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Torino Film Festival 2/ Magellan di Lav Diaz
Presentato in Italia a novembre, al Torino Film Festival, dopo una prima partecipazione alla Cannes Première Selection in maggio e un ancor più significativo debutto nelle Filippine in settembre, il film di Lav Diaz è la drammatica cronaca dell’ascesa e caduta dell’esploratore portoghese Ferdinando Magellano, che per primo ha aperto la via alla navigazione verso il Pacifico, doppiando il Cabo de Hornos, nei primi anni ‘20 del XVI secolo. Regista e sceneggiatore filippino, Diaz ha lavorato per oltre due decenni sui temi della storia, della memoria e del loro intreccio con il sanguinoso presente del suo paese. Da tempo – dichiara – intendeva realizzare un racconto sulle grandi esplorazioni del passato e sulla presenza – e la resistenza – delle popolazioni filippine in questa storia. La figura di Magellano, vero e proprio incunabolo della sanguinosa storia del colonialismo europeo, si prestava perfettamente a questa impresa. > Ben interpretato dall’enigmatico Gael García Bernal, Magellano compie l’intera > parabola che lo porta dall’iniziale idealismo e sete di avventura allo > sfrenato delirio di conquista e di sottomissione dei nativi. Il movente economico è praticamente assente nella vicenda. Non si parla né si sogna di inesauribili miniere d’oro o del mitico paese di Cuccagna. Tutto è molto circoscritto, limitato, quasi modesto. I conquistatori scoprono piccoli villaggi sulla costa, abitati da innocui e pacifici nativi, con cui la comunicazione è a malapena possibile. La religione ci mette lo zampino col tentativo monoteista di soppiantare i culti locali. Rappresentato in tutta la sua dimensione superstiziosa, il cristianesimo sembra avere la meglio per un attimo, prima che si scateni l’inevitabile rivolta, a causa della sua pretesa di unicità e la sua ossessione di superiorità, difficile da far digerire anche ai più pacifici “selvaggi” E tuttavia l’imposizione si farà: le Filippine sono oggi il paese più cattolico in tutta l’Asia e il culto del “Santo Niño”, alla cui introduzione proprio da parte di Magellano assistiamo nel film, è ancora ampiamente diffuso. Il tono complessivo è sobrio, con colori e luce naturali che ricordano le atmosfere tropicali di Aguirre, furore di Dio, con una camera molto statica e riprese in stile documentaristico, per uno sguardo talvolta etnografico (penso alla Colchide nella Medea di Pasolini) e una felice ossessione per i dettagli, magistralmente curati sia nelle scene terrestri che in quelle di navigazione. La pioggia, il vento, la vegetazione “parlano” tanto quanto gli umani, che faticano a capirsi tra di loro e con se stessi: che cosa fa perdere a Manuel I, re del Portogallo, l’occasione di servirsi delle conoscenze e del coraggio di Magellano, che si farà finanziare dagli Spagnoli con l’appoggio dei lungimiranti banchieri Fugger? Che cosa impedisce a Magellano stesso, dopo l’epocale exploit nautico, di approfittare della benevolente accoglienza e del relativo successo inizialmente ottenuto con i capi locali? Non i nativi ma gli europei, nella loro sorda monomania, sembrano i veri selvaggi, Magellano incluso, per cui il film non mostra alcuna simpatia. Insieme a Bernal nei panni del protagonista, il film lascia spazio ad attori non-professionisti che, spiega il regista, danno spesso luogo a qualcosa di inatteso, a una vitalità e spontaneità emotiva che arricchisce l’intero processo cinematografico. > Diaz spiega di prediligere l’”irripetibile” per come si mostra nella sua > nudità, di fronte alla camera. Per questo afferma di realizzare, per > principio, soltanto una singola ripresa per ogni scena, senza effettuare > ripetizioni, senza una seconda chance: gli attori danno tutto, in uno sforzo > unico e irripetibile. Da questa unica ripresa piena di tensione emotiva, > spiega Diaz, esce quasi sempre qualcosa di buono. Questa impostazione di metodo mi sembra una ricchissima metafora, particolarmente adatta proprio al film storico, perché della storia coglie appunto il ritmo unico, irripetibile, in un certo senso eracliteo: non c’è spazio per ripetizioni o pentimenti, tutto si fa una sola volta nel grande fiume degli eventi. Nell’immagine di copertina un fotogramma del film SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Torino Film Festival 2/ <em>Magellan</em> di Lav Diaz proviene da DINAMOpress.
Torino Film Festival 1/ Highest 2 Lowest di Spike Lee
Spike Lee torna in duetto con Denzel Washington per la quinta collaborazione in un remake dell’epocale High and Low del maestro Kurosawa (anch’egli in duetto con Toshiro Mifune, con cui totalizzarono però ben 16 collaborazioni). La critica sembra dividersi su questo film, mai noioso (è vero) ma anche un po’ scontato (altrettanto vero). Il canovaccio è semplice e ruota intorno al dilemma morale (e anche un po’ materiale, visti i 17,5 milioni di dollari in gioco) che un imprenditore afroamericano di immenso successo nell’industria musicale deve affrontare quando scopre che, a causa di un involontario scambio di persona, il riscatto chiesto per il rapimento del figlio dovrebbe in realtà servire a liberare il figlio del suo migliore amico, nonché autista personale. Due sono gli elementi socio-politici attorno a cui il film viene costruito, entrambi cari alla cinematografia precedente di Lee (e di Washington), cioè la classe e la “razza”, termine che impiego per comodità, in quanto di uso comune nell’inglese-americano, in cui è considerato neutro e descrittivo, ma giustamente non potabile nel nostro idioma, non solo per il portato storico ma per l’assoluta inconsistenza scientifica che, a buon diritto, prevale sull’impiego retorico. Classe e razza, dunque, di cui si pena un po’ a capire come l’uno si innesti sull’altro o se uno dei due abbia alla fine il sopravvento nel film. La domanda servirebbe a chiarire il messaggio politico (di cui stupirebbe l’assenza in un’opera dell’autore di BlacKkKlansman, Malcolm X e When the Levees Broke, solo per citare alcuni dei suoi precedenti capolavori). Purtroppo però, nello scintillio di una regia eccessivamente sfarzosa, la domanda evapora, ingoiata da un lieto fine che lascia tutto al proprio posto, sia la razza, sia la classe. Né in conferenza stampa (al Torino Film Festival, dove il film è stato presentato) Lee è stato più esplicito su questa o su qualcuna delle domande più politiche che gli sono state rivolte. Commentando il recente incontro, che si voleva distensivo, tra il neo-Sindaco di New York Zohran Mamdani e Donald Trump, Lee ha affermato, non proprio perentoriamente, che… «we shall see what we shall see», staremo a vedere. Ci si poteva aspettare qualcosa di più… La produzione e la distribuzione hanno avuto un ruolo preponderante, come lo stesso Lee ha spiegato rammaricandosi della brevissima permanenza della pellicola nelle sale (soltanto nord-americane) prima dell’uscita globale su AppleTV a inizio settembre 2025. Tuttavia si ha l’impressione (e qui forse ci sarebbe stato qualcosa di più da dire intorno al tema della classe) che Lee sia perfettamente a suo agio nel celebrare il duro lavoro, l’onestà intellettuale, la caratura morale (seppur con qualche comprensibile tentennamento visti i milioni di dollari in gioco) e i sani valori del protagonista David King, magnate e dirigente della gloriosa Label Stackin’ Hits Record. Ma il buon capitalista – potremmo dire – salva anche il capitalismo: il tenore e lo stile di vita, il ruolo sociale, i rapporti coi pari e gli inferiori (da high a low) non sono mai per un momento sottoposti a critica. King è il sogno (afro-)americano che ha trovato il suo posto al cuore, anzi al vertice, del capitalismo metropolitano, poco importa la linea del colore. Stupisce un po’, in sintonia con questo, anche la sfrontata presenza di placement pubblicitari nel film, come il brand della squadra degli Yankees (OK, il film è su New York…), dei pianoforti Steinway & Sons e, soprattutto, dell’iphone di Apple. Anche la rappresentazione della città di New York va in questo senso. La sequenza dell’inseguimento sui binari e nelle stazioni della metropolitana (reminiscente dell’iconico e analogo inseguimento in The French Connection di William Friedkin), girata nel bel mezzo di una celebrazione dell’orgoglio portoricano, è un ritratto della New York dal basso, del popolo colorato e festivo del South-Bronx. Tuttavia, nel film prevale nettamente l’immagine da cartolina di una New York dall’alto, quella dello skyline sfarzoso di South Manhattan, ripreso dai droni o dalla terrazza del milionario penthouse in cui risiede King e la sua felice famiglia, che altro non è, poi, che il vero Olympia Dumbo di Brooklyn, inaugurato e aperto ai suoi milionari residenti nel 2023, in piena crisi degli alloggi nella metropoli americana. > Naturalmente non si deve commettere l’ingenuità di identificare i valori del > personaggio King con quelli del regista Lee. Tuttavia, una certa nota > autobiografica è apertamente rivendicata, sia per il ruolo, simile a quello di > King nel film, che Lee ha giocato e continua a giocare come riferimento > culturale per l’intera nazione afroamericana, sia per come il regista si > auto-cita nel film, ad esempio collocando sui muri dell’appartamento di King > larga parte della collezione d’arte… di proprietà privata dello stesso Lee! Senza dire di più sulla trama, per non svelare l’intrigo che Lee si sforza, ma non sempre con successo, di mantenere incerto e aperto, segnalo in chiusura la colonna sonora, su cui la produzione e il regista hanno lavorato con grande cura, sia per la scelta “alta” delle melodie, dei testi e delle icone musicali black da celebrare, sia per la figura chiave del rapper Yung Felon, interpretato da A$AP Rocky, a rappresentare la miseria, il violento cinismo e l’opportunismo rivendicato fino all’ultimo, per cui né King-Washington né Spike Lee riescono a provare alcuna comprensione, né tantomeno alcuna simpatia. Irenismo fraterno e lieto fine sì, dunque, ma entro certi limiti. Contraddizione di classe all’interno della razza? In ogni caso è di una certa blackness che il film fa l’apologia, quella senz’altro più prossima allo highest del capitalismo culturale americano che al lowest dei ghetti metropolitani. Nell’immagine di copertina un fotogramma del film SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Torino Film Festival 1/ <em>Highest 2 Lowest</em> di Spike Lee proviene da DINAMOpress.
