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Si può essere persone orrende in tanti modi diversi
Il linguicismo, ovvero il sistema oppressivo del linguaggio ritenuto norma, permea le nostre vite con declinazioni coloniali, antimeridionali, sessiste, classiste, queerfobiche. Il breve saggio di Rosalba Nodari, è un altro gioiello della collana bookblock+  di Eris Edizioni, una collana di saggistica breve e tascabile per aprire fratture generative nello sguardo normato. Nell’ultima edizione di San Remo c’era Geolier, orgoglio campano, con una canzone in napoletano. Molte persone sono insorte, chi chiedendo i sottotitoli, chi defininendolo inascoltabile per la bruttezza del dialetto, chi facendo ricorso al regolamento di fascista derivazione che in via di principio richiedeva solo brani in italiano. Lo stesso trattamento, come ricorda Nodari, non è stato riservato a Van Des Sfroos che con Yanez cantava in bergamasco, con il plauso del leghista Luca Zaia. Si potevano leggere commenti anti-meridionalisti persino nelle stories e chat di persone politicizzate senza che suscitassero un compatto sconcerno. Io stesso passavo invisibile nella mia appartenenza campana, spesso lodato per non avere un’inflessione marcata: «non si capisce da dove vieni», mi hanno ripetuto per farmi un complimento. Questo è stato probabilmente dovuto ad anni di pulizia linguistica, dalla scuola all’accademia, dagli ambienti di lavoro alle interazioni sociali. > Dissociarsi dal dialetto, dalla sua inflessione, significa ancora oggi avere > più possibilità di accedere al capitalismo culturale e sociale in termini di > opportunità di studio, di lavoro e di una maggiore accettazione sociale. > Questo è ancor più vero per chi ha come lingua madre una lingua non europea e > non bianca. «Non si capisce» – dicono e, come risponde Marìa Galindo (in Femminismo Bastardo, tradotto da Roberta Granelli, Mimesis edizioni)_ «Sì, è vero, non ci capiamo perché tu non vuoi capirmi». Galindo parla della mistura linguistica e del linguicismo coloniale a cui sono sottoposte le persone migranti o con un background culturale che non sia quello statunitense ed europeo bianco. Nel suo saggio Nodari, dopo aver trattato in modo illuminante di linguicismo e scuola, parla del linguicismo coloniale prevalentemente in ambito europeo, a partire dalla proposta di legge presentata nel 2022, in Francia, dal deputato di origini catalane Euzet per combattere la cosiddetta glottofobia, ossia la discriminazione subìta da una persona per il suo accento. Riprendendo la riflessione di @seconda_generazione_ita titolata Imitare e deridere gli accenti stranieri rafforza il razzismo, la xenofobia e il classismo, Nodari riflette su come dietro determinati gusti si celi qualcosa di molto più profondo: «la discriminazione linguistica può agire lungo gli assi della discriminazione tout court. Se, attraverso la lingua possiamo comunicare la nostra razza, il nostro genere, la nostra età, la discriminazione linguistica non sarà un caso di linguicismo e basta, bensì un elemento per veicolare il razzismo, il sessismo, l’ageismo». Nel suo saggio, Nodari attraversa alcuni dei sistemi di potere tirati dai fili invisibili, ma tangibili, del linguicismo concentrando il pezzo centrale sul sessismo. Parte da Alma Sabatini e dal suo Per un uso non sessista della una lingua italiana per riprendere il vocal fry reso evidente nel dibattito pubblico dall’allora deposizione di Paris Hilton. «Si tratta di una modalità di fonazione socialmente associata a una femminilità frivola. Un modo di parlare da sanzionare, poiché le donne con questo tono di voce verrebbero percepite come meno competenti, meno istruite, meno affidabili, meno occupabili». > La linguistica e le norme sociali del linguaggio hanno creato regole e studi > per cercare di vestire di prestigio e attendibilità scientifica a pregiudizi e > discriminazioni, come lo studio della Lingua delle donne di Lakoff, dove il > maggiore utilizzo di vezzeggiativi, ad esempio, viene ricondotta > all’intrinseca natura femminile (e servile) delle donne; studio che ha trovato > un largo seguito di illuminati pensatori. In un libro breve – come tutta la collana Bookblock di Eris edizioni – Nodari innesta semi di riflessioni profonde, supportate da una chiara bibliografia, risorse di approfondimento e fonti che scompaginano il capitalismo culturale, come post di Instagram e riferimenti alla cultura pop. Una scrittura accessibile e sempre affilata conduce alle conclusioni tra le più belle personalmente lette. Un libro che apre a più domande di quante se ne avessero in partenza, e che fa venire voglia di proseguire le riflessioni e gli studi di Rodari soprattutto in ambito queer e trans dove il linguicismo è particolarmente violento. Un libro da leggere, consultare, prestare e condividere per accendere le cene di famiglia, le pause caffè al lavoro e anche le assemblee. La lingua è potere, il linguicismo la sua manifestazione oppressiva. Sta a noi trasformare le relazioni di potere del linguaggio a partire da una consapevolezza che Linguicismo e potere innesca e propaga. Come miceli di funghi, che condizionano tutto e governano il pianeta. Che ne abbiamo coscienza oppure no. L’immagine di copertina è di emdot via Flickr L'articolo Si può essere persone orrende in tanti modi diversi proviene da DINAMOpress.
