri sforzi per dare agli utenti il controllo sui propri dati”. ATT RISCHIA DI SPARIRE Nonostante il favore degli utenti, ATT è infatti oggetto in Italia di un’indagine dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, che secondo diversi osservatori arriva dopo una forte pressione da parte dell’industria pubblicitaria. Le aziende del settore sostengono che la funzione sia “abusiva” perché duplicherebbe i consensi già richiesti dal GDPR. Apple respinge l’accusa e afferma che la normativa europea dovrebbe essere un punto di partenza, non un limite, e che ATT offre un livello di controllo più chiaro e immediato. La decisione dell’AGCM è attesa entro il 16 dicembre e rischia di privare i consumatori di un prodotto informatico, ATT, che non solo è più funzionale dei singoli banner, ma che si potrebbe definire “naturale”: nel momento in cui tutte le app hanno bisogno di una stessa funzione (in questo caso, richiedere il consenso degli utenti alla profilazione) è più logico integrarla nel sistema operativo e offrirla in un’unica versione standard. ATT fa proprio questo: porta la richiesta di consenso al tracciamento a livello di sistema. Nonostante ogni utente abbia il diritto di prestare o negare il consenso all’utilizzo dei suoi dati personali per fornire pubblicità mirata o rivenderli ai cosiddetti data broker, la semplicità d’uso di ATT di Apple rappresenta la differenza tra un consenso spesso “estorto” da interfacce appositamente convolute e opache e un consenso informato, libero, revocabile. In base al GDPR, il regolamento europeo sulla protezione dei dati, ogni applicazione può trattare i nostri dati personali solo se esiste una delle sei basi giuridiche previste dalla legge. Tra queste, il consenso è quello più comunemente utilizzato. Poiché permette di effettuare una scelta in modo chiaro e semplice, l’ATT ha rapidamente raccolto l’effettivo interesse degli utenti, mostrando in maniera coerente come si può ottenere ciò che i vari garanti europei hanno chiarito nel tempo, ovvero che “rifiutare dev’essere facile quanto accettare”. LA STRATEGIA DI APPLE Ma Apple ha fatto un altro passo avanti: non ha offerto ATT ai programmatori di app, ma l’ha imposta. Ha reso questo consenso necessario, al pari di quello che deve chiedere un’app quando, per esempio, vuole accedere alla localizzazione o al microfono. È direttamente il sistema operativo, sia in iOS sia in Android, che permette di scegliere se fornire o meno, per esempio, l’accesso al microfono al videogioco che abbiamo appena scaricato. In questo modo, lo spazio di manovra per trarre l’utente in inganno si riduce molto: possiamo vedere in una volta sola quali sono le app che richiedono quel privilegio e revocarlo a tutte in ogni momento. Immaginiamo gli esiti nefasti che si sarebbero verificati nel mercato mobile se ogni app avesse potuto accedere, tramite formula ambigue per il consenso, a periferiche come microfono, localizzazione, cartelle e rubrica. È proprio per evitare questa situazione che i programmatori dei sistemi operativi hanno dato il controllo agli utenti, limitando di conseguenza la presenza di spyware e profilazione invasiva. La possibilità di bloccare facilmente l’accesso a periferiche così delicate, soprattutto quando scarichiamo app dalla reputazione dubbia, ci dà un senso di protezione. Perché con il tracciamento dovrebbe essere diverso? Siamo certi che fornire l’accesso al microfono permetta di ottenere dati molto più rilevanti di quelli che si possono avere tramite la profilazione? In realtà, il tracciamento e la cessione di informazioni ai data broker dovrebbero evocare la stessa percezione di rischio. E quindi essere soggette, come fa in effetti l’ATT, a un simile trattamento a livello di consenso. La differenza tra tracciamento e accesso alle periferiche Una periferica è una porzione del sistema operativo: un’app può accedervi soltanto se le è stato concesso questo privilegio, altrimenti non ha modo di farlo. La garanzia del controllo delle aree più delicate di un sistema operativo è un elemento fondamentale della sicurezza informatica. Il blocco al tracciamento, invece, è un insieme di misure tecniche: impedisce il fingerprinting (una tecnica che permette di identificare in modo univoco un utente o un dispositivo) e l’accesso all’Identificatore Unico Pubblicitario (un codice anonimo assegnato dal sistema operativo a ciascun dispositivo mobile, che permette alle app di riconoscere l’utente a fini pubblicitari), oltre a  costringere lo sviluppatore a esplicitare gli obiettivi del trattamento dati, pena la rimozione dall’Apple Store. Non è impossibile aggirare questi divieti, ma una funzione come ATT, che permette di attivarli con un’unica scelta, lo rende molto più complesso. I MILIARDI PERSI DA META Per capire la posta in gioco: Meta ha affermato che ATT sarebbe stato, nel solo 2022, responsabile di una perdita pari a 10 miliardi di dollari (circa l’8% del fatturato 2021), causando una caduta in borsa del 26%. Il Financial Times stimò invece che, nel solo secondo semestre 2021, l’ATT introdotto da Apple fosse la causa di 9,85 miliardi di inferiori ricavi complessivi per Snap (la società del social network Snapchat), Facebook, Twitter e YouTube, segnalando l’ampiezza dell’impatto sull’intero ecosistema pubblicitario. Nel suo report del 2022, lo IAB (Interactive Advertising Bureau, un’associazione di categoria delle aziende pubblicitarie e della comunicazione) menziona già nell’introduzione come la colpa di queste perdite sia in primo luogo dell’ATT e in secondo luogo del regolamento della California sui dati personali. Questo aspetto ci aiuta a mappare il conflitto: i diritti e il consenso vengono considerato come degli avversari da questi soggetti, che – nel tentativo di recuperare i miliardi perduti – sono disposti a mettere in campo tutto il loro potere legale, fino ad arrivare a un’interpretazione del diritto che dovrebbe essere un caso di studio. IN EUROPA, LA PRIVACY SUL BANCO DELL’ANTITRUST In diverse nazioni europee, in seguito alle denunce di associazioni di categoria, sono infatti state intentate cause contro Apple per “abuso di posizione dominante”. Non è però chiaro dove sia il beneficio diretto di Apple,  visto che anche le sue applicazioni devono rispondere all’ATT e quindi anche Apple deve chiedere il consenso per servire pubblicità personalizzata. Apple potrebbe al massimo avere un beneficio indiretto, penalizzando i principali concorrenti – i cui introiti provengono dalla pubblicità – mentre si avvantaggia dalla vendita di dispositivi promossi come “privacy first”. Una delle interpretazioni fornite dalle associazioni di categoria è che gli sviluppatori di applicazioni terze debbano essere in grado di usare il loro form per la richiesta del consenso. Questo, però, ci porta ad affrontare un problema noto: quello dei dark pattern o deceptive design (interfacce ingannevoli), ovvero strategie di design che spingono l’utente a compiere scelte non pienamente consapevoli, per esempio rendendo più complesso rifiutare il tracciamento o l’iscrizione a un servizio rispetto ad accettarlo. DARK PATTERN: PERCHÉ LA FORMA DECIDE IL CONTENUTO Come scrive Caroline Sinders, “le politiche per regolamentare Internet devono fare i conti con il design”, perché interfacce e micro-scelte grafiche possono “manipolare invece che informare” e svuotare principi come il consenso: “I dark pattern sono scelte di design che confondono gli utenti o li spingono verso azioni che non desiderano davvero”. E fanno tutto ciò, tipicamente, rendendo molto facile dire di sì e invece complesso o ambiguo dire di no. Non si tratta di astrazioni. Nel 2024, NOYB (il centro europeo per i diritti digitali) ha analizzato migliaia di banner di consenso in Europa, documentando schemi ricorrenti e misurabili: se il pulsante “rifiuta” non si trova nel primo livello del banner, solo il 2,18% degli utenti lo raggiunge. Non solo: rifiutare richiede in media il doppio dei passi rispetto ad accettare. Tra le pratiche “dark pattern” più comuni troviamo inoltre: link ingannevoli per il rifiuto (inseriti nel corpo del testo mentre per accettare è presente un pulsante ben visibile), colori e contrasti che enfatizzano l’ok e sbiadiscono il no, caselle preselezionate, falso “legittimo interesse” (con cui un’azienda dichiara di poter trattare i dati senza esplicito consenso) e percorsi per la revoca più difficili del consenso. Il Digital Services Act (DSA), in vigore dal 2022, ha portato nel diritto dell’UE il lessico dei dark pattern e ne vieta l’uso quando interfacce e scelte di design ingannano o manipolano gli utenti, aprendo la strada a linee guida e strumenti di attuazione dedicati. In concreto, il DSA prende di mira alcune pratiche precise, come la ripetizione delle richieste anche dopo che una scelta è già stata espressa. Nella tassonomia accademico-regolatoria più aggiornata, questo comportamento corrisponde al pattern “nagging”, cioè l’interruzione insistente che spinge l’utente verso un’azione indesiderata. Un documento rivelatore, da questo punto di vista, è An Ontology of Dark Patterns, che fornisce strumenti utili a riconoscere dark pattern, dar loro un nome preciso e idealmente a poterli misurare, così da effettuare reclami dove possibile e magari riuscire, a colpi di sanzioni, a limitarli. Nonostante il DSA sancisca a livello concettuale il divieto dei dark pattern, le autorità o i cittadini che volessero effettuare reclami dovrebbero poter misurare la difficoltà dell’interfaccia e rendere obiettivo il giudizio. Questa è la parte più difficile: da un lato non puoi distinguere un dark pattern dal cattivo design; dall’altro, le piattaforme più grandi (definite dalla UE “gatekeeper”) sono diventate tali anche per la cura maniacale nei confronti del design delle loro interfacce, ottimizzando il percorso per loro più profittevole e disincentivando tutti gli altri. Qui sta la difficoltà: non si può giudicare un dark pattern solo dal principio, bisogna invece misurare l’esperienza. In pratica, i pattern si vedono quando: rifiutare richiede più passaggi di accettare (asimmetria di percorso); il “no” è meno evidente del “sì” (asimmetria visiva: posizione, dimensione, contrasto); l’utente viene interrotto finché non cede (nagging); ci sono oneri informativi inutili prima di arrivare alla scelta (ostruzione); esistono impostazioni preselezionate o categorie opache (sneaking). Per questo le standardizzazioni di piattaforma come ATT sono preziose: trasformano il consenso in un gesto coerente nel tempo, riducendo la superficie di manipolazione creativa e permettendo sia agli utenti di imparare rapidamente dove e come decidere, sia ai regolatori/ricercatori di misurare con metriche stabili (passaggi, tempi, posizionamenti). È lo stesso vantaggio che abbiamo quando il sistema operativo gestisce i permessi di fotocamera o microfono: l’utente riconosce il messaggio proveniente dal sistema operativo, sa come revocare il consenso e chi prova a barare salta subito all’occhio. Infine, il nodo culturale: consenso informato e scelta informata richiedono una certa educazione dell’utente. Il regolatore spesso la dà per scontata mentre, al contrario, i team tecnici delle piattaforme investono nel scovare le vulnerabilità degli utenti, sfruttando posizionamento, ritardi, colori, tempi, percorsi. Per questo l’uniformità del punto in cui bisogna effettuare la decisione (uno strato di sistema, uguale per tutti) dovrebbe essere favorita: abbassa la complessità per gli utenti e rende l’enforcement verificabile. Oggi, però, la regolazione resta quasi sempre a livello alto (principi, divieti) e raramente scende a specifiche vincolanti sulla user interface. Il risultato è che l’onere di provare la manipolazione ricade su autorità e cittadini, caso per caso; mentre chi progetta interfacce approfitta della grande varietà di soluzioni “creative”. ATT mostra che spostare la scelta verso il basso, all’interno del sistema, abilita gli utenti a esprimere le loro volontà e a vederle rispettate. IL LIMITATO INTERVENTO DEL GARANTE Immaginiamo che l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ponga all’autorità che si occupa di protezione dei dati una domanda di questo tipo: “ATT è necessario per adempire al GDPR?”. Quest’ultimo probabilmente risponderebbe negativamente, perché in punta di diritto non lo è. Forse è un peccato, perché se la domanda invece fosse: “ATT è una soluzione migliore per catturare il consenso rispetto ai banner sviluppati da terze parti?”, la risposta sarebbe molto probabilmente differente. Al di là degli scenari teorici, che mostrano però come basti cambiare il punto di vista per cambiare anche il risultato, l’impressione è che AGCM abbia la possibilità di rimuovere ATT e che il garante della Privacy non abbia strumenti per intervenire. La situazione non sembra quindi rosea per ATT in attesa della decisione del 16 dicembre, visto che in Francia l’Autorità competente ha già inflitto a Apple 150 milioni di euro, ritenendo sproporzionato il sistema rispetto all’obiettivo dichiarato e penalizzante per editori più piccoli (Apple ha invece nuovamente difeso ATT come una scelta a favore degli utenti). Ed è qui che la notizia si intreccia con i dark pattern: per alleggerire le restrizioni di ATT, l’industria pubblicitaria spinge perché siano le singole app e non il sistema a mostrare i propri moduli di consenso. Ma quando scompare il “freno di piattaforma”, gli stessi moduli spesso deviano la scelta. ANTITRUST CONTRO PRIVACY EPIC (Electronic Privacy Information Center) ha messo in guardia proprio su questo punto: con la scusa della concorrenza si rischiano di abbassare le barriere al tracciamento, limitando le tutele. Le minacce per la sicurezza relative alle periferiche e di cui abbiamo parlato, per esempio, non sono sempre state bloccate. Le tutele sono cresciute gradualmente. Da questo punto di vista, il caso di Apple fa riflettere su due aspetti. Il primo è che se i diritti non sono riconosciuti a norma di legge, non sono realmente ottenuti. Per esempio: una VPN potrà darci un vantaggio, un sistema operativo potrà darci una funzione come l’ATT, una corporation come WhatsApp potrà avvisarci di essere soggetti ad attacchi da parte di attori statali, ma questi sono da viversi come “regali temporanei”. Ci vengono fatti perché la percezione di sicurezza degli utenti conta di più della loro effettiva inattaccabilità. Chissà cosa succederebbe se l’antitrust sancisse che gli sviluppatori di terze parti possono avere la libertà di accedere anche alle periferiche del sistema, senza subire i vincoli del sistema operativo. Sarebbe naturalmente un disastro, ma quantomeno solleverebbe pressioni, perplessità, critiche. Invece, relegare questa scelta a una lotta tra corporation rischia di non rendere giustizia alle vittime di tutto questo: gli utenti. Grande assente nelle carte è infatti una domanda: che cosa vogliono le persone? Come detto, al netto delle dispute tra piattaforme e ad-tech, ATT piace agli utenti iOS e una larga maggioranza di utenti Android ha detto di volere “qualcosa di simile” sui propri telefoni. Un maxi-sondaggio svolto da Android Authority con oltre 35 mila voti (per quanto privo di valore statistico) ha concluso che “la stragrande maggioranza vuole anche su Android una funzione anti-tracking come quella di Apple”. Ma questo in fondo già lo sapevamo, ognuno di noi,  quando messo davvero di fronte a una scelta chiara, tende a dire di no al tracciamento. Usare l’antitrust per rimuovere ATT non darebbe più libertà agli sviluppatori, ma solo più libertà d’azione ai dark pattern. 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Enshittification: il progressivo degrado delle piattaforme digitali
