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Repubblica Democratica del Congo, una questione dimenticata: un incontro coinvolgente a Cardano al Campo (Varese)
Al termine della Congo Week, promossa dall’organizzazione Friends of the Congo – FOTC ogni anno in tutto il mondo, anche in provincia di Varese è stata tenuta una serata divulgativa per informare e sensibilizzare in merito alla difficile situazione della Repubblica Democratica del Congo. Nella serata di domenica 26 ottobre, presso il Circolo Quarto Stato di Cardano al Campo, la giornalista indipendente Chiara Pedrocchi ha intervistato Evelyne Sukali, attivista e mediatrice culturale congolese, la dottoressa Rachele Ossola, ricercatrice e chimico ambientale di Source International e Salvatore Attanasio, padre dell’ambasciatore Luca Attanasio. Il circolo era pieno di gente, tra cui molti attivisti del “Collettivo da Varese a Gaza”; il racconto dei tre ospiti è stato molto forte e ha portato delle testimonianze su una realtà complessa. Chiara Pedrocchi ha fatto una breve introduzione e dato informazioni di contesto per inquadrare la questione. Il Congo, in Africa centrale, è un Paese con una superficie grande come un terzo dell’Europa e con una popolazione di circa 81 milioni di abitanti con un’età media molto bassa, intorno ai 16 anni. La capitale Kinshasa ha circa 17 milioni di abitanti. Dal 1960 è una Repubblica democratica sulla carta, ma in realtà viene gestita ancora come una colonia, a causa dei tanti interessi economici che Europa, Stati Uniti e Cina hanno in quella terra. In tutto il Congo le miniere sotterranee e a cielo aperto sono ricchissime di materie prime come il rame, l’oro, l’uranio e il cobalto, il minerale utilizzato per la produzione di numerosi dispositivi elettronici e delle batterie al litio per alimentare le automobili e le biciclette elettriche che servono per la transizione energetica dei Paesi ricchi del mondo. Nella sola Kolwezi la totalità degli abitanti lavora, sfruttata e in condizioni durissime, per l’estrazione del cobalto. Il primo intervento è stato quello di Evelyne Sukali, una giovane donna congolese, divulgatrice e mediatrice culturale. Partita dal suo villaggio in Congo, è arrivata in Italia nel 2011 insieme a un gruppo di persone in cerca di un’opportunità di lavoro nel commercio. Il suo contatto Instagram, per chi volesse seguirla, è  https://www.instagram.com/evelynesukali87/ Il suo viaggio per arrivare a Lampedusa è durato 18 mesi ed è stato difficilissimo. Il racconto molto crudo di ciò che ha visto e vissuto ha lasciato il pubblico in un silenzio commosso. Ha parlato di strade inesistenti, mezzi di trasporto di fortuna e pericolosi come chiatte usate per il traposto del legname per attraversare un fiume, di serpenti e coccodrilli, di fame e di sete nel deserto, di forze allo stremo, di uomini armati, di guerra, di uomini e donne uccisi e brutalizzati. Tutto questo è stato affrontato con l’incertezza di quello che sarebbe successo dopo, con la paura di non farcela, con la caparbietà dello spirito di sopravvivenza. Infine, dopo il viaggio anche attraverso la Libia di Gheddafi, si sono imbarcati verso l’Italia dopo lo scoppio delle primavere arabe. Il viaggio in mare è durato due giorni e dopo aver perso i sensi, al risveglio in un ospedale di Lampedusa, circondata da uomini bianchi, la prima cosa che ha chiesto Evelyne è stata: “Sono viva?” Importante il messaggio lasciato dalla donna a chi ascoltava: all’inizio, quando le domandavano della sua storia, reagiva con rabbia perché la gente non comprendeva realmente ciò che aveva vissuto. Poi, anche grazie a un percorso di supporto psicologico, ha capito di dover incanalare la sua