Sulla crudeltà: un inventario poetico
Oh pietosa colei che mi soccorse! E tu cortese, ch’ubidisti tosto alle vere parole che ti porse! alle vere parole che ti porse! Dante Alighieri, Inferno II È indubbio che l’arte non sia affatto tenuta alla rappresentazione dell’orrore, ma il suo movimento la mette senza fatica all’altezza del peggio, e reciprocamente la raffigurazione dell’orrore ne rivela l’apertura a tutto il possibile. George Bataille Le mucche sono fatte per produrre latte, altrimenti soffrono. Le scimmie sono parenti stretti degli umani, per questo sono state lanciate nello spazio e vengono tuttora usate come cavie da laboratorio. I cinghiali si riproducono troppo in fretta, creando seri problemi di sovrappopolazione in alcune aree geografiche. La bile degli orsi contiene una sostanza, l’acido ursodesossicolico, che aiuta a sciogliere i calcoli al fegato e alla cistifellea degli umani. Le orche sono considerate animali intelligenti e sociali, è per questo che vengono catturate e rinchiuse in vasche per la gioia degli astanti di ogni età. I cani sono i migliori amici dell’uomo, ti restano fedeli fino alla morte, la loro. I gatti sono buffi e divertenti ma inaffidabili, soprattutto se di colore nero – portano sfiga. I maiali sono brutti, sporchi e cattivi. In più sono portatori virulenti di pericolosissime malattie letali per gli umani, come l’influenza suina e l’epatite E – per questo vengono rinchiusi, a milioni e al sicuro, dentro un grattacielo di 26 piani dove verranno macellati. Durante la stagione degli amori i trichechi non vanno disturbati, ci tengono alla loro privacy – quindi niente foto e niente video. A caval domato non si guarda in bocca. Del resto un dono è un dono, basta l’intenzione più che il suo valore materiale. Fra gli animali cosiddetti da reddito, gli asini sono coloro che subiscono nefandezze di ogni tipo. Sfruttati, maltrattati, caricati, bastonati, comandati e assoldati – guarda, un asino che vola. Impossibile. Più probabile che sia Balthazar, au hasard. Il panda è un animale dolce, timido e schivo “per natura”. Rifugge gli umani, nascondendosi tra le fitte trame arboree delle foreste – per la società dello spettacolo il panda è un rapporto sociale (tra specie diverse) mediato dall’immagine (quella dello zoo, contenitore di vite reificate artificialmente). Leoni e delfini vengono spesso utilizzati sui set cinematografici. I leoni sono i re della giungla e possono sbranarti per acquisito diritto regale (leo sacer). I delfini sono flipper con cui giocare e divertirsi. Attenzione però al disclaimer che appare nella parte finale dei titoli di coda: «Nessun animale è stato maltrattato durante la produzione di questo film». > La raccolta poetica di Teodora Mastrototaro, Le mucche se non le mungi > esplodono (di gioia), uscito per i tipi di Marco Saya Edizioni nella collana > Poesia Oggi, sceglie il paradosso e sovverte l’ordine del discorso. L’illogicità manifesta dello specismo, che alimenta e struttura il senso comune globale per giustificare lo sfruttamento e la violenza nei confronti degli altri animali, è data da una serie di affermazioni, percezioni e valutazioni accettate come vere, ma che non hanno nessuna plausibilità scientifica (ovvero logica), se non quella di una presunta ragion pratica. Tale precipitato culturale, un vero e proprio zoccolo duro, solido come un macigno e insolubile come l’acqua, fornisce generalmente l’alibi per applicare – materialmente e idealmente- il principio di non responsabilità che formalizza – legalmente e simbolicamente – il comportamento umano verso gli animali. In tutto questo il disclaimer, la traduzione legale di tale principio, è il trucco che rivela la maschera. La dichiarazione di non responsabilità libera i soggetti dal dovere di prestare la giusta attenzione e il dovuto rispetto al vivente tutto, animali compresi. Il libro di Mastrototaro, il cui sottotitolo (crudeltà sugli animali, un inventario poetico) ne condensa la dimensione argomentativa, ha come obiettivo sicuramente quello di ripensare i paradigmi epistemologici dell’umano sentire, aderendo a quell’ontologia animalista che in questo momento sembra essere in grado di scardinare il modello antropocentrico che riconosce lo statuto di soggetto al solo essere umano. Il suo inventario è leggibile come possibilità di sventare la duplice violenza gratuita del senso comune e quella istituzionale del senso pieno. I versi dell’autrice interpretano gli episodi di violenza su animali di ogni tipo, ovunque e in ogni tempo come semiosi che produce nuovi significati in grado di corrompere quelli stantii fin qui adottati e acquisiti.  La descrizione delle situazioni di oppressione e di crudeltà a cui vengono sottoposti gli animali con precise date di riferimento, luoghi e nomi viene in qualche modo incistata dai continui deragliamenti prospettici che con poche e dirimenti parole ridimensionano la loro valenza comunicativa, trasformandoli nella pietosa dea che ti soccorre, quell’arte poetica che insegna a vedere attraverso il punto di vista dell’altro. 18 Maggio 2024- Zoo di Valencia, Spagna: Natalia, femmina di scimpanzè tiene in grembo il corpo morto e in via di decomposizione del figlio nato quattordici giorni prima, continuando ad accarezzarlo. «Abbassare le palpebre/ Per serrare il figlio/ In una fossa/ Per abitare spoglia/ I suoi detriti». CULLARE ALTRI FIGLI SCHIUSI NELLA MORTE La dimensione orrorifica con cui Mastrototaro apre il bollettino di guerra alla pietà viene ridimensionata dal suo personale agire poetico che, in qualche modo, ne infetta, per usare la lingua batailliana, la logica comunicativa. Il senso di tutto ciò allora risiede nella relazione tra i fatti acclarati mediaticamente e la paradossalità che ne attenta lo stesso senso. La cronaca “nera” che scandisce drammaticamente le pagine del libro fotografa lo sconvolgente quanto assurdo zoocidio in atto citando immancabilmente i nomi delle vittime e la data e il luogo dove si è consumato il delitto. Nomi, luoghi e date non hanno volto, sono semplicemente figure anonime rese comprensibili dalla relazione produttiva e perversa tra capitale, politica e vita animale. Il disclaimer, vera e propria sineddoche del capitalismo, è la liberatoria attraverso cui la civiltà del mercato mette in atto la sua propaganda eticamente insostenibile. Nomi, date e luoghi infatti procurano una vertigine di senso che esclude un vero riconoscimento degli animali, includendoli semmai nel dispositivo del censimento come rilevazione di fatti e biografie concepito come sussunzione di nuda vita. 13 novembre 2024 Cina – Oliver (orso); 14 luglio 2020 Trento – M49 (orso); 1994 Zoosafari di Fasano – Riù (gorilla); 9 marzo 2023 Canada – Kiska (orca); 20 gennaio 2023 Turchia – Proteo (cane); 14 agosto 2022 Oslo – Freya (tricheco); 3 novembre 1957 Russia – Laika (cane); 13 dicembre 1958 Stati Uniti – Gordo (scimmia); 24 gennaio 2024 zoo di Colonia – Barney (panda); 11 novembre 2023 Ladispoli – Kimba (leone); 12 novembre 2014 Bahamas – Kathy (delfina); …. > Il bollettino di guerra è un simulacro di un incontro, un riconoscimento > statistico che censisce vite che non contano – meglio, vite che, > paradossalmente, contano solo se contate in quanto vittime, come il quotidiano > body count dei morti palestinesi definitivamente inclusi nella “specie” > inumana. L’inventario poetico reagisce così allo stato delle cose come se fosse un vero e proprio pamphlet politico. Una delle situazioni più deprimenti descritte è quella che riguarda un gorilla – Riù, detto il gorilla triste – rinchiuso in un recinto dentro lo zoosafari di Fasano dal 1994. Nella cella è stata installata una videocamera che trasmette ininterrottamente documentari sulla natura, il cui intento sarebbe quello di fornire al povero gorilla l’illusione della libertà. Riù muore a 54 anni, dopo aver scontato la condanna a 30 anni di carcere inflittagli dai paladini della salvaguardia di specie. Il 26 luglio del 2024 lo zoo gli dedica una lapide. «Ci sono voluti/ trent’anni/ per nutrirsi del corpo/ lacerarti la carne/ la vita>>. Nell’attesa della tua scheletrizzazione/ rinchiudiamo un altro gorilla/ per poi occultarne il corpo/ in un eterno gioco a nascondino post-mortem. Riù semmai continua a vivere nei disegni di Alessandra Antonini, efficace nello schizzare corpi e volti animali che fuggono le nature morte della segnaletica zoologica, scegliendo l’indistinzione dell’immagine sfocata a significare la distorsione della tragica realtà che la questione animale impone. Per citare Bacon, il pittore, le persone si sentono offese, quando un artista è in grado di sbatterti in faccia la cruda verità dei fatti, l’orrore del pianto e del dolore al posto del sorriso compiacente. > Ecco, la poeta Mastrototaro e la disegnatrice Antonini, ci rendono coscienti > di quanto la violenza sugli animali sia patologica. L’uccisione dell’orsa Daniza avvenuta l’11 settembre 2024 a seguito di un’ordinanza di abbattimento emessa dalla Provincia Autonoma di Trento oppure la lapidazione di una cagnolina avvenuta il 25 gennaio 2024 in quel di Corigliano Calabro hanno in comune la gratuità manifesta dell’orrore. Come scrive Arendt in Sulla violenza la distinzione tra potere e violenza consisterebbe nel fatto che il potere ha costantemente bisogno di numeri – la conta di vite che non contano – …laddove la violenza fino a un certo punto può farne a meno perché si affida agli strumenti di cui dispone (H.Arendt, Sulla violenza, Guanda 1996, p.44). Premesso che l’equivalenza tra potere e violenza sia un concetto piuttosto ambiguo e non sostenibile politicamente, il carattere strumentale che Arendt assegna alla violenza è di fatto un cosciente esercizio della forza nei confronti di tutto quel vivente che è messo nella condizione di non poter reagire o non essere in grado in quel particolare momento di difendersi. Così è per Oliver, uno degli orsi “cinesi” della luna a cui viene prelevata bile per ricavarne farmaci….distillati goccia a goccia dall’addome/ come la prima stilla di pioggia che ammazza l’estate, ammazzati o per il cinghiale investito a Firenze …isolato dalle transenne/ il cinghiale/ per lavori (di morte)/ in corso, la differenza si fa sempre più labile in quanto il progresso civile senza limiti agognato da Marx come fine della Storia dello sfruttamento non contempla la violenza come rapporto di forza non paritario e strutturato semmai sulla moltiplicazione della forza in campo. OPERE AL NERO Presto, occultiamoci dentro/la spazzatura/ il colpo di carabina/ la paura. Il lavoro di Mastrototaro è un varco tra una tragica visibilità – visibilità generalmente mediata dai vari dispositivi di comunicazione – e quelle zone oscure, quelle opere al nero in grado di illuminare proprio là dove solitamente non guardiamo. Apparizioni miracolose di un ordine delle cose diverso dal nostro eppure così seducente da meravigliare. Forse è per questo che guardiamo gli animali, come chiede Berger? Un tempo, prima della Storia, gli animali erano visti oltre orizzonte, ovvero, pur soggiogati e uccisi, erano anche venerati e nutriti. La differenza tra potere e violenza allora era data dalla relazione tra uomo e animale; in altre parole ciò che era loro comune era anche ciò che li differenziava. Nel momento stesso in cui gli animali hanno cominciato a sparire da quell’orizzonte di prossimità sensuale per diventare meri ingranaggi della macchina produttiva chiamata sviluppo, la differenza tra potere e violenza si è fatta sempre più sfumata e i due termini hanno assunto una sinonimia finora impensabile. > Essendo stati cooptati nella famiglia e nello spettacolo, la sopravvivenza dei > corpi animali dipende dalla loro invisibilità esistenziale. Quando gli altri animali non entrano nelle categorie che ne permettono la sopravvivenza e ne tollerano l’esistenza o vengono sfruttati e abbattuti come merce o vengono torturati e uccisi come cose. Inoltre, e qui Berger fornisce una lectio magistralis sulla questione animale, più conosciamo gli animali e li studiamo e più la distanza tra noi e loro diverrà incolmabile, mentre l’amministrazione della violenza (di un mattatoio o di un laboratorio) sarà sempre più indistinguibile da uno stupro o da un linciaggio (J. Berger, Sul guardare, B. Mondadori, 2009). In questo senso la lingua adottata da Mastrototaro non solo è la “metrica” con cui prendere le giuste distanze dalla corruzione del mondo contemporaneo, ma anche verso,ovvero direzione da intraprendere per cambiarlo. Il verso impone l’ascolto a discapito di ogni presunta interpretazione, come un raglio, un latrato, un mugghio o un barrito. O come un umano balbettare e il suo gridare alla luna, quanto un lupo.  Per l’orso il gelo/ dura il tempo di un sogno/ ma ora il suo sonno/ somiglia alla neve. Come dice Bianca Nogara Notarianni nella sua prefazione, alla violenza dei corpi animali esposti «vi si potrà sfuggire soltanto attraverso la creazione di spazi inediti, impensati, durassero anche il tempo di un verso, di una strofa». Il cielo stellato scompare/ quando all’orizzonte/ si ferisce il mare. La copertina è di Schneeknirschen (Pixabay) SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Sulla crudeltà: un inventario poetico proviene da DINAMOpress.