Immagine in evidenza: rielaborazione della copertina di Enshittification di Cory Doctorow Da alcuni anni conosciamo il cosiddetto “capitalismo della sorveglianza”: un modello economico basato sull’estrazione, controllo e vendita dei dati personali raccolti sulle piattaforme tecnologiche. Lo ha teorizzato Shoshana Zuboff nel 2019 in un libro necessario per comprendere come Meta, Amazon, Google, Apple e gli altri colossi tech abbiano costruito un potere senza precedenti, capace di influenzare non solo il mercato e i comportamenti degli utenti, ma anche, tramite il lobbying, le azioni dei decisori pubblici di tutto il mondo. L’idea che queste grandi piattaforme abbiano sviluppato una sorta di potere sulle persone tramite la sorveglianza commerciale, com’è stata teorizzata da Zuboff, è però un mito che è il momento di sfatare. Così almeno la pensa Cory Doctorow, giornalista e scrittore canadese che negli ultimi anni ha pubblicato due libri particolarmente illuminanti sul tema.  In “Come distruggere il capitalismo della sorveglianza”, uscito nel 2024 ed edito da Mimesis, Doctorow spiega come molti critici abbiano ceduto a quella che il professore del College of Liberal Arts and Human Science Lee Vinsel ha definito “criti-hype”: l’abitudine di criticare le affermazioni degli avversari senza prima verificarne la veridicità, contribuendo così involontariamente a confermare la loro stessa narrazione. In questo caso, in soldoni, il mito da contestare è proprio quello di poter “controllare” le persone per vendergli pubblicità.  “Penso che l’ipotesi del capitalismo della sorveglianza sia profondamente sbagliata, perché rigetta il fatto che le aziende ci controllino attraverso il monopolio, e non attraverso la mente”, spiega Doctorow a Guerre di Rete. Il giornalista fa l’esempio di uno dei più famosi CEO delle Big Tech, Mark Zuckerberg: “A maggio, Zuckerberg ha rivelato agli investitori che intende recuperare le decine di miliardi che sta spendendo nell’AI usandola per creare pubblicità in grado di aggirare le nostre capacità critiche, e quindi convincere chiunque ad acquistare qualsiasi cosa. Una sorta di controllo mentale basato sull’AI e affittato agli inserzionisti”.  Effettivamente, viste le perdite che caratterizzano il settore dell’intelligenza artificiale – e nel caso di Meta visto anche il fallimento di quel progetto chiamato metaverso, ormai così lontano da non essere più ricordato da nessuno – è notevole che Zuckerberg sia ancora in grado di ispirare fiducia negli investitori. E di vendergli l’idea di essere un mago che, con cappello in testa e bacchetta magica in mano, è in grado di ipnotizzarci tutti. “Né Rasputin [il mistico russo, cui erano attribuito poteri persuasivi, ndr] né il progetto MK-Ultra [un progetto della CIA per manipolare gli stati mentali negli interrogatori, ndr] hanno mai veramente perfezionato il potere mentale, erano dei bugiardi che mentivano a sé stessi o agli altri. O entrambe le cose”, dice Doctorow. “D’altronde, ogni venditore di tecnologia pubblicitaria che incontri un dirigente pubblicitario sfonda una porta aperta: gli inserzionisti vogliono disperatamente credere che tu possa controllare la mente delle persone”.  IL CARO VECCHIO MONOPOLIO Alla radice delle azioni predatorie delle grandi piattaforme, però, non ci sarebbe il controllo mentale, bensì le pratiche monopolistiche, combinate con la riduzione della qualità dei servizi per i miliardi di utenti che li usano. Quest’ultimo è il concetto di enshittification, coniato dallo stesso Doctorow e che dà il nome al suo saggio appena uscito negli Stati Uniti. Un processo che vede le piattaforme digitali, che inizialmente offrono un servizio di ottimo livello, peggiorare gradualmente per diventare, alla fine, una schifezza (la traduzione di shit è escremento, per usare un eufemismo). “All’inizio la piattaforma è vantaggiosa per i suoi utenti finali, ma allo stesso tempo trova il modo di vincolarli”, spiega il giornalista facendo l’esempio di Google, anche se il processo di cui parla si riferisce a quasi tutte le grandi piattaforme. Il motore di ricerca ha inizialmente ridotto al minimo la pubblicità e investito in ingegneria per offrire risultati di altissima qualità. Poi ha iniziato a “comprarsi la strada verso il predominio” –sostiene Doctorow – grazie ad accordi che hanno imposto la sua casella di ricerca in ogni servizio o prodotto possibile. “In questo modo, a prescindere dal browser, dal sistema operativo o dall’operatore telefonico utilizzato, le persone finivano per avere sempre Google come impostazione predefinita”. Una strategia con cui, secondo Doctorow, l’azienda di Mountain View ha acquisito qua e là società di grandi dimensioni per assicurarsi che nessuno avesse un motore di ricerca che non fosse il suo. Per Doctorow è la fase uno: offrire vantaggi agli utenti, ma legandoli in modo quasi invisibile al proprio ecosistema. Un’idea di quale sia il passaggio successivo l’abbiamo avuta assistendo proprio a ciò che è successo, non troppo tempo fa, al motore di ricerca stesso: “Le cose peggiorano perché la piattaforma comincia a sfruttare gli utenti finali per attrarre e arricchire i clienti aziendali, che per Google sono inserzionisti ed editori web. Una porzione sempre maggiore di una pagina dei risultati del motore di ricerca è dedicata agli annunci, contrassegnati con etichette sempre più sottili, piccole e grigie. Così Google utilizza i suo i dati di sorveglianza commerciale per indirizzare gli annunci”, spiega Doctorow.  Nel momento in cui anche i clienti aziendali rimangono intrappolati nella piattaforma, come prima lo erano stati gli utenti, la loro dipendenza da Google è talmente elevata che abbandonarla diventa un rischio esistenziale. “Si parla molto del potere monopolistico di Google, che deriva dalla sua posizione dominante come venditore. Penso però che sia più correttamente un monopsonio”. Monopoli e monopsoni “In senso stretto e tecnico, un monopolio è un mercato con un unico venditore e un monopsonio è un mercato con un unico acquirente”, spiega nel suo libro Doctorow. “Ma nel linguaggio colloquiale dell’economia e dell’antitrust, monopolista e monopsonista si riferiscono ad aziende con potere di mercato, principalmente il potere di fissare i prezzi. Formalmente, i monopolisti di oggi sono in realtà oligopolisti e i nostri monopsonisti sono oligopsonisti (cioè membri di un cartello che condividono il potere di mercato)”. E ancora scrive: “Le piattaforme aspirano sia al monopolio che al monopsonio. Dopo tutto, le piattaforme sono ”mercati bilaterali” che fungono da intermediari tra acquirenti e venditori. Inoltre, la teoria antitrust basata sul benessere dei consumatori è molto più tollerante nei confronti dei comportamenti monopsonistici, in cui i costi vengono ridotti sfruttando lavoratori e fornitori, rispetto ai comportamenti monopolistici, in cui i prezzi vengono aumentati. In linea di massima, quando le aziende utilizzano il loro potere di mercato per abbassare i prezzi, possono farlo senza temere ritorsioni normative. Pertanto, le piattaforme preferiscono spremere i propri clienti commerciali e aumentano i prezzi solo quando sono diventate davvero troppo grandi per essere perseguite”. Così facendo, l’evoluzione del motore di ricerca si è bloccata e il servizio ha poi iniziato a peggiorare, sostiene l’autore. “A un certo punto, nel 2019, più del 90% delle persone usava Google per cercare tutto. Nessun utente poteva più diventare un nuovo utente dell’azienda e quindi non avevano più un modo facile per crescere. Di conseguenza hanno ridotto la precisione delle risposte, costringendo gli utenti a cercare due o più volte prima di ottenerne una decente, raddoppiando il numero di query e di annunci”. A rendere nota questa decisione aziendale è stata, lo scorso anno, la pubblicazione di alcuni documenti interni durante un processo in cui Google era imputata. Sui banchi di un tribunale della Virginia una giudice ha stabilito che l’azienda creata da Larry Page e Sergey Brin ha abusato di alcune parti della sua tecnologia pubblicitaria per dominare il mercato degli annunci, una delle sue principali fonti di guadagno (nel 2024, più di 30 miliardi di dollari a livello mondiale). “E così arriviamo al Google incasinato di oggi, dove ogni query restituisce un cumulo di spazzatura di intelligenza artificiale, cinque risultati a pagamento taggati con la parola ‘ad’ (pubblicità) in un carattere minuscolo e grigio su sfondo bianco. Che a loro volta sono link di spam che rimandano ad altra spazzatura SEO”, aggiunge Doctorow facendo riferimento a quei contenuti creati a misura di motore di ricerca e privi in realtà di qualunque valore informativo. Eppure, nonostante tutte queste criticità, continuiamo a usare un motore di ricerca del genere perché siamo intrappolati nei suoi meccanismi. Il quadro non è dei migliori. “Una montagna di shit”, le cui radici  – afferma lo studioso – vanno cercate nella distruzione di quei meccanismi di disciplina che una volta esistevano nel capitalismo. Ma quali sarebbero questi lacci che tenevano a bada le grandi aziende? La concorrenza di mercato – ormai eliminata dalle politiche che negli ultimi 40 anni hanno favorito i monopoli; una regolamentazione efficace – mentre oggi ci ritroviamo con leggi e norme inadeguate o dannose, come ad esempio la restrizione dei meccanismi di interoperabilità indotta dall’introduzione di leggi sul copyright; e infine il potere dei lavoratori – anche questo in caduta libera a seguito dell’ondata di licenziamenti nel settore tecnologico. La “enshittification“, secondo Doctorow, è un destino che dovevamo veder arrivare, soprattutto perché giunge a valle di scelte politiche precise: “Non sono le scelte di consumo, ma quelle politiche a creare mostri come i CEO delle Big Tech, in grado di distruggere le nostre vite online perché portatori di pratiche commerciali predatorie, ingannevoli, sleali”. Non basta insomma odiare i giocatori e il gioco, bisogna anche ricordare che degli arbitri disonesti hanno truccato la partita, convincendo i governi di tutto il mondo ad abbracciare specifiche politiche. Quando si parla di tecnologia e delle sue implicazioni a breve, medio e lungo periodo è difficile abbracciare una visione possibilista e positiva. Un po’ come succede per le lotte per la giustizia sociale e per il clima: il muro che ci si ritrova davanti sembra invalicabile. Una grossa difficoltà che, secondo Doctorow, è data dalla presenza di monopoli e monopsoni.  Ma la reazione alle attuali crisi politiche globali mostra che un cambiamento è possibile. “Negli ultimi anni c’è stata un’azione di regolamentazione della tecnologia superiore a quella dei 40 anni precedenti”, spiega Doctorow. Non solo: la seconda elezione di Donald Trump si starebbe rivelando una benedizione sotto mentite spoglie, sia per il clima sia per il digitale. “Ha acceso un fuoco sotto i leader di altri Paesi ex alleati, stimolando grandi e ambiziosi programmi per sfuggire al monopolio statunitense. Pensiamo ai dazi sui pannelli solari cinesi imposti da Trump nella prima amministrazione, per esempio. Una misura che ha spinto i produttori di Pechino a inondare i paesi del Sud del mondo con i loro pannelli economici, a tal punto che intere regioni si sono convertite all’energia solare”, afferma Doctorow, che considera questa strada percorribile anche per ottenere una tecnologia più libera. PER NON VEDERE TUTTO NERO Sfuggire alle Big Tech americane non dovrebbe significare semplicemente  rifugiarsi in un servizio alternativo (mail, cloud, social media, ecc.), anche perché il processo non è così semplice. “Non si copia e incolla la vita delle persone: le email, i file, i documenti custoditi nei cloud di Microsoft, Apple o Google. Nessun ministero, azienda o individuo lo farà”. Motivo per cui, secondo Doctorow, Eurostack è una possibile alternativa, ma che ha ancora tanta strada da fare. Eurostack è un’iniziativa europea nata recentemente in risposta all’esigenza di costruire una sovranità digitale del Vecchio continente, indipendente dalle aziende tecnologiche straniere (specialmente USA). Coinvolge attivisti digitali, comunità open source, istituzioni europee e alcuni politici. “L’Ue potrebbe ordinare alle grandi aziende tech statunitensi di creare strumenti di esportazione, così che gli europei possano trasferire facilmente i propri dati in Eurostack, ma possiamo già immaginare come andrà a finire. Quando l’Ue ha approvato il Digital Markets Act, Apple ha minacciato di smettere di vendere iPhone in Europa, e ha presentato 18 ricorsi legali”, ricorda Doctorow.  Se la risposta di un’azienda statunitense all’introduzione di una direttiva europea è questa, la soluzione allora non può essere che radicale. “L’unica via possibile è abrogare l’articolo 6 della direttiva sul diritto d’autore: l’Ue dovrebbe rendere legale il reverse engineering di siti web e app statunitensi in modo che gli europei possano estrarre i propri dati e trasferirli in Eurostack. Un modello aperto, sovrano, rispettoso della privacy, dei diritti dei lavoratori e dei consumatori”. 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Rosette hi-tech, AI e server nazionali: chi lavora per preservare lingue in via d’estinzione
Immagine in evidenza da Wikimedia “ll dialetto di Milano? Direi che è un misto di italiano e inglese”. La battuta sintetizza bene l’onnipresenza del caricaturale vernacolo meneghino, versione anni Duemila. Alberto lavora nel dipartimento comunicazione di una società fintech. Trasferito dal sud Italia in Lombardia, diverse esperienze all’estero alle spalle, racconta a cena che in tre anni non gli è mai capitato di sentire una conversazione in milanese. Non ne conosce vocaboli e cadenza se non nelle imitazioni di qualche comico.  In Meridione il dialetto è parlato comunemente accanto all’italiano: persino gli immigrati lo imparano facilmente, per necessità. Nel capoluogo lombardo la realtà è diversa. Ascoltare la lingua di Carlo Porta è raro: probabilmente la perdita è stata favorita dall’arrivo di abitanti provenienti da ogni parte d’Italia, dalla vocazione commerciale della città e dal fatto che parlare solo italiano era sintomo di avvenuta scalata sociale.  Non è una domanda peregrina, dunque, chiedersi quanto a lungo resisterà senza parlanti. Diventerà una lingua morta, da filologi, un po’ come il latino? 7MILA LINGUE, QUASI LA METÀ A RISCHIO Le premesse sembrano esserci. Questo esempio così vicino al nostro vissuto quotidiano è però la spia di una questione più ampia. Il problema non riguarda solo i dialetti. In totale sono infatti oltre settemila, stima lo Undp (il programma delle Nazioni unite per lo sviluppo), le lingue parlate nel globo, alcune da poche centinaia di individui. Il 44% sarebbe in pericolo di estinzione.  Con la globalizzazione, il problema di preservare la biodiversità linguistica – portatrice non solo di cultura, ma di un modo di vedere il mondo –  ha cominciato a porsi con maggiore insistenza. Non mancano iniziative di tutela locali, come corsi serali per appassionati e nostalgici, ma con tutta probabilità si tratta di palliativi.  Un supporto fino a poco tempo fa impensabile può arrivare, però, per linguisti e antropologi dalla tecnologia. Probabilmente non è la panacea di tutti i mali. Ma, come vedremo, può aiutare.  IL ROSETTA PROJECT Tra i primi programmi digitali al mondo per la tutela delle lingue in via di estinzione c’è il Rosetta project, che da oltre due decenni raccoglie specialisti e parlanti nativi allo scopo di costruire un database pubblico e liberamente accessibile di tutte le lingue umane. Il Rosetta project fa capo a un ente molto particolare: la Long Now foundation (Lnf, tra i membri fondatori c’è il musicista Brian Eno). La Lnf parte da un presupposto: è necessario pensare seriamente al futuro remoto, per non farsi trovare impreparati dallo scorrere del tempo.  Il ragionamento è tutt’altro che banale. “Si  prevede che dal cinquanta al novanta per cento delle lingue parlate spariranno nel prossimo secolo”, spiegano gli organizzatori sul sito, “molte con poca o nessuna documentazione”. Come preservarle?  Lo sguardo torna all’Antico Egitto: così è nato il Rosetta Disk, un disco di nichel del diametro di tre pollici su cui sono incise microscopicamente quattordicimila pagine che traducono lo stesso testo in oltre mille lingue. Il modello è la stele di Rosetta, che due secoli fa consentì di interpretare i geroglifici, di cui si era persa la conoscenza. Una lezione che gli studiosi non hanno dimenticato.  Il principio è più o meno lo stesso delle vecchie microfiches universitarie: per visualizzare il contenuto basta una lente di ingrandimento. Non si tratta, insomma, di una sequenza di 0 e 1, quindi non è necessario un programma di decodifica. Il rischio –  in Silicon Valley lo sanno bene –  sarebbe che il software vada perso nel giro di qualche decennio per via di un cambiamento tecnologico; o (e sarebbe anche peggio) che qualche società privata che ne detiene i diritti decida di mettere tutto sotto chiave, come peraltro avviene per molte applicazioni con la politica del cosiddetto “vendor lock in” (Guerre di Rete ne ha parlato in questo pezzo). Qui, invece, la faccenda è semplice: basta ingrandire la superficie di cinquecento volte con una lente e il gioco è fatto.   Il prezioso supporto è acquistabile per qualche centinaio di dollari, ed è stato spedito anche nello spazio con la sonda spaziale Rosetta dell’Agenzia spaziale europea (nonostante l’omonimia, non si tratta dello stesso progetto). Il disco è collocato in una sfera dove resta a contatto con l’aria, ma che serve a proteggerlo da graffi e abrasioni. Con una manutenzione minima, recitano le note di spiegazione, “può facilmente durare ed essere letto per centinaia di anni”. Resiste, ovviamente, anche alla smagnetizzazione (sarebbe basato su test condotti al Los Alamos National Laboratory, lo stesso del progetto Manhattan di Oppenheimer dove fu concepita la bomba atomica).  UNA SCELTA DIFFICILE  Porsi in una prospettiva di lungo periodo pone interessanti domande. Che tipo di informazioni conservare per un futuro nell’ipotesi – speriamo remota – che tutto il nostro sapere, sempre più digitalizzato, vada perso? Meglio preservare la letteratura, le tecniche ingegneristiche, o le cure per le malattie? Un criterio è evidentemente necessario.  