rabbia per fare informazione e così è diventata divulgatrice e intermediatrice culturale. Il secondo intervento è stato quello di Rachele Ossola, appena rientrata da un viaggio in Congo con l’associazione Source International, una Ong che lavora in tutto il mondo con le comunità che si trovano ad affrontare problemi di inquinamento ambientale e di salute, causati principalmente dalle industrie estrattive. Insieme ad altre associazioni presenti sul territorio, Source International si occupa di analizzare campioni di acqua, di terra e di aria, fornendo assistenza scientifica a supporto delle comunità locali, che possono così cercare di tutelare le proprie risorse e la propria salute. Rachele Ossola ha raccontato del suo recente viaggio a Kolwezi, detta la capitale del cobalto, perché fornisce la materia prima per circa il 70% del fabbisogno mondiale. Ha descritto cumuli di terra rossa, materiale di scarto delle miniere che vengono depositati nei pressi e creano un paesaggio particolare, che ricorda il Gran Canyon al contrario. In queste zone operano le grandi industrie estrattive e piccoli artigiani che cercano di recuperare dal materiale di scarto altro materiale da vendere. L’aria circostante è carica di particolato atmosferico che causa problemi respiratori e infiammatori. Il team di ricerca ha fatto diversi rilievi e ha portato in Italia i campioni per le analisi; saranno pronti tra un paio di mesi, ma già dai primi rilievi è stato evidenziato come i filtri utilizzati per la campionatura dell’aria fossero neri, pertanto molto carichi di particolato atmosferico. La campionatura dell’acqua dei pozzi a uso domestico, poi, aveva un ph intorno al 3.5, quindi molto acido; l’Organizzazione Mondiale della Sanità stabilisce che il giusto ph dell’acqua potabile dovrebbe essere compreso tra il 6.8 e l’8.5. Donne e bambini sono coloro che stanno più a contatto con l’acqua e ne pagano maggiormente le conseguenze. L’ultimo intervento è stato quello di Salvatore Attanasio, padre dell’ambasciatore italiano in Congo Luca Attanasio, ucciso in un agguato il 22 febbraio 2021, che ha portato la sua testimonianza in merito al lavoro svolto dal figlio in Congo e alle circostanze della sua morte, al momento non ancora del tutto chiarite. Nominato ambasciatore italiano in Congo nel 2017, Luca Attanasio aveva in precedenza lavorato in Marocco e Nigeria per sette anni; arrivato in Congo, si rese subito conto della situazione disastrosa delle comunità locali. Insieme alla moglie Zakia Seddiki Attanasio nel 2017 fondò l’associazione Mama Sofia a supporto dell’educazione e della formazione dei bambini e giovani in difficoltà e collaborò con il Premio Nobel per la Pace 2018, il Dott. Mukwege (ginecologo), che aveva fondato nel 1998 a Bukavu il Panzi Hospital per la cura delle donne vittime di atroci stupri. Attanasio era sempre in prima linea per aiutare sia gli italiani che vivevano in Congo che le comunità locali. Poi, il 22 febbraio 2021, a 25 Km da Goma, in un viaggio per una missione umanitaria su invito delle Nazioni Unite, fu ucciso insieme al carabiniere Vittorio Iacovacci e all’autista congolese Mustapha Milambo. Le indagini portarono all’arresto di sei congolesi, di cui cinque stanno scontando la pena dell’ergastolo, ma secondo il padre non vennero condotte in modo chiaro e trasparente. Il processo in Congo si svolse in un tribunale di fortuna, mentre in Italia non è ancora terminato. La famiglia non è stata supportata dalle istituzioni, tanto che il governo italiano non si è neanche costituito parte civile, il che avrebbe agevolato la ricerca della verità. A seguito della morte di Luca Attanasio, è nata l’associazione Amici di Luca Attanasio per far