Gad Lerner: “Non in nostro nome”
Pubblichiamo (con la sua autorizzazione) il testo del significativo intervento
di Gad Lerner alla manifestazione del 7 giugno a Roma
“Con imperdonabile ritardo, anche i governanti dei paesi occidentali si stanno
accorgendo della carneficina in corso a Gaza da venti mesi.
Travolti dall’indignazione dell’opinione pubblica, non possono più voltare la
testa dall’altra parte.
Se fino a ieri avevano taciuto, se rifiutano tuttora sanzioni contro un governo
israeliano che ha apertamente teorizzato ciò che sta facendo, cioè la
distruzione di Gaza è perché li muoveva un calcolo indicibile: lasciamogli
finire il lavoro, è uno sporco lavoro ma lo fanno anche per conto di tutti noi
nazionalisti occidentali.
Un calcolo sbagliato oltre che cinico, che trasformerebbe la nostra civiltà in
barbarie.
Lasciatemi dire allora per prima cosa: NO, non in nostro nome. Basta complicità
con questo crimine, dissociarsi a parole non basta.
Tanto meno si dica che lo si fa in nome della difesa degli ebrei, questo sporco
lavoro di massacrare Gaza e annettere la Cisgiordania per rendere impossibile la
nascita di uno Stato palestinese.
Siamo figli e nipoti di famiglie sterminate qui in Europa.
Al destino di Israele ci sentiamo indissolubilmente legati, è ovvio, anche se
siamo cittadini italiani.
La mattina del 7 ottobre 2023 abbiamo rivissuto l’incubo del rastrellamento
militare che prevede la cattura o l’uccisione uno a uno dei civili, comprese le
donne e i bambini.
Da questa grande piazza, allora, vorrei rivolgermi alla piccola Comunità ebraica
italiana, di cui faccio parte: ho provato lo stesso vostro tormento.
Siamo rimasti impietriti nel sentir definire da qualcuno il 7 ottobre un’azione
partigiana. Mai i partigiani fecero nulla di simile.
Diciamolo, chi inneggia a Hamas bestemmia la Resistenza.
La sua ideologia del martirio, che celebra il sangue versato dal popolo di Gaza
come sacrificio necessario a ottenere in ricompensa la terra che è nostra per
diritto divino, è la bestemmia che copre una realtà di segno opposto:. queste
decine di migliaia di morti in venti mesi sono la peggior sciagura toccata in
sorte al popolo palestinese in un secolo di conflitto.
Ma è proprio per tutte queste ragioni che Israele non doveva infilarsi nella
trappola tesagli da Hamas, cadendo preda di un delirio di onnipotenza alimentato
dall’illusione che basti la superiorità militare per prendersi tutto.
Noi sappiamo che questa storia non è cominciata il 7 ottobre.
Già la mattina dopo quel massacro il giornale israeliano “Haaretz” sapeva quel
che scriveva, affermando: la responsabilità di questo disastro ricade su
Benjamin Netanyahu, a capo di “un governo di esproprio e annessione”.
Dura da oltre mezzo secolo l’occupazione militare dei territori palestinesi.
Un’occupazione che non solo ha perpetuato la sofferenza di chi la subisce. Ma
come un virus si è inoculato, degradandole, nelle istituzioni e nelle mentalità
degli occupanti.
Ciò spiega anche l’incancrenirsi, l’inferocirsi di questa guerra; il fanatismo
di due gruppi dirigenti che tendono sempre più a rassomigliarsi: “Dal fiume
Giordano al mare Mediterraneo Israele è terra ebraica perché sta scritto nella
Bibbia”, dicono gli uni.
“Dal fiume Giordano al mare Mediterraneo la Palestina tornerà per intero
islamica”, replicano gli altri.
Eppure stiamo parlando di due popoli assai evoluti, non di trogloditi. Da
decenni viene imposta loro una separazione assoluta, premessa necessaria a
rifiutare l’altro, a de-umanizzarlo, a farne l’oggetto di una punizione
collettiva.
I fanatici sono al potere ma non hanno nessuna soluzione razionale da proporre.
Nell’insieme della regione vivono all’incirca sette milioni di ebrei israeliani
e sette milioni di arabi palestinesi che non hanno nessun altro posto in cui
andare.
Il massacro o la deportazione totale di uno dei due popoli, oltre che criminale,
risulta inverosimile.
La convivenza è l’unico sbocco razionale.
Oggi viviamo un paradosso.
Israele domina sul piano militare, perpetra crimini di guerra e crimini contro
l’umanità, affida il suo destino a uno stato di guerra permanente, eppure
avverte il tracollo non solo della sua reputazione ma anche della sua sicurezza.
Noi ebrei italiani che scendiamo in piazza e sottoscriviamo appelli contro la
pulizia etnica, per il riconoscimento dello Stato di Palestina -ci chiamiamo Mai
Indifferenti voci ebraiche per la pace e Laboratorio ebraico antirazzista- siamo
in minoranza nelle nostre Comunità.
Magari ci danno dei traditori perché in guerra tendono sempre a prevalere gli
istinti di appartenenza, ma avvertiamo l’urgenza, insieme a tanti cittadini
israeliani, di difendere Israele da sé stesso, dal male che fa a sé stesso oltre
che agli altri.
Chi vi parla è un sionista.
Mettetevi nei miei panni, chi della mia famiglia non è riuscito a emigrare
laggiù, dove sono nati i miei genitori, è stato sterminato.
Sionista non equivale a fascista e non equivale a assassino, spiace doverlo
ricordare ancora dopo una vita di militanza al fianco dei miei fratelli
palestinesi.
E’ innegabile che la conduzione criminale della guerra di Gaza resuscita un odio
atavico contro gli ebrei.
Voi vi offendete, giustamente, quando vi sentite scagliare addosso con
strumentalità l’infame accusa di antisemitismo.
Anche questo ci ha fatto Netanyahu: s’intesta abusivamente la memoria della
Shoah per tentare invano di darsi un salvacondotto morale; e così induce molta
gente a dire “basta, questi ebrei ci hanno stufato con la Shoah”.
Pensate a cosa possano provare due donne sopravvissute all’inferno di Auschwitz
come Liliana Segre e Edith Bruck.
Tutti lì a pretendere che dalle loro labbra esca la parola genocidio, altrimenti
la repulsione da loro più volte dichiarata per Netanyahu non sarebbe valida.
Chi lavora per la pace rispetta le sensibilità altrui.
La forza di questa piazza democratica sarà bene impiegata se ci aiuterete a
favorire l’incontro fra i dissidenti israeliani e palestinesi, quelli che sanno
che Shoah e Nakba sono sinonimi; i dissidenti sono forza viva all’interno di
entrambe le società, unico antidoto agli effetti spaventosi del nazionalismo e
del fondamentalismo.
Poco prima di morire Primo Levi ha scritto: “Non è facile né gradevole
scandagliare questo abisso di malvagità, eppure io penso che lo si debba fare,
perché ciò che è stato possibile perpetrare ieri potrà essere nuovamente tentato
domani, potrà coinvolgere noi stessi o i nostri figli”.
E a chi gli chiedeva perché in Germania nessuno reagisse durante la
pianificazione dello sterminio, Primo Levi rispose così: “La maggior parte dei
tedeschi non sapevano perché non volevano sapere, anzi, perché volevano non
sapere”.
Ancora oggi c’è tanta gente che non vuole sapere, anzi, che vuole non sapere.
Noi siamo qui perché vediamo e non possiamo tacere.
Sergio Sinigaglia