Di che cosa Toni è il nome
Chi non è più giovanissimo sa che cosa voleva dire citare il nome di Toni Negri in Italia negli anni precedenti al suo successo planetario avvenuto più o meno all’altezza dei primi anni Duemila. Nella migliore delle ipotesi ci si trovava di fronte a un’alzata di spalle, nella peggiore a un anatema o a un’accusa di essere fiancheggiatore di un terrorista. Perchè il teorema Calogero – la cui istruttoria, è bene ricordarlo a chi non conosce la storia italiana degli anni Settanta, venne ridicolizzata in sede di dibattimento e la pressoché totalità delle accuse riconosciute come delle bizzarre fantasie cospirazioniste – ha in realtà scavato nel profondo dell’inconscio della nazione. E l’associazione di Toni Negri con un insieme indefinito di fatti di sangue degli anni Settanta («l’ideologo degli anni di piombo») è stato per molto tempo così forte da andare oltre ogni evidenza giudiziaria e verità storica. Poi certo, le cose sono cambiate e, come accade sempre a un paese così esterofilo come l’Italia, gli intellettuali rimossi e cacciati fuori dalla porta, sono finiti per rientrare dalla finestra, magari passando da Parigi, New York o Londra, o da qualche copertina di rotocalchi americani à la page. Ma fino all’uscita di Impero Negri continuava a essere nel senso comune reazionario e conservatore (ma anche PCI-ista, è bene ricordarlo ai nostalgici di quel partito) una figura quasi mefistofelica e dalla morale ambigua. > Se questo è quello che ha vissuto negli anni Ottanta e Novanta chiunque si sia > associato a lui o al suo nome, intellettualmente o politicamente, immaginiamo > che cosa dev’essere stato per una figlia che nel 1979, l’anno dell’arresto, > aveva 14 anni e che ha vissuto la devastante campagna di stampa contro Negri > negli anni dell’adolescenza: il mondo che parlava del proprio padre e che lo > identificava come il sommo responsabile di tutto quello che di negativo stava > accadendo a un paese. Dire «non volevo più essere la figlia di Toni Negri», non vuol dire altro che ammettere l’ingombro di un nome che, come tutti i nomi, non si è scelto, ma che può finire per sovradeterminare una vita, fino a paralizzarla. Perché può succedere che “essere la figlia di” esca dalla bocca dell’Altro come una sentenza su di sé. I nomi, però, anche quando in un momento particolare della storia (collettiva e soggettiva) sembra che creino un’associazione inevitabile e che diventino una gabbia dalla quale è impossibile uscire, sono anche qualcosa di molto poroso, che nel tempo può cambiare e di cui eventualmente – attraverso un lavoro senz’altro lungo e difficile – ci si può riappropriare. Lacan lo sapeva bene: il padre, è innanzitutto un nome. E i nomi possono voler dire tante cose: non solo perché nelle bocche degli altri “Toni Negri” vuol dire tante cose diverse, spesso anche in contraddizione tra loro. Ma perché per una figlia si tratta di interrogare – nel momento in cui tutte queste significazioni, dopo tanti anni, si sono esaurite – che cosa quel nome voglia dire per sé. Toni, mio padre è proprio questo e lo si capisce evidentemente già dal titolo: un film dove la figlia Anna scava dentro quel nome per interrogarlo e vedere che cosa c’è dentro. Non per il mondo attorno, non per le tantissime compagne e i tantissimi compagni che l’hanno conosciuto e che hanno fatto un pezzo di strada con lui, ma innanzitutto per lei stessa. E si potrebbe obiettare che questo è quello che Anna Negri aveva già fatto nel libro autobiografico Con un piede impigliato nella storia (Feltrinelli 2009 e ora DeriveApprodi). In realtà la bellezza di questo film è che non è né un documentario sulla vita di Toni Negri (di cui mancano pressoché del tutto diversi decenni importantissimi, a partire da tutto quello che è successo dopo gli anni Duemila, ma anche sull’esilio di Parigi si dice poco o nulla), sul quale esistono tre volumi di esaustiva autobiografia, né soltanto un film sul rapporto tra Anna e suo padre, che ricreerebbe un doppione del libro. Con grande sensibilità cinematografica, Anna Negri decide quel rapporto di rimetterlo in scena di fronte a una macchina da presa, con un gusto per il re-enactment non privo anche di qualche nota comica e persino ridicola, e per il quale Toni si mette in gioco con un’umiltà e dedizione davvero stupefacente (durante le riprese del film la sua salute è già piuttosto precaria). Quello che ne esce è un film pieno di momenti con un altissimo tasso di performance e di finzione (e Anna Negri lo sa bene perché include nel montaggio anche diversi dialoghi che parlano del film stesso e della sua messa in scena) ma che non per questo – o forse proprio per questo – non è privo di grandi attimi di verità. Anzi, forse i momenti più deboli del film sono proprio quelli propriamente documentaristi dove la regista si lascia andare a qualche illustrazione di troppo, sottomettendosi alla regola d’oro del senso comune documentaristico: cioè voce off più materiale d’archivio. Ma per la gran parte questo film non ci parla di un rapporto tra padre e figlia nel passato, ma ce lo mostra mettendolo in scena nel presente. > I momenti migliori sono infatti quelli dove la tensione tra i punti di vista > si fa più acuta, e dove i linguaggi di una figlia che vorrebbe parlare di > rapporti famigliari e di un padre che invece vede il registro pubblico e > privato in completa continuità si scontrano e per lo più non si capiscono. Ma dove anche a partire dall’incomprensione qualcosa accade. Perchè Toni non è certo colui che vuole rimuovere il privato della vita soggettiva a beneficio della dimensione collettiva e universalizzante, ma dove la dimensione privata è parte di quello stesso desiderio di liberazione che muove la collettività: l’uno sta dentro l’altro e viceversa. È per questo che il film non diventa mai quello che in casi analoghi sarebbe quasi certamente diventato: l’esposizione della vita privata della grande figura pubblica che mostra la verità che il discorso pubblico nasconde. E allora, la storia di un ragazzo calabrese che emigra in una città per cambiare sesso diventa l’occasione per Toni per mettere in discussione il presunto individualismo di Anna (che a detta sua non riesce ad accettare la radice comune e non individualista anche di un desiderio di transizione). Così come la celebre fotografia del militante dell’autonomia in via de Amicis a Milano che punta la pistola contro un agente di polizia diventa l’occasione per Anna per ammettere la sua difficoltà di fronte alla violenza del conflitto di classe italiano a cui Toni risponde: «perché fai fatica ad accettare che i tuoi genitori siano stati due rivoluzionari?». Ma il film è pieno di momenti memorabili, come quando Toni spiega che cosa sia per lui ancora oggi il comunismo («resto comunista non solo perchè è giusto distribuire la ricchezza in parti uguali, ma è anche giusto lavorare tutti ugualmente») o perché continui a usare l’espressione «i compagni delle BR», o perché il conatus di Spinoza parli in realtà di una dimensione comune e trans-individuale, o come quando alla fine del film parli dell’amore come una virtù della vecchiaia e non della gioventù («l’amore in gioventù è una cosa eccitata, spesso volgare, che ha più a che vedere con la ginnastica mentre quando sei vecchio l’amore è qualche cosa che veramente si lega alla vita»). > Ha ragione Ida Dominijanni a dire che «quella funzione paterna che Anna gli > imputa di non aver saputo o voluto esercitare nella vita» Toni Negri la > conquista nel film «di fotogramma in fotogramma», e che il film ce la mostra > più che raccontarcela. E che la sua figura ne esce in modo splendido, anche se in conseguenza di uno sguardo obliquo, molto diverso da quello che qualunque compagno o militante avrebbe mai saputo dare. Perché quello che Anna Negri vuole mostrare è una funziona paterna che non ha niente a che vedere con la comprensione, il rispecchiamento o la sentimentalità ma che prende corpo in una differenza non priva di spigoli («se noi abbiamo sbagliato, dimmelo tu come si fa oggi a lottare contro l’alienazione che tu stessa denunci»). E in effetti il film non si chiude con una riconciliazione, magari recitata a beneficio della macchina da presa, ma con due persone che in una barca in giro per Venezia guardano in due direzioni diverse, con anche un lieve sguardo malinconico. Che è anche un bel modo per mostrare al termine di film, che quello che ci unisce e ci separa, a volte è fatto di quella medesima sostanza comune a cui Toni ha dedicato tutta la vita. In copertina un fotogramma del film SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Di che cosa Toni è il nome proviene da DINAMOpress.