conoscere la sua figura e sensibilizzare i giovani sui temi della pace, dell’uguaglianza e della legalità. Il racconto del padre di Luca è stato molto commovente e dimostra come il dolore per la perdita di un figlio possa trasformarsi in una testimonianza di pace e di ricerca di giustizia e verità. Al termine della serata restano le domande: che fine ha fatto il Diritto Internazionale e cosa possiamo fare noi per rendere più giusto questo mondo? Le risposte sono sempre le medesime: informarsi, divulgare, sensibilizzare. Dove le istituzioni sono assenti, chi non vuole essere complice del lassismo e delle ingiustizie può unirsi, collaborare e prendere coscienza. Foto di Michele Testoni Monica Perri
L’Africa, il continente più saccheggiato della storia
> L’Africa è la ferita aperta del pianeta. Il continente più saccheggiato della > storia entra nel XXI secolo portando con sé vecchie catene e affrontandone di > nuove. Prima erano carovane di schiavi, poi navi cariche di oro e diamanti, > ora container di petrolio, litio, cobalto e coltan. Il metodo cambia, lo > sfruttamento continua. La mappa africana non è stata disegnata dai suoi popoli. È stata tracciata a Berlino nel 1885, quando le potenze europee si sono spartite le terre come se fossero monete. Quella cicatrice brucia ancora. Oggi, 140 anni dopo, l’Africa continua a pagarne il prezzo: frontiere inventate, guerre infinite, ricchezze trasformate in maledizioni. Il XXI secolo è iniziato con promesse di globalizzazione e libertà. Quello che è arrivato è stata un’altra ondata di saccheggi. La Cina costruisce strade e porti, ma in cambio di petrolio in Angola, rame in Zambia e litio in Zimbabwe. La Russia invia armi e mercenari, offrendo protezione in cambio di oro in Sudan e uranio in Niger. Gli Stati Uniti e l’Europa mantengono società minerarie, basi militari e contratti mascherati da cooperazione. La scacchiera è globale, ma i popoli africani hanno poca voce in capitolo. L’Africa concentra il 30% delle risorse minerarie del pianeta. Il Congo produce oltre il 70% del cobalto mondiale, indispensabile per le auto elettriche e le batterie. La Guinea possiede immense riserve di bauxite. Il Sudafrica esporta oro e platino. L’Angola estrae petrolio, la Nigeria gas, il Mozambico carbone. Il litio dello Zimbabwe è molto ambito dalle aziende tecnologiche. Tuttavia, oltre 400 milioni di africani sopravvivono con meno di due dollari al giorno. Questa è la brutale contraddizione del XXI secolo. Il saccheggio non avviene più con i fucili, ma con prestiti e contratti. La Cina finanzia megaprogetti che lasciano debiti. L’Occidente esige riforme in cambio di aiuti. La Russia insedia mercenari che controllano le miniere. I governi africani spesso firmano accordi che cedono il sottosuolo in cambio di briciole. La corruzione e le élite locali sono complici di un sistema che mantiene il continente incatenato. L’Unione Africana sta cercando di rispondere. Nel 2021 è entrato in vigore ilITrattato di Libero Commercio Continentale Africano, con l’ambizione di unire 54 paesi e 1,3 miliardi di abitanti in un mercato comune. Si tratta di un passo storico, ma fragile: la povertà, le pressioni esterne e le divisioni interne minacciano di renderlo lettera morta Il volto dell’Africa è giovane. Il 60% della sua popolazione ha meno di 25 anni. Milioni di giovani chiedono istruzione, lavoro e un futuro. Sono loro che affollano i barconi che attraversano il Mediterraneo in cerca di una vita dignitosa in Europa. Ogni corpo sepolto in mare è il ricordo di un continente sfruttato fino allo sfinimento. La violenza non si ferma. Il Sahel è teatro di guerre, in Mali, Burkina Faso, Niger. La Somalia è ancora alle prese con