La scelta della Long now foundation è stata quella di lasciare ai posteri una chiave di interpretazione utile a tradurre tutto ciò che è destinato a sopravvivere. Ma il progetto comprende anche una sezione digitale, cresciuta nel corso degli anni fino a raggiungere oltre centomila pagine di documenti testuali e registrazioni in oltre 2.500 lingue. I contenuti, si legge sul sito, sono disponibili a chiunque per il download e il riutilizzo secondo i principi dell’open access; anche il pubblico può contribuire alla raccolta inviando materiale di vario tipo. Fondamentale per raccapezzarsi è il ruolo dei metadati (data, luogo, formato e altri elementi dei dati in questione) – ci torneremo più avanti. IL PROGETTO FRANCESE PANGLOSS Anche in Europa ci sono progetti di tutela del patrimonio linguistico in piena attività. Per esempio in Francia – non dimentichiamo che la stele di Rosetta (conservata al British Musem di Londra) fu rinvenuta  nell’ambito delle spedizioni napoleoniche – esiste il progetto Pangloss, che si propone di realizzare un archivio aperto di tutte le lingue in pericolo o poco parlate e contiene documenti sonori di idiomi rari o poco studiati, raccolti grazie al lavoro di linguisti professionisti su una piattaforma moderna e funzionale battezzata Cocoon.  Attualmente la collezione comprende un corpus di 258 tra lingue e dialetti di 46 paesi, per un totale di più di 1200 ore d’ascolto. I documenti presentati contengono per lo più discorsi spontanei, registrati sul campo. Circa la metà sono trascritti e annotati. C’è anche un po’ di Italia: il dialetto slavo molisano (parlato nei tre villaggi di San Felice del Molise, Acquaviva Collecroce e Montemitro, in provincia di Campobasso, a 35 chilometri dal mare Adriatico) e il Valoc, un dialetto valtellinese lombardo. Pangloss è open, sia in modalità “base” sia in quella “pro”. La politica è di apertura totale: per consultare il sito web non è necessario accettare specifiche condizioni d’uso né identificarsi. Non si utilizzano cookie di profilazione, come orgogliosamente dichiarato.  “Il progetto Pangloss è nato negli anni ‘90 e da allora si è evoluto considerevolmente”, dice a Guerre di Rete Severine Guillaume, che ne è la responsabile. “Si tratta di una collezione orale, il che significa che raccogliamo contenuti video e audio che possono anche essere accompagnati da annotazioni: trascrizioni, traduzioni, glosse. Ogni risorsa depositata dev’essere fornita di metadati: titolo, lingua studiata, nome di chi la carica, persone che hanno contribuito alla creazione, data della registrazione, descrizione del contenuto”.  COME ANALIZZARE I DATI: L’IMPIEGO DELL’AI L’intelligenza artificiale ha cominciato a farsi strada anche tra questi archivi digitali. “Abbiamo condotto degli esperimenti sui nostri dati con l’obiettivo di aiutare i ricercatori ad arricchirli”, conferma Guillaume. “Sono stati diversi i test di  trascrizione automatica, e due di loro l’hanno già impiegata: per ogni minuto di audio si possono risparmiare fino a quaranta minuti di lavoro, lasciando agli studiosi il tempo di dedicarsi a compiti più importanti. Al momento, insomma, direi che stiamo sperimentando”.  Non è detto che funzioni in ogni situazione, ma “la risposta iniziale è affermativa quando la trascrizione riguarda un solo parlante”, prosegue Guillaume. Il problema sta “nella cosiddetta diarization, che consiste nel riconoscere chi sta parlando in un dato momento, separare le voci, e attribuire ogni segmento audio al partecipante corretto”. Le prospettive, tutto sommato, sembrano incoraggianti. “Abbiamo cominciato a cercare somiglianze tra due idiomi o famiglie linguistiche: ciò potrebbe rivelare correlazioni che ci sono sfuggite”, afferma la dirigente. Siamo, per capirci, nella direzione della grammatica universale teorizzata da Noam Chomsky, e immaginata da Voltaire nel suo Candido (il dottor Pangloss, ispirandosi a Leibniz, si poneva lo scopo di scovare gli elementi comuni a tutte le lingue del mondo).  COME CONSERVARE I DATI: IL RUOLO DELLE INFRASTRUTTURE PUBBLICHE Il problema di preservare il corpus di conoscenze è stato affrontato? “Sì”, risponde Guillaume. “La piattaforma Cocoon, su cui è basata la collezione Pangloss, impiega l’infrastruttura nazionale francese per assicurare la longevità dei dati. Per esempio, tutte le informazioni sono conservate sui server dell’infrastruttura di ricerca Huma-Num, dedicata ad arti, studi umanistici e scienze sociali, finanziata e implementata dal ministero dell’Istruzione superiore e della Ricerca. Vengono poi mandate al Cines, il centro informatico nazionale per l’insegnamento superiore, che ne assicura l’archiviazione per almeno quindici anni. Infine, i dati sono trasferiti agli archivi nazionali francesi. Insomma, di norma tutto è pensato per durare per l’eternità”.  Altro progetto dalla connotazione fortemente digitale è Ethnologue. Nato in seno alla SIL (Summer Institute of Linguistics, una ong di ispirazione cristiano-evangelica con sede a Dallas) copre circa settemila lingue, offrendo anche informazioni sul numero di parlanti, mappe, storia, demografia e altri fattori sociolinguistici. Il progetto, nato nel 1951, coinvolge quattromila persone, e nasce dall’idea di diffondere le Scritture. Negli anni si è strutturato in maniera importante: la piattaforma è ricca di strumenti, e molti contenuti sono liberamente fruibili. Sebbene la classificazione fornita dal sito (per esempio la distinzione tra lingua e dialetto) sia stata messa in discussione, resta un punto di riferimento importante.  I progetti italiani  Non manca qualche spunto italiano. Come, per esempio, Alpilink. Si tratta di un progetto collaborativo per la documentazione, analisi e promozione dei dialetti e delle lingue minoritarie germaniche, romanze e slave dell’arco alpino nazionale. Dietro le quinte ci sono le università di Verona, Trento, Bolzano, Torino e Valle d’Aosta. A maggio 2025 erano stati raccolti 47.699 file audio, che si aggiungono ad altri 65.415 file collezionati nel precedente progetto Vinko. Le frasi pronunciate dai parlanti locali con varie inflessioni possono essere trovate e ascoltate grazie a una mappa interattiva, ma esiste anche un corpus per specialisti che propone gli stessi documenti  con funzioni di ricerca avanzate. Il crowdsourcing (cioè la raccolta di contenuti) si è conclusa solo qualche mese fa, a fine giugno. La difficoltà per gli anziani di utilizzare la tecnologia digitale è stata aggirata coinvolgendo gli studenti del triennio delle superiori.  Altro progetto interessante è Devulgare. In questo caso mancano gli strumenti più potenti che sono propri dell’università; ma l’idea di due studenti, Niccolò e Guglielmo, è riuscita ugualmente a concretizzarsi in un’associazione di promozione sociale e in un’audioteca che raccoglie campioni vocali dal Trentino alla Calabria. Anche in questo caso, chiunque può partecipare inviando le proprie registrazioni. Dietro le quinte, c’è una squadra di giovani volontari – con cui peraltro è possibile collaborare – interessati alla conservazione del patrimonio linguistico nazionale. Un progetto nato dal basso ma molto interessante, soprattutto perché dimostra la capacità di sfruttare strumenti informatici a disposizione di tutti in modo creativo: Devulgare si basa, infatti, sulla piattaforma Wix, simile a WordPress e che consente di creare siti senza la necessità di essere maestri del codice. Una vivace pagina Instagram con 10.300 follower – non pochi, trattandosi di linguistica –  contribuisce alla disseminazione dei contenuti.  RICOSTRUIRE LA VOCE CON LA AI  Raccogliere campioni audio ha anche un’altra utilità: sulla base delle informazioni raccolte e digitalizzate oggi, sarà possibile domani, grazie all’intelligenza artificiale, ascoltare le lingue scomparse. L’idea viene da una ricerca applicata alla medicina, che attraverso un campione di soli otto secondi, registrato su un vecchio VHS, ha permesso di ricostruire con l’AI la voce di una persona che l’aveva persa.  È accaduto in Inghilterra, e recuperare il materiale non è stato una passeggiata: le uniche prove della voce di una donna affetta da Sla risalivano agli anni Novanta ed erano conservate su una vecchia videocassetta. Nascere molti anni prima dell’avvento degli smartphone ovviamente non ha aiutato. A centrare l’obiettivo sono stati i ricercatori dell’università di Sheffield. Oggi la donna può parlare, ovviamente con delle limitazioni: deve fare ricorso a un puntatore oculare per comporre parole e frasi. Ma la voce sintetizzata è molto simile a quella che aveva una volta. E questo apre prospettive insperate per i filologi.  Come spesso accade, il marketing ha naso per le innovazioni dotate di potenziale. E così, oggi c’è chi pensa di sfruttare l’inflessione dialettale per conquistare la fiducia dei consumatori. È quello che pensano i due ricercatori Andre Martin (Università di Notre Dame, Usa) e Khalia Jenkins (American University, Washington), che nella presentazione del loro studio citano addirittura Nelson Mandela: “Se parli a un uomo in una lingua che capisce, raggiungerai la sua testa. Ma se gli parli nella sua lingua, raggiungerai il suo cuore”.  “I sondaggi dell’industria hanno fotografato il sentiment sempre più negativo verso l’AI”, scrivono gli studiosi, che lavorano in due business school. “Immergendosi a fondo nel potenziale dei dialetti personalizzati, creati con l’AI al fine di aumentare la percezione di calore, competenza e autenticità da parte dell’utente, l’articolo sottolinea [come in questo modo si possa] rafforzare la fiducia, la soddisfazione e la lealtà nei confronti dei sistemi di intelligenza artificiale”. Insomma, addestrando gli agenti virtuali a parlare con una cadenza amica si può vendere di più. C’è sempre un risvolto business, e qui siamo decisamente lontani dagli intenti di conservazione della biodiversità linguistica. Ma anche questo fa parte del gioco. L'articolo Rosette hi-tech, AI e server nazionali: chi lavora per preservare lingue in via d’estinzione proviene da Guerre di Rete.
La Cina contro Nvidia
Il 17 settembre il governo cinese ha ordinato alle principali aziende tecnologiche del paese di interrompere l’acquisto e l’uso di chip Nvidia, inclusi l’RTX Pro 6000D e l’H20, due chip progettati appositamente per aggirare le restrizioni imposte dal governo americano all’export di hardware USA avanzato in Cina. Nei giorni immediatamente precedenti, la Cina aveva avviato un’indagine antitrust in merito all’acquisizione di Mellanox: un’azienda israelo-americana, specializzata nell’interconnessione di rete ad alte prestazioni, comprata da Nvidia nel 2020 per oltre 7 miliardi di dollari. L’indagine antitrust segna l’ingresso in una nuova fase della “guerra dei chip”, che ora si estende non solo ai singoli processori ma a tutti i componenti delle infrastrutture di calcolo critiche. La posizione cinese ha ovviamente fatto molto rumore, con il titolo di Nvidia che ha immediatamente subito una flessione e il CEO dell’azienda – Jensen Huang – che si è detto estremamente deluso (“disappointed”) dalla decisione di Pechino. Dal canto suo, come spesso accade, subito dopo aver acceso il fuoco il governo cinese ha indossato i panni del pompiere. Il giorno successivo all’annuncio del veto, il ministero degli Esteri ha assicurato che, in ogni caso, la Cina “intende mantenere il dialogo con tutte le parti”, e non intende “danneggiare le catene globali del valore della micro-elettronica”. Frasi che paiono messaggi in codice inviati ai centri di potere di Washington, in passato accusati proprio di provocare danni sistemici. UN ASSET GEOPOLITICO Da quando le sue GPU sono finite al centro dell’ecosistema hardware legato all’addestramento dell’AI, i ricavi e la capitalizzazione di Nvidia sono aumentati esponenzialmente. I dati dell’ultimo trimestre, comunicati a fine agosto, parlano di 46,7 miliardi di ricavi, per un utile ad azione pari a 1,05 dollari e un valore della singola azione che è decuplicato negli ultimi 5 anni.  In parallelo a questa crescita se ne è però verificata un’altra, di cui i vertici dell’azienda di Santa Clara avrebbero fatto volentieri a meno: un boom di esposizione (geo)politica. Data la centralità di Nvidia nell’ecosistema AI – e data la centralità di questo ecosistema nelle politiche di potenza degli Stati contemporanei – negli ultimi anni Nvidia è diventata uno dei più contesi asset tecnologici del pianeta.  È dal 2022 che l’azienda si trova sotto l’attenzione costante dei doganieri di Washington e che deve fare i conti con la necessità di trovare escamotage (tecnici o politici) ai loro divieti. In particolare durante gli anni di Biden, la Casa Bianca ha inasprito le restrizioni all’export di semiconduttori avanzati verso la Cina, vietando la vendita dei chip più potenti e imponendo licenze anche per le versioni “ridotte” progettate apposta per il mercato cinese. Per Nvidia questo ha significato rivedere continuamente il proprio catalogo: dal chip A100 si è passati a modelli “castrati” come l’A800 e l’H800, fino ad arrivare all’H20, le cui prestazioni rientrano nei limiti imposti dagli Stati Uniti ed è stato pensato appositamente per aggirare le restrizioni. La parabola dell’H20 è particolarmente emblematica. Nato come compromesso per mantenere aperto il mercato cinese pur rispettando i vincoli imposti da Washington, il chip è stato accusato dai media di Pechino di contenere un “kill-switch”, ovvero un meccanismo occulto di disattivazione remota che avrebbe reso vulnerabili le infrastrutture cinesi in caso di conflitto.  Nvidia ha smentito con forza queste insinuazioni, chiarendo che nessuna delle sue GPU include funzioni di spegnimento a distanza o backdoor segrete. Ma il sospetto ha contribuito a erodere ulteriormente la fiducia, offrendo alle autorità cinesi un nuovo appiglio per giustificare le sue misure restrittive. Il caso dell’H20 mostra come, in un’industria estremamente complessa dal punto di vista tecnico (e dunque, per natura, opaco), la percezione conti quanto la realtà: persino in assenza di prove concrete, il timore di vulnerabilità latenti è sufficiente per spostare interi equilibri di mercato. Il dubbio diventa un’arma politica. Nel frattempo, la politica americana ha oscillato tra rigore e pragmatismo. Dopo la stagione Biden, fortemente orientata al contenimento tecnologico di Pechino, l’amministrazione Trump ha riaperto degli spiragli negoziali, concedendo le licenze che hanno effettivamente consentito la vendita proprio di chip come l’H20. Secondo alcune ricostruzioni giornalistiche, il cambio di orientamento sarebbe stato il risultato di un efficace e paziente lavoro di “diplomazia” di Jensen Huang, che ha saputo costruire una relazione personale privilegiata con il presidente degli Stati Uniti.  La realtà – come vi avevamo raccontato anche qui – è che, nonostante gli embarghi e i compromessi, i chip Nvidia hanno continuato a circolare in Cina persino all’apice dei veti bideniani, in alcuni casi attraverso intermediari o triangolazioni con Paesi terzi, aggirando così i divieti formali e confermando quanto sia difficile bloccare del tutto il flusso tecnologico in un mondo di catene di fornitura globalizzate. PERCHÉ IL VETO CINESE E PERCHÉ PROPRIO ORA? Lungi dall’essere puramente ritorsiva, la decisione cinese di colpire Nvidia va letta come parte di un disegno più ampio. Apparentemente drastica, essa risponde a una logica “strutturalista” che mira a riequilibrare il rapporto di dipendenza con i fornitori stranieri. Pechino non intende più accontentarsi di avere accesso a versioni “attenuate” dei chip americani: l’obiettivo adesso è la conquista di un’autonomia tecnologica che abbracci l’intera filiera del calcolo, dai semiconduttori all’infrastruttura, riducendo al minimo i punti di vulnerabilità. È del resto lì che si gioca la sfida della “sovranità tecnologica”, che la leadership cinese ha ormai posto tra le proprie priorità politiche. Ma perché tutto questo avviene proprio ora?  Un indizio si trova nello “strano” tempismo con cui – due giorni dopo l’annuncio del blocco a Nvidia – Huawei ha svelato una roadmap di sviluppo di chip che copre i prossimi tre anni e che, se realizzata nei tempi e nelle modalità annunciate, potrebbe ridisegnare l’intero equilibrio competitivo del settore. La punta di diamante della strategia dell’azienda di Shenzhen è lo sviluppo della linea di chip Ascend, una serie lanciata nel primo trimestre del 2025 con l’Ascend 910 C e che, attraverso una progressione esponenziale dei nodi e delle interconnessioni, punta a quadruplicare la capacità di calcolo da qui al 2027. Sebbene, a oggi, le GPU Nvidia siano ancora considerate superiori per prestazioni e affidabilità, l’uscita allo scoperto di Huawei riflette la consapevolezza, da parte cinese, che la capacità manifatturiera domestica di chip costituisce sempre meno un collo di bottiglia sensibile alla volubilità di Washington. La roadmap di Huawei non è solo un piano industriale, ma un atto politico: un manifesto che intende rassicurare gli alleati interni e spaventare i concorrenti esterni. In questo senso, il veto contro Nvidia diventa una leva utile a concentrare investimenti pubblici e privati sul fronte della produzione nazionale, rafforzando l’idea che la “dipendenza dall’Occidente” non sia più insuperabile.  In altre parole: il veto cinese a Nvidia e l’annuncio di Huawei non vanno letti come episodi isolati, ma come due mosse coordinate di una identica strategia. Un messaggio al mondo – e in particolare, ovviamente, all’inquilino della Casa Bianca – che la Cina non intende più limitarsi a comprare e inseguire, ma vuole innovare e guidare. L'articolo La Cina contro Nvidia proviene da Guerre di Rete.