Un Frankenstein convincente a metà
Il Frankenstein di Guillermo Del Toro è «liberamente ispirato» a quello di Mary Shelley, come recitano perentoriamente i titoli di coda, mentre l’IMDB assegna la paternità della sceneggiatura a Guillermo Del Toro e a… Mary Shelley stessa, come se i due avessero lavorato allo stesso tavolo, in una scrittura a quattro mani in cui la geniale autrice e il visionario regista avessero messo insieme i loro saperi e sensibilità in virtuosa sinergia. Diciamolo subito a scanso di equivoci: non necessariamente l’ispirazione «libera» è indice di impoverimento rispetto all’originale né, all’opposto, la ricerca dell’assoluta fedeltà nella rivisitazione di un classico è garanzia di successo. > Tuttavia, nel caso di questo (ennesimo, bisogna dirlo) Frankenstein, la > “libertà” dell’ispirazione sembra ridursi al tentativo deliberato e poco > felice di tralasciare volontariamente tutti i nuclei più forti, originali e > rivoluzionari (non solo per la propria epoca) dell’archetipo letterario. Numerosissimi sono gli adattamenti cinematografici più o meno riusciti che, fin dai primi decenni del cinema, hanno tentato la trasposizione di questo immenso classico, esplorato attraverso una molteplicità di approcci e di temi – sociologico, politico, psicologico, demenziale, drammatico o pornografico, solo per citarne alcuni in ordine sparso. Tra gli ‘X’, merita ricordare il tentativo di Paul Morrissey – Andy Warhol del ‘74). Domina la pletora di adattamenti il capolavoro di James Whale, con l’iconico Boris Karloff nei panni della creatura, uscito nello stesso annus mirabilis (1931) di M, Il mostro di Düsseldorf di Fritz Lang e del Dracula di Tod Browning, che replicherà pochi mesi dopo con un altro capolavoro dell’horror, Freaks, a chiudere il commento corale del mondo che inesorabilmente mutava – diventando mostruoso – dopo il crollo di Wall Street del ’29. Frankenstein sembrava adatto a evocare l’alterità inquietante e allo stesso tempo pienamente umana (per riprendere il coro dell’Antigone) in quegli anni di crisi del compromesso liberal-democratico, del socialismo e del riformismo con l’emersione dei fascismi, del sordido e inesorabile perfezionamento degli strumenti tecnici e delle idee politiche che preparavano i peggiori totalitarismi e il loro inevitabile sbocco sul conflitto mondiale. Di questa complessità, il blockbuster di Del Toro (budget dichiarato di 120 milioni di dollari, prodotto da Netflix e presentato a Venezia con poi un’uscita teatrale limitata di circa tre settimane e solo in alcuni paesi, prima di esser reso disponibile sulla piattaforma dal 7 novembre) sembra smarrire quasi tutto. Restano sullo sfondo (ma veramente sullo sfondo) i temi della guerra (di Crimea, 1853-56) con i suoi orrori e della hybris che anima l’esplorazione geografica del XIX secolo, incarnata dall’equipaggio della nave intrappolata tra i ghiacci nella ricerca del passaggio a nord-ovest (felice l’ispirazione, per i paesaggi e le atmosfere, all’ottima S01 di The Terror a firma di Ted Simmons). La scelta di posticipare l’ambientazione della vicenda di circa sei decenni rispetto all’originale è molto significativa. La grande umanità del Victor Frankenstein di Shelley è pienamente figlia dell’illuminismo e delle sue incertezze, la cui innocenza si perderà, certo, nei fiumi di sangue versati durante il Terrore, ma il cui sogno non si spegne affatto, lasciando l’immensa eredità rivoluzionaria nelle mani del movimento romantico (in cui Shelley partorisce il suo capolavoro), socialista e poi comunista ottocentesco. Del Toro vuole invece un Frankenstein senza alcun residuo di innocenza, pienamente insensibile al tema dell’emancipazione umana, ciecamente ripiegato sulla propria ambizione personale, capace di dialogare soltanto col potere finanziario, espressione di un capitalismo bellicista che decide di mettere al suo servizio risorse illimitate. Il personaggio si trasforma così dal travagliato filosofo-scienziato dell’originale in un “imprenditore-di-sé-stesso”, in una specie di onnisciente Steve Jobs che sa tutto e non dubita di niente e che mostra il proprio teatrino tecnologico all’ottuso corpo accademico (teatrino che peraltro, proprio come è accaduto più di una volta al vero Steve Jobs, funziona in modo piuttosto precario e incerto…). Il film è un coacervo di ammiccamenti, potenzialmente ricchi ma quasi sempre incompiuti, interrotti, o neutralizzati sul nascere. > Quello al femminismo, innanzitutto: se è possibile, e anzi ormai largamente > accettata, una lettura radicalmente femminista dell’originale di Shelley, qui > il tutto si risolve con Elizabeth (Mia Goth) che da sorella adottiva e > promessa sposa del dr. Frankenstein nell’originale diviene promessa di suo > fratello, indipendente nei giudizi e spregiudicata nelle maniere (un po’ > pochino, potremmo dire). Questo timido tentativo scade nella scontata > tenerezza “femminile” verso la creatura, che ricorda piuttosto (e un po’ > incomprensibilmente) la bella e la bestia. Le motivazioni di Victor Frankenstein, implicite e mai univoche nell’originale, vengono squadernate in questo adattamento, riducendole in ultima istanza al conflitto padre-figlio (di nuovo, un po’ pochino), con l’aggravante della redenzione e del perdono finale. Si potrebbe tentare una lettura un po’ più complessa del tema della paternità (ben presente anche nell’originale), concentrando lo sguardo sul tema dell’apprendimento e dell’intelligenza della creatura. Questa non è un essere artificiale né un androide (benché visivamente abbia proprio questo aspetto) ma apprende in modo autonomo, spontaneo, il ché apre a una riflessione potenzialmente interessante, per questo soggetto ottocentesco, in epoca di intelligenza artificiale. Ma anche su questo punto il film ha un po’ il fiato corto. Complice anche il colpevole abbandono dell’altra componente miracolosa della creatura, cioè quella corporea: in modo del tutto incomprensibile, questo corpo diventa indistruttibile perché dotato di misteriose virtù rigenerative e auto-guaritive, dunque immune da proiettili, fuoco, dinamite, affilati denti lupini: il cilindro da cui Del Toro estrae trucchi e soluzioni è davvero senza fondo… Un’ultima nota sulle atmosfere, a cui Del Toro presta molta attenzione, ma per le quali le citazioni, eterogenee e confuse, diventano di nuovo predominanti: The Lord of the Rings incontra Zelda per gli esterni, la natura selvaggia e i suoi colori, mentre Hugo Cabret incontra Poor Things per gli interni, osando però meno di quest’ultimo sui grandangoli e la deformazione, tanto psicologica quanto fisica, degli spazi. Infine, nonostante la meritoria avversione del regista per il digitale, sbandierata ai quattro venti, neanche lui è riuscito a evitarla del tutto, con l’uso di alcune CGI che, come sempre, colpiscono come un pugno nell’occhio (lasciamo allo spettatore o alla spettatrice il compito, non troppo arduo, di individuarle). Il risultato finale complessivo è deludente, ma ha almeno il merito di rivelare, ancora una volta, l’inesauribile ricchezza del soggetto letterario. La copertina è tratta dal trailer in fairuse SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Un Frankenstein convincente a metà proviene da DINAMOpress.
L’Impero della normalità e le politiche scolastiche discriminatorie
Robert Chapman, autore de L’Impero della Normalità Neurodiversità e Capitalismo, oltre a essere un collega per cui nutro massima stima, è ed è stato anche un mentore che ha illuminato molte delle idee radicali sviluppate nella mia carriera. Avere la fortuna di (ri)leggere il suo libro nella mia lingua madre è stata davvero un’esperienza che ha arricchito l’inizio della mia estate. La rilettura in lingua italiana è avvenuta a una giusta distanza dalla società turbocapitalista inglese, che vivo quotidianamente come cittadina, accademic e madre, e che mi suscita spesso sdegno e rabbia. Per coincidenza, ho riletto il testo di Chapman a pochi giorni dalla conclusione di Technofeudalism. What Killed Capitalism di Yanis Varoufakis. Questa sequenza di letture mi ha permesso di stabilire un continuum storico, socioeconomico e politico fra i due volumi. Infatti, dopo aver letto l’introduzione e il primo capitolo de L’Impero della normalità, ho pensato di scrivere a Robert per suggerirgli una seconda edizione che considerasse l’argomento centrale di Varoufakis: la violenta trasformazione sociale in seguito alla transizione da capitalismo industriale a cloud capital. In altre parole, la morte del capitalismo moderno e il ritorno di un sistema feudale fondato sull’intelligenza artificiale. Nell’impero del cloud capital, direbbe Varoufakis, Spotify, Apple e Google costituiscono una nuova forma di potere con un impatto significativo su come la nostra identità soggettiva è costruita e percepita socialmente. Per identità soggettiva intendo qui anche i suoi demarcatori: razza, disabilità, linguaggio, orientamento sessuale, status migratorio e così via. > L’Impero della normalità comincia con la storia personale di Robert, inserita > nel quadro storico-politico dell’Inghilterra dei primi anni Novanta. Questo > suo posizionamento fa immediatamente luce sulla durezza e gli struggles della > classe proletaria inglese. Robert racconta un’oppressione all’intersezione di classe e disabilità vissuta su più piani, quello familiare, scolastico e sociale, e una quotidianità lontana dalle vetrine rilucenti e dai quartieri eleganti del centro di Londra. Leggendo dell’adolescenza di Robert, della sua neurodivergenza e dello spaccato socioeconomico dell’Inghilterra di quel tempo, ho provato un forte senso di angoscia. Lo stesso che provo camminando per certe strade di Birmingham, quando saluto giovani e meno giovani resi senza tetto, a riparo vicino all’ingresso dei supermercati. Robert è stato uno di loro. Ci potrebbe essere un Robert nei ragazzi che vedo sulla High Street. Robert avrebbe potuto essere quel giovane reso senza tetto e ucciso da una gang a cinquecento metri da casa mia lo scorso giugno – in un quartiere residenziale a sud di Birmingham. Tessendo magistralmente personale, sociale, e politico, Chapman mostra al lettore l’aspetto meno idilliaco dell’Inghilterra. Carpisce e ben documenta le fondamenta delle crisi sociali attuali, e come la marginalizzazione delle persone diverse e con disabilità siano andate peggiorando a seguito dell’introduzione di misure di austerità. Misure che hanno portato alla chiusura di luoghi giovanili di aggregazione, centri culturali e biblioteche di quartiere.  Dopo aver “toccato il fondo”, e aver vissuto come neurodivergente per strada, Robert ha avuto la possibilità di accedere a un sistema di welfare che gli ha permesso di cambiare radicalmente la direzione della sua vita, fino al raggiungimento di un ruolo accademico. Questo sistema di welfare è stato decurtato e in certi casi completamente smantellato, dopo più di una decade di governo conservatore e di una leadership laburista fra le più imbarazzanti della storia inglese. Perciò, mi viene da chiedere: chissà cosa sarebbe accaduto a Robert se avesse vissuto la sua adolescenza e la sua neurodiversità oggi? Nel recensire questo volume vorrei concentrarmi su due nodi centrali che caratterizzano il lavoro di Robert: (I) l’intersezione fra disabilità, classe, genere e sessualità, all’interno di un particolare assetto economico, dove non si deve più guardare all’individuo come “problematico”; (II) l’analisi storico-economico-sociale del movimento dell’eugenetica e la sua pervasività nell’architettura del sistema scolastico inglese. Dopo aver messo in risalto questi potentissimi aspetti contenuti nel libro, concludo con alcune indicazioni relative a cosa avrebbe potuto approfondire meglio sul modello basagliano in Italia. Questione che, se affrontata più ampiamente, avrebbe potuto- forse- scuotere le coscienze dei grandi sostenitori delle scuole speciali inglesi. Nel ripercorrere lo sviluppo e le trasformazioni dei vari modelli della disabilità (da quello medico, a quello sociale, fino alla nascita del movimento per la neurodiversità e i disability studies e contraddicendo Il modello medico, che localizza la disabilità all’interno dell’individuo con menomazioni biologiche, ignorando i contesti macro-sociopolitici di razzismo, abilismo e altri sistemi interconnessi di oppressione, Chapman descrive l’intersezione fra disabilità, classe sociale, razza e genere enfatizzando come costruzioni sociali e discorsive della