La politica globale della deportazione
A metà marzo, cinque migranti venezuelani sono stati caricati su un volo
governativo statunitense diretto a El Salvador. Sono stati trasferiti
coattivamente al CECOT, la megacarcerazione di massa voluta da Nayib Bukele,
dove migliaia di persone sono detenute in condizioni di totale isolamento. Il
volo è partito nonostante un ordine preciso, firmato dal giudice federale James
Boasberg, che ne vietava la deportazione. Secondo Boasberg, si è trattato di «un
deliberato disprezzo della legge», sufficiente a giustificare un procedimento
per oltraggio alla corte contro alcunə funzionarə dell’amministrazione Trump.
Il riferimento normativo è l’Alien Enemies Act, una legge del 1798 concepita per
espellere stranierə “nemicə” in tempo di guerra, oggi riesumata come strumento
per aggirare le garanzie giuridiche fondamentali. In aperta violazione del
giusto processo, oltre 130 venezuelanə sono statə trasferitə in segreto in una
struttura detentiva extraterritoriale, all’interno di un piano annunciato che
prevede la deportazione massiva di milioni di persone, la militarizzazione delle
frontiere e la sistematica rimozione dei vincoli legali.
> Più in generale, le immagini dellə migrantə incatenatə, diffuse a partire dal
> giorno dell’insediamento di Trump, sono un segnale preciso: non si tratta solo
> di una produzione scenica, ma di una pedagogia della paura rivolta a l’insieme
> della popolazione migrante. Da questa prospettiva, la deportazione è una
> categoria indispensabile per comprendere l’architettura del nuovo regime
> reazionario globale.
Due coordinate ci aiutano a leggere questa tendenza: la dimensione genealogica e
il riconoscimento della discontinuità attuale. Da un lato, la deportazione è
tutt’altro che una novità. Costituisce da tempo un’infrastruttura fondamentale
del governo della mobilità: una pratica ordinaria, sistemica, che si regge su
filiere amministrative complesse, sull’uso politico della burocrazia e sulla
precarizzazione strutturale degli status giuridici.
Dall’altro lato, siamo di fronte a un salto di qualità. Le nuove strategie si
distinguono per inventiva repressiva, uso spregiudicato del diritto e impiego
massiccio di vecchie e nuove tecnologie. Si moltiplicano, a più livelli, gli
accordi per la deportazione verso Paesi terzi che non coincidono con quelli di
origine: il caso USA-El Salvador si affianca al progetto UK-Rwanda – mai
implementato ma fondamentale nel tracciare una nuova rotta –, alla proposta
europea sui returns hubs, all’accordo Italia-Albania. Quest’ultimo, in
particolare, rivela una torsione nuova: il tentativo italiano di mantenere
giurisdizione legale su persone dislocate altrove, fondando un regime legale
extraterritoriale ma ancora formalmente “nazionale”.
Tuttavia, non siamo di fronte a un blocco monolitico guidato da una sola
corrente ideologica. L’estrema destra globale non è l’unico attore di questa
partita. Le politiche della deportazione si radicano e si sviluppano anche
all’interno delle cosiddette forze riformiste e liberali, che spesso inseguono,
legittimano o addirittura inaugurano dispositivi simili. È un sistema
policentrico, in cui la rincorsa securitaria diventa principio ordinatore
trasversale. Peraltro, è una processualità sedimentata ben prima dell’ascesa
dell’attuale governance reazionaria.
> Nonostante la sua rilevanza globale, la deportazione non è l’unico strumento
> del governo della mobilità, né sempre il più efficace. È certamente il più
> spettacolare, il più mediatizzato. Ma lavora insieme ad altri dispositivi,
> spesso più invisibili, come le politiche di esternalizzazione delle frontiere,
> che agiscono prima ancora che la persona possa entrare nello spazio giuridico
> europeo o nordamericano.
Queste politiche bloccano il movimento dellə migrantə sul nascere, nei Paesi di
transito o in quelli di origine, grazie a una rete di accordi economici,
logistici e militari che affidano il controllo delle frontiere a Stati terzi, in
cambio di risorse, legittimità o appoggio geopolitico.
La deportazione produce effetti materiali radicali: rimozione violenta,
separazioni familiari, traumi. Ma è anche uno strumento simbolico: parla anche a
chi resta, costruisce l’orizzonte della deportabilità. Non si deporta chiunque:
si deportano soggetti precari. La deportabilità, in questo ciclo globale, non è
solo il prodotto specifico della condizione di irregolarità: agisce in uno
spettro più ampio. Negli Stati Uniti, ad esempio, sempre più persone sono
allontanate pur avendo status regolari o ibridi. In Albania sono stati
trasferiti coattivamente anche i richiedenti asilo.
È utile, allora, pensare alla deportazione come a una processualità complessa:
una pratica distribuita lungo una sequenza azioni e agita da una pluralità di
attorə – funzionarə, amministratorə, forze dell’ordine, compagnie aeree, agenzie
private – che operano all’interno delle istituzioni democratiche. La
deportazione non è un incidente di percorso: è uno degli strumenti con cui le
politiche migratorie hanno assunto la forma attuale.
> Non si tratta, dunque, di una finestra o una parentesi, ma di una politica di
> lungo corso, attraversata da accelerazioni, crisi, torsioni autoritarie. Non
> siamo, ora, davanti alla sua configurazione finale. Al contrario, le forme
> della deportazione sono in piena e inquieta evoluzione.
Se è vero che la deportazione e la deportabilità segnano profondamente la
soggettività migrante, è molto utile provare a non assolutizzarle. I movimenti
dellə migrantə non sono mai completamente bloccati, neanche in questa fase, e le
condotte non sono mai del tutto governabili. Le traiettorie migranti restano
mobili, complesse, inquiete. C’è sempre uno scarto, un corpo a corpo non risolto
una volta per tutte. È in quello spazio che si giocano, oggi, le possibilità di
un’altra politica della mobilità.
Immagine di copertina di Herzi Pinki, wikicommons
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