Che cos’è il Golden Dome, lo scudo spaziale di Donald Trump
Immagine in evidenza da White House.gov, licenza Creative Commons Raggi laser sparati dai satelliti. E altri satelliti “sentinella” a sorvegliare il cielo statunitense, oltre a batterie antimissile in allerta 24 ore su 24. Il Golden Dome Shield – la “Cupola d’oro” di Donald Trump — sarà una rivoluzione per la Difesa a stelle e strisce. E potrebbe anche sancire l’avvio di una nuova Guerra Fredda, questa volta combattuta in orbita. Il faraonico scudo spaziale del presidente degli Stati Uniti sta però dividendo il Paese, con una battaglia su un budget da 175 miliardi di dollari e con una raffica di critiche sull’efficacia militare di questo arsenale che “proteggerà la nostra patria”, come ha detto Trump a metà maggio dagli hangar della Al Udeid Air Base, nel deserto del Qatar. Per poi aggiungere, prima dallo Studio Ovale e poi al vertice Nato dell’Aja, che “avremo il miglior sistema mai costruito”. La Cupola d’oro intercetterà i missili “anche se vengono sparati dall’altra parte del mondo” e persino dallo spazio. Trump mira a realizzare oggi il sogno delle Star Wars di Ronald Reagan negli anni ’80: un “ombrello spaziale” che protegga gli Stati Uniti dalla grande paura di un attacco missilistico sferrato dai suoi nemici: Iran, Corea del Nord, Cina o Russia. Oltre al programma del suo predecessore, la Cupola d’oro ha un’altra fonte di ispirazione: l’Iron Dome, lo scudo di Israele che – nonostante i dubbi sollevati sulla sua reale efficacia – ha intercettato razzi e missili dall’Iran e dalle milizie proxy filo-iraniane. Secondo Jeffrey Lewis, esperto di Difesa del californiano Middlebury Institute, la differenza tra quest’ultimo e la proposta di Trump sarebbe pari a quella tra “un kayak (l’Iron Dome) e una corazzata (Il Golden Dome)”. L’ALLARME DEL PENTAGONO Da anni, il Pentagono sostiene che gli Stati Uniti non abbiano tenuto il passo con gli ultimi missili sviluppati da Cina e Russia, che tradotto vuol dire: sono necessarie nuove contromisure. I generali statunitensi hanno rivelato che Mosca e Pechino possiedono centinaia di missili balistici intercontinentali, oltre a migliaia di missili da crociera in grado di colpire la terraferma da New York a Los Angeles. I sistemi di difesa missilistica a terra statunitensi, in Alaska e in California, hanno fallito quasi la metà dei test. All’inizio dell’anno, un alto ufficiale ha avvertito che – in caso di conflitto, magari legato a un’invasione di Taiwan – i missili cinesi potrebbero colpire la base aerea di Edwards, in California. In un’analisi dettagliata sulla rivista Defense News, gli esperti Chuck de Caro e John Warden hanno spiegato perché la Cupola d’oro non è sufficiente per fermare un attacco cinese contro gli Stati Uniti: “Oggi gli Stati Uniti potrebbero trovarsi in una situazione simile a quella della Corea nell’ottobre 1950: sebbene il presidente Donald Trump stia compiendo sforzi intensi per rafforzare la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, con iniziative che vanno dall’F-47 e dal B-21 Raider alla promessa di un sistema di difesa aerospaziale denominato Golden Dome, questi sistemi non sono ancora operativi”. Comunque, proseguono gli analisti, “la Cina ha costantemente aumentato il proprio potere offensivo sotto la guida del presidente Xi Jinping”. GOLDEN DOME: COME FUNZIONA Il Golden Dome Shield, sfruttando una costellazione di centinaia di satelliti e grazie a sensori e intercettori sofisticati, potrebbe neutralizzare i missili nemici in arrivo anche subito dopo il loro decollo e prima che raggiungano gli States. Un esempio? Proviamo a immaginare che un giorno la Cina decida di lanciare un missile contro gli Stati Uniti. Grazie al Golden Dome, i satelliti americani rileverebbero le sue scie luminose. E, mentre il missile sarebbe ancora nella sua fase di “spinta”, uno degli intercettori spaziali sparerebbe un laser, o una munizione alternativa, per far esplodere il missile ed eliminare la minaccia. Il nuovo sistema di difesa si estenderà su terra, mare e spazio. Servirà per neutralizzare un’ampia gamma di minacce aeree “di nuova generazione”, tra cui missili da crociera, balistici e ipersonici. Questi ultimi, in particolare, sono i più difficili da abbattere per la loro manovrabilità ad alta velocità.  Il Golden Dome dovrebbe fermare i missili in tutte e quattro le fasi di un potenziale attacco: rilevamento e distruzione prima di un’offensiva, intercettazione precoce, arresto a metà volo e arresto durante la discesa verso un obiettivo. E lo farà grazie a una flotta di satelliti di sorveglianza e a una rete separata di satelliti d’attacco. La “Cupola d’oro” fermerà anche i sistemi di fractional orbital bombardment (Fob, Sistema di Bombardamento Orbitale Frazionale) in grado sparare testate dallo spazio. IN CAMPO I GIGANTI DELLE ARMI Fiutando un’opportunità di business senza precedenti, i giganti dell’industria militare americana – L3Harris Technologies, Lockheed Martin e RTX Corp – si sono già schierati in prima fila. L3Harris ha investito 150 milioni di dollari nella costruzione di un nuovo stabilimento a Fort Wayne, nell’Indiana, dove produce satelliti per sensori spaziali che fanno parte degli sforzi del Pentagono per rilevare e tracciare le armi ipersoniche. Al 40esimo Space Symposium di Colorado Springs, Lockheed Martin ha invece diffuso un video promozionale che mostra una Cupola d’oro che scherma le strade deserte e notturne delle città americane. Per 25 miliardi di dollari, la Booz Allen Hamilton, società di consulenza tecnologica della Virginia, sostiene di poter lanciare in orbita duemila satelliti per rilevare ed eliminare i missili nemici. Mentre dall’US Space Force, in qualità di vicecapo delle operazioni, il generale Michael A. Guetlein, a cui Trump ha affidato la regia del mega progetto, ha assicurato che il Golden Dome sarà operativo entro la fine del suo mandato nel 2030. Il finanziamento di quest’opera, però, è una sfida enorme. Per ora sul piatto ci sono 25 miliardi di dollari: un settimo della spesa totale ipotizzata. Il governo stima infatti che la Cupola d’oro possa costare fino a 175 miliardi di dollari, una cifra che il Congressional Budget Office punta a far rientrare nel più corposo bilancio da 542 miliardi che gli Stati Uniti intendono spendere in progetti spaziali nei prossimi vent’anni. Un’iniziativa cara come l’oro, dunque. Anche perché Trump, sembra ossessionato dal prezioso metallo (il suo ufficio alla Casa Bianca è stato del resto letteralmente dorato: dalle tende al telecomando della Tv). UOMINI D’ORO E CONFLITTO DI INTERESSE Mentre i colossi della difesa e dello spazio fiutano l’affare, nel resto degli Stati Uniti divampano gli scontri su costi e appalti. Perché a costruire la Cupola d’oro si sono candidati uomini d’oro: in pole position c’è il miliardario Elon Musk, proprietario di SpaceX e della costellazione Starlink, ex braccio destro di Trump prima che la loro liaison finisse, con il magnate che ha lasciato la Casa Bianca sbattendo la porta.  Un voltafaccia che il presidente non ha digerito: sebbene SpaceX rimanga il frontrunner del settore, l’amministrazione USA è a caccia di nuovi partner spaziali da imbarcare nel progetto, a cominciare dal Project Kuiper di Amazon di Jeff Bezos, insieme alle startup Stoke Space e Rocket Lab, mentre la Northrop Grumman sta alla finestra consapevole di poter essere il vincitore nel lungo periodo. Siccome il Golden Dome sarà un concentrato tecnologico, in campo ci sono anche Palantir, società di analisi dei big data del tycoon conservatore Peter Thiel, e Anduril di Palmer Luckey, azienda specializzata in sistemi autonomi avanzati, dall’intelligenza artificiale alla robotica. Intanto un gruppo di 42 membri del partito Democratico ha scritto all’ispettore generale del Pentagono per aprire un’indagine, dopo che si è saputo che SpaceX potrebbe aggiudicarsi un maxi contratto per la costruzione del Golden Dome. Con in testa la senatrice Elizabeth Warren, i democratici chiedono trasparenza ed esprimono timori per possibili “conflitti di interesse” tra l’amministrazione Trump, Musk e le altre aziende americane. LO SCETTICISMO DEI MILITARI Passando dal fronte economico a quello militare, più di un esperto è scettico sull’efficacia del Golden Dome Shield: malgrado Trump continui a dire che frenerà le minacce al 97%, sul progetto aleggia più di un interrogativo. Anzitutto, come saranno gli intercettori? È ancora da decidere. Un dirigente della stessa Lockheed non ha nascosto, parlando con il sito Defense One, che intercettare un missile nella sua fase di spinta è “terribilmente difficile” e che si potrebbe metterlo fuori combattimento solo “nelle fasi relativamente lente dopo il suo lancio”.  Per Thomas Withington, esperto di electronic e cyber warfare del Royal United Services Institute, i raggi laser sono preferibili ai missili, pesano meno e riducono il costo di lancio dell’intercettore. Ma ammette che questa tecnologia non è mai stata testata nello spazio. Un gruppo indipendente dell’American Physical Society ha calcolato che servirebbero 16mila intercettori per mettere fuori uso 10 missili intercontinentali simili all’ipersonico Hwasong-18 nordcoreano. Per questo motivo, su The Spectator, Fabian Hoffmann, ricercatore di tecnologia missilistica del Centre for European Policy Analysis, ha definito il Golden Dome un “progetto mangiasoldi”. UNA NUOVA GUERRA FREDDA Negli Stati Uniti non mancano i perplessi. L’ufficio indipendente del bilancio del Congresso ha avvertito che il progetto potrebbe costare fino a 524 miliardi di dollari e richiedere 20 anni per essere realizzato. Ma i dubbi riguardano anche la validità e utilità dello scudo spaziale. Scienziati come Laura Grego, intervistata dal MIT Technology Review, definiscono il progetto, da sempre,  “tecnicamente irraggiungibile, economicamente insostenibile e strategicamente poco saggio”. E poi ci sono le conseguenze geopolitiche, che potrebbero minare gli equilibri delle superpotenze. La Cina ha già espresso la sua preoccupazione su questo progetto. Il Cremlino è pronto a parlare con Washington di armi tattiche e nucleari. Nel prossimo decennio, il pericolo è che si inneschi una spirale incontrollata, con una corsa agli armamenti anti-satellite per bucare il Golden Dome. Come all’inizio di una nuova Guerra Fredda, è possibile che Trump stia cercando di costringere i suoi nemici a investire in tecnologie costose al fine di indebolirne l’economia, così come le “guerre stellari” di Reagan avevano contribuito a mandare in bancarotta l’Unione Sovietica. Ma c’è anche il rovescio della medaglia: se la prossima amministrazione statunitense decidesse di cancellare il Golden Dome, a quel punto a finire in un buco nero sarebbero decine di miliardi di dollari statunitensi. L'articolo Che cos’è il Golden Dome, lo scudo spaziale di Donald Trump proviene da Guerre di Rete.
L’Europa abbandona Big Tech?