normalità siano dettate da modelli economici. Egli ci ricorda che la normalità è costituita da identità aventi tali caratteristiche: uomo, bianco, di classe media, non disabile, eterosessuale, cis-gender e cristiano. Tutti i soggetti con demarcatori di identità diversi da questi sono chiamati a interiorizzare questo modello di normalità e a essere proattivi e produttivi nella riproduzione di essi. Così facendo, Chapman invita il lettore a considerare l’abilismo come una forma di oppressione sistemica e non riducibile solamente a episodi grossolani e mondani di discriminazione. Robert smaschera brillantemente lo scopo delle ultime invenzioni del capitalismo: l’illusione della libertà, la meritocrazia, l’uguaglianza e l’inclusione. > Il capitalismo, con le sue trasformazioni anche in cloud capital, non ha mai > voluto soggetti effettivamente liberi, inclusi ed eguali. Opera solamente > includendo certi gruppi, per giustificare la creazione di politiche inclusive, > e contemporaneamente opprime altri. Questa cruciale riflessione si allinea e fortifica il concetto di “fantasia confortante di inclusione” che ho elaborato (Migliarini & Stinson, 2021). La stesura di politiche sull’inclusione educativa, la nascita di commissioni per la diversità, l’equità e l’inclusione nelle istituzioni universitarie, ci illudono di una messa in pratica dell’inclusione. Quando in realtà, esse costituiscono dei dispositivi di facciata che nascondono il perpetuarsi di oppressioni sistemiche. Basti pensare che in Inghilterra, nell’anno accademico 2024/2025, il 91% degli insegnanti è bianco e britannico, e solo lo 0,1% dichiara di avere una disabilità (DfE, 2025). Robert, dunque, sprona il lettore a espandere il discorso di inclusione educativa e sociale, riconoscendo l’impatto che forze come capitalismo, colonialismo e imperialismo hanno su di esso. Vengo ora all’altro nodo centrale del libro di Chapman: l’excursus storico del paradigma galtoniano e la pervasività di modelli eugenetici non solo nella società inglese, ma anche nel pensiero di grandi intellettuali, come Marx. Chapman ci illumina su come il paradigma galtoniano, sebbene screditato come non scientifico, continui a caratterizzare il lavoro di attuali studiosi, accademici e decisori politici. Come direbbe Stuart Hall, il fatto che un pensiero sia stato giudicato come non scientifico, non impedisce a certi gruppi accaniti di studiosi di lavorare per affermare il contrario. Chapman cita Cyril Burt, professore di psicologia ed ex-presidente della British Psychological Society, come colui responsabile dell’ideologia che ha permesso la segregazione educativa e la tripartizione delle scuole in: scuola di grammatica (per chi ha doti accademiche), scuola mainstream (per tutti gli studenti senza particolari doti accademiche) e scuole speciali (per studenti con disabilità). L’ideologia eugenetica fu anche la «nave intellettuale ammiraglia» da diffondere in tutte le colonie inglesi e sui corpi razzializzati e colonizzati della generazione Windrush, arrivati in Inghilterra negli anni ’60 e ’70, per rimettere in piedi la società e l’economia dopo la fine della Seconda Guerra mondiale. Basandosi sul pensiero di Burt, alcuni distretti scolastici di Londra seguirono una politica non ufficiale che consisteva nel trasferimento di un gran numero di studenti Neri e Afro-caraibici dalle scuole mainstream a quelle che, negli anni ’70, venivano definite per «gli handicappati». Questa pratica fu messa allo scoperto da Bernard Coard che nel 1971 pubblicò il volume How the West Indian Child Is Made Educationally Subnormal in the British School System (Come il bambino delle West Indies [= Caraibi] è reso sub-normale nel sistema scolastico britannico). Questo volume spiega come gli insegnanti ed educatori, influenzati dal paradigma Galton, avessero dei pregiudizi persistenti che influenzavano la percezione degli studenti bianchi inglesi come “buoni” e “bravi”, e quelli Neri come incapaci di apprendere, a causa della loro razza e cultura. > Dunque, il paradigma galtoniano e l’eugenetica costituiscono le fondamenta del > razzismo istituzionale inglese. Tristemente, la pratica descritta da Coard è > ancora in uso, visto il pullulare di Pupil Referral Unit, centri per > “aggiustare” il comportamento degli studenti problematici, che quasi sempre > sono razzializzati come non-bianchi. Concludo soffermandomi analiticamente sul capitolo quinto del libro di Robert, titolato “I miti dell’antipsichiatria”. In questo capitolo Chapman parla dei tentativi, in vari contesti, di sovvertire la patologizzazione e la segregazione della malattia mentale, avanzando modelli antipsichiatrici. In contesti turbocapitalistici come gli Stati Uniti e l’Inghilterra, la chiusura dei manicomi portò all’aumento della popolazione carceraria, perché non si erano modificate le strutture sociali e educative per reintegrare chi era stato internato. Faccio notare che questa logica di finta inclusione continua a persistere sino ad oggi. Piuttosto che investire nel sociale e nell’educazione, con più formazione per gli insegnanti e ambienti adeguati a tutti gli studenti, si preferisce finanziare le scuole speciali. Naturalmente, ciò avviene con la giustificazione che tali scuole soddisfano i particolari “bisogni” degli studenti, che non riescono a inserirsi nella scuola mainstream. Quello che, a mio avviso, manca in questo testo è un’analisi più approfondita di ciò che Basaglia aveva realizzato in Italia. Chapman, nomina e analizza Basaglia e altri psichiatri rivoluzionari solo di passaggio. Il mondo accademico e le istituzioni educative e sociali inglesi, invece, hanno un disperato bisogni di un’ottica transculturale su queste tematiche. Consiglio la lettura dsi questo libro a studenti, accademici, insegnanti, educatori e al pubblico italiano in generale. Sebbene l’Italia abbia avuto una delle legislazioni più progressiste del mondo sull’inclusione educativa e sociale, la società e il pubblico non sono immuni dalle influenze neoliberiste e capitaliste. Oggi più che mai, l’Italia ha bisogno di una chiave critica e intersezionale per affrontare razzismo, abilismo e xenofobia. La copertina è di Jaime Oliveira (Flickr) SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo L’Impero della normalità e le politiche scolastiche discriminatorie proviene da DINAMOpress.
“Oppio per Ovidio”. Ventidue donne contaminano “Le metamorfosi” e “Note del guanciale”
Tawada è una scrittrice giapponese che vive in Germania e scrive in due lingue, oscillando tra giapponese e tedesco. Già questa duplicità linguistica è la sua prima forma di metamorfosi. La traduzione di Alessia Torre trae i contorni del suo modo di abitare il mondo. E nel suo scrivere, la lingua stessa diventa corpo: porosa, instabile, in continua trasformazione. Oppio per Ovidio nasce da questo gesto radicale di attraversamento. Tawada prende due testi fondativi della cultura letteraria – le Metamorfosi di Ovidio e le Note del guanciale di Sei Shōnagon – e li fonde, li trasforma in qualcosa che non è più né mito né diario, ma una forma ibrida, liquida, un campo di esperimenti linguistici e sensoriali. Le ventidue donne che abitano queste pagine non sono figure mitologiche nel senso tradizionale: sono fantasmi di divinità reincarnate nel presente, frammenti di corpi che si muovono fra Amburgo e l’altrove, donne che hanno perso e ritrovato se stesse nella memoria del mito. Ciascuna di loro parla, sussurra, si racconta attraverso il corpo, perché per Tawada non esiste pensiero che non sia carnale. Ma il corpo, qui, non è una prigione: è uno strumento di conoscenza. È attraverso il corpo che la parola si fa politica. > Il femminismo di Tawada non urla: respira. È un femminismo di cura, di > trasformazione condivisa, dove le donne non combattono contro il mondo, ma lo > riforgiano attraverso la sensibilità. In questo senso  Oppio per Ovidio  si avvicina profondamente al  transfemminismo contemporaneo, quello che rifiuta le identità rigide, le dicotomie di genere, le forme machiste della ribellione e che invece rivendica il diritto alla metamorfosi, alla fluidità, alla vulnerabilità come forza politica. Quando una delle protagoniste dice che «Semele ha dato via le armi, ma doveva rimanere fiera e sensibile, protestare con veemenza ed esporre tutti gli orifizi», la frase non è solo un paradosso poetico: è un cambio di paradigma. L’arma diventa la pelle, l’apertura, la disponibilità a sentire. La protesta, per Tawada, è l’atto di mostrarsi, di non temere la permeabilità. È una forma di politica che nasce dal corpo e non dalla violenza. Nel mondo di Tawada le donne non cercano di diventare come gli uomini per ottenere potere: lo riscrivono. Si fanno mediatrici di un altro modo di conoscere, un sapere che passa per l’esperienza sensoriale e per la relazione, non per l’imposizione. È un sapere circolare, erotico nel senso più ampio del termine, dove eros non è desiderio sessuale ma tensione vitale, movimento verso l’altro. In questo universo, la metamorfosi non è punizione, ma possibilità. Il corpo che cambia non è un tradimento, ma una nuova grammatica dell’essere. In più punti, le protagoniste mettono in scena un gesto che potremmo chiamare autobattesimo: nominarsi da sole, scegliersi un nome, riconoscere il proprio valore senza bisogno di legittimazione esterna. È un atto simbolico di autonomia, ma anche una forma di resistenza linguistica. Dare un nome è sempre un atto di potere; battezzarsi da sé significa sottrarre il proprio corpo al dominio del linguaggio patriarcale. È un gesto che rimanda alla tradizione mitica (pensiamo a Dafne, che si trasforma per non essere posseduta), ma qui il mutamento non è fuga, è fondazione: una rinascita consapevole. Il corpo, in Oppio per Ovidio, è anche luogo di conflitto. Cambia, si deforma, si dissocia, a volte si rifiuta. Ma non c’è tragedia in questa mutazione: c’è conoscenza. L’accettazione del corpo, la capacità di ascoltarlo e di lasciarlo parlare, diventa un modo per accedere a un sapere che la cultura patriarcale ha sempre disprezzato – il sapere sensoriale, intuitivo, instabile. «Il mio corpo mi parla in una lingua che non ho ancora imparato», sembra dire ogni voce del libro. E nel tentativo di tradurre quel linguaggio, Tawada costruisce una poetica della trasformazione permanente. A un certo punto, la scrittrice rovescia la prospettiva sulla lotta femminista. Non c’è più la guerra contro il maschile, ma la creazione di uno spazio condiviso. La protagonista che cita Semele rifiuta la forza distruttiva, sceglie la forza della sensibilità. È qui che Oppio per Ovidio incontra il transfemminismo: non come teoria accademica, ma come pratica quotidiana del vivere. Il corpo diventa interfaccia politica, la differenza diventa linguaggio, l’empatia diventa strumento di resistenza. La metamorfosi è, in fondo, un atto transfemminista: la capacità di riscrivere continuamente se stesse, di sfidare ogni categoria fissa, ogni narrazione imposta. Ma il libro non parla solo di corpi. Parla anche di potere. In diverse pagine, Tawada rappresenta lo Stato come una figura paterna: autoritaria, distante, apparentemente protettiva. È l’immagine di un Padre-Stato che regola e controlla, che concede libertà solo a condizione di poterle revocare. A questa logica Tawada contrappone una visione radicalmente ecologica e non gerarchica: invita a pensare lo Stato come la pioggia per i contadini. Non bisogna, scrive, credere che la pioggia aiuti di proposito il contadino. La pioggia cade, e basta. È un fenomeno naturale, non un dono. Allo stesso modo, le istituzioni non sono entità benevole, ma sistemi da abitare con consapevolezza critica. Questa analogia spezza il legame paternalistico che regge la nostra idea di potere. Se lo Stato non è padre ma clima, se la politica non è famiglia ma ecosistema, allora il rapporto tra cittadino e autorità non può più essere fondato sulla dipendenza, bensì sull’interdipendenza. Tawada suggerisce che la libertà femminile non può esistere finché si rimane figli di uno Stato-padre. Bisogna diventare contadine del proprio terreno, riconoscere che la pioggia non è un premio ma una condizione: a volte cade, a volte no. > È un modo di restituire al politico una dimensione di realtà, di togliere al > potere la sua aura mistica e restituirlo al mondo fisico, ai corpi che lo > vivono. Allo stesso tempo, le protagoniste del libro riflettono costantemente sulla coscienza. «È forse una scienza condivisa?», si