il terrorismo. Il Congo sanguina a causa delle milizie che controllano le miniere di coltan. Il Sudan brucia per l’oro. La sicurezza è il business più redditizio del XXI secolo in Africa. E le armi, come sempre, arrivano dall’esterno. Ma l’Africa resiste. Le comunità difendono le terre contro le aziende forestali e minerarie. Le donne organizzano reti di produzione locale. I giovani creano movimenti digitali e politici che sfidano i governi corrotti. Paesi come l’Etiopia e il Sudafrica cercano strade proprie. Non sono vittorie definitive, ma sono crepe nel muro del saccheggio. Il colonialismo ha cambiato bandiera ma non logica. Dove prima c’erano i fucili ora ci sono i debiti. Dove prima c’erano le catene ora ci sono i contratti. Dove prima c’erano i viceré ora ci sono presidenti obbedienti. Il risultato è lo stesso: la ricchezza se ne va, la povertà rimane. Il pianeta non può vivere senza l’Africa. Senza il suo cobalto non c’è transizione energetica, senza il suo litio non ci sono auto elettriche, senza il suo coltan non ci sono cellulari, senza il suo uranio non c’è energia nucleare. L’Africa sostiene il mondo senza ricevere nulla in cambio. Questa è l’ingiustizia che reclama a gran voce. Il futuro non è scritto. Potrebbe essere un altro ciclo di saccheggi o potrebbe essere il risveglio di una sovranità reale. La chiave è che l’Africa negozi in blocco, controlli le proprie risorse e rompa con la dipendenza. Che la cooperazione sostituisca il saccheggio. Che la dignità valga più del contratto. Il XXI secolo non sarà giusto se l’Africa continuerà a essere un bottino. Il continente più giovane del pianeta non è condannato a ripetere la schiavitù. È chiamato a scrivere il proprio destino. -------------------------------------------------------------------------------- Traduzione dallo spagnolo di Stella Maris Dante. Revisione di Thomas Schmid. Mauricio Herrera Kahn
Quando e perché siamo tutti e tutte palestinesi
Premessa Nel titolo ritroviamo uno degli slogan più urlati nelle manifestazioni di piazza degli ultimi mesi contro il genocidio. Certo sarebbe a dir poco presuntuoso, se non folle, solo pensare di paragonarsi a un palestinese e non solo di oggi. Eppure individui, gruppi, nazioni a diverse latitudini e in tempi […] L'articolo Quando e perché siamo tutti e tutte palestinesi su Contropiano.
Fragilità, ferite e un futuro possibile
Non basteranno i sistemi di sorveglianza più sofisticate, le aree video- controllate, le geolocalizzazioni o i controlli facciali. La vita è e rimane fragile per tutti ed è solo una questione di tempo. Una manciata d’anni o poco più. La metafora della sabbia o della polvere non sono mai fuori […] L'articolo Fragilità, ferite e un futuro possibile su Contropiano.
Roma. L’overtourism devasta le città e i diritti dei lavoratori
Le nostre città stanno attraversando un cambiamento epocale dal punto di vista della vocazione economica e produttiva: il processo di deindustrializzazione dell’Italia e la complementare terziarizzazione dell’economia ha progressivamente trasformato il mondo del lavoro e il territorio. L’economia di piccola scala caratterizza più del novanta per cento delle imprese italiane […] L'articolo Roma. L’overtourism devasta le città e i diritti dei lavoratori su Contropiano.
Frontiere dello sfruttamento: il content creator…
Il content creator che tipo di lavoro è? È un lavoro? Bisogna forse iniziare a interrogarsi soprattutto se sia una nuova tipologia di lavoro e se sia una variante di qualcosa di molto vecchio. È ovviamente nuovo relativamente alle tecnologie che utilizza, alle modalità in cui si presenta e in […] L'articolo Frontiere dello sfruttamento: il content creator… su Contropiano.