Per conformarsi a un ordine esecutivo del presidente americano Donald Trump, nei mesi scorsi Microsoft ha sospeso l’account email di Karim Khan, procuratore della Corte penale internazionale che stava investigando su Israele per crimini di guerra. Per anni, scrive il New York Times, Microsoft ha fornito servizi email al tribunale con sede a L’Aja, riconosciuto da 125 paesi tra cui l’Italia (ma non da Stati Uniti, Israele, Cina, Russia e altri).  All’improvviso, il colosso di Redmond ha staccato la spina al magistrato per via dell’ordine esecutivo firmato da Trump che impedisce alle aziende americane di fornirgli servizi: secondo il successore di Biden, le azioni della Corte contro Netanyahu “costituiscono una inusuale e straordinaria minaccia alla sicurezza nazionale e alla politica estera degli Stati Uniti”.  Così, di punto in bianco, il procuratore non ha più potuto comunicare con i colleghi.  C’è stata una mediazione, ricostruisce il New York Times: dopo una riunione tra Redmond e i vertici della Corte si è deciso che la Cpi avrebbe potuto continuare a utilizzare i servizi di Microsoft. Anche perché l’azienda, secondo la ricostruzione del quotidiano, sarebbe stata fondamentale per la cybersecurity dell’organizzazione, finita nel mirino degli hacker russi dopo l’inchiesta per i crimini di guerra in Ucraina.  Il discorso, però, non vale per Khan, il cui account resta bloccato: cittadini e aziende statunitensi rischiano conseguenze serie – multe e persino l’arresto – se forniscono “supporto finanziario, materiale e tecnologico” a chi viene identificato come pericoloso per la sicurezza nazionale (spesso sulla base di ragionamenti dal sapore politico). Insomma, in una paradossale inversione di ruoli, il procuratore è diventato un criminale, trattato alla stregua di un nemico pubblico.  Le conseguenze non si sono fatte attendere. Tre dipendenti con contezza della situazione hanno rivelato al quotidiano newyorchese che alcuni membri dello staff della Corte si sarebbero rivolti all’azienda svizzera Protonmail per poter continuare a lavorare in sicurezza. Il giornale non chiarisce il perché della decisione, né se tra essi vi sia lo stesso Khan. Una conferma al riguardo arriva dall’agenzia Associated Press. Protonmail, contattata da Guerre di Rete, non ha commentato, spiegando di non rivelare informazioni personali sui clienti per questioni di privacy e di sicurezza. UNO CHOC PER LE CANCELLERIE Quello che conta è che la situazione ha scioccato le cancellerie europee: quasi tutte – e  il quasi è un mero ossequio al dubbio giornalistico – impiegano software, servizi e infrastrutture statunitensi per le proprie normali attività. Ma nel clima pesante di questi mesi sono saltate le classiche e paludate convenzioni della diplomazia: Trump negozia nelle cancellerie come farebbe con i colleghi palazzinari, senza andare troppo per il sottile. Non è possibile, non lo è per nessuno, prevedere la prossima mossa. Il punto è che correre ai ripari non è semplice: sia perché  uscire dalla “gabbia” creata dalle aziende, il cosiddetto “vendor lock in”, richiede tempo, formazione, strategia; sia perché esistono contratti in essere e la questione può diventare spinosa dal punto di vista giuridico. Ma anche perché – ed è una questione centrale – al momento le alternative, quando esistono, sono poco visibili. La situazione è seria. Per dare un’idea, l’Irish Council for Civil Liberties ha rivelato che il parlamento europeo ha un contratto di fornitura di servizi cloud con Amazon. L’accordo imporrebbe di utilizzare solo modelli linguistici di grandi dimensioni “ospitati” su Amazon Web Services. Somo, ong olandese che si occupa da cinquant’anni di monitorare l’attività delle multinazionali, ha rivelato in un recente rapporto gli accordi capestro che le società di intelligenza artificiale hanno dovuto sottoscrivere con Big Tech per sostenere i costi di sviluppo dell’AI (comprese società europee come Mistral e Aleph Alpha).  E tutte le aziende di riferimento, da Microsoft ad Amazon a Oracle a Google a Intel, sono statunitensi e possono quindi potenzialmente ricadere tra i destinatari degli ordini esecutivi di Trump.  LA DIFESA DI MICROSOFT Per riguadagnare fiducia e mercato – i clienti governativi spostano cifre importanti anche per una Big Tech – nei mesi scorsi Microsoft ha cercato di rassicurare i propri utenti europei.  Il presidente Brad Smith a fine aprile ha schierato l’azienda a fianco di Bruxelles: “Oggi ci impegniamo solennemente”, ha detto in una conferenza del think tank Atlantic Council. “Se in futuro un qualsiasi governo, in qualsiasi parte del mondo, dovesse emettere un ordine che intenda obbligare Microsoft a sospendere o cessare le operazioni e l’assistenza per l’Europa, faremo ricorso al tribunale. Percorreremo ogni via legale per opporci a un simile ordine”. Non solo: se le cause fossero, alla fine, perse, “i nostri partner europei avrebbero accesso al nostro codice sorgente di cui conserviamo una copia in un repository sicuro in Svizzera”, paese neutrale per antonomasia.  CHI STA GIÀ LASCIANDO LE BIG TECH Ma c’è qualcuno che, nonostante tutto, sta già lasciando le Big Tech? Due città danesi (Copenhagen e Aarhus) starebbero abbandonando Microsoft per il timore di finire tra le braccia di un monopolista. Il parlamento olandese, dal canto proprio, nelle scorse settimane ha approvato alcune mozioni per spingere il governo a non fare più affidamento sulla tecnologia cloud statunitense. Il timore è il cosiddetto vendor lock in, cioè la politica commerciale alla base della creazione degli ecosistemi in stile Apple: tutto griffato, tutto dello stesso brand, o dentro o fuori. Chi usa un certo elaboratore di testi avrà, così, la strada spianata se sceglierà di impiegare anche il foglio di calcolo e l’applicazione di videoconferenze della stessa società; andrà, invece, incontro a parecchie (e strategicamente posizionate) difficoltà nel caso dovesse decidere di avvalersi dei servizi di un’azienda concorrente. Ricordate i tempi in cui cambiare operatore di cellulare richiedeva di accollarsi il rischio di restare settimane senza telefono? Funziona esattamente allo stesso modo: uscire non è facile, perché l’obiettivo è proprio complicare la vita a chi decide di farlo.  Ma in questo caso la posta in gioco è molto più alta, perché non parliamo di singoli, per quanto importanti come i giudici di una corte internazionale, ma di intere amministrazioni. Lo US CLOUD Act firmato da Trump nel corso del primo mandato consente alle forze dell’ordine di imporre alle società tech di fornire accesso ai dati custoditi nella “nuvola” per investigare crimini particolarmente gravi: difficile mettersi al riparo.  Dall’altra parte, a un esame anche basilare di cybersecurity molti politici sarebbero bocciati: un’indagine della Corte dei conti olandese ha scoperto che molti ministri del governo hanno usato cloud di Google, Microsoft, Amazon senza essere consapevoli dei rischi potenziali. E non c’è ragione per pensare che altrove vada meglio. Italia compresa.    Qualcosa sta cambiando? Guerre di rete ha chiesto ad alcuni soggetti direttamente coinvolti se la copertura mediatica degli ultimi anni abbia alzato il livello di consapevolezza del pubblico e delle aziende sul tema.  “Negli ultimi dieci anni aziende e consumatori hanno cominciato a cambiare”, afferma al telefono Alexander Sander, policy consultant della Free software foundation. “Il problema è sbarazzarsi del vendor lock in, che significa essere ostaggio dell’ecosistema del fornitore: oggi è difficile passare da un prodotto all’altro, tutto funziona bene e facilmente solo se si utilizzano servizi di una sola azienda. Lo si è visto chiaramente nel periodo pandemico, quando la gente cercava disperatamente servizi di videoconferenza e tendeva a scegliere quelli dell’azienda con cui già lavorava: oggi vale anche per l’intelligenza artificiale, che devi pagare anche se non ti interessa, non ne hai bisogno o semplicemente preferisci usare quella di un’altra società”. Questo, prosegue l’esperto, “significa che alla fine costruisci una relazione con un solo marchio: migrare è complicato e costoso. Non solo: molti dei servizi commercializzati in Europa, lo vediamo, non rispettano le norme continentali dal punto di vista della privacy e della cybersecurity: il Patriot Act non rispecchia le nostre normative, e quindi – nel caso di un’azienda Usa che vende servizi in Europa – i servizi segreti possono avere accesso ai file”.  Sander suggerisce di usare software open source, “il cui codice sorgente è pubblico e in cui si possono anche cercare eventuali backdoor: se le individui puoi sistemarle tu stesso, o incaricare qualcun altro di fare le modifiche del caso. Con il software delle grandi multinazionali del tech, invece, devi scrivere all’azienda, che a propria volta ti risponderà se può o meno mettere mano al codice”. E, come visto, oltre alle decisioni di business conta anche il clima politico.  C’è un altro tema, rimarca Sander: “Un conto è negoziare con un paese come l’Italia o la Spagna, un conto è quando al tavolo si siede una piccola azienda”. In questo caso le tutele sono rasenti lo zero.  C’è un’azienda che fa peggio delle altre, chiediamo, in termini di rispetto dei diritti digitali? “In realtà, credo sia più un problema di modello di business. Dobbiamo crearci delle alternative. E penso che Stati e governi dovrebbero avere un ruolo nello stimolare i mercati in questo senso. L’Europa si è mossa bene con il Digital markets act: qui non ci mancano tanto le idee, quanto l’implementazione. E poi bisogna educare cittadini e consumatori a comprendere come funzionano certi modelli di business”.  Qualche passo in avanti si comincia a vedere: in Francia c’è il progetto La Suite numerique, che offre una serie completa di servizi digitali sotto la bandiera del governo di Parigi. In Germania c’è Open Desk di ZenDis, il Centro per la sovranità digitale di Berlino fondato nel 2022 come società a responsabilità limitata di proprietà del governo federale. Anche qui, c’è tutto il necessario per una pubblica amministrazione. La strada, però, è ancora lunga. LA VERSIONE DI PROTONMAIL E poi ci sono i privati. Protonmail (lo abbiamo già incontrato poco sopra) è un servizio email sicuro nato nel 2014 da scienziati che si sono incontrati al Cern di Ginevra. “Lo abbiamo creato per fornire una risposta alla crescente domanda di sicurezza e privacy nella posta elettronica, e anche perché ci siamo resi conto che internet non stava più lavorando nell’interesse degli utenti”, dice a Guerre di Rete Anant Vijay Singh, head of product della società elvetica. “L’email non rappresenta solo uno strumento di comunicazione importante, ma anche la nostra identità online. Noi assicuriamo all’utente di avere il pieno controllo sui  propri dati: li criptiamo, per cui nemmeno noi possiamo analizzare, monetizzare o accedere a informazioni personali. È così che siamo diventati attraenti per chi è stanco di società che sfruttano i dati personali per farci soldi, spesso senza il consenso degli utenti”.  Singh afferma che l’azienda si basa solo sugli abbonamenti: il servizio di base è gratuito, gli upgrade a pagamento. “Il maggiore azionista è la Proton Foundation, che è una non profit, il che significa che quando pensiamo a un prodotto mettiamo davanti le persone, e non i soldi. E questo in definitiva porta a un’esperienza utente migliore”.  Il manager conferma che qualcosa si muove. “Negli anni scorsi abbiamo visto che la gente ha cominciato a rifiutare il capitalismo della sorveglianza e a cercare alternative più sicure e rispettose della privacy: nel 2023 abbiamo superato i 100 milioni di account, e questa tendenza ha accelerato negli ultimi mesi su entrambe le sponde dell’Atlantico”.  Proton, assicura Singh, opera sotto la legge svizzera, “che sulla privacy è tra le più stringenti al mondo. Ma le normative cambiano, e se non bastassero c’è sempre la matematica [cioè la crittografia, ndr] a difendere gli utenti”. “Inoltre tutti i nostri prodotti sono open source e sottoposti a regolari verifiche sulla sicurezza da terze parti indipendenti”. I dati sono conservati in Svizzera, ma alcune porzioni, prosegue, anche in Germania e Norvegia. Singh non nasconde che la Rete ha tradito le aspettative dei creatori. “Per anni i giganti del web l’hanno plasmata sulla base dei propri interessi e la natura centralizzata di molti servizi ha esacerbato i problemi: grandi società controllano enormi quantità di dati. Anche la sorveglianza governativa ha giocato un ruolo nell’erodere la fiducia: le rivelazioni sui programmi di sorveglianza di massa hanno mostrato quanto sia grande il potere degli esecutivi nel monitorare le attività online”. Ma la gente “è sempre più consapevole che alternative esistono, e vuole acquistare ‘europeo’, perché conscia della eccessiva dipendenza da servizi americani”.    L’alternativa elvetica a WeTransfer C’è un altro servizio, sempre basato in Svizzera, che sta spopolando da qualche tempo e tra i clienti vanta molti grossi nomi corporate. Si chiama Swiss Transfer ed è l’alternativa al notissimo WeTransfer, nato olandese e recentemente comprato dall’italiana Bending Spoons. Infomaniak è la società madre. “Abbiamo creato Swiss Transfer innanzitutto per testare su larga scala la nostra infrastruttura basata su OpenStack Swift”, dice a Guerre di Rete Thomas Jacobsen, a capo della comunicazione e del marketing. “Offrire un servizio free e utile al pubblico è  un modo per dimostrare l’affidabilità e la robustezza delle nostre soluzioni. Ma, al di là dell’aspetto tecnico, è anche un modo per aumentare la consapevolezza di cosa sia Infomaniak senza fare affidamento sui tradizionali canali promozionali, come Facebook, Instagram, Google e Linkedin, che richiedono grossi budget per acquisire visibilità. Abbiamo preferito creare un tool che parla da sé, rispetta la privacy, non traccia e offre un valore quotidiano all’utente. E funziona. Milioni di persone usano Swiss Transfer, spesso senza sapere che dietro ci siamo noi. Direi, anzi, che è ironico: in alcuni paesi il brand è più conosciuto della società che ci sta dietro. Ma lo consideriamo un successo”.  Le informazioni, spiega Jacobsen, sono custodite in data center proprietari in Svizzera, protetti dalla legge elvetica. “E dal momento che lavoriamo con l’Europa, ci conformiamo al Gdpr”.  Il modello di business è particolare. “Infomaniak è una società svizzera indipendente, posseduta dai propri stessi dipendenti: oggi gli azionisti sono circa trenta. Questa autonomia assicura indipendenza, e il rispetto dei nostri valori: protezione della privacy, sostenibilità ambientale e supporto per l’economia locale. Tutto è prodotto e sviluppato in Svizzera: i nostri team sono qui, sia quello di sviluppo che il customer care, il che ci dà il controllo totale su tutta la catena del valore, senza intermediari. Significa trasparenza, massima reattività e alta confidenzialità dei dati del cliente, che non verranno mai usati per altri fini se non quello di fornire i servizi richiesti”.   Chiediamo: ma siete davvero sicuri di essere in grado di sostituire i prodotti delle grandi multinazionali? “Sì. È sbagliato pensare che solo le Big Tech possano soddisfare le esigenze di grandi organizzazioni: lavoriamo già con oltre tremila media company tra cui radio e televisioni, ma anche banche centrali, università, governi locali e anche infrastrutture critiche”. Jacobsen sa che uno dei colli di bottiglia è la paura delle difficoltà nella migrazione, e parla di supporto personalizzato 24/7 . “La nostra filosofia è semplice: ci guadagnamo da vivere solo con i nostri clienti, non con i loro dati. Non li vendiamo e i servizi gratuiti sono interamente finanziati da quelli a pagamento: può sembrare strano, ma paghiamo tutti i nostri stipendi in Svizzera, e nonostante ciò  spesso riusciamo a offrire prezzi più competitivi. E funziona da trent’anni”. I dipendenti sono trecento, in crescita: “Ma siamo per la biodiversità digitale: il mondo ha bisogno di alternative locali dovunque”. Jacobsen va oltre: “I dati sono le materie prime dell’intelligenza artificiale e un asset strategico, ma l’Europa continua a spendere milioni di euro di soldi pubblici in soluzioni proprietarie come quelle di Microsoft, Amazon o Google senza reali benefici locali [sul tema lavora anche la campagna Public money, public code, ndr]. Queste piattaforme portano i profitti in America, creano posti di lavoro lì e aumentano la nostra dipendenza. Ma c’è di più: Big Tech investe un sacco di soldi per portare via i nostri migliori ingegneri e ricercatori, spesso formati con denaro pubblico. Per esempio, Meta ha recentemente assunto tre ricercatori dell’ufficio di Zurigo di OpenAI con offerte che a quanto pare hanno raggiunto i cento milioni di dollari. Nel frattempo, quando si presenta una necessità tecnologica negli Stati Uniti, il governo federale non esita ad aprire linee di credito eccezionali per supportare i player locali con contratti da miliardi di dollari, come nel caso di Palantir, OpenAI o cloud provider come Oracle. E l’Europa? Che sta facendo? Firma contratti con società straniere, anche se esistono alternative forti vicino a casa: noi in Svizzera, ma anche Scaleway  e OvhCloud in Francia, Aruba in Italia o Hetzner in Germania”.  Se davvero conquisteremo la biodiversità digitale, lo scopriremo nei prossimi anni. Certo, per cambiare rotta, ci vuole coraggio. E, come dice ancora Sanders, tempo. “C’è un movimento verso il software libero più o meno in tutti i paesi. Dieci anni fa era molto più difficile. Oggi governi e amministrazioni stanno cercando di cambiare passo dopo passo per uscire da questo vendor lock in, e non solo per i pc desktop: si stanno rendendo conto che si tratta anche delle infrastrutture, come i server.Il processo  non è immediato, un’amministrazione non dice all’improvviso: voglio passare al software libero. Ma piuttosto, quando si pone la necessità di acquistare un servizio, comincia a considerare le alternative”. Del resto, se ci sono voluti trent’anni per arrivare fin qui, è difficile immaginare che si possa invertire la rotta dall’oggi al domani L'articolo L’Europa abbandona Big Tech? proviene da Guerre di Rete.