Sovvertire le intimità: costruire spazi di libertà condivisa
In un tempo in cui anche l’intimità è merce, parlare di relazioni è già di per sé un gesto politico. Ma non basta dire “poliamore” per essere fuori dalla norma. Sovvertire le intimità, il saggio polifonico e stratificato di Nic Braida, mostra con chiarezza quanto siano radicate, anche nei luoghi che si dicono alternativi, le logiche del possesso, della gerarchia, della bianchezza. È un testo che non offre sollievo, ma domande. E, se sei fortunatə, un “leggero” senso di smottamento. Sovvertire le intimità chiama, senza tanti slogan, a una nuova responsabilità affettiva, una attenzione sociale e, perché no, un modo inedito di fare politica attraverso i nostri corpi. Un libro che, come il titolo stesso suggerisce, non cerca di rendere mansueto il linguaggio dell’intimità, ma di rovesciarlo, di prenderlo a martellate là dove è stato costruito su norme, gerarchie e aspettative. Chi scrive questo articolo è una persona, come richiederebbe di esplicitare Braida, estremamente situata ed è giusto fare coming out su questo fin dall’inizio. Transfemminista, donna (per quel che vuol dire ancora per me questa etichetta), attivista, italo-iraniana, vicina a tutti quegli spazi che Braida cita nei suoi capitoli: collettivi, spazi di autocoscienza, comunità di persone e virtuali. Da qualche anno anche orgogliosamente non-monogama che pensa di essere ancora una pivella alle prime armi e che sente di avere bisogno proprio di testi come quello di Braida. Mi sono avvicinata al poliamore, come altrə, dopo essermi lasciata alle spalle una relazione monogama violenta, dominata dal tradimento, dalla possessività, dalla paura. Non si tratta qui di fare della biografia una bandiera, ma di prendere posizione. Perché parlare di relazioni non è mai neutro. Il modo in cui amiamo, il modo in cui scegliamo di legarci – o di non legarci – allə altrə (umani e non) è profondamente politico. Il libro di Braida parte da questo stesso presupposto: che l’amore, le relazioni, il desiderio non siano sfere “private” scollegate dalla società, ma che siano attraversate da potere, da norme, da sguardi giudicanti, che lo vogliamo oppure no. > Le non monogamie allora non sono solo pratiche relazionali, ma una possibilità > di scompaginare l’ordine affettivo (e politico) vigente. Non una soluzione, > non una fuga, ma uno strumento per guardare in faccia i limiti dell’imperativo > monogamo, oltre a quelli del sistema stesso. Fin dai primi capitoli, Braida non mitizza, non costruisce eroi. Anzi, a più riprese mostra quanto la rappresentazione mainstream del poliamore – persone razionali, organizzate, libere, sempre consapevoli – sia in sé una nuova forma di oppressione sottile. La “polinormatività”, ovvero quella forma di poliamore che cerca di essere rassicurante, ordinato, presentabile alla società monogama, viene qui smontata pezzo per pezzo. Braida la mette sotto la lente per mostrarne le fragilità, le esclusioni, le finte neutralità. Non tutte le relazioni poliamorose riescono a essere orizzontali, fluide o eque, il poliamore non è una formula magica. Può fallire, può ferire, può riprodurre le stesse dinamiche di potere e sopraffazione della monogamia. La differenza, semmai, sta nella possibilità di ripensare continuamente le relazioni, di negoziare, di mettere in discussione un sistema dato per naturale e soprattutto di avere la possibilità di comunicare chiaramente cosa si desidera e di cosa si ha bisogno. L’idea che le persone poliamorose non siano supereroə o macchine, che possano sbagliare, ferirsi, rompere accordi, non serve a screditare (più di quanto già non faccia la nostra società) la comunità poli e non-monogama. Aiuta invece a parlare apertamente dei fallimenti, delle fratture, dei conflitti. Perché è lì, in quei margini, che si vede davvero quanto una pratica relazionale sia politica. Perché è non nascondendo sotto il tappeto che ci si rende vulnerabili e quindi più fortə. Il testo alterna momenti di approfondimento teorico a parti più vicine alla ricerca sul campo, costruite anche sulle voci delle persone intervistate. Ne emerge una molteplicità di esperienze: c’è chi si è avvicinatə al poliamore per curiosità, chi per convinzione ideologica, chi per guarigione personale. C’è chi ha trovato spazi di libertà e chi si è sentitə esclusə da dinamiche troppo cerebrali o elitarie. C’è chi partecipa attivamente alle community online o ai gruppi in presenza, e chi invece preferisce non prendervi parte. Una delle tensioni più evidenti è proprio quella tra politicizzazione e depoliticizzazione. C’è chi vorrebbe che i gruppi poliamorosi fossero solo spazi neutri, dedicati a “parlare d’amore”. E c’è chi invece – e mi ci riconosco profondamente – sostiene che non possa esistere una non-monogamia “apolitica”/neutrale. Che la scelta non-monogama sia già una forma di disobbedienza alla norma e, come tale, vada pensata in relazione alle “altre” lotte: queer, transfemministe, antirazziste, decoloniali, antiabiliste e antispeciste. Braida non cerca scorciatoie, ma solleva interrogativi importanti: chi si riconosce in una comunità poliamorosa condivide anche un orizzonte politico o si rischia che il poliamore venga trattato come un’altra etichetta, disinnescata del suo potenziale critico? Le relazioni che costruiamo sono strumenti di sovversione o semplici variazioni sul tema della coppia? Possiamo davvero pensare a nuove forme di intimità se non mettiamo in discussione anche le gerarchie, i privilegi, le esclusioni? Leggendo Sovvertire le intimità si attraversa la dimensione comunitaria del poliamore senza idealizzarla, ma al tempo stesso riconoscendone logiche e dinamiche di cura inedite sulle quali dobbiamo puntare un faro in tempi così bui. Chi si avvicina alle non-monogamie spesso lo fa proprio perché si è sentitə fuori posto altrove. Fuori dalla coppia eteronormata, fuori dal matrimonio, fuori da quel dispositivo che chiamiamo “amore romantico” e che troppo spesso si è rivelato un recinto. Lo so bene: dopo anni passati in una relazione in cui il controllo veniva spacciato per amore, sentire parlare di consapevolezza, negoziazione, molteplicità è l’unica possibilità di respiro. È nel sentirsi solə che si creano nuove identità che danno vita a forme di alleanza e all’urgenza di raccontarsi in modi inaspettati. Braida ci accompagna in queste possibilità attraverso pratiche ed esperienze eterogenee, alcune rassicuranti, alcune meno prossime, ma con uno sguardo sempre vigile alla cornice. Come possiamo parlare di “libertà relazionale” se non mettiamo in discussione il sistema che rende alcune vite più vivibili di altre? Come possiamo discutere serenamente di compersione e confini emotivi, quando c’è chi fatica ad avere una casa sicura o un lavoro che lə permetta di vivere? In questo senso, Sovvertire le intimità non ha come intento quello di descrivere la “scena poliamorosa italiana”, ma di attraversarla criticamente. Il