Nel mondo 1 persona su 4 in condizione di sfruttamento o schiavitù moderna è minorenne
La maggior parte dei 12,3 milioni di bambini in condizione di sfruttamento o schiavitù moderna, ovvero circa 9 milioni, è coinvolta in matrimoni forzati, mentre i restanti 3,2 milioni sono divisi in sfruttamento sessuale (1,6 milioni), sfruttamento lavorativo o in attività illecite (1,3 milioni) e lavori forzati imposti dalle autorità statali (320.000). Per quanto riguarda la tratta, nel 2022 è minore più di una vittima su 3 (il 38% del totale delle 68.836 persone coinvolte per cui è stata rilevata l’età, cioè oltre 26mila bambini e adolescenti). E’ senz’altro una sottostima, ma in ogni caso il numero di minori identificati come vittime di tratta è aumentato del 31% rispetto al 2019, evidenziando una crescita significativa nella rilevazione del fenomeno minorile a livello globale. L’incremento è attribuibile alla maggiore incidenza delle ragazze tra le vittime trafficate a fini di sfruttamento sessuale e all’aumento dei ragazzi vittime di tratta per lavoro forzato, in particolare in Europa e nel Nord America, e alla forte crescita delle vittime minorenni in Africa Sub-Sahariana. Sono alcuni dei dati della XV edizione del Dossier Piccoli Schiavi Invisibili di Save the Children sul fenomeno della tratta e dello sfruttamento dei minori, un fenomeno che negli ultimi anni ha assunto una dimensione sempre più complessa e dinamica, alimentata da crisi globali interconnesse. Le ragazze rappresentano il 57% delle vittime minorenni rilevate a livello globale e nel 60% dei casi il loro sfruttamento è di tipo sessuale. I ragazzi, al contrario, risultano maggiormente coinvolti in situazioni di lavoro forzato (45%). I Paesi dell’America Centrale e dei Caraibi si presentano come quelli con la più alta incidenza di vittime minorenni: più di 3 vittime su 5, tra quelle rilevate, sono sotto i 18 anni (67%). Seguono l’Africa Sub-Sahariana e i Paesi del Nord Africa con, rispettivamente, il 61% e il 60% dei minori tra le vittime di tratta. Per quanto riguarda l’Europa, nel 2023 le vittime minorenni di tratta costituiscono il 12,6%, pari a 1.358 bambine, bambini e adolescenti, per lo più identificate in Francia (29,4%), Germania (17,7%) e Romania (16,3%), sfruttate nel 70% dei casi a fini sessuali, mentre il restante 30% è impiegato in lavoro forzato (13%) o in altre forme come l’accattonaggio forzato o attività criminali forzate (17%) come rapine, borseggi o spaccio di sostanze stupefacenti. “Rilevante sottolineare – sottolinea Save the Children –  che, nel periodo 2021-2022, l’81% delle vittime di tratta minorenni (2.401) in Europa era rappresentato da cittadini dell’UE e l’88% di essi (2.120) è stato sfruttato nello Stato membro di appartenenza. Generalmente, i trafficanti cercano di adescare minori che provengono da contesti sociali e familiari fragili, che vivono in condizioni di povertà e in alcuni casi soffrono di disturbi psicologici”. In Italia, invece, la tratta e lo sfruttamento dei minori rappresentano una realtà sommersa, che coinvolge sia flussi migratori internazionali – il Paese si conferma crocevia di transito e destinazione di minori vittime di tratta – sia contesti interni di vulnerabilità sociale.  Le vittime sono spesso coinvolte in forme multiple di sfruttamento: sessuale, lavorativo, forzato in ambito domestico, fino al coinvolgimento in attività criminali forzate o accattonaggio coatto. La digitalizzazione della società contemporanea ha profondamente trasformato il panorama della tratta e dello sfruttamento minorile. In questo contesto, si parla sempre più spesso di “e-trafficking”, che include tutte le forme di tratta e sfruttamento di esseri umani che si avvalgono in modo determinante delle tecnologie digitali, sia per il reclutamento, l’adescamento e il controllo delle vittime, sia per la gestione logistica, il pagamento e la distribuzione dei profitti. “L’e-trafficking, sottolinea Save the Children, caratterizzato