Come la Cina ha conquistato l’auto elettrica
Immagine in evidenza di myenergi da Unsplash Negli ultimi anni, l’auto elettrica è diventata uno dei simboli più discussi della transizione ecologica. Spinta o respinta dai governi, sostenuta o affossata dall’industria, osannata o temuta dall’opinione pubblica, la mobilità a batteria è un tema che divide. Da una parte viene raccontata come un passaggio inevitabile verso un futuro libero dai combustibili fossili, dall’altra viene bollata come una tecnologia immatura o addirittura come un cavallo di Troia per interessi cinesi e imposizioni “ecologiste”. Entrambe le narrazioni tendono a semplificare – e a polarizzare – un fenomeno complesso e in evoluzione. Proviamo allora a gettare lo sguardo oltre le trincee dell’ideologia e a offrire una lettura il più “atea” possibile della questione, soprattutto per quanto riguarda le sue implicazioni geopolitiche. Per cominciare, vanno chiarite due cose. La prima è che la diffusione dell’auto elettrica non è uniforme. Da un lato gli electric vehicles (EV) rappresentano ancora una quota trascurabile (il 4%, pari a 58 milioni di veicoli) del parco macchine mondiale. Dall’altro hanno rappresentato circa il 20% delle nuove immatricolazioni nel 2024. Il dato è caratterizzato da forti concentrazioni geografiche, ma è in crescita del 25% rispetto all’anno precedente. Stiamo quindi parlando di un prodotto che, a livello di mercato planetario, si sta muovendo da una nicchia molto piccola a un segmento significativo. Basti pensare che nel 2024 le vendite sono aumentate di 3,5 milioni di unità rispetto al 2023, più di quanto si fosse venduto in tutto il 2020. La Cina domina il mercato, sia dal lato della domanda che dell’offerta, con quasi il 75% del venduto globale (11 milioni di EV). In Europa, invece, si registra ogni anno una leggera crescita delle nuove immatricolazioni (1,8% in più nel 2024), ma questa è altamente dipendente da incentivi statali e dalle strategie industriali nazionali. Nel 2025 si prevede che le vendite europee supereranno i 4 milioni di unità, con una quota di mercato del 25%, ma anche in questo caso si registrano grandi differenze tra paesi, in particolare tra Europa del Nord e del Sud. Negli Stati Uniti il settore è stato finora trainato da Tesla e da sussidi pubblici introdotti da Biden (e appena tagliati da Trump), ma la penetrazione resta limitata al di fuori delle aree urbane. In tutto il 2024 sono state vendute solo 1,6 milioni di auto elettriche, per una quota di mercato del 10% e con un rallentamento della crescita rispetto all’anno precedente. Per quanto riguarda i paesi emergenti, in America Latina e in Africa le vendite di EV sono aumentate nel 2024 rispettivamente del 100% e del 120%. In Brasile il mercato è dominato dalle importazioni cinesi (oltre l’85% nel 2024), mentre negli altri paesi della regione e in Africa le percentuali sono leggermente inferiori ma comunque preponderanti. Questi dati sono utili a inquadrare un fatto: l’impronta dell’investimento nei veicoli elettrici non è uguale in tutte le zone economiche, così come diseguale è lo sviluppo del mercato e dell’industria. In particolare, è evidente come la Cina si trovi in una fase molto più avanzata rispetto al resto del mondo. Questo non si traduce solo in una leadership produttiva o commerciale, ma in un’esposizione più profonda e strutturale al destino della mobilità elettrica.  A differenza di altre economie, dove l’auto elettrica rappresenta ancora una scelta sperimentale, in Cina è ormai una componente sistemica del mercato e della strategia industriale del Paese. Ne derivano, inevitabilmente, una grande forza industriale, ma anche una vulnerabilità più elevata in caso di contraccolpi globali e, proprio per questo motivo, un maggiore impegno (geo)politico da parte dello Stato cinese nello sviluppo e nella difesa del settore. La seconda cosa da chiarire è che, dal punto di vista della produzione, le differenze tra un’auto tradizionale e un’auto elettrica sono così numerose e profonde che è come se si trattasse di due prodotti completamente diversi. Per certi versi si può dire che, più che di un processo di transizione industriale, lo sviluppo della mobilità elettrica andrebbe inquadrato come la nascita di una nuova industria. È importante evidenziare questo punto, poiché è una delle ragioni per cui la transizione elettrica dell’auto sta comportando cambiamenti così profondi delle geografie delle risorse e della geopolitica delle filiere. Il passaggio dall’auto a motore a combustione interna (ICE) al veicolo elettrico non comporta soltanto un cambiamento nelle modalità di alimentazione, ma implica una rivoluzione tecnologica che investe l’intera filiera produttiva. Le competenze richieste per progettare, costruire e mantenere un’auto elettrica – a cominciare dal suo componente più cruciale, la batteria – sono radicalmente diverse rispetto a quelle necessarie per i veicoli tradizionali: servono ingegneri specializzati in elettronica di potenza, software, gestione termica e chimica dei materiali, piuttosto che esperti di meccanica e di fluidodinamica dei motori termici. Questo ha implicazioni politiche nella misura in cui paesi come la Cina investono da quasi due decenni nella formazione di figure professionali e di ricercatori specializzati in questi ambiti, mentre Europa e USA hanno preferito continuare a puntare su competenze più tradizionali, col risultato che oggi le loro industrie non solo faticano a reperire le figure necessarie alla transizione, ma rischiano di dover operare ampi (e socialmente costosi) tagli del personale. Può non sembrarlo, ma anche questo è un tema geopolitico, in quanto ha direttamente a che fare con la resilienza dei corpi sociali dei paesi.  Un tema ancor più spinoso è quello delle materie prime critiche per la produzione di batterie. A causa della transizione energetica (non solo quella dell’automotive), negli ultimi anni litio, cobalto, nichel, grafite e terre rare ( di cui abbiamo appena scritto su Guerredirete.it, ndr) hanno assunto un’importanza strategica simile a quella del petrolio o dell’acciaio. L’approvvigionamento, la raffinazione e la lavorazione di questi materiali sono oggi al centro di una corsa globale, in cui le geografie della potenza economica si stanno rapidamente riorganizzando. Anche in questo caso la Cina si è mossa con grande anticipo. A partire dai primi 2000, Pechino ha investito nello sviluppo di una filiera completa e integrata della mobilità elettrica, dalla proprietà delle miniere all’estero (in Africa, America Latina e Australia), fino alla raffinazione dei minerali, alla produzione di celle per batterie, e infine alla progettazione e vendita di veicoli completi. Aziende cinesi specializzate in batterie per EV, come CATL, e produttori di veicoli elettrici come BYD e NIO non solo dominano il mercato domestico, ma stanno progressivamente espandendo la loro presenza internazionale, soprattutto in Europa. A oggi, la Cina raffina oltre il 60% del litio globale, il 70% del cobalto, e quasi il 90% delle terre rare, numeri che ne fanno un attore insostituibile in tutte le fasi della catena del valore dei componenti decisivi di un’auto elettrica, ovvero quelli elettronici, magnetici e chimici usati all’interno di software, sensori, motori e batterie. Questa concentrazione rappresenta un punto di vulnerabilità per le case automobilistiche non cinesi, che rischiano interruzioni di fornitura critiche. Non è quindi un caso che – già prima del ritorno di Trump alla Casa Bianca – proprio il tema della “terre rare” sia finito al centro delle trattative sul commercio tra Cina e Stati Uniti. Proprio le trattative tra blocchi economici in risposta alla minaccia dei dazi di Trump ci ricordano che, come molti altri settori strategici, negli ultimi anni anche quello dell’automotive ha assistito a un prepotente ritorno degli Stati nella regolazione della vita economica e industriale. L’avvento della mobilità elettrica sta riportando al centro del dibattito concetti come “sovranità tecnologica” e “politica industriale”, costringendo governi e istituzioni a confrontarsi con il fatto che la competizione globale non si gioca più solo sul mercato, ma sulla capacità di presidiare le filiere produttive. Si tratta di una materia in continua evoluzione, complessa e altamente tecnica, che spesso i governi faticano a comprendere appieno. In molti casi, mancano sia le informazioni aggiornate che le competenze per analizzarla con la precisione e la profondità necessaria. La geopolitica della mobilità EV si muove infatti lungo coordinate altamente mobili, in cui innovazione tecnologica, instabilità internazionale e politiche pubbliche interagiscono in modo non lineare. Per questo, la vera posta in gioco non è solo industriale, ma cognitiva e culturale: la capacità di capire per tempo quale traiettoria tecnologica emergerà come dominante (che, retrospettivamente, è la ragione dell’attuale vantaggio cinese). Uno scenario cruciale per il futuro riguarda, per esempio, l’evoluzione delle batterie. Se le tecnologie allo stato solido, oggi in fase avanzata di sviluppo presso aziende come Toyota, QuantumScape e CATL, dovessero arrivare alla maturità industriale nei prossimi 5 anni, si assisterebbe a una vera discontinuità tecnologica: densità energetica superiore, tempi di ricarica più brevi, minore infiammabilità e, soprattutto, una diminuzione della dipendenza da materie prime come litio e cobalto. Questo ridurrebbe l’influenza dei paesi oggi dominanti in queste risorse, ma potrebbe farne emergere altri (tra cui Giappone e Corea del Sud, tra i più avanzati nello sviluppo di batterie allo stato solido), a dimostrazione di quanto la partita dell’EV, e la sua traiettoria evolutiva, sia tutt’altro che chiusa o definita, come invece la raccontano tanto gli entusiasti quanto i detrattori.  L’autore di questo articolo ha pubblicato da poco proprio un libro sul tema automotive: Velocissima). L'articolo Come la Cina ha conquistato l’auto elettrica proviene da Guerre di Rete.
Chi controlla le terre rare controlla il mondo
Immagine in evidenza da Unsplash Quando a fine anni ’80 Deng Xiaoping affermò che “il Medio Oriente ha il petrolio, la Cina le terre rare”, in pochi diedero il giusto peso alla dichiarazione dell’allora leader della Repubblica Popolare cinese. Come invece sempre più spesso accade, il Dragone asiatico dimostrò di avere la capacità di immaginare e mettere in atto strategie di lungo termine: le terre rare, infatti, rappresentano oggi uno dei maggiori motivi di frizione geopolitica nel mondo, a causa dell’elevata richiesta e del loro complesso approvvigionamento, di cui la Cina detiene il monopolio. Praticamente nessun settore industriale ad alta tecnologia può farne a meno, da quello militare – per missili guidati, droni, radar e sottomarini – a quello medico, in cui sono impiegate per risonanze magnetiche, laser chirurgici, protesi intelligenti e molto altro ancora. Non fa eccezione il settore tecnologico e in particolare quello legato allo sviluppo e all’utilizzo dell’intelligenza artificiale. Come spiega Marta Abbà, fisica e giornalista esperta di temi ambientali, le terre rare possiedono qualità magnetiche uniche e sono eccellenti nel condurre elettricità e resistere al calore, e anche per questo risultano essenziali per la fabbricazione di semiconduttori, che forniscono la potenza computazionale che alimenta l’AI, per le unità di elaborazione grafica (GPU), per i circuiti integrati specifici per applicazioni (ASIC) e per i dispositivi logici programmabili (FPGA, un particolare tipo di chip che può essere programmato dopo la produzione per svolgere funzioni diverse).  Sono inoltre cruciali per la produzione di energia sostenibile: disprosio, neodimio, praseodimio e terbio, per esempio, sono essenziali per la produzione dei magneti utilizzati nelle turbine eoliche.  Senza terre rare, quindi, si bloccherebbe non solo lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, ma anche quella transizione energetica che, almeno in teoria, dovrebbe accompagnarne la diffusione rendendola più sostenibile. Insomma, tutte le grandi potenze vogliono le terre rare e tutte ne hanno bisogno, ma pochi le posseggono. TERRE RARE, MINERALI CRITICI E AI Le terre rare (REE) sono un gruppo di 17 elementi chimici con proprietà simili e spesso presenti insieme nei minerali: lantanio, cerio, praseodimio, neodimio, promezio, samario, europio, gadolinio, terbio, disprosio, olmio, erbio, tulio, itterbio, lutezio, ittrio e scandio. Le materie prime critiche, di cui possono far parte anche alcune terre rare, sono invece quei materiali identificati dai vari governi come economicamente e strategicamente essenziali, ma che presentano un alto rischio di approvvigionamento a causa della concentrazione delle fonti e della mancanza di sostituti validi e a prezzi accessibili. Nel 2024 il Consiglio dell’Unione Europea ha adottato il Regolamento europeo sulle materie prime critiche, elencandone 34, di cui 17 definite “strategiche”, il cui controllo o accesso influisce direttamente su obiettivi di sicurezza, sviluppo tecnologico e autonomia industriale. Le terre rare, in realtà, spiega ancora Marta Abbà, non sono rare, ma la loro presenza nel mondo non è omogenea e l’estrazione e la lavorazione risultano molto costose e inquinanti.  Le maggiori riserve sono possedute dalla Cina, in cui ammontano, secondo le stime, a 44 milioni di tonnellate, con una capacità estrattiva che nel 2024 ha toccato la cifra di 270mila tonnellate all’anno. Altri stati che possiedono significative riserve sono il Brasile (21 milioni di tonnellate, attualmente ancora pochissimo sfruttate), l’Australia (5,7 milioni di tonnellate), l’India (6,9 milioni di tonnellate), la Russia (3,8 milioni di tonnellate) e il Vietnam (3,5 milioni di tonnellate).  A questo gruppo di paesi si è aggiunta di recente la Groenlandia, salita alla ribalta delle cronache per i suoi enormi giacimenti di materie prime critiche e per il conseguente interesse mostrato da Stati Uniti, Unione Europea e Cina. Il sito più rilevante, Kvanefjeld, nel sud dell’isola, è considerato uno dei più promettenti a livello globale e, secondo le stime della società che ne detiene la licenza estrattiva, potrebbe contenere fino al 15% delle riserve mondiali conosciute di terre rare. A far gola alle grandi potenze tecnologiche sono in particolare l’alluminio, derivato della bauxite, e il silicio, necessari per la produzione dei wafer (la base di silicio su cui vengono costruiti i microchip) e per l’isolamento dei chip, il niobio, utilizzato nei cavi superconduttori, il germanio, necessario per i cavi in fibra ottica utilizzati per la trasmissione di dati ad alta velocità, cruciale per l’AI, e ancora gallio, tungsteno, neodimio, ittrio, tutti componenti essenziali per l’industria dei microchip.    Per via delle loro applicazioni nell’industria high tech, molti di questi materiali ed elementi sono stati identificati come strategici sia dall’Unione Europea che dagli Stati Uniti e sono per questo oggetto di accordi e trattati bilaterali con i paesi produttori.  Nonostante la presenza di alcune riserve di terre rare in entrambe le regioni, il fabbisogno risulta infatti di gran lunga superiore alla capacità produttiva domestica, obbligando di fatto sia Washington che Bruxelles a importare le materie dall’estero, prima di tutto dalla Cina e in secondo luogo, per quanto riguarda l’Unione Europea, dalla Russia.  Per questo motivo, Dewardric L. McNeal, direttore e analista politico della società di consulenza Longview Global, ha affermato alla CNBC che “gli Stati Uniti devono ora trattare le materie prime critiche non come semplici merci, ma come strumenti di potere geopolitico. Come la Cina già fa”. IL POTERE DEL DRAGONE ASIATICO E LE RISPOSTE USA Dopo settimane di tensioni e accuse reciproche per i dazi imposti dall’amministrazione Trump, il governo di Pechino ha deciso di rallentare l’export di terre rare tra aprile e maggio, come già fatto in precedenza sia nel 2023 che nel 2024, quando alla scrivania dello studio ovale sedeva ancora Joe Biden e il tema caldo di discussione era l’isola di Taiwan. Per farsi un’idea della portata di questa mossa, basti pensare che, come stimato dal Servizio Geologico degli Stati Uniti (USGS), se la Cina imponesse un divieto totale sulle esportazioni dei soli gallio e germanio, minerali utilizzati in alcuni semiconduttori e in altre produzioni high tech, il PIL statunitense potrebbe diminuire di 3,4 miliardi di dollari. Anche per questo, il tono di Washington da inizio giugno è diventato più conciliante e il rapporto tra le due potenze si è andato normalizzando, fino ad arrivare il 28 giugno al raggiungimento di un accordo tra i due paesi. Nonostante i dettagli siano ancora scarsi, il segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Scott Bessent, ha dichiarato che la Cina ha accettato di facilitare l’acquisizione da parte delle aziende americane di magneti, terre rare cinesi e altri materiali fondamentali per l’industria tecnologica.  Quella che Trump ha festeggiato come una sua grande vittoria diplomatica, ha però reso ancor più evidente come le catene di approvvigionamento dei minerali critici siano molto concentrate, fragili e soprattutto troppo esposte all’influenza e al controllo di Pechino. Come abbiamo visto, la Cina è il paese in cui si trovano le maggiori riserve mondiali di terre rare, ma non è solo questo elemento a spostare l’ago della bilancia geopolitica a favore del dragone asiatico. L’influenza della Cina abbraccia infatti anche i paesi “amici”, come la Mongolia e il Myanmar, secondo produttore mondiale di terre rare pesanti (più scarse e più difficili da separare), le cui principali operazioni minerarie sono significativamente partecipate da Pechino, estendendo ulteriormente il controllo effettivo della potenza asiatica. La posizione dominante della Cina è determinata anche dal fatto di possedere il monopolio di fatto della raffinazione, cioè la complessa operazione metallurgica per trasformare la materia prima grezza in materiali utilizzabili. Un processo non solo complesso, ma altamente inquinante e di conseguenza quasi impossibile da eseguire in Europa o negli Stati Uniti, a causa dei più elevati standard di compliance ambientale che ne farebbero schizzare il costo alle stelle.  