chiedono. La domanda, che suona come un gioco di parole, contiene una verità profonda: la coscienza non è un bene privato, ma un territorio collettivo. Tawada mette in dubbio la concezione occidentale della coscienza come proprietà individuale e la trasforma in un processo relazionale. Le donne del libro sentono e pensano insieme, condividono una sorta di percezione diffusa, come se la loro mente fosse un campo elettrico in cui i pensieri circolano senza confini netti. È una visione profondamente politica: la conoscenza nasce dal contatto, non dall’isolamento. Questa idea di coscienza collettiva si riflette anche nella scrittura stessa. Tawada adotta un punto di vista mobile, spesso in terza persona, ma attraversato da un “io” intermittente. Molte delle protagoniste parlano di sé come se si osservassero da fuori, un gesto che la psicologia cognitiva ha effettivamente riscontrato come tipicamente femminile. In un esperimento noto, quando a uomini e donne viene chiesto di «immaginare una mela», gli uomini tendono a visualizzare solo la mela, mentre molte donne si immaginano se stesse che la mangiano. L’immagine del sé è sempre presente, anche negli atti più semplici. È la traccia di uno sguardo interiorizzato, costruito da secoli di abitudine a essere viste. Tawada traduce questa consapevolezza in una poetica dello sguardo. Le sue donne sanno di essere osservate, ma decidono di deviare lo sguardo, di spezzarlo. «Si impara il timore per il pubblico disprezzo», scrive, riconoscendo come la cultura insegni alle donne a temere non l’errore, ma il giudizio. Di conseguenza, si finisce per non vedere più il mondo per ciò che è, ma solo per ciò che dovrebbe essere: «non vedi affatto l’albero in quanto albero, ma pensi solo a come l’albero dovrebbe essere». In queste frasi si condensa una critica sottile ma ferocemente lucida al modo in cui la società plasma la percezione femminile. Una delle voci del libro dichiara, con pacata determinazione, di non voler più «dover sembrare bella», di non «dover più voler sembrare bella». È una negazione doppia, quasi grammaticale, che si ribella tanto all’obbligo estetico quanto all’obbligo di desiderare quell’obbligo. In un altro passaggio, un’altra donna afferma: «non mi serve il tuo sguardo. Questa è la dichiarazione del velo ambulante». L’immagine è potentissima: il velo non è qui simbolo di oppressione, ma di libertà. È un gesto attivo di sottrazione, una scelta di invisibilità. Il corpo, schermato dallo sguardo altrui, torna a essere proprio. Da questo punto di vista, Oppio per Ovidio è anche una riflessione sulla agency delle parole sul corpo. Tawada mostra come il linguaggio possa costruire o distruggere identità, come ogni parola pronunciata sul corpo sia un atto di potere. Ma il suo modo di reagire non è distruggere il linguaggio, bensì reinventarlo. Le sue protagoniste inventano, smontano, rimontano parole, le piegano, le ibridano. Il libro è pieno di giochi linguistici, di neologismi, di frasi che si aprono su significati inattesi. È come se la lingua stessa fosse sottoposta a una metamorfosi continua, proprio come i corpi che descrive. > In questo senso, la scrittura di Tawada è anche un gesto politico: spezzare la > lingua per farle dire altro, per renderla capace di contenere esperienze che > la grammatica patriarcale aveva escluso. La parola diventa un atto di > guarigione, un modo di restituire senso a ciò che era stato taciuto. L’atto > linguistico è corporeo: ogni frase si muove come un muscolo, si tende, si > ritrae, respira. Contro la cultura della produttività, che misura il valore in termini di utilità e rendimento, Tawada oppone un principio di spreco consapevole. “Posso sprecare il mio tempo se voglio”, dice una delle voci. È una frase di apparente leggerezza, ma è in realtà un’affermazione rivoluzionaria. Rivendicare il diritto di sprecare tempo significa opporsi alla logica capitalista che pretende di trasformare ogni gesto in prestazione, ogni minuto in profitto. In un mondo che ci impone di essere sempre efficienti, la lentezza diventa atto politico, la passività una forma di resistenza. Tawada riscrive così l’etica del lavoro e del corpo: il corpo che non produce, che sogna, che si ferma, diventa un luogo di libertà. Verso la fine del libro, una delle protagoniste pronuncia quella che sembra essere la dichiarazione di poetica di tutto il testo: «Voglio essere storta, irregolare, eccessiva e frivola». È una frase che suona come un manifesto, una celebrazione della dissonanza e dell’imperfezione. Essere “storta” significa rifiutare la linearità del pensiero dominante; essere “irregolare” è rivendicare la complessità dell’esperienza; essere “eccessiva” è sfidare il controllo, e “frivola” è ribaltare il disprezzo maschile verso ciò che è associato al femminile. In quattro aggettivi Tawada concentra la sua filosofia: la libertà è deformità, la misura è schiavitù. In questo senso, Oppio per Ovidio è anche un testo profondamente politico, benché non ideologico. Tawada non costruisce teorie: le fa vivere. Ogni voce del libro è un piccolo esperimento di mondo, una micro-utopia in cui la sensibilità si sostituisce alla forza, la metamorfosi all’identità, la parola al potere. La sua scrittura è radicale proprio perché non si pone come manifesto teorico, ma come esperienza incarnata di libertà. L’intertestualità con Ovidio e Sei Shōnagon non è solo un omaggio letterario, ma una riscrittura di genealogie. Tawada mette in dialogo due tradizioni patriarcali – la mitologia classica e la letteratura di corte – e le sovverte dall’interno. Se Ovidio raccontava metamorfosi imposte dagli dèi, Tawada racconta metamorfosi scelte. Se Sei Shōnagon annotava il mondo da un cuscino, Tawada lascia che le sue donne scrivano dai letti, dalle strade, dai sogni, dalle ferite. Il guanciale non è più un oggetto domestico, ma uno spazio di pensiero, un laboratorio poetico. > Nel libro, la lingua è sempre duplice: si muove fra concretezza e astrazione, > fra descrizione e riflessione. Tawada riesce a tenere insieme la materia del > mondo – il corpo, il sangue, la pelle, l’odore – e l’idea, la teoria, la > coscienza. È una scrittura che unisce filosofia e sensualità, che pensa > attraverso i sensi. Le parole non spiegano: toccano. La fluidità del testo è anche la sua forma politica. Tawada non costruisce una trama, ma una costellazione di voci. Il suo modo di raccontare è anti-lineare, antigerarchico: ogni donna ha lo stesso peso, ogni frammento di storia vale quanto gli altri. È una scrittura democratica nel senso più profondo, perché rifiuta la centralità, il punto di vista unico, la voce dominante. Il lettore è chiamato a spostarsi continuamente, a cambiare prospettiva, a partecipare alla metamorfosi. E proprio questa esperienza di lettura – instabile, sensoriale, vertiginosa – è ciò che rende Oppio per Ovidio un libro necessario. Tawada ci insegna che la trasformazione non è un rischio, ma una forma di conoscenza. Che la fragilità non è debolezza, ma possibilità di contatto. Che il linguaggio, se lo lasci vivere, può ancora guarire. Alla fine del viaggio, resta la sensazione di aver attraversato un sogno lucido, in cui le parole si sono fatte corpo e il corpo si è fatto parola. Le ventidue donne di Tawada non chiedono salvezza, non rivendicano diritti: semplicemente esistono, si raccontano, si reinventano. Sono figure di un mondo che non conosce più confini netti tra maschile e femminile, tra umano e divino, tra reale e immaginario. Sono, in fondo, ciò che tutti potremmo diventare se accettassimo la metamorfosi come destino. Yoko Tawada ci consegna un’opera di rara intensità, che fonde poesia e politica, linguaggio e corpo, Oriente e Occidente, mito e contemporaneità. Oppio per Ovidio è un testo che rifiuta ogni definizione, un invito a pensare e a sentire diversamente. In tempi in cui la parola “identità” è spesso usata per delimitare, per chiudere, Tawada la restituisce al suo senso originario: “identità” come processo, come relazione, come dialogo infinito tra ciò che siamo e ciò che potremmo diventare. Leggere questo libro significa accettare di perdersi, di non capire tutto, di abbandonare il desiderio di chiarezza. È un atto di fiducia nel potere della lingua di aprire spazi di libertà. Tawada non ci dà risposte: ci offre domande che continuano a pulsare dentro di noi, come vene sotto la pelle. Alla fine, la voce collettiva del libro sembra sussurrare una frase semplice e rivoluzionaria: «posso sprecare il mio tempo se voglio». Ed è forse in questa leggerezza che si nasconde la più grande forma di resistenza Immagine di copertina da Wikicommons SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo “Oppio per Ovidio”. Ventidue donne contaminano “Le metamorfosi” e “Note del guanciale” proviene da DINAMOpress.
Contro l’autoritarismo della libertà finanziaria
«Non pensiamo sia una coincidenza il fatto che il concetto di libertà sia al centro del capitalismo finanziario portato avanti dall’estrema destra, a sua volta guidata dalle multinazionali che accumulano ricchezza nella sua forma algoritmica ed estrattiva» scrivono Verónica Gago e Luci Cavallero. In questo libro “Contro l’autoritarismo della libertà finanziaria“, approfondiscono la loro ricerca sui profondi legami tra neoliberismo, autoritarismo e antifemminismo, che trovano nella cosiddetta “libertà finanziaria” il loro concetto-feticcio, il manto sgargiante ma perverso di fronte alla velocità dell’impoverimento e alla crudeltà. UN SAGGIO IN OTTO TESI 1. L’accumulazione di debito è indice della perdita di potere collettivo da parte də lavoratorə, retribuitə o meno, e della definizione collettiva di chi produce davvero ricchezza sociale. Da qui la sua funzione come dispositivo di pacificazione. Ma questa pacificazione si ottiene attivando un potenziale per il quale il debito esploderà. Quando il debito diventa obbligatorio e imposto (il debito per vivere che produce terrore finanziario a causa delle continue politiche di austerità) diventa istanza di sovrapposizione tra espropriazione e sfruttamento. Il debito, in relazione alla specificità presa in considerazione, assoggetta e attiva una forza lavoro che non si limita al salario (non è quindi soggetta a contratto di lavoro), creando stretti legami con il lavoro non retribuito, razzializzato e subalternizzato. Questo innesca le dinamiche di quello che abbiamo definito “estrattivismo finanziario”. Lo sfruttamento della forza produttiva del lavoro (retribuito e non retribuito) trova nel debito uno strumento versatile, che suggestiona positivamente chi è indebitatə, riconoscendone le capacità imprenditoriali. 2. Da quì, il debito allena alla precarietà, infiltrandosi nella riproduzione della vita quotidiana. Parliamo di “allenamento” alla precarietà quando si verifica una abitudinarietà ma anche un’inventiva quotidiana nel risolvere la mancanza di reddito dovuta all’inflazione e al vivere seguendo l’economia del debito, di modo che la precarietà venga vissuta, attraversata e, allo stesso tempo, ispiri soluzioni alternative che utilizzino gli strumenti finanziari come elementi chiave. Allenamento significa anche, per noi, coltivare abitudini modulate dalle app di transazione finanziaria. In altre parole, gli strumenti della FinTech mitigano la violenza della moneta, scarsa e inflazionata, mentre occupano tempo ed energie per la loro gestione permanente, al punto tale da diventare, insistiamo, abitudine e indirizzamento. È così che intervengono nella definizione delle possibilità legate a questa ripetizione di abitudini e alla definizione dei futuri possibili. 3. Il debito ti costringe a un lavoro finanziario non retribuito permanente. Questo comporta una gestione non remunerata del debito e, anche, forme di microspeculazione finanziaria quotidiana su piccola scala. Il lavoro finanziario non retribuito ha una doppia dimensione: gestire i redditi scarsi e poco retribuiti e i debiti conseguenti al lavoro di piattaforma e al dover ricorrere ad ogni piccola occasione “speculative”. L’impatto in termini di utilizzo del tempo e di conseguenze sulla salute mentale (a causa di stress, preoccupazioni e ansia) è un elemento centrale. È essenziale riconoscere, quindi, come la normalizzazione della crisi aggiunga una dimensione finanziaria non retribuita al lavoro di riproduzione sociale. Introduce inoltre, sul piano della riproduzione della forza lavoro, una soggettività speculativa con effetti immediati: un “allenamento” alla precarietà che viene superata finanziariamente. 