dall’uso sistematico di piattaforme online, social network, app di messaggistica e strumenti digitali, consente di abbattere le barriere geografiche, rendere più rapidi ed efficienti i processi di tratta e sfruttamento e ridurre i rischi per gli sfruttatori. Questa modalità – utilizzata sia per sfruttamento sessuale che per il coinvolgimento dei minori in attività criminali forzate, il lavoro forzato e la produzione e/o distribuzione di materiale di abuso online – permette di raggiungere un numero molto più ampio di potenziali vittime, di agire in modo anonimo e di rendere più difficile l’individuazione e il contrasto da parte delle autorità”. Una nuova frontiera è la “gamification” dello sfruttamento, una strategia che utilizza gli sviluppi della tecnologia – che ha trasformato le esperienze di gioco online facendole passare da piattaforme chiuse a spazi virtuali che consentono un’ampia gamma di interazioni sociali – e la risposta psicologica associata alle fasi del gioco – come il progresso (es. Il passaggio a un livello successivo del gioco) o i premi e le ricompense (es. i badge che si ottengono quando si completa un’attività o si vince una sfida) – per rendere più accettabile e “normale” la partecipazione a reti criminali, mascherando lo sfruttamento dietro dinamiche ludiche e sociali apparentemente innocue. Qui il Rapporto: https://www.savethechildren.it/cosa-facciamo/pubblicazioni/piccoli-schiavi-invisibili-2025. Giovanni Caprio
VERONA: CHIUSA L’OCCUPAZIONE DEL GHIBELLIN, MA “LA LOTTA È ANCORA APERTA”. TRASMISSIONE SPECIALE CON LE VOCI PROTAGONISTE
Si è chiusa l’esperienza di occupazione abitativa del Ghibellin Fuggiasco. Attiviste e attivisti del Laboratorio Autogestito Paratod@s di Verona hanno comunicato alla stampa una decisione presa già da alcuni mesi e che a portato alla chiusura definitiva dello stabile di viale Venezia 51, lo scorso 10 maggio. Il tempo intercorso da allora è servito a Paratod@s per elaborare una posizione politica da rendere pubblica e anche per continuare a trovare una soluzione abitativa alle decine di migranti che senza il Ghibellin non hanno un posto dove abitare. L’idea di occupare lo stabile abbandonato da trent’anni, che si trova a lato dello spazio Paratod@s, era stata presa nel 2021. All’epoca decine di giovani originari principalmente da alcuni paesi dell’Africa occidentale, erano stati ospitati nei locali in affitto da compagni e compagne, dove da dieci anni si svolgono attività politiche e culturali. Era poi scaturita l’idea di occupare la struttura adiacente al Laboratorio. Non doveva essere un’occupazione di lungo periodo, precisano nel comunicato diffuso oggi il collettivo Paratod@s, “pensavamo si trattasse di una situazione temporanea e non immaginavamo l’inizio di un percorso”. I coinquilini che alloggiavano al Ghibellin erano perlopiù lavoratori in regola con il permesso di soggiorno, provenienti principalmente da Mali, Burkina Faso, Senegal, Gambia e Nigeria. Oltre 150 quelli ospitati negli anni: hanno alloggiato nei due piani dello stabile occupato, in alcuni periodi, anche da 60 persone contemporaneamente. Negli stessi spazi aveva trovato alloggio anche Moussa Diarra, ventiseienne maliano ucciso dalla Polizia il 20 ottobre scorso. “Le condizioni igienico/sanitarie e le problematiche strutturali dell’edificio non consentivano più di garantire il pieno rispetto della dignità umana. E se non abbiamo tenuto fede all’impegno di chiudere prima dell’inverno è stato solo per non aggiungere altro disagio alla già grave emergenza freddo, gestita con numeri e modalità che da sempre riteniamo insufficienti e non adeguate”, è scritto nel comunicato stampa. “Negli anni si è venuta a creare una comunità di lotta composta da attivisti e migranti“, aggiungono ai nostri microfoni da Paratod@s, ripercorrendo l’esperienza. “Speravamo che l’enormità del problema sollevato e la nostra spinta dal basso avrebbero portato a risposte concrete e ad un cambio