Il processo di raffinazione richiede infatti un uso estensivo di sostanze chimiche, in particolare acidi forti (come l’acido solforico, nitrico o cloridrico) per separare le terre rare dai minerali a cui sono legate, creando delle scorie tossiche molto difficili da smaltire, se si seguono, appunto, standard elevati di tutela ambientale. Un esempio del devastante impatto ambientale di questo processo è particolarmente visibile nella città di Baotou, nella vasta area industriale della regione cinese della Mongolia Interna, dove il panorama è dominato da un lago artificiale del diametro di circa 9 chilometri, composto interamente da fanghi neri e sostanze chimiche tossiche, risultato degli sversamenti di rifiuti di scarto derivanti dall’estrazione e raffinazione delle terre rare. L’Occidente, in pratica, ha scelto di esternalizzare le negatività ambientali derivanti dall’estrazione di terre rare in Cina e questa, da parte sua, ha accettato di buon grado, dando priorità al potere economico e geopolitico che ne deriva rispetto alla salute dei suoi cittadini e alla tutela del proprio ambiente naturale. La dipendenza delle catene di approvvigionamento occidentali diventa ancor più evidente se si prende come esempio la miniera di Mountain Pass in California, una delle maggiori operazioni statunitensi nel settore delle terre rare. Nonostante produca circa il 15% degli ossidi di terre rare a livello globale, si trova a dover inviare l’intera produzione in Cina per le fasi di separazione e raffinazione.  Per questo motivo, il Pentagono nel 2020 ha assegnato 9,6 milioni di dollari alla società MP Materials per la realizzazione di un impianto di separazione di terre rare leggere a Mountain Pass. Nel 2022, sono stati investiti ulteriori 35 milioni di dollari per un impianto di trattamento di terre rare pesanti. Questi impianti, spiega il Center for Strategic and International Studies, sarebbero i primi del loro genere negli Stati Uniti, integrando completamente la catena di approvvigionamento delle terre rare, dall’estrazione, separazione e lisciviazione (un processo chimico che serve a sciogliere selettivamente i metalli desiderati dal minerale) a Mountain Pass, fino alla raffinazione e produzione di magneti a Fort Worth, in Texas. Tuttavia, anche quando saranno pienamente operativi, questi impianti saranno in grado di produrre solo mille tonnellate di magneti al neodimio-ferro-boro entro la fine del 2025 — meno dell’1% delle 138mila tonnellate prodotte dalla Cina nel 2018. Non sorprende, dunque, che gli Stati Uniti, come vedremo, stiano cercando strade alternative in grado di diversificare maggiormente la propria catena di approvvigionamento di questi materiali. Ne è un esempio l’accordo fortemente voluto dall’amministrazione USA con l’Ucraina che, dopo un tira e molla di diverse settimane, culminato con la furiosa lite di fine febbraio nello studio ovale tra Donald Trump e JD Vance da una parte e Volodymyr Zelensky dall’altra, ha infine visto la luce a inizio maggio. L’accordo, in estrema sintesi, stabilisce che l’assistenza militare americana sarà considerata parte di un fondo di investimento congiunto dei due paesi per l’estrazione di risorse naturali in Ucraina. Gli Stati Uniti si assicurano inoltre il diritto di prelazione sull’estrazione mineraria pur lasciando a Kiev l’ultima parola sulle materie da estrarre e l’identificazione dei siti minerari. L’accordo stabilisce infine che la proprietà del sottosuolo rimarrà all’Ucraina, cosa non scontata date le precedenti richieste da parte di Washington in tal senso. Quello con l’Ucraina è solo uno dei tanti tavoli di trattativa aperti dalle diverse amministrazioni statunitensi con paesi ricchi di materie critiche: dall’Australia al vicino Canada, passando per il Cile, ricchissimo di litio, e poi ancora il Brasile, dove si estrae il 90% del niobio utilizzato per la produzione di condensatori, superconduttori e altri componenti ad alta tecnologia, e il Vietnam, con cui l’allora presidente Joe Biden ha siglato un accordo di collaborazione nel settembre 2023. È evidente come gli Stati Uniti, da diversi anni, stiano mettendo in campo tutte le risorse economiche e diplomatiche a disposizione per potersi assicurare il necessario approvvigionamento di materie critiche e terre rare, senza le quali la Silicon Valley chiuderebbe i battenti in pochi giorni. LA GLOBAL GATEWAY EUROPEA In Europa la situazione è anche peggiore rispetto agli Stati Uniti. Non solo l’Unione Europea importa oltre il 98% delle terre rare raffinate, con la Cina ovviamente nel ruolo di principale fornitore, ma è anche sprovvista di giacimenti importanti. Uno dei pochi siti promettenti è stato individuato nel 2023 a Kiruna, nella Lapponia svedese, e secondo l’azienda mineraria di stato svedese LKAB potrebbe arrivare a soddisfare, una volta a pieno regime, fino al 18% del fabbisogno europeo di terre rare.  C’è però un enorme problema, oltre a quello già descritto dell’impatto ambientale: è difficile pensare che possa entrare in produzione prima di almeno una decina di anni. Troppi, considerato che le battaglie per la supremazia tecnologica e per la transizione energetica si stanno combattendo ora. Un discorso a parte merita la Groenlandia, territorio autonomo posto sotto la Corona danese, ricchissima di materie prime critiche, terre rare e anche uranio, ma dove le leggi attuali sono molto restrittive in termini di estrazione e che, per di più, è entrata nel mirino dell’amministrazione Trump, diventando oggetto di forti frizioni politiche.  L’interesse dell’Unione Europea nei confronti della grande isola artica è sancito dall’accordo firmato nel novembre del 2023 tra le due parti, che dà il via a un nuovo partenariato strategico tra i due soggetti, il cui cuore pulsante è rappresentato dallo sfruttamento congiunto delle materie prime. Anche in questo caso, però, come per il giacimento di Kiruna, si tratta di un progetto a lungo termine che difficilmente potrà vedere la luce e dare risultati concreti in tempi brevi. L’Unione Europea ha quindi deciso di muoversi sulla scia degli Stati Uniti e della “Nuova Via della Seta” cinese, cercando di chiudere accordi bilaterali di investimento e scambio commerciale con diversi paesi ricchi di materie prime critiche. La strategia “Global Gateway” lanciata nel 2021 rappresenta uno dei più grandi piani geopolitici e di investimento dell’Unione, che ha messo sul tavolo oltre 300 miliardi di euro fino al 2027, con l’obiettivo dichiarato, tra gli altri, di diversificare le fonti di approvvigionamento delle materie critiche. La Global Gateway, a cui si è aggiunto nel 2023 il Critical Raw Material Act, che pone obiettivi specifici di approvvigionamento al 2030, ha portato a diversi accordi fondamentali per la sopravvivenza dei piani di transizione digitale ed energetica del continente: Argentina, Cile e Brasile in America Latina; Kazakistan, Indonesia e Mongolia in Asia; Namibia, Zambia, Uganda e Rwanda in Africa sono alcuni dei paesi con cui la Commissione Europea ha già siglato delle partnership strategiche o ha intavolato delle discussioni di alto livello per agevolare degli investimenti comuni nell’estrazione di terre rare, proprio come fatto dagli Stati Uniti con l’Ucraina.   Considerata la volontà dell’Unione Europea di competere nel settore dell’intelligenza artificiale, quantomeno per ciò che riguarda l’espansione dei data center sul territorio, una robusta e diversificata rete di approvvigionamento delle materie prime critiche è fondamentale. Come si legge infatti sul sito della Commissione Europea, “nel corso del 2025, la Commissione proporrà il Cloud and AI Development Act, con l’obiettivo almeno di triplicare la capacità dei data center europei nei prossimi 5-7 anni e di soddisfare appieno il fabbisogno delle imprese e delle pubbliche amministrazioni europee entro il 2035. La legge semplificherà l’implementazione dei data center, individuando siti idonei e snellendo le procedure autorizzative per i progetti che rispettano criteri di sostenibilità e innovazione. Allo stesso tempo, affronterà la crescente domanda energetica promuovendo l’efficienza energetica, l’adozione di tecnologie innovative per il raffreddamento e la gestione dell’energia, e l’integrazione dei data center all’interno del sistema energetico più ampio”. Il piano non solo è ambizioso in termini di obiettivi, ma tiene strettamente legate le due facce della strategia generale europea, ovvero lo sviluppo tecnologico e la transizione verde entro il quale deve essere inquadrato. Impossibile pensare di fare l’uno o l’altra, tantomeno entrambi, senza le materie prime necessarie.  AFRICA, VECCHIA E NUOVA TERRA DI CONQUISTA In questo quadro geopolitico già di per sé complesso, un discorso a parte meritano i paesi del Sud Globale e in particolare quelli africani, che come si è visto sono quelli in cui si trovano le maggiori riserve di materie prime critiche e terre rare.   Il timore, come già raccontato nel reportage dall’AI Summit di Parigi, è che ancora una volta si vada a configurare un modello di estrattivismo colonialista, in cui i paesi più ricchi, dove avviene la produzione di tecnologia, si arricchiranno ancor di più, mentre i paesi più poveri, da dove vengono prelevate le materie prime, subiranno i devastanti impatti sociali e ambientali di queste politiche. Il rapporto “Rare Earth Elements in Africa: Implications for U.S. National and Economic Security”, pubblicato nel 2022 dal Institute for Defense Analyses, una società senza scopo di lucro statunitense, è molto esplicito nel prevedere un aumento dell’influenza del continente africano nel settore e le problematiche che ciò può comportare. “Man mano che le potenze globali si rivolgono ai mercati africani per rafforzare la propria influenza”, si legge nell’executive summary del rapporto, “è probabile che l’estrazione delle terre rare nel continente aumenti. In Africa si contano quasi 100 giacimenti di terre rare, distribuiti in circa la metà dei paesi del continente. Cinque paesi — Mozambico, Angola, Sudafrica, Namibia e Malawi — ospitano da soli la metà di tutti i siti di giacimento di terre rare in Africa. Attualmente, otto paesi africani registrano attività estrattiva di REE, ma a gennaio 2022 solo il Burundi disponeva di una miniera operativa in grado di produrre a livello commerciale. Tuttavia, altri paesi potrebbero raggiungere presto capacità produttive simili”. La parte che più interessa in questo frangente è però il punto in cui i ricercatori sottolineano come “la gestione delle risorse naturali in Africa e gli indicatori di buona governance devono migliorare, se si vuole garantire che i minerali di valore non portino benefici solo alle imprese americane, ma anche ai cittadini africani”. Considerando che la “Academy of international humanitarian law and human rights” dell’Università di Ginevra ha mappato 35 conflitti armati attualmente in corso nell’Africa subsahariana, di cui molti hanno proprio come causa il possesso delle risorse minerarie, sembra difficile prevedere che questa volta la storia prenda una strada diversa da quella già percorsa in passato. ROTTE ALTERNATIVE In virtù delle complessità descritte per l’approvvigionamento delle terre rare e, più in generale, delle materie prime critiche, alcune società stanno sperimentando delle vie alternative per produrle o sostituirle. La società britannica Materials Nexus, per esempio, ha dichiarato a inizio giugno di essere riuscita a sviluppare, grazie alla propria piattaforma di AI, una formula per produrre magneti permanenti senza l’utilizzo di terre rare. La notizia, ripresa dalle maggiori testate online dedicate agli investimenti nel settore minerario, ha subito destato grande interesse, non solo perché aprirebbe una strada completamente nuova per i settori tecnologico ed energetico, ma perché sarebbe uno dei primi casi in cui è l’intelligenza artificiale stessa a trovare una soluzione alternativa per il suo stesso sviluppo. Secondo Marta Abbà, se anche la notizia data da Material Nexus dovesse essere confermata, ci vorrebbero comunque anni prima di arrivare alla messa in pratica di questa formula alternativa. Sempre che – cosa per nulla scontata – la soluzione non solo funzioni davvero, ma si dimostri anche sostenibile a livello economico e a livello ambientale. È più realistico immaginare lo sviluppo di un’industria tecnologicamente avanzata in grado di riciclare dai rifiuti sia le terre rare che gli altri materiali critici, sostiene Abbà. Prodotti e dispositivi dismessi a elevato contenuto tecnologico possono in tal senso diventare delle vere risorse, tanto che l’Unione Europea ha finanziato 47 progetti sperimentali in questa direzione. Tra questi, c’è anche un promettente progetto italiano: Inspiree, presso il sito industriale di Itelyum Regeneration a Ceccano, in provincia di Frosinone. È il primo impianto in Europa per la produzione di ossidi e carbonati di terre rare (neodimio, praseodimio e disprosio) da riciclo chimico di magneti permanenti esausti. L’impianto di smontaggio, si legge nel comunicato di lancio del progetto, potrà trattare mille tonnellate all’anno di rotori elettrici, mentre l’impianto idrometallurgico a regime potrà trattare duemila tonnellate all’anno di magneti permanenti ottenuti da diverse fonti, tra cui anche hard disk e motori elettrici, con il conseguente recupero di circa cinquecento tonnellate all’anno di ossalati di terre rare, una quantità sufficiente al funzionamento di un milione di hard disk e laptop, e di dieci milioni di magneti permanenti per applicazioni varie nell’automotive elettrico. Nonostante questi progetti, l’obiettivo europeo di coprire entro il 2030 il 25% della domanda di materie prime critiche, tra cui le terre rare, grazie al riciclo, appare ancora molto distante, considerando che a oggi siamo appena all’1%. La strada dell’economia circolare è sicuramente incerta, lunga e tortuosa, ma allo stesso tempo più sostenibile di quella estrattivista e in grado di garantire una strategia di lungo periodo per il continente europeo. L'articolo Chi controlla le terre rare controlla il mondo proviene da Guerre di Rete.
Nell’era Trump, la lotta ai migranti passa anche dalle app
Immagine in evidenza da RawPixel, licenza CC 1.0 Nelle ultime settimane, hanno suscitato grande scalpore alcune applicazioni sviluppate per segnalare alle autorità competenti i cittadini stranieri che vivono illegalmente negli Stati Uniti. In particolare, secondo The Verge, a ricevere il sostegno di Donald Trump e dei filotrumpiani è stata ICERAID, un’app che promette di premiare con una criptovaluta proprietaria, il token RAID, “i cittadini che acquisiscono, caricano e convalidano le prove fotografiche di otto categorie di sospette attività criminali”. Tra queste i maltrattamenti di animali, i rapimenti, gli omicidi, le rapine, gli atti terroristici e, naturalmente, l’immigrazione clandestina.  L’idea alla base dell’applicazione è quella di trasformare i cittadini in veri e propri “cacciatori di taglie”, permettendo loro di combattere la criminalità in collaborazione con le forze dell’ordine e le agenzie di sicurezza. Con ICERAID, gli americani hanno infatti la possibilità di scattare e caricare la foto di un presunto reato in corso, fornendo tutte le informazioni utili per consentire alle autorità competenti di intervenire, ma solo dopo che la veridicità della segnalazione è stata confermata (al netto degli errori) da un’intelligenza artificiale. Ma non è tutto. Come riportato da Newsweek, l’app vanta un “programma di sponsorizzazione” che promette di “ricompensare gli immigrati privi di documenti e senza precedenti penali che si fanno avanti, attraverso un programma di sostegno in cui vengono aiutati a perseguire lo status legale negli Stati Uniti tramite vari percorsi, tra cui l’assistenza per la ricerca di un avvocato specializzato in immigrazione”.  Eppure, nonostante i sostenitori di Trump abbiano promosso ICERAID in ogni modo possibile, l’applicazione non sembra star riscuotendo il successo sperato. Allo stato attuale, risultano solo otto segnalazioni di attività criminali da parte dei cittadini statunitensi, di cui soltanto tre ritenute valide dall’AI dell’applicazione. Una delle ragioni è probabilmente il fatto che l’app è stata rilasciata sul mercato senza che la sua criptovaluta fosse ancora disponibile, il che ha reso gli americani restii a utilizzarla. Ma anche la cattiva reputazione del fondatore del progetto Jason Meyers – accusato di appropriazione indebita di fondi in una delle sue attività precedenti – non ha contribuito alla credibilità di ICERAID. Di certo, i sostenitori di Trump e gli esponenti della destra americana stanno cercando di trasformare i cittadini comuni in “vigilantes” pronti a dare la caccia agli immigrati clandestini, con o senza il supporto della tecnologia. A gennaio un senatore dello Stato del Mississippi ha presentato una proposta di legge che prevedeva una ricompensa di 1.000 dollari per i cacciatori di taglie che avrebbero portato a termine la cattura di immigrati entrati nel paese senza autorizzazione. Fortunatamente, la proposta non è mai diventata legge, ma ha comunque dimostrato qual è la direzione che sta prendendo la destra americana.  