4. Il debito mette in discussione una capacità di agire che si oppone alla vittimizzazione. Il debito, in quanto strumento neoliberista, richiama, stimola e attiva una propensione all’azione, confinandola al contempo nel quadro dell’individualismo proprietario. Questo punto è fondamentale per comprendere cosa renda così efficace l’appello dell’estrema destra alla “libertà”, attraverso l’allenamento già esistente all’imprenditorialità basata sul debito. Questo porta a un altro punto chiave: quanto risultino sempre più insufficienti certi discorsi politici che, utilizzando il concetto dei diritti (oppure dietro la promessa di uno Stato salvifico che risolve ogni problema), riducono i loro potenziali elettori a “cittadini assistiti” o “vulnerabili”, quasi a voler mettere in primo piano l’incapacità di chi viene assistitə. La stabilizzazione di forme diffuse di imprenditorialità e di impiego multiplo, insieme alla proliferazione di strumenti finanziari che consentono di superare la quotidianeità della vita in condizioni di estrema precarietà, plasmano una soggettività che si allontana dal vittimismo e si inserisce in quello che abbiamo definito “neoliberismo dal basso”. Il rapporto con il futuro diventa quindi fondamentale in questa eccitazione anti-vittimizzante all’azione, capace di eludere l’etichetta del “parassitismo” utilizzata per categorizzare chi riceve programmi sociali o beneficia delle politiche pubbliche. 5. Il debito individualizza i costi dell’austerità, intensificando le divisioni classiste, sessiste e razziste. Il debito è un dispositivo impersonale e al tempo stesso fortemente individualizzato. Come già studiato (per esempio da Nietzsche e da Lazzarato), il debito si individualizza attraverso la colpa e la responsabilità. Ma questa modalità di individualizzazione è anche, da una lettura femminista, una modalità di cancellazione della cooperazione sociale rafforzandone le divisioni di genere, razza e classe. Ridefinendo l’individuo, lo trasforma in creditore-imprenditore, mentre simula la fine dello sfruttamento ma al utilizzandolo al tempo stesso in termini di imprenditorialità individuale. Questa modalità di generare individui attraverso il debito è una dinamica chiave nella produzione di “libertà” che l’autoritarismo neoliberista tradurrà, mobiliterà e utilizzerà come forma di libertà finanziaria. L’austerità, quindi, ricadrà sugli individui che dovranno tradurla in un incentivo alla propria produttività e responsabilità. 6. Il debito come strumento di risoluzione della riproduzione sociale ripropone i dettami della famiglia eterosessuale e la divisione sessista e razzista del lavoro. Il debito non è astratto; agisce su corpi genderizzati e razzializzati. Il debito è basato, costruito e articolato in base alla divisione sessista e razziale del lavoro. Questo è reso evidente dalle diverse modalità che abbiamo evidenziato: il maggiore indebitamento si riscontra nelle famiglie dove più è presente il lavoro non retribuito; lì si radica l’indebitamento più informale e con livelli più elevati di esposizione alla violenza in caso di mancato pagamento; il tasso di interesse funziona come indice esplicito del razzismo e del sessismo data la conseguente creazione di gruppi sociali “a rischio”, contrariamente a tutte le prove empiriche. Il debito sfrutta e ribadisce i dettami di genere e si articola con essi: chi sostiene il peso delle economie domestiche si assume spesso anche il debito come risorsa per sostenere la famiglia in un contesto di crisi. Il debito mira a catturare, sfruttare e negare la condizione di interdipendenza che donne, lesbiche, trans e persone non binarie hanno tradotto in tecnologie vincolanti che vanno oltre i confini della famiglia eterosessuale. 7. La pandemia ha offerto l’opportunità di ampliare la cosiddetta “inclusione finanziaria”. Questo ha accelerato la digitalizzazione come mezzo di accesso ai sussidi di emergenza e all’estrazione di dati. Le informazioni generate sono state poi utilizzate per monitorare e sanzionare le “transazioni finanziarie” relative a determinati consumi in determinati settori. È necessario problematizzare la situazione di uno Stato che sembra associare l’inclusione finanziaria (in un momento di emergenza) ai programmi sociali per poi utilizzare le informazioni contenute in quei conti come strumento di penalizzazione delle transazioni finanziarie tra i settori più poveri. Alla fine dei conti, l’accesso ai sussidi condiziona gli utenti verso determinati modelli di comportamento e consumo. La penalizzazione a cui ci riferiamo non è solo selettiva, ma punisce anche le “transazioni finanziarie” effettuate per la sussistenza dopo che tali strumenti (come le app di transazione finanziaria o i portafogli virtuali) sono stati promossi nell’ambito dell’idea di inclusione finanziaria. Questo rivela che la digitalizzazione è uno strumento fondamentale per il controllo dei consumi a favore della penalizzazione che abbiamo segnalato. E tali consumi, penalizzati dalla dollarizzazione, rafforzano la moralizzazione quando si tratta di settori impoveriti e femminilizzati. 8. La stabilizzazione del debito nella gestione della vita quotidiana opera in vari modi, dalla differenziazione dei consumi come forma di resistenza alla precarietà, fino al tentativo, in ultima analisi, di interiorizzare l’austerità. Il debito, inoltre, funziona specificamente in un contesto di inflazione e deregolamentazione. La retorica dell’austerità utilizzata dal governo “anarco-capitalista” durante la campagna elettorale è entrata ormai nel linguaggio comune interiorizzando il sacrificio sotto il monitoraggio costante del FMI. Così, il debito delle famiglie è diventato paradossalmente un modo di “resistere” e di gestire la precarietà attraverso dispositivi finanziari. Il debito svolge funzioni specifiche in sequenze temporali specifiche. La possibilità di posticipare temporaneamente gli effetti dell’aggiustamento strutturale ha creato le condizioni per la privatizzazione in ogni famiglia degli impatti dell’austerità. Oggi, il debito è un acceleratore dell’economia digitale e delle piattaforme. Gilles Deleuze ha demonizzato la moneta per riflettere sulla transizione da una società disciplinare a una società di controllo. Ha affermato che «la vecchia talpa monetaria è l’animale degli ambienti di internamento, mentre quello delle società di controllo è il serpente monetario». Cosa possiamo dire sui portafogli virtuali, sul credito algoritmico e sul debito come moneta popolare? Quale tipo di animale potrebbe essere all’altezza dei loro standard e delle loro dinamiche? Senza ombra di dubbio, l’avvoltoio. Articolo pubblicato sul sito della casa editrice indipendente Tinta Limón Ediciones, che ringraziamo per la gentile concessione. Traduzione in italiano di Michele Fazioli per DINAMOpress Immagine di copertina: particolare della copertina del libro. Immagine di copertina di Alicia Herrero. Saggi su un tribunale. Al potere dell’economia politica, Parque de la Memoria, Buenos Aires (2019). SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. 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Nel nome di Laika, smisurata preghiera
Si è detto che, se anche un leone potesse parlare, non potremmo capirlo. Si è fatto notare (facezia o meno, forse può importar poco) che da quegli ormai lontani anni ’60 in cui il progetto Grandi Scimmie iniziava, alle grandi scimmie sono state poste numerose domande, eppure nessuna di loro ne ha rivolta alcuna a noi. Un po’ come se la risposta al problema dell’Animale, che crediamo non saprebbe, di norma, rispondere – lezione che ci portiamo dietro da quel Descartes che sosteneva che l’animale, favolosa macchina computazionale, potesse mettere in fila voci plausibili e anche verosimili, ma mai rispondere contestualmente a una domanda ricevuta – stesse non tanto, appunto, nella abilità a rispondere quanto nell’abilitazione alla replica, alla contestazione, al racconto. Che gli animali possiedano la capacità di dare risposte sensate a domande (sensate? Questo, forse, ce lo domandiamo di meno), lungi da essere assunto, è ipotesi in corso di negoziazione, inesausto campo di lotta. E il redde rationem è ogni volta travagliato, raggiunto attraverso uno sfinimento, se non già una violenza laboratoriale. Forse per questo arriviamo anche noi, con una qualche stanchezza, a domandarci perché l’animale dovrebbe mai risponderci, o voler parlare con noi. Perché dovrebbe rivolgerci la parola, o rivolgersi a noi con una parola. Aspettarsi, tra l’altro, che chi subisce l’oppressione manifesti le sue doglianze in forma ordinata e composta, rifinita e non frammentata né esplosiva, è forse un’ulteriore torsione di quell’oppressione stessa, ricatto o tranello che solo chi occupa il posto dell’oppressore può tendere – e chi frequenta la politica della rabbia lo sa bene. Da questa prospettiva sembrava muoversi Massimo Filippi nella sua riflessione Not in my name, ospitata ne L’albergo di Adamo (edito da Mimesis nel 2010). Testo in cui Filippi si confrontava con alcuni (quattro: Enkidu, Argo, Stendardo e Laika) animali fra quelli che hanno attraversato la letteratura e la filosofia. «A differenza di Adamo», qui si diceva, rievocando la scena biblica in cui Dio conduceva gli animali davanti al Primo Uomo, perché lui vi imponesse un nome (scena in cui Walter Benjamin vedeva nascere nella natura, impossibilitata a darsi un nome proprio, o a dare nomi a sua volta, una mutezza che era presagio di lutto), ecco, «a differenza di Adamo non convocheremo questi animali (Enkidu, Argo, Stendardo e Laika) per dar loro un nome, ma ci approssimeremo a loro per venire a sapere cosa e come intendono risponderci». > Questo perché, al di là di fantasie di potere (o meglio, favole: quel > derridiano dare l’impressione di sapere qualcosa, laddove un sapere non c’è e > viene invece costituito attraverso la sospensione della complessità, del > dubbio, dell’ignoscenza), «gli animali conoscono i loro nomi e si chiamano tra > loro», e solo accostandosi a loro tramite questa postura, che ha a che fare > forse con quel farsi umili, all’altezza dei fiori e delle cose piccole che > persino Nietzsche consigliava, si può ricevere da loro un qualche tipo di > risposta, o una qualche forma di riguardo. Bisognerebbe insomma tentare di parlar loro da quella postura che era quella da cui Ortese, si ricordava sempre nelle stanze dell’Albergo, poteva chiamare Laika – o sognava di poterlo fare: «Vorrei gridare: Laika! Siamo qui! Ti amiamo! Torna indietro, Laika! Sì, sono questi i miei sogni: la resurrezione, il ritorno di tutti i morti nell’ingiustizia. Già la morte è ingiustizia. Ma l’ingiustizia, talora, come per Laika, è più ingiusta di ogni altra cosa ingiusta. È del tutto il segno della disgrazia di Adamo, dice l’orrore della intelligenza di cui si è fidato. Dice che non bisognerebbe più fidarsi di questa guida. Tornare indietro!». E così Filippi sembra forse fare, adesso: tornare indietro, come incitava a fare Ortese attraverso Laika –, o tornare semplicemente a Laika, forse. Con un nuovo testo, che porta proprio questo titolo: LAIKA, forse, appena uscito a settembre per l’editore Ortica: il 3 novembre la cagnolina sarebbe stata lanciata nello spazio, a bordo dello Sputnik 2, e sarebbe morta dopo poche ore, nonostante la versione ufficiale promossa dal governo sovietico racconti di quattro giorni di sopravvivenza nel cosmo. Se ipotizziamo un mese di addestramento nelle stanze della scienza, forse proprio a quei giorni di settembre risale la sua cattura? Il testo, con un’epigrafe da Walking at night di Louise Glück, proprio in giro (di notte? Forse) si apre, precipitandoci in una prosa loppide, che immediatamente ci avverte dell’orrore di una certa intelligenza e della sua velocità: «Le strisce grigie sono pericolose ci passano i grossi coleotteri rotolanti di metallo e vetro e schiacciano non appena ti distrai schiacciano senza pietà o rimorso bisogna saper valutare la loro velocità e avere pazienza ne ho già visti parecchi di simili e diversi stesi a terra con le viscere fuori il sangue e le urla e il disinteresse il pianto o le risa» (p. 7). Siamo allora Laika, forse, o quantomeno sentiamo con lei: sentiamo che, rispetto alla frenesia dell’abitacolo latta e del copertone che vortica sull’asfalto, c’è una velocità che ci dà più gusto e più gioia – «seguo una traccia m’immergo nel profumo che porta e corro a zigzag mi piace correre fermami ad annusare un arbusto rigoglioso o rinsecchito un effluvio di urina ancora calda» (p. 8). E c’affezioniamo, naturalmente, a questo cuore di cana, seguendola sino al capitolo secondo che ci conduce nostro malgrado In laboratorio, un ritmo stagnante e rituale in cui una voce metallica, assieme asettica e rabbiosa e certamente troppo umana le fa da controcanto, e dunque a un capitolo terzo, nel quale siamo spedite, rinchiuse, a una velocità vorticante, In orbita. Per accostarci ancora una volta a lei, in una quarta parte che c’immerge, da fuori, in una smisurata preghiera laica, litania della nuova voce narrante che a Laika, forse, si rivolge – per accostarci a lei non, purtroppo, in fuga, ma In coda. Continuiamo dunque ad approssimarci, tenendoci perciò, grazie alla cura attenta dell’autore, in quella che è la giusta distanza – secondo Pascal ve ne è solo una, una per ciascuna cosa: e insieme a ciascuna cosa va indovinata, e dunque mantenuta –, perché siano eventualmente gli animali non umani ad avvicinarsi a noi, se mai vorranno, per raccontare quella loro storia (che pure, quando scompare il corpo, dilegua anch’essa). L’effettiva storia e l’effettivo nome di Laika, il cui nome richiama la parola russa per il verbo abbaiare, e che davvero era nome comune di cane, ribattezzata in realtà Kudrjavka, ovvero ricciolina, non possono essere scoperti, non si lasciano stanare. Filippi allora sembra stare in attesa, stare a vedere che cosa lei vorrà dirci, se mai vorrà dirci qualcosa (una parola, o altro): e allora per Laika produce quelle immagini-racconto che J.