libro si muove continuamente tra affetto e politica, tra micro e macro. Mostra come le relazioni non siano mai isolate, ma sempre inserite in una rete di significati culturali e di sistemi di potere. E ci invita a guardare oltre la mera “scelta individuale” perché non è mai solo una scelta, ma una posizione, un atto, un gesto politico. > Uno degli snodi che mi tocca più da vicino è quello della famiglia e delle > sfamiglie, parola potentissima che l’autorə usa per indicare tutto ciò che sta > ai margini della famiglia nucleare normativa. Le sfamiglie sono forme di > co-abitazione, di parentela queer, di reti affettive completamente > invisibilizzate. Sono case condivise, relazioni plurime, reti di cura non > biologiche. E qui Braida tocca un punto delicatissimo: quello del > riconoscimento giuridico. Da un lato, c’è chi – dentro e fuori la comunità poliamorosa – reclama nuovi diritti, riforme, nuove norme per le relazioni non-monogame: possibilità di riconoscere più di due genitori per unə figliə, apertura del matrimonio a più persone, tutele per forme di co-abitazione multiple. Dall’altro lato, però, emerge il timore che il desiderio di riconoscimento produca una nuova assimilazione. Che la richiesta di “diritti” finisca per riprodurre un modello normativo, solo un po’ più allargato. È qui che si aprono letture divergenti anche dentro lo stesso movimento: c’è chi auspica una riforma progressista del diritto di famiglia e chi invece insiste per un ripensamento radicale delle forme di cura, totalmente sganciate da logiche statali, proprietarie, matrimoniali. Braida non dà una risposta univoca, ma anche in questo caso restituisce la complessità del dibattito e ci ricorda, con lucidità, che anche la “famiglia queer” può diventare una gabbia, se non viene ripensata nei suoi presupposti politici. E a pensarci bene, forse è proprio qui che si gioca la posta in palio: non tanto “essere poliamorosə perfettə”, ma stare in relazione in modo consapevole, situato, critico. Non diventare lə più bravə a gestire calendari e appuntamenti, ma imparare a mettersi in discussione. A costruire intimità che non siano dispositivi di potere, ma spazi di libertà condivisa. Arrivando alla fine del libro resta addosso una sensazione di movimento. Non c’è nulla di statico, nulla che somigli a una ricetta definitiva. Braida lo dice chiaramente: non esiste un punto d’arrivo, un modello da seguire. Sovvertire le intimità non è una conquista, ma una pratica continua e, soprattutto, una pratica durante la quale si può inciampare. Non so se esista una versione “giusta” delle relazioni e forse questo è proprio il punto: l’idea stessa che esista un giusto e uno sbagliato è il primo dogma da disinnescare. Anche chi scrive questo pezzo si muove dentro questa complessità. In parte perché ne ha bisogno, in parte perché non può più ignorare quello che ha imparato: che certe forme d’amore non liberano, anzi, consumano. Il merito del testo è anche questo: non promettere salvezze, ma offrire domande, posizionandosi apertamente. Non c’è neutralità possibile in un discorso che tocca il desiderio, il potere, il riconoscimento o addirittura l’abitare. Braida costruisce un discorso che intreccia transfemminismo, pensiero decoloniale, anticlassismo, antispecismo, anticapitalismo, senza usarli come etichette, ma come strumenti critici reali, che modificano il modo in cui si ama, si abita il mondo, si desidera. La vulnerabilità, in questo contesto, non è una debolezza da nascondere. È uno spazio di possibilità. Politicizzare la vulnerabilità significa riconoscere che l’essere colpibili, fragili, espostə, non è un difetto individuale, ma una condizione condivisa. E che da questa condizione si possono costruire alleanze, non sempre stabili, non sempre serene, ma quanto mai reali e comunicanti attivamente. > Il libro non fa finta che tutto sia facile. A volte, il poliamore può > diventare una nuova trincea per nascondersi. A volte, la comunicazione > radicale è solo una maschera sopra il controllo. A volte, si usano parole > nuove per perpetuare le stesse dinamiche. Eppure, nonostante tutto, c’è > un’energia che attraversa queste pagine: la voglia di fare spazio ad altre > possibilità. Per me questo spazio è stato una scoperta faticosa. Non perché manchino i discorsi o i modelli, ma perché quelli che circolano, spesso, parlano a una soggettività bianca, borghese, neurotipica, in coppia o in relazione stabili. La narrazione mainstream del poliamore – quella che lo rende presentabile, “cool” è ancora troppo lontana dalla complessità vissuta da moltə, risultando talvolta escludente. «Non ce la farò mai» è una frase che abbiamo detto e pensato in tantə. Braida lo dice con chiarezza: la polinormatività esiste e va disinnescata. Questo comporta anche una responsabilità: non basta non essere monogamə per essere liberi. Non basta definirsi poliamorosə per sottrarsi alle logiche del possesso, della competizione, dell’egemonia affettiva. Serve un lavoro più profondo che riguarda anche il modo in cui si concepisce l’amore, il sesso, la cura, la coabitazione. E qui torna una delle intuizioni più potenti del testo: sovvertire le intimità vuol dire anche moltiplicare i significati della relazione. Non tutte le relazioni devono avere una componente sessuale. Non tutte devono essere romantiche. Non tutte devono avere un futuro. Alcune esistono per pochi mesi, altre per tutta la vita. Alcune sono fatte di parole, altre di gesti, di cibo cucinato, di complicità politica. Non si tratta di abolire i legami, ma di trasformarli in spazi di agency e reciprocità. In fondo, il libro chiude su un orizzonte che non è né utopico né rassegnato. È un orizzonte situato: guarda al poliamore non come fine, ma come strumento. Come discorso (prodotto dentro coordinate culturali precise) che può essere utilizzato per interrogare, disarticolare, ricombinare. È un invito a non smettere di domandarsi: chi può permettersi certe forme? Chi resta fuori? Cosa stiamo riproducendo, anche senza volerlo? E allora forse il punto non è mai stato “essere poliamorosə” o “non esserlo”. Forse il punto è costruire spazi dove la molteplicità non venga punita, dove la cura non sia proprietà, dove il desiderio non significhi dominio. Luoghi in cui nessunə sia costrettə a nascondere le proprie fragilità, né a performare un’identità ideale per essere accettatə. Luoghi che distraggono da ciò che viene dato per scontato: la norma, la scala relazionale, il controllo capitalistico degli affetti, il sistema patriarcale. Forse non si tratta neanche più di “relazioni alternative”, ma di un’altra forma di abitare il mondo insieme. E questo, nel tempo surreale in cui viviamo, è una forma di sovversione potente e possibile. E dobbiamo ripetercelo ogni giorno. L’immagine di copertina è di Robert Ashworth (flickr.com) SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Sovvertire le intimità: costruire spazi di libertà condivisa proviene da DINAMOpress.