TRUMP STA SPINGENDO GLI IMMIGRATI ALL’AUTOESPULSIONE CON UN’APP Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump sembra intenzionato a utilizzare ogni mezzo possibile per mantenere la promessa di combattere l’immigrazione clandestina e contenere i flussi di migranti in ingresso al confine sud-occidentale del Paese. Proprio qualche settimana fa, la segretaria alla Sicurezza nazionale Kristi Noem ha infatti annunciato il lancio dell’app Cbp Home, dotata di una funzione specifica che “offre ai cittadini stranieri la possibilità di andarsene ora e di auto-espellersi, il che darebbe loro l’opportunità di tornare legalmente in futuro e vivere il sogno americano”. Più nel dettaglio, l’applicazione non è altro che la versione completamente rinnovata di Cbp One, un’app promossa dall’amministrazione Biden per agevolare i migranti nel fissare un appuntamento per avviare le pratiche di richiesta di asilo negli Stati Uniti. Ora, invece, con Donald Trump l’applicazione ha preso tutta un’altra forma. Secondo quanto riferito da Newsweek, Cbp Home offre alle persone che si trovano illegalmente nel paese, o a cui è stata revocata la libertà vigilata, la possibilità di comunicare al Dipartimento di Sicurezza Nazionale (DHS) la loro volontà di abbandonare gli Stati Uniti, così da evitare “conseguenze più dure”, come la detenzione o l’allontanamento immediato. Per accertarsi che abbiano davvero abbandonato gli Stati Uniti, l’app chiede una conferma della loro espulsione. “Se non lo faranno, li troveremo, li deporteremo e non torneranno mai più”, ha chiosato la segretaria Noem, facendo riferimento all’attuale legge sull’immigrazione degli Stati Uniti, che può impedire a chi è entrato illegalmente nel paese di rientrarvi entro un periodo di tempo che varia dai tre anni a tutta la vita. La nuova funzione di auto-espulsione di Cbp Home, infatti, fa parte di “una più ampia campagna pubblicitaria nazionale e internazionale da 200 milioni di dollari”, che include annunci radiofonici, televisivi e digitali in diverse lingue per dissuadere i migranti dal mettere piede sul suolo statunitense. In questo modo, Donald Trump spera di mantenere la promessa fatta durante la sua campagna elettorale: attuare “il più grande programma di espulsione nella storia del paese”. Ad aprile dello scorso anno, in un’intervista al TIME, l’allora candidato repubblicano aveva dichiarato la sua intenzione di voler espellere dagli Stati Uniti “dai 15 ai 20 milioni di migranti”. Già dal suo primo giorno come presidente, Trump ha dimostrato di voler onorare quanto promesso. Poche ore dopo il suo insediamento, ha firmato una direttiva per dichiarare l’emergenza migratoria nazionale al confine con il Messico, e ha riattivato il programma “Remain in Mexico”, che costringe i richiedenti asilo a rimanere in Messico in attesa che venga elaborato il loro status di immigrati. Inoltre, coerentemente con le sue promesse elettorali, Trump ha presentato una proposta di legge per eliminare la concessione della cittadinanza automatica ai figli degli immigrati nati negli Stati Uniti. LA TECNOLOGIA PER DIFENDERSI DALLA POLITICA DI TRUMP Con l’intensificarsi delle azioni, politiche e non, messe in campo da Donald Trump per combattere l’immigrazione clandestina, anche i migranti stanno ricorrendo alla tecnologia per sfuggire ai raid delle forze dell’ordine e assicurarsi una permanenza nel paese. Secondo quanto riferito da Newsweek, nelle ultime settimane sta riscuotendo un buon successo SignalSafe, un’app di community reporting usata dai migranti o chi li aiuta per segnalare le operazioni degli agenti federali e della polizia locale. Una piattaforma che dichiara di non voler ostacolare le attività dell’ICE (United States Immigration and Customs Enforcement), ma che ha l’obiettivo di “dare potere alle comunità fornendo ai cittadini uno strumento per segnalare e condividere quello che accade negli spazi pubblici”, come riferiscono gli sviluppatori dell’applicazione, che per il momento hanno preferito mantenere segreta la loro identità.  Proprio allo scopo di “garantire la qualità e l’affidabilità” delle informazioni, SignalSafe utilizza “un’intelligenza artificiale avanzata per filtrare le segnalazioni inappropriate o palesemente false non appena arrivano”, che passano poi al vaglio di moderatori umani, i soli a poterle etichettare come verificate o revisionate. In questo modo gli sviluppatori si assicurano che gli utenti abbiano accesso a informazioni veritiere, che possano aiutarli a “prendere decisioni che proteggano se stessi e gli altri”. Negli ultimi anni, l’ICE è stata fortemente contestata per le sue pratiche che includono, tra le atre cose, l’uso di furgoni neri, passamontagna e incursioni improvvise. Una strategia di intervento che fa paura, e che spinge i migranti a rivolgersi alla tecnologia per cercare di tenere al sicuro famiglie, amici e conoscenti. Non stupisce, quindi, che SignalSafe non sia il solo strumento a cui gli immigrati stanno facendo riferimento per evitare l’espulsione dagli Stati Uniti.  Alla fine del mese di marzo, il Washington Post ha riferito che gli immigrati clandestini stanno facendo un largo uso dei social media per “condividere in tempo reale la posizione di veicoli e agenti dell’ICE”, utilizzando parole in codice come “camioncino dei gelati” per segnalare un furgone nero nei paraggi, così da evitare la censura sulle piattaforme e permettere ai loro coetanei di sfuggire ai controlli delle autorità competenti. Questa strategia, com’è facile immaginare, ha irritato i sostenitori di Donald Trump, che hanno reagito mostrando tutta la loro disapprovazione sui social media. Nelle prime due settimane di marzo, stando ai dati della società di analisi Sprout Social, ci sono state quasi 300.000 menzioni dell’ICE nei contenuti pubblicati su X, Reddit e YouTube (un aumento di oltre cinque volte rispetto allo stesso periodo di febbraio), il che dimostra quanto la questione dell’immigrazione clandestina sia al centro del dibattito pubblico.  In queste settimane i sostenitori di Trump stanno pubblicando decine e decine di segnalazioni false sulle attività dell’ICE, così da alimentare i sentimenti di paura e confusione negli immigrati clandestini che cercano di salvaguardare la loro permanenza negli Stati Uniti. Una strategia che non sempre sembra funzionare. Come riferisce il Washington Post, i migranti preferiscono setacciare i social media alla ricerca delle informazioni giuste piuttosto che incontrare le forze dell’ordine, anche se questo richiede più tempo. E hanno valide ragioni per farlo, considerando che i filotrumpiani non perdono occasione per creare scompiglio. Lo dimostra la storia di People Over Papers, una mappa collaborativa che segnala i presunti avvistamenti dell’ICE in tutto il Paese e che ha ricevuto più di 12.000 segnalazioni da quando è diventata virale su TikTok alla fine dello scorso gennaio. Secondo quanto raccontato da Celeste, fondatore del progetto, dopo che gli account X Libs of TikTok e Wall Street Apes hanno pubblicato un post in cui sostenevano che People Over Papers aiutasse i criminali a eludere le forze dell’ordine, la mappa è stata invasa da decine e decine di segnalazioni false. Eliminate una a una dai volontari che seguono il progetto.  GLI STRUMENTO DI SORVEGLIANZA NELL’IMMIGRAZIONE Se ICERAID e SignalSafe sono due applicazioni che coinvolgono i cittadini in materia di immigrazione clandestina negli Stati Uniti, non va dimenticato che già da qualche tempo il governo utilizza la tecnologia per sorvegliare gli immigrati che non godono di uno status legale nel paese, anche se non sono detenuti in carcere o in altre strutture specializzate, applicando loro strumenti di localizzazione come smartwatch e cavigliere. Nello specifico, secondo quanto riferito dal New York Times, le autorità governative stanno utilizzando l’app SmartLink sviluppata da Geo Group, uno dei più grandi fornitori statunitensi in ambito penitenziario, per monitorare la posizione dei clandestini identificati dall’ICE. Grazie al programma “Alternative to detection”, questi possono continuare a vivere nel paese, purché segnalino alle forze dell’ordine la loro posizione attraverso l’applicazione quando richiesto, semplicemente scattandosi un selfie e caricandolo in-app.  Un metodo di sorveglianza imvasivo, il cui uso sembra essere cambiato radicalmente con l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca. Già dai primi mesi del suo mandato, infatti, l’app sembra sia stata usata per comunicare all’ICE la posizione degli immigrati, facilitandone così l’arresto. Secondo il Dipartimento di Sicurezza Nazionale, nei primi 50 giorni di mandato del nuovo presidente sono infatti stati arrestati più di 30.000 immigrati.  Non c’è da stupirsi, quindi, che Geo Group sia la compagnia che ha ricevuto più finanziamenti governativi di ogni altra. O che le politiche di immigrazione del presidente degli Stati Uniti abbiano fatto impennare il valore delle sue azioni sul mercato. Eppure, nonostante i sostenitori di Trump abbiano elogiato e supportato in ogni modo possibile questa tecnologia, gli esperti di sicurezza ne hanno criticato aspramente l’uso. “Il governo la presenta come un’alternativa alla detenzione”, ha dichiarato Noor Zafar, avvocato senior dell’American Civil Liberties Union, un’organizzazione non governativa per la difesa dei diritti civili e delle libertà individuali negli Stati Uniti. “Ma noi la vediamo come un’espansione della detenzione”. L'articolo Nell’era Trump, la lotta ai migranti passa anche dalle app proviene da Guerre di Rete.
Amore sintetico, come l’AI sta cambiando il mercato delle sex dolls
Immagine in evidenza: “Computer generated image of a human body” di Allison Saeng, acquisita da Unsplash+, licenza Unsplash+, riproduzione riservata Non è raro che vengano scambiate per cadaveri. Abbandonate sulla riva di un fiume, trascinate dalle onde fino a una spiaggia o infilate dentro un trolley. Negli ultimi anni le sex dolls, bambole per adulti create per l’intrattenimento sessuale, hanno generato più di un falso allarme in tutto il mondo. Tra la prima e la seconda ondata di Covid-19 in Giappone, due di queste bambole sono state scambiate per donne annegate. Episodi simili si sono verificati nel Regno Unito, dove una è riaffiorata nel fiume Trent, e in Australia, nel Queensland. In Nuova Zelanda, una donna che passeggiava con il cane a Tapuae Beach ha chiamato la polizia credendo di aver trovato un cadavere nudo e senza testa.  Anche in Italia, nei boschi delle Manie vicino a Finale Ligure, due turisti hanno scambiato per un corpo umano una gamba che spuntava da un trolley abbandonato. In nessuno di questi casi si trattava di una persona reale. A quanto pare, i produttori di sex dolls stanno quindi vincendo la sfida (finora) più ambiziosa: quella con il realismo. Il mondo dei sex toys non è affatto uno sfizio per pochi. È un settore in piena espansione, con numeri che parlano chiaro. Le stime internazionali descrivono un mercato globale da 2,5 miliardi di dollari, destinato a raddoppiare entro il 2033. Come altri giocattoli sessuali, anche le sex dolls sono sempre più normalizzate: i tempi sono cambiati, e i discorsi su sessualità e solitudine, almeno nelle grandi città, sono ormai entrati nel dibattito pubblico. Questo cambiamento culturale ha spinto aziende di tutto il mondo a dedicarsi al settore, investendo nel miglioramento dei prodotti a partire dal materiale, che viene comunemente definito silicone iper realistico.  SOGNI ELETTRICI, DESIDERI UMANI La pandemia non ha fatto solo la fortuna delle grandi aziende tecnologiche: quelle produttrici di sex dolls hanno infatti vissuto un momento d’oro, che ne ha decretato l’entrata sul mercato mondiale. L’isolamento e il distanziamento sociale hanno spinto gli acquisti online anche in questo ambito, per via della discrezione che garantiscono agli utenti. La crescita è stata talmente improvvisa ed elevata che alcune aziende hanno dovuto adattare la produzione per far fronte alla domanda. Un esempio è la Libo Technology di Shandong, in Cina, che nel 2020 ha aumentato il personale addetto alla produzione di sex dolls del 25%, assumendo 400 lavoratori. La responsabile per le vendite estere, Violet Du, ha dichiarato al South China Morning Post che le linee di produzione erano attive 24 ore su 24 e che i dipendenti facevano doppi turni. La Aibei Sex Dolls Company di Dongguan, sempre in Cina, si è trovata a rifiutare ordini a causa dell’eccessivo numero di richieste.  Come è facile intuire, il paese del dragone è leader nella produzione di queste bambole per via dei bassi costi di produzione e di esportazioni vantaggiose verso l’Occidente. Le grandi fabbriche riescono a produrre circa 2.000 unità al mese, mentre quelle più piccole arrivano a una media di 300-500 bambole, come dichiarato dal direttore generale della Aibei. Sebbene, a causa del conservatorismo culturale, in Cina il mercato delle sex dolls rimanga di nicchia, negli Stati Uniti e in Europa è invece in forte espansione, con guadagni significativi. Nel Vecchio continente le stime più aggiornate parlano di un mercato che oscilla tra i 400 e i 600 milioni di dollari nel 2023. Tra i mercati di importazione più attivi ci sono Francia, Regno Unito, Paesi Bassi e anche l’Italia. Nel 2021, La Stampa riportava un aumento del 148% nelle vendite di sex toys cinesi nel nostro Paese, incluse le sex dolls.  Nel 2022, un rivenditore di bambole statunitensi RealDoll ha aperto un negozio fisico nella periferia romana. Accompagnato da un e-commerce attivo già dal 2020, lo spazio fisico “nasce per offrire ai clienti la possibilità di vedere e toccare con mano i prodotti, considerando anche il costo elevato che hanno” spiega il proprietario a Guerre di Rete. Il negozio offre un servizio completo, consentendo ai clienti non solo di osservare, ma anche di toccare le bambole. “Il 60% dei nostri clienti sono uomini in una relazione stabile”, continua il proprietario, aggiungendo che “si tratta spesso di coppie alla ricerca di un elemento di novità nella loro intimità”. Tuttavia, ci sono anche altri tipi di clienti: “L’altro 30% è rappresentato da uomini separati, che si sentono soli e cercano affetto. Vogliono tornare a casa e trovare qualcuno ad aspettarli”. La parte rimanente comprende persone introverse, ma anche appassionati di fotografia, registi e proprietari di locali. Per quanto riguarda l’AI, il proprietario spiega che “oltre a quella che stanno introducendo i produttori cinesi, internamente stiamo sviluppando un device mobile simile ad Alexa, che renderà le bambole capaci di interagire con il proprietario”. COSTRUITE PER AMARE, PROGRAMMATE PER IMPARARE  Essendo ormai ovunque, l’intelligenza artificiale non poteva mancare nemmeno nel mondo delle bambole sessuali, garantendo oltre all’intrattenimento anche l’interazione. È un’innovazione ancora recente, ma che sta cambiando radicalmente il settore. In una sfida globale degna delle grandi potenze, anche in questo campo Stati Uniti e Cina si contendono il primato. Da una parte RealDoll, azienda americana, dall’altra la cinese WMDoll: entrambe hanno cominciato a integrare funzionalità di AI tra il 2016 e il 2017. I primi modelli offrivano movimenti di occhi, testa e altre parti del corpo, accompagnati da una capacità di risposta vocale piuttosto limitata. Più che vere conversazioni, si trattava di semplici repliche a domande preimpostate da parte dell’utente. Lo sviluppo è stato inizialmente lento, come ha spiegato Liu Ding, product manager di WMDoll, che attribuisce la causa anche alla scarsa volontà di investire nell’intelligenza artificiale applicata ai prodotti per adulti. Ma nel 2024 lo scenario è cambiato: l’azienda cinese ha compiuto un deciso passo avanti con il lancio della serie MetaBox, che ha rivoluzionato anche il resto del mercato. Le nuove bambole, equipaggiate con modelli linguistici open source di grandi dimensioni (LLM) come Llama di Meta, offrono un’interazione molto più avanzata, consentendo all’utente di scegliere tra diverse “personalità” delle bambole. Queste ultime sono inoltre in grado di sostenere conversazioni (perlopiù in inglese) anche a distanza di giorni, ricordando quanto detto in precedenza. Questa funzione, tuttavia, richiede una connessione costante ai server cloud e una fonte continua di energia elettrica, mettendo in evidenza uno degli aspetti attualmente più critici dell’AI: il suo elevato consumo energetico. Inoltre, WMDoll sta sviluppando collane, braccialetti, anelli e altri dispositivi pensati per connettere anche i modelli precedenti con il loro proprietario. Display "New Metabox AI Feature From WM Doll" from YouTube Click here to display content from YouTube. Learn more in YouTube’s privacy policy. Mostra sempre i contenuti da YouTube Open "New Metabox AI Feature From WM Doll" directly Nel 2017 la compagnia americana RealDoll ha invece lanciato Harmony, progettata per interagire con gli utenti tramite una combinazione di software di riconoscimento vocale e chatbot, che le permette di dare risposte personalizzate e di simulare conversazioni. “È dotata di un sistema cranico modulare con molteplici punti di attuazione, che consente alla bambola di assumere espressioni, muovere la testa e parlare con te. Anche gli occhi possono muoversi e sbattere le palpebre, creando un’esperienza mai vista prima con una bambola” si legge sul sito. Nella sua evoluzione più recente, Harmony X, RealDoll ha cercato di offrire un servizio sempre più immersivo e realistico, andando oltre l’aspetto fisico della bambola e includendo l’interazione emotiva e psicologica. Una bambola “progettata per funzionare con il software di intelligenza artificiale personalizzabile ‘X-Mode’, che ti permette di creare personalità uniche e controllare la voce del tuo robot”. Al di là dei gusti, il costo rimane un argomento spinoso. Soprattutto se integrate con l’AI, le sex dolls sono al momento appannaggio di pochi. Per gli utenti che vogliono interagire con una bambola sessuale RealDoll, il cui costo a figura intera è di 4.000 dollari, c’è da aggiungere un ulteriore abbonamento mensile di 40 dollari al mese (580 l’anno). Mentre la versione cinese è più economica: con alcune variazioni di dimensioni e materiali, la bambola con AI di WMDolls si aggira sui 1.900 dollari. Mentre l’industria delle sex dolls entra in una nuova fase, alimentata dall’intelligenza artificiale e da tecnologie sempre più sofisticate, emergono interrogativi etici e legali che non possono essere ignorati. L’episodio che ha coinvolto la modella israeliana Yael Cohen Aris, che nel 2019 ha scoperto come l’azienda cinese Iron Dolls avesse usato il suo volto e nome per una delle sue sex dolls, mette in luce i rischi di un mercato dell’intrattenimento sessuale in cui l’identità e il consenso all’uso della propria immagine possono facilmente essere violati. Il mercato delle sex dolls fa però emergere qualcosa di più profondo. Le nuove bambole AI, sempre più capaci di dialogare, ricordare e assumere personalità differenti, stanno dando forma a un’idea fantascientifica: l’amore programmabile. Come in Her o Ex Machina, non c’è solo l’interazione umana con un software, ma la proiezione di desideri, paure e bisogni in una presenza artificiale che sembra restituire qualcosa di autentico. Forse, nel silenzio sintetico delle nuove companion, l’utente non troverà una “risposta”, ma solo un altro modo – programmato e prevedibile – di esplorare le domande più umane. L'articolo Amore sintetico, come l’AI sta cambiando il mercato delle sex dolls proviene da Guerre di Rete.