radicale di visione sul tema casa, accoglienza e dormitori”. Negli anni qualche risposta è arrivata, lo riportano i numeri diffusi oggi da Paratod@s: “15 persone sono stabilmente ospitate in strutture Caritas, attraverso l’intervento del vescovo Pompili, tra dicembre 2023 e gennaio 2024; 22 persone hanno una casa AGEC (tra quelle non comprese nel piano di riatto/assegnazione dell’ente) attraverso la collaborazione con la cooperativa La Casa degli Immigrati; 5 persone hanno ottenuto posti letto attraverso la collaborazione con la cooperativa La Milonga; 1 persona ha avuto posto letto attraverso i servizi sociali del Comune di Verona; circa 30 persone hanno ottenuto la residenza fittizia, attraverso il dialogo con l’ufficio anagrafe del comune di Verona e la collaborazione con la rete sportelli; 6 persone sono state escluse da qualunque tipo di percorso e soluzione da parte delle istituzioni, nonostante la pressione esercitata nei mesi successivi, affinché si trovasse una sistemazione”. Compagni e compagne di Paratod@s rivendicano un’esperienza che “ha mostrato come l’azione dal basso di autorecupero di un edificio abbandonato sia pratica possibile, realizzabile e necessaria. In una città come Verona, con centinaia di edifici pubblici vuoti, con un mercato immobiliare intossicato dal profitto, in cui a student3 universitari3 vengono chiesti 500 euro per un posto letto, i progetti di Hotel/cohousing sociale dovrebbero essere pubblici e accessibili”. Radio Onda d’Urto ha incontrato la comunità del Ghibellin presso il Laboratorio Autogestito Paratod@s e ha realizzato una trasmissione speciale con i protagonisti dell’esperienza dell’occupazione abitativa. La prima parte della trasmissione (37 minuti). Ascolta o scarica La seconda parte della trasmissione (42 minuti). Ascolta o scarica Con le voci di Rachele Tomezzoli, Giuseppe Capitano, Osasuyi, Alessia Toffalini, Bakari Traoré, Sekou.
Forlì, Gruppo 8 Sfrutta e poi scappa, Fermiamoli!
Quarto giorno di sciopero e picchetto degli operai di fronte alla Gruppo 8 a Forlì. L’azienda vuole liberarsi di chi ha conquistato diritti e contratti corretti e la Prefettura chiede lo sgombero del presidio sindacale. Fino allo scorso dicembre questi stessi lavoratori venivano sfruttati con turni di 12 ore al giorno ed erano alloggiati in un dormitorio allestito dall’azienda all’interno dello stabilimento in condizioni disumane. A dicembre poi lo sciopero – sostenuto dal Sudd Cobas – e dopo sette giorni di presidio la conquista di contratti regolari e la fine del supersfruttamento. – Dal momento in cui non lavoriamo più dodici ore, non hanno più bisogno di noi – I lavoratori, formalmente, sono alle dipendenze della Sofalegname, una società farlocca a conduzione cinese che svolge in monocommittenza la produzione per Gruppo8, perlopiù all’interno dello stesso stabilimento di GRUPPO8. Gruppo 8 a sua volta è ilramo italiano della multinazionale ale HTL, leader nel mercato dei divani di lusso. Siamo di fronte ad un sistema di scatole cinesi costruito per abbattere i costi e calpestare la dignità del lavoro. Dopo la regolarizzazione dei lavoratori l’azienda vuole liberarsi di chi ha lottato, da un parte delocalizzando al produzione in Cina, dall’altra dando in conto terzi la lavorazione ad aziende dove i diritti non ci sono, e che quindi possono continuare a produrre a prezzi stracciati Mercoledì mattina i lavoratori hanno iniziato a bloccare i 18 containers di materiali diretti al porto di Ravenna per arrivare in Cina. Mentre la Sofalegname comunicava la chiusura della lavorazione dello stabilimento Gruppo 8, e la conseguente perdita di 40 posti di lavoro. Gruppo 8 sostiene sia semplicemente scaduto il contratto di comodato d’uso gratuito con Sofalegname. Guarda caso finché c’era lo sfruttamento Sofalegname poteva lavorare gratis in quel capannone. Una volta regolarizzata la situazione, Sofalegname deve liberare lo spazio e buttare in mezzo ad un strada 40 persone. Da mercoledì