-L. Nancy, in una bellissima riflessione sul cineasta Kiarostami, diceva avessero il potere di rivaleggiare con la cosa, non nella forma dell’agonismo ma della corsa e della rincorsa; in questa sfida l’immagine chiamerebbe quindi avanti la cosa, la evocherebbe, chiamerebbe alla presenza: «Nell’immagine o come immagine […] la cosa è posta in soggetto: essa si presenta». «Adesso, tu, forse puoi raccontare la tua storia di nuovo per una volta» (p. 78), scrive infatti l’autore nella quarta parte, rivolgendosi alla cagnolina che, forse, ha evocato – di cui ha indovinato il nome, forse. E lo ha indovinato senza colpo ferire, e senza ammutolire di rimando – niente di più distante da un novello Adamo. L’ha indovinato come Zanzotto indovinava che i «furbissimi topinambur / si affollano al cancello / come a scuola, nel giorno giusto» e forse questo è il potere profetico della poesia, anche quando rifiuta la forma del verso riconoscibile. E quindi noi leggiamo e ci facciamo raccontare la storia di LAIKA, forse, la storia della persona che l’ha incontrata e ne è rimasta ossessionata, infestata come solo lo si può essere a motivo di un fantasma. Persona e terza voce narrante, questa, che appare dopo il cane e dopo lo scienziato, ma che pare anche lei loppide nella misura in cui con sicurezza assume la posa del cinico: quella sicurezza che sola proviene dal coraggio della verità, verità che va spesso abbaiata, indovinata e profetizzata, chiamata in avanti, tramite la giusta distanza e la giusta immagine. È questa voce-abbaio che sa vedere nel corpo della cagnolina in fiamme nell’abitacolo spaziale una protesta, una rivolta nella forma dell’autoconsunzione, una violenza girata di segno, rivolta su di sé, nell’impossibilità o forse nella lucida volontà di non volgerla verso il fuori e restituirla, sfogata. > È sempre una voce cinica e nuda quella che ci avverte – questa violenza > ricevuta è sì evidente sul corpo di Laika, che da questa violenza è stato > consumato, ridotto in cenere, smontato in laboratorio, spedito in orbita; > spesso non lo è altrettanto su quei corpi che rimangono, loro sì, senza alcun > nome: sterminate sono le vittime dell’industria zootecnica, della violenza > degli stabulari (quali velocità avrebbero corso, loro, quali piste avrebbero > seguito col naso o con le orecchie, di cosa avrebbero goduto? Cosa ci > avrebbero raccontato, dove e come avrebbero esploso la loro rabbia, la loro > protesta?).  Ed è, ancora, sempre questa voce di cane che ci ammonisce, perché «il nostro sguardo non vede, noi abbiamo gli occhi rivolti all’indietro» (p. 72), e qui non si parla di quell’indietro a cui dovremmo tornare, come ci diceva Laika attraverso Ortese, ma forse piuttosto di quell’indietro che è la cecità e cattività di cui aveva parlato Rilke nell’Ottava Elegia; abbiamo gli occhi come rivoltati, tesi come una rete a imprigionare quel libero passo delle cose – che, sempre con Rilke, non riusciamo a sentir cantare: «io temo tanto la parola degli uomini./ Dicono tutto sempre cosí chiaro: / questo si chiama cane e quello casa, / e qui è l’inizio e là è la fine […] Vorrei ammonirli, fermarli: state lontani. / A me piace sentire le cose cantare. / Voi le toccate: diventano rigide e mute. / Voi mi uccidete le cose». A chi ha questo coraggio, a chi ha questa forza di rimanere in silenzio per stare a sentire, e da lì tornare ad abbaiare contro quella realtà – che non è l’unica possibile – che s’è incaricata di mettere a tacere ogni randagia devianza e ogni altra possibilità, può infine apparire un intimo segreto: «Che la tua storia non è andata perduta, che ancora racconti e che ancora si dice, che il tuo fulgore celeste tuttora traluce nella terranea radice» (p. 78). A chi abbia scoperto questo segreto inconfessabile diventerà forse possibile farsi testimonianza di questa verità lo stesso scoperta, e raccontare, a chi sfoglierà le pagine, questa cinica storia che è anche un po’ una cinegetica dalla parte del cane, rincorsa in cui è una cagnolina riccioluta a starci alle calcagna, a braccarci, a toglierci anche il fiato quando il fiato si fa più fioco e rado, nello Sputnik, assieme a lei. In uno scambio pure a distanza, Blanchot e Nancy si interrogavano sulla possibilità di una comunità il cui nome non evocasse quel fondale storico di disastro sul quale ogni comunità che conosciamo, invece, si staglia. Una comunità che quindi rinunciasse da subito all’opera (di cui la corsa allo spazio può essere lampante esempio, adamitica velocità che ha mostrato e ancora oggi mostra un certo non-senso), una comunità che quindi rinunciasse da subito all’idea di non-mortalità. Una comunità, si ipotizzava, che si formasse anzi là dove può tenere la mano – se non è una mano, forse, potrà essere una poesia, o una zampa, una coda di ratto, e così via – a quel’altr* che muore. Comunità inconfessabile, perché muto sembrerebbe, a chi non ne fosse coinvolt*, quel dialogo che ha la forma del commiato. Comunità dell* amant*, forse la chiamavano, che avrebbe per fine la distruzione della società per come la conosciamo. Comunità che avrà mai un nome? Forse, se e quando avrà voglia di dircelo, di raccontarcelo, di invitarci a prenderne parte; allora seguiremo anche noi le tracce di Laika, forse, o forse dell’orso M49, o – «forse sono le mie o forse di un qualche forsennato disfarsi dei bordi del mondo in attesa di rinascere in sfolgorante creazione» (p. 84). La copertina è di Colectivul Dumitrana wikicommons SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Nel nome di Laika, smisurata preghiera proviene da DINAMOpress.
Si può essere persone orrende in tanti modi diversi
Il linguicismo, ovvero il sistema oppressivo del linguaggio ritenuto norma, permea le nostre vite con declinazioni coloniali, antimeridionali, sessiste, classiste, queerfobiche. Il breve saggio di Rosalba Nodari, è un altro gioiello della collana bookblock+  di Eris Edizioni, una collana di saggistica breve e tascabile per aprire fratture generative nello sguardo normato. Nell’ultima edizione di San Remo c’era Geolier, orgoglio campano, con una canzone in napoletano. Molte persone sono insorte, chi chiedendo i sottotitoli, chi defininendolo inascoltabile per la bruttezza del dialetto, chi facendo ricorso al regolamento di fascista derivazione che in via di principio richiedeva solo brani in italiano. Lo stesso trattamento, come ricorda Nodari, non è stato riservato a Van Des Sfroos che con Yanez cantava in bergamasco, con il plauso del leghista Luca Zaia. Si potevano leggere commenti anti-meridionalisti persino nelle stories e chat di persone politicizzate senza che suscitassero un compatto sconcerno. Io stesso passavo invisibile nella mia appartenenza campana, spesso lodato per non avere un’inflessione marcata: «non si capisce da dove vieni», mi hanno ripetuto per farmi un complimento. Questo è stato probabilmente dovuto ad anni di pulizia linguistica, dalla scuola all’accademia, dagli ambienti di lavoro alle interazioni sociali. > Dissociarsi dal dialetto, dalla sua inflessione, significa ancora oggi avere > più possibilità di accedere al capitalismo culturale e sociale in termini di > opportunità di studio, di lavoro e di una maggiore accettazione sociale. > Questo è ancor più vero per chi ha come lingua madre una lingua non europea e > non bianca. «Non si capisce» – dicono e, come risponde Marìa Galindo (in Femminismo Bastardo, tradotto da Roberta Granelli, Mimesis edizioni)_ «Sì, è vero, non ci capiamo perché tu non vuoi capirmi». Galindo parla della mistura linguistica e del linguicismo coloniale a cui sono sottoposte le persone migranti o con un background culturale che non sia quello statunitense ed europeo bianco. Nel suo saggio Nodari, dopo aver trattato in modo illuminante di linguicismo e scuola, parla del linguicismo coloniale prevalentemente in ambito europeo, a partire dalla proposta di legge presentata nel 2022, in Francia, dal deputato di origini catalane Euzet per combattere la cosiddetta glottofobia, ossia la discriminazione subìta da una persona per il suo accento. Riprendendo la riflessione di @seconda_generazione_ita titolata Imitare e deridere gli accenti stranieri rafforza il razzismo, la xenofobia e il classismo, Nodari riflette su come dietro determinati gusti si celi qualcosa di molto più profondo: «la discriminazione linguistica può agire lungo gli assi della discriminazione tout court. Se, attraverso la lingua possiamo comunicare la nostra razza, il nostro genere, la nostra età, la discriminazione linguistica non sarà un caso di linguicismo e basta, bensì un elemento per veicolare il razzismo, il sessismo, l’ageismo». Nel suo saggio, Nodari attraversa alcuni dei sistemi di potere tirati dai fili invisibili, ma tangibili, del linguicismo concentrando il pezzo centrale sul sessismo. Parte da Alma Sabatini e dal suo Per un uso non sessista della una lingua italiana per riprendere il vocal fry reso evidente nel dibattito pubblico dall’allora deposizione di Paris Hilton. «Si tratta di una modalità di fonazione socialmente associata a una femminilità frivola. Un modo di parlare da sanzionare, poiché le donne con questo tono di voce verrebbero percepite come meno competenti, meno istruite, meno affidabili, meno occupabili». > La linguistica e le norme sociali del linguaggio hanno creato regole e studi > per cercare di vestire di prestigio e attendibilità scientifica a pregiudizi e > discriminazioni, come lo studio della Lingua delle donne di Lakoff, dove il > maggiore utilizzo di vezzeggiativi, ad esempio, viene ricondotta > all’intrinseca natura femminile (e servile) delle donne; studio che ha trovato > un largo seguito di illuminati pensatori. In un libro breve – come tutta la collana Bookblock di Eris edizioni – Nodari innesta semi di riflessioni profonde, supportate da una chiara bibliografia, risorse di approfondimento e fonti che scompaginano il capitalismo culturale, come post di Instagram e riferimenti alla cultura pop. Una scrittura accessibile e sempre affilata conduce alle conclusioni tra le più belle personalmente lette. Un libro che apre a più domande di quante se ne avessero in partenza, e che fa venire voglia di proseguire le riflessioni e gli studi di Rodari soprattutto in ambito queer e trans dove il linguicismo è particolarmente violento. Un libro da leggere, consultare, prestare e condividere per accendere le cene di famiglia, le pause caffè al lavoro e anche le assemblee. La lingua è potere, il linguicismo la sua manifestazione oppressiva. Sta a noi trasformare le relazioni di potere del linguaggio a partire da una consapevolezza che Linguicismo e potere innesca e propaga. Come miceli di funghi, che condizionano tutto e governano il pianeta. Che ne abbiamo coscienza oppure no. L’immagine di copertina è di emdot via Flickr L'articolo Si può essere persone orrende in tanti modi diversi proviene da DINAMOpress.