Scuola Estiva di Filosofia: cura vs. consumo, distruzione, guerra
Con il tema della Cura inauguriamo quest’anno un progetto che ci accompagnerà fino al 2026 e che avrà in Materia il secondo termine di riferimento della nostra riflessione. È la materia viva come limite immanente della realtà il soggetto e insieme l’oggetto della cura. L’idea è quella di ragionare sulla coppia cura/materia nella forma di una interdipendenza reciproca, di un chiasmo: l’una implica l’altra e viceversa. Chiediamoci allora in prima battuta che cosa bisogna intendere con “cura“: l’occuparsi di sé che si esercita attraverso la conoscenza introspettiva oppure, secondo un’accezione più materiale, l’attività teorica e pratica con cui ci alleniamo ai diversi usi della nostra vita? Se la cura è una specie di training preparatorio alle sfide dell’esistenza, sia in senso individuale sia in senso collettivo, allora la cura non è contemplazione, è riproduzione.  Nella filosofia contemporanea il tema della cura è centrale nei lavori di Heidegger, di Foucault e nel pensiero femminista: che rapporto c’è con l’epimeleia degli antichi? E quale significato ha la cura nel XXI secolo di fronte alla questione della giustizia socio-ecologica? Una volta sganciata dalla sfera privata e domestica e anche dall’ambito medico, ci convince il fatto di attribuire alla cura un senso etico-politico in grado di rappresentare il criterio utile a resettarci. La cura oggi come alternativa al consumo e alla distruzione, la cura come parola chiave per rifiutare la guerra e come strumento per attraversare le contraddizioni del mondo presente e per lavorare alla pace. È questa la premessa della XVI edizione della Scuola Estiva di Filosofia “Remo Bodei” di Roccella Jonica (www.filosofiaroccella.it), organizzata dal basso dall’Associazione Scholé e che si svolgerà dal 22 al 29 luglio. Ventinove iniziative tra lezioni, laboratori e incontri che vedranno la partecipazione della cittadinanza interessata e di studentesse e studenti, dottorande e dottorandi provenienti da diverse zone d’Italia e anche dall’estero. Filosofia, studi classici, fisica e storia della scienza saranno i linguaggi attraverso i quali declinare il concetto di cura, grazie ai contributi di tredici relatori/relatrici. Per entrare nel merito di alcune delle questioni che saranno oggetto di discussione, abbiamo invitato Arianna Fermani, dell’Università di Macerata e direttrice della Scuola Estiva insieme a Bruno Centrone (Pisa), Giancarlo Cella dell’Università di Pisa e dell’INFN e Paolo Godani dell’Università di Macerata a un confronto su consumo, distruzione e guerra intesi come termini opposti alla cura e proprio per questa ragione anche come problemi e prove empiriche con cui fare i conti. Il tema sarà affrontato durante l’incontro del 28 luglio, nella serata che anticipa la chiusura della Scuola affidata quest’anno proprio a Godani. “CURIA” E “INCURIA” Ripartiamo dall’antico. Quali sono i termini della filosofia greca che esprimono il senso della cura da cui possiamo prendere spunto per la nostra attualità? E quali invece i termini contrari, che danno il senso dell’incuria? Risponde Arianna Fermani: «Se è vero che, per dirla con Nietzsche, «proprio perché sono partito da lontano – dico dai Greci – ho fatto un balzo più lontano degli altri”», allora, forse, può essere utile mettersi nuovamente all’ascolto delle parole antiche che “dicono” della cura e che dànno anche voce alle numerose forme di incuria che, allora come ora, distruggono la vita degli individui e della collettività. Alla grammatica della cura – di sé e degli altri – espressa da termini quali, ad esempio, epimeleia, melete, therapeia, boetheia, si contrappongono, nel vocabolario greco, svariate espressioni dell’incuria e dell’indifferenza, quali, ad esempio, ameleia, oligoresis, aphylaxia o akedia (da cui il nostro “accidia”)». L’assenza di cura vissuta quindi come difetto, trascuratezza, negligenza? «L’incapacità di prendersi cura di se stessi e del mondo – continua Fermani – implica il cattivo uso del proprio tempo: la trasformazione della scholé, ovvero del tempo libero da dedicare alla cura di sé e alla propria askesis (cioè al lavoro, all’esercizio costante in direzione dell’acquisizione o del mantenimento della propria forma) in rathymia, ovvero in indolenza, rappresenta solo uno dei profili di una aergia (inattività) che può essere solo foriera di malattia, bruttezza e squilibrio». * * * * * LA CURA E IL LIMITE È molto interessante la connessione tra incuria, inattività e disagio psicofisico; nel mondo contemporaneo però è l’iperattività tecnico-scientifica della società di mercato a mostrare disinteresse per la cura generando caos e squilibri al livello planetario: «Abbiamo un’evidenza largamente condivisa che l’essere umano sia diventato una forza capace di modificare profondamente l’equilibrio planetario e questo impone una responsabilità nuova e profonda» – afferma Giancarlo Cella. «La scienza rende possibile definire indicatori globali che identificano i limiti entro i quali l’umanità può operare senza compromettere la stabilità del sistema Terra. Il superamento di questi limiti (climatico, della biodiversità, dei cicli dell’azoto e del fosforo, etc.) indica una crisi della cura». Di fronte alle forme di violenza e distruzione che stiamo vivendo tuttavia la scienza, fin dall’età moderna e poi dalla seconda metà dell’Ottocento in avanti, non è esente da responsabilità: «La scienza è uno strumento potentissimo – dichiara Cella. Può essere usata sia per il progresso e la cura, sia per la distruzione. Penso che lo stesso uso del termine “progresso” sia problematico e necessiti di essere approfondito. Lo sviluppo industriale, basato su scoperte scientifiche, ha contribuito all’inquinamento, al riscaldamento globale e alla perdita di biodiversità. La scienza è stata ed è al servizio di un modello economico estrattivo che non considera le conseguenze ecologiche a lungo termine, per non parlare delle tecnologie militari sofisticate e distruttive rese possibili da fisica, informatica, biologia e chimica». Oltre a mutare la rappresentazione scientifica della natura per concepire la Terra sempre più come un sistema complesso, vivente e interconnesso, occorre trasformare la rappresentazione che abbiamo della scienza stessa. «Credo – continua Cella – che la scienza possa essere anche parte della soluzione che andiamo cercando. Essa fornisce strumenti per la diagnosi del cambiamento climatico, propone tecnologie sostenibili e può guidare transizioni ecologiche se unita a valori etici e visioni politiche inclusive. Il dubbio è se sia possibile passare da una visione della scienza che vede come parole chiave ‘controllo’ e ‘dominio’ a un’altra che le sostituisce con “conoscenza” e “cura”». CURARE LE MALATTIE SOCIALI? Abbiamo bisogno di un nuovo Seicento, che teorizzi e metta in pratica riforme epistemologiche e politiche per una società della cura a venire. «Sono piuttosto pessimista sul fatto che le prossime generazioni possano vedere nascere una qualche “società della cura” – interviene Paolo Godanì– Non credo cioè che le nostre società occidentali, per come si sono degradate negli ultimi decenni e per il modo in cui oggi stanno correndo alla guerra, avranno la capacità di autoriformarsi». Però il problema resta. Con quali mezzi possiamo affrontare la “malattia” della civiltà occidentale? «Ogni “malattia” è un fenomeno collettivo. Chiama in causa le relazioni che intessiamo tra noi umani e con il resto della natura». Perciò non esiste cura che non sia politica? «Immagino – e credo che questo sia anche il compito politico di chi vede come stanno realmente le cose – che si produrranno sempre più spesso delle forme di abbandono del regime sociale dominante e del suo modo di vivere, delle pratiche di diserzione o di esodo che avranno da fondarsi su nuovi modi di stare insieme, su un nuovo modo di intendere e di realizzare concretamente l’amicizia, la solidarietà e la cura, su un nuovo modo di praticare una vita comune» – conclude Godani. La Scuola di quest’anno avrà un enorme vuoto da attraversare, con coraggio e determinazione ce ne faremo carico collettivamente. Fortunato Maria Cacciatore non c’è più, il mare e la filosofia per lui facevano parte di un rito rigenerante al quale non avrebbe mai voluto mancare. Grazie, Fortunato, per il tuo materialismo, per il tuo comunismo, per la tua generosità. L'articolo Scuola Estiva di Filosofia: cura vs. consumo, distruzione, guerra proviene da DINAMOpress.
Una serie turca controcorrente
Ha senso recensire qualcosa del 2021? Sì, secondo l’irrefutabile considerazione di Marcel Proust per cui canzonette e serie Tv traversano di sghembo il tempo vissuto e cronologico. Puntiamo lo sguardo allora su una serie turca del 2021-2022, un dizi appunto, ben confezionato ma di per sé neppure sempre all’altezza dei migliori prodotti del genere (tipo Ethos o Fatma), tuttavia di grande interesse politico. Partendo dall’assunto che, nel loro complesso, i dizi configurano una gigantesca operazione di egemonia culturale, in parte allineata e in parte dissonante rispetto ai progetti politici e militari del sultanato neo-ottomano di Erdoğan, risulta interessante vedere in quale misura ed entro quali limiti una parte di questa produzione si autonomizzi dall’ideologia ufficiale e dunque per paradosso, funzioni effettivamente come egemonia e non semplice propaganda di un modo di vita. Si potrebbe parlare dell’immaginario sui rapporti di genere che si discosta dai costumi approvati e suggerisce un modello di modernizzazione non sempre autorizzato – tenendo inoltre conto che la gran parte dei dizi è ambientata a Istanbul, anzi nel suo quartiere più cosmopolita (nonché adiacente alle sedi di produzione), Beyoğlu, e che lo stile di vita descritto e proposto a modello sarebbe inverosimile non solo in Anatolia ma già in quartieri stambulioti poveri di immigrazione come Fatih. Ma – traendo occasione da un dizi a dir poco sorprendente – vorremmo soffermarci sul tema delle minoranze nazionali e del loro rapporto con il mito di Istanbul che è il tratto comune di tutte le serie. > Parlando di minoranze e di storia della costituzione dall’alto di un’identità > nazionale turca premettiamo che vi sono dei tabu che un genere di larga > audience non può evocare. Il genocidio armeno, la questione curda, lo status dell’immigrazione siriana, è proibito ricordare Gezi Park (lo sostituisce, in modo allusivo, la coeva battaglia contro la demolizione del cinema Emek), però problemi meno scottanti possono essere sfiorati, per esempio mostrare personaggi ebraici e greci nelle trame e farli parlare nella loro lingua con sottotitoli – che è già molto tenendo conto del ruolo che un feroce monolinguismo sanzionato penalmente ha avuto nel processo di turchizzazione (la legalizzazione in alcuni contesti della lingua curda è assai recente). La storia di Istanbul, del resto, lo impone. Dopo la conquista di Costantinopoli nel 1453 la popolazione mista grecofona dell’ex-capitale bizantina rimase in loco, in buona parte senza convertirsi e anzi rappresentata amministrativamente dal Patriarcato ortodosso e si concentrò soprattutto lungo le coste e nel quartiere di Fener. Lo strato più ricco e colto, i fanarioti, appunto, costituì l’élite civile e diplomatica dell’Impero ottomano, spesso delegata al controllo dei principati balcanici vassalli. Le cose cambiarono con la rivolta greca del 1821 e l’indipendenza greca, che separò il nazionalismo ellenico dalla diaspora e andarono ancor peggio con le guerre balcaniche che resero sospetta la popolazione greco-ottomana e riversarono in città i profughi turchi espulsi dai Balcani. La katastrofí del 1922, ovvero la cruenta espulsione dei Greci dall’Asia minore e lo scambio delle popolazioni nel 1924 lasciò sussistere solo una ridotta minoranza greca a Costantinopoli, ormai Istanbul, ostilmente considerata ma ancora ricca. Dal 1492 in terra ottomana (soprattutto a Salonicco, Smirne e Istanbul) si riversò una cospicua massa di Ebrei sefarditi (cioè espulsi dalla Spagna-Sefarad) e parlanti giudeo-spagnolo (ladino, un castigliano medievale con prestiti lessicali ebraici). La loro condizione, rientrando come Greci e Armeni e altri cristiani nella categorie dei protetti, tassati e autorizzati (dhimmi) era molto migliore che nell’Europa dell’Inquisizione e le grandi dinastie sefardite acquisirono un peso notevole nella sfera commerciale e bancaria dell’Impero e della sua capitale, lasciando a Beyoğlu uno dei suoi segni iconici, la scalinata Camondo (l’altro è la torre genovese di Galata), mentre l’insediamento d’elezione dei ceti medi e popolari fu il quartiere di Balat, adiacente a Fener, lungo il Corno d’Oro. Quando nel fatidico Anno apocalittico della Bestia, il 1666, l’avventura messianica di Sabbatai Zvi si concluse con l’apostasia e la conversione all’Islam, numerosi furono gli Ebrei e le Ebree che lo seguirono, i cosiddetti Dönmeh, che in realtà restarono cripto-giudei (come i marrani sotto l’Inquisizione), concentrandosi soprattutto a Salonicco e spostandosi solo con lo scambio forzato delle popolazioni del 1924 a Istanbul, dove tuttora sopravvivono –soprattutto nella centrale e borghese Nişantaşi (quella della giovinezza di Pamuk) – osservando clandestinamente il sabato e praticando i digiuni di Kippur e del Ramadan. Laici e progressisti in maggioranza proprio in quanto marrani sui generis avevano svolto un ruolo importante nella rivolta anti-ottomana dei Giovani Turchi (come del resto molti Armeni), che aveva per epicentro Salonicco, ripagati però con diffidenza con il trionfo dell’etno-nazionalismo turco nella nuova Repubblica. Durante la seconda guerra mondiale la Turchia resta neutrale e accoglie numerosi profughi Ebrei ed Ebree dai Balcani, favorendo il loro passaggio verso la Palestina, ma all’interno il governo İnönü adottò misure fiscali afflittiva contro le minoranze ricche (la Varlik Vergisi, del dicembre 1942), non per antisemitismo ideologico ma per ultra-nazionalismo e per fare cassa, colpendo la comunità ebraica e ancor più i Dönmeh – sono gli stessi anni in cui i discendenti dei Camondo, trasferitisi a fine Ottocento a Parigi, venivano deportati ad Auschwitz e sterminati. Malgrado la diminuita importanza delle minoranze storiche nella repubblica turca rispetto all’Impero ottomano, il loro trattamento – insieme all’emergente questione curda e la mai accettata presenza alevita – resta un fattore discriminante per lo sviluppo della democrazia turca. La diaspora greca di Istanbul mantenne caratteri diversi dall’ellenismo nazionalizzato e provinciale di Atene (ne parlava spesso con competenza Costanzo Preve), come pure, all’altro capo del Mediterraneo, quella greco-ebraica (e in piccola parte italiana) di Alessandria, resa mitica da Kavafis, orientalizzata nei romanzi di Durrell e dispersa negli anni ’60 con la rivoluzione nasseriana. Durante la prima sindacatura İmamoğlu, poi diventato il leader della coalizione anti-Erdoğan smorzando il rigido nazionalismo del CHP, attualmente destituito e arrestato, viene girato nel 2021 da un’apprezzata regista donna, Zeynep Günay Tan, Il club, non sempre eccelso qualitativamente nell’arco delle sue due stagioni, ma di spiccata audacia politica nella sua rilettura della storia turca (disponibile su Netflix). > Protagonista è Matilda, un’ebrea sefardita, ultima sopravvissuta di una > potente dinastia di armatori (gli Aseo) mandata in rovina e deportata nel 1942 > in base alla citata Varlik Vergisi. L’allora ragazza aveva confidato al marito il nascondiglio dei fondi riservati al soccorso degli Ebrei balcanici e greci rifugiati nella neutrale Turchia e che tentavano di emigrare in Palestina e il disgraziato, in combutta con speculatori verniciati di ultra-nazionalismo, aveva spifferato il tutto alla polizia portando al sequestro dei beni e alla deportazione e morte dei maschi della famiglia. Matilda allora affida la figlia Raşel all’orfanotrofio ebraico, spara al marito e viene condannata all’ergastolo. Liberata per amnistia dopo 14 anni, cerca di ricostruirsi una vita e di recuperare la figlia abbandonata, che non ne vuol sapere anche perché la madre non può o non vuole spiegarle il perché di quella lunga assenza e che lei ha ucciso quel farabutto di suo padre. Comunque Matilda riesce a trovar lavoro in un cabaret d’avanguardia, stabilisce rapporti precari con la figlia, entrambe rinunciano a emigrare in Israele e la storia complicatissima (il manager del club, Çelebi, è un ex-dipendente degli Aseo, già allora innamorato di Matilda e che invano aveva tentato di metterla in guardia dal complotto ordito dal marito) va avanti fino alla ricomparsa degli speculatori del 1942, che ora puntano a impadronirsi dei beni della ridotta ma florida comunità greca e, con il pretesto della crisi di Cipro, in perfetta alleanza fra il governo populista di Menderes, servizi segreti, polizia corrotta e mafia locale che trasporta e arma contadini xenofobi dall’Anatolia, organizzano nel settembre 1955 il pogrom anti-greco di Istanbul. Sotto la solita vernice ultra-nazionalista, le violenze, mostrate con rude brutalità a chiusura della prima stagione, servono a far fuggire i greci proprietari dei ricchi negozi che costeggiano l’Istiklal Caddesi (ancora chiamata Grande Rue de Péra), abbandonando anche le residenze lussuose di cui i palazzinari si impadroniscono e le abitazioni popolari del Fener che vengono affittate ai nuovi immigrati anatolici e abbandonate al degrado (salvo recuperarle a fini di gentrificazione nel nuovo secolo). Ancora nel 2005, nel cinquantenario, una mostra fotografica su quel censuratissimo pogrom fu devastata dalla teppa nazionalista. >  Uno spiegone materialistico che marca con accenti critici la continuità di > governi diversi – kemalisti o populisti, senza dimenticare che proprio > Erdoğan, notoriamente colluso con i palazzinari, sta cercando di riabilitare > Menderes, destituito e impiccato dai militari. Nel pogrom è coinvolto anche il proprietario del club, Orhan, un cripto-greco, che si è trasferito da bambino a Istanbul da Smirne nel 1922 insieme alla madre e nasconde la sua origine etnica per fare carriera. Ma la madre, affetta da Alzheimer, ricomincia a parlare in demotico, i due vengono scoperti e, quando l’appartamento va in fiamme durante il pogrom, rivive l’incendio di Smirne che segnò la fine dell’ellenismo microasiatico. Entrambi spariscono nel tumulto, in un ottimo finale di prima stagione da melodramma verdiano. Passano cinque anni, è il 1960, c’è anche lì la prima scandalosa della Dolce vita cambiano i costumi e cominciano le rivolte studentesche (qualcuno anche nello staff del cabaret) contro il governo Menderes – rivolte che furono di ispirazione, insieme alle sollevazioni universitarie in Corea contro Syngman Rhee, per la battaglia antifascista che si conduceva a casa nostra e poi culminò nel luglio 1960. Naturalmente mostrare cortei universitari che chiedono democrazia e si scontrano con la polizia era un segno pesante già nel 2021, dopo Gezi Park, figuriamoci oggi, dopo le agitazioni di inizio 2025. Nella vicenda televisiva sono passati cinque anni dalla morte presunta di Orhan nel pogrom e possono scattare le manovre per impadronirsi di un cabaret di grande successo. E nel pretendente nuovo proprietario Matilda riconosce lo speculatore che l’aveva venduta alla polizia nel 1942. E, s’intende, era fra i fomentatori del pogrom del 1955. Ma i tempi sono un po’ cambiati (restando simili). Con la rivolta studentesca, assorbita e repressa dal primo di una lunga serie di golpe militari, tramonta la vecchia generazione degli speculatori e ai palazzinari subentrano i figli, la generazione degli “sviluppatori”, che non si accontentano di “nazionalizzare” (rubare) la rendita ma vogliono assumersi funzioni imprenditoriali, gestire il cabaret e non semplicemente sfruttare l’area edificabile. Alla storia reale si intrecciano le performance e le bizzarrie degli e delle artiste nonché le complicate vicende sentimentali di Matilda e Çelebi, della figlia Raşel e del suo partner musulmano e della nipotina Rana – intrigante mescolanza di due filiere etno-religiose ad auspicio di una Turchia plurale. Fermiamoci qui con lo spoiling, credo di aver accennato a come si fa egemonia culturale, innovando la narrativa senza espliciti proclami rivoluzionari ma utilizzando pieghe e margini di un genere pop. L’immagine di copertina è di pubblico dominio SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Una serie turca controcorrente proviene da DINAMOpress.
L’Italia senza casa
Sa bene chi cerca una casa che non è affatto semplice trovarla, il mercato degli affitti con contratti a lungo termine mette a disposizione poche centinaia di alloggi a prezzi esorbitanti, un numero davvero esiguo se si confronta con quello di case offerte per soggiorni temporanei. Succede nelle grandi aree metropolitane come nelle città di provincia. Si parla di emergenza abitativa senza ammettere che si tratta di una crisi strutturale determinata dall’assenza di politiche pubbliche che siano in grado di affrontare il problema. La casa è diventata un investimento che produce profitti sempre più alti, un asset finanziario sottoposto alle esigenze di profitto della rendita e alle fluttuazioni del mercato. > L’Italia senza casa di Sarah Gainsforth (2025 Editori Laterza, collana Tempi > Nuovi) ricostruisce dettagliatamente come si è arrivati a questo punto. > Partendo dal problema della casa l’autrice racconta in questo prezioso libro > la trasformazione del modo di abitare, di lavorare e di vivere in Italia dal > dopoguerra a oggi. Come illustra il Rapporto ISTAT 2025, l’Italia è preda di incertezza economica, divario tecnologico, costo sempre maggiore della vita e lavoro precario per i giovani, con il calo demografico crescente e l’invecchiamento progressivo della popolazione. Oltre due terzi dei giovani tra i 18 e i 34 anni vive ancora con i genitori. La povertà assoluta riguarda quasi 6 milioni di persone. «Ma se è vero che la povertà incide sulla possibilità di accesso alla casa, è anche vero che i costi abitativi incidono sull’aumento della povertà», scrive Sarah Gainsforth (p. 8). L’autrice attraverso un’attenta ricostruzione delle scelte politiche, economiche e sociali delinea un paese in cui si è voluto estendere l’accesso di massa alla proprietà della casa, come obiettivo politico «promosso come elemento di stabilizzazione e trasformazione culturale della società; è stato il volano di avanzamento delle classi medie». (p. 12) Lo si è fatto con l’intervento diretto dello Stato che, anche se ha realizzato edilizia pubblica, ha finanziato cooperative, concesso incentivi per l’acquisto della casa e regolato il mercato con apposita legislazione. > Questo succede fino all’inizio degli anni ’90 quando cambia completamente il > ruolo delle politiche pubbliche,  inizia la dismissione del patrimonio > pubblico e sparisce un’offerta abitativa che non sia quella del libero > mercato. Il libro ricostruisce il progressivo slittamento della funzione della > casa da bene d’uso a bene di scambio e d’investimento, che ha portato alla > situazione attuale di crisi abitativa. Lo fa analizzando il ruolo che ha avuto nello sviluppo urbano il valore dei suoli e la loro destinazione urbanistica e ricorda il tentativo del ministro Fiorentino Sullo di riformare la legge urbanistica nel 1962, introducendo l’esproprio delle aree per poi, una volta destinate a edilizia residenziale, assegnarle in diritto di superficie. La proposta fu affossata tanto era la sua forza rivoluzionaria e la carriera del ministro stroncata. Le città continuarono a crescere sotto la spinta  della speculazione fondiaria e quella dell’abusivismo, garantendo rendite altissime ai proprietari dei suoli. «Il territorio italiano viene lottizzato senza sosta con la suddivisione, la vendita e la trasformazione di terreni agricoli in lotti edificabili».(p. 46). Fondamentale è il capitolo dove si analizza il ciclo di valorizzazione immobiliare con il protagonismo dei fondi e l’estrazione di valore dalla città. Nasce «un modello finanziario fatto di Sgr e fondi immobiliari disconnesso dalla città fisica, in cui i prezzi delle abitazioni non sono più guidati dalla relazione fra domanda e offerta di case, ma dal rapporto fra domanda e offerta di prodotti finanziari» (p. 104). > Le città sono diventate risorse da sfruttare e si sono trasformate in un > immenso meccanismo di accumulazione e produzione di valore. Intanto le persone > che le abitano sono costrette a vivere sotto l’incubo della rata del mutuo o > del canone di locazione. Mentre c’è chi vive della rendita prodotta appunto su > investimenti immobiliari. Un’attenta analisi definisce  il ruolo che riveste quella che viene universalmente chiamata “rigenerazione” e la trasformazione di intere parti di città, senza che alla rigenerazione edilizia si aggiunga il miglioramento di vita degli e delle abitanti, che al contrario vedono il peggioramento della loro condizione sociale ed economica. Il turismo ha contribuito in maniera determinante al processo di valorizzazione immobiliare. «Con gli affitti brevi il differenziale di redditività è dato si dalla localizzazione dell’alloggio nello spazio urbano, ma in misura uguale dalla temporaneità dell’uso; esiste infatti un enorme differenziale di redditività (un rent-gap) fra un affitto breve e uno di lungo periodo, ordinario, residenziale». (pag.123) Eppure, ci racconta l’autrice, c’è chi non si arrende e sono molti i tentativi in  tutto il mondo per regolare il mercato degli affitti e difendere l’abitare dei quartieri. L’estrazione di valore non si ferma neanche davanti alla necessità di trovare una casa per poter studiare da fuorisede. I posti letto negli studentati non sono più gestiti da enti pubblici, ma sono diventati aperti al mercato e a operatori privati, ai quali sono andati i fondi del PNRR. > «Ma il privato non ha interesse a creare un’offerta di alloggi a prezzi > accessibili; funziona benissimo, ovviamente, quando si rivolge a un target > minoritario con un’offerta di lusso» (p. 150). Nel libro c’è molto altro, a iniziare da una panoramica di quello che succede in altri paesi, che si trovano ad affrontare situazioni simili. Ad Amsterdam, Barcellona e Parigi sono stati adottati regolamenti che  regolano le locazioni turistiche. E poi c’è la questione fiscale, utilizzata per creare consenso politico. «Sulla casa di proprietà l’Italia ha uno dei regimi fiscali più generosi dei paesi Ocse, con la più alta iniquità di trattamento fiscale tra le abitazioni occupate dai proprietari e quelle affittate» (p.168). Intorno al tema della casa si sono sviluppate molte ricerche e studi, abbiamo a disposizione pubblicazioni che ci forniscono i dati e i numeri della drammaticità del fenomeno, articoli e trasmissioni televisive se ne sono occupati , ma il libro di Sarah Gainsforth ha il grande valore di legare la casa all’