stiamo picchettando l’azienda, per impedire che la delocalizzazione e i licenziamenti. Per lanciare un messaggio alla multinazionale del divano di lusso, che come tante altre, sfrutta risorse e persone del territorio e poi quando dovrebbe iniziare a lavorare correttamente pensa di fare le valige e andare dove più gli conviene. I lavoratori non sono arance da spremere e buttare via. Da quattro giorni stiamo chiedendo a Gruppo 8 chiarezza sul futuro dello stabilimento e sui posti di lavoro. Gruppo 8 continua con arroganza a sostenere che né il sindacato nè i lavoratori hanno il diritto non solo di sapere, ma tanto meno di chiedere quali sono le prospettive sulla produzione. Gruppo 8 si rifiuta da 10 giorni anche di incontrare la Fillea che chiede un incontro in merito alla prospettive dei dipendenti diretti. La Prefettura di Forlì oggi risposta alla nostra richiesta di convocare Gruppo8 a un tavolo intimandoci lo sgombero del presidio, arrivando ad affermare l’estraneita di Gruppo 8 in questa vertenza e quindi l’illegittimita dell’agitazione sindacale. La Prefettura contraddice se stessa poiché, in realtà, aveva convocato Gruppo8 e la HTL al tavolo di mediazione durante lo sciopero dello scorso dicembre. In quel caso la Prefettura aveva chiesto a Gruppo8 di non nascondersi dietro un dito. Oggi la Prefettura rischia di essere il dito dietro cui Gruppo8 nasconde le proprie responsabilità. I lavoratori della Sofalegname, da sempre, lavorano nello stabiimento Gruppo8 e sotto la direzione diretta di Gruppo8. E la delocalizzazione della produzione è evidentemente una scelta che può essere discussa solo con Gruppo8. È incomprensibile l’idea della Prefettura secondo cui la vertenza debba essere discussa ad un tavolo tra sindacato e la Sofalegname, quando la Sofalegname senza Gruppo 8 non sa nemmeno allacciarsi le scarpe. E più risponde alla nostra richiesta di convocare un tavolo dicendo che farà intervenire le forze del’ordine per sgomberare i lavoratori che rischiano il licenziamento. Chiediamo alla Prefettura di tornare su i suoi passi e convocare Gruppo 8 al tavolo di trattativa, replicando quanto già fatto a dicembre dello scorso anno. In quel caso, l’iniziativa contribuì a fare uscire dallo sfruttamento decine di lavoratori. Oggi si tratta di salvare i posti di lavoro di quegli stessi lavoratori. Chiediamo a tutti solidali e sindacati di sostenere i lavoratori in sciopero e convergere su una mobilitazione sotto al prefettura che chiameremo a breve. Continuiamo a sostenere il picchetto dei lavoratori che va avanti 24h in Via Gramadora. Portiamo entusiasmo, tempo, acqua per stare al fianco di chi lotta. The post Forlì, Gruppo 8 Sfrutta e poi scappa, Fermiamoli! first appeared on SUDD Cobas. The post Forlì, Gruppo 8 Sfrutta e poi scappa, Fermiamoli! appeared first on SUDD Cobas.
GLOVO E DELIVEROO OFFRONO “BONUS” AI RIDER PER LAVORARE SOTTO TEMPERATURE ESTREME, ANCHE OLTRE I 40 GRADI.
Glovo, colosso delle piattaforme che gestiscono le consegne a domicilio, propone bonus economici legati alle temperature per i rider, costretti a pedalare per le vie delle città italiane travolte dalla crisi climatica e da temperature record: 2% tra i 32 e i 36 gradi, 4% tra i 36 e i 40, 8% per temperature superiori ai 40 gradi. Lo denuncia il Nidil Cgil che, in una lettera inviata a Glovo, sottolinea: “nessun compenso può giustificare il lavoro in condizioni di rischio estremo”. L’azienda di consegne non ha per ora dato alcuna risposta al sindacato. Nidil Cgil ha avuto un confronto anche con l’altra piattaforma internazionale delle consegne a domicilio, Deliveroo, che per venire incontro ai propri rider, oltre ad incentivi per lavorare al caldo, ha promesso…”una borraccia, che dovrebbe comunque arrivare verso il 20 luglio”. A dirlo, a Radio Onda d’Urto, è Danilo Bonucci, segretario Nidil Cgil di Torino, una della città dove i rider hanno ricevuto il messaggino delle piattaforme che li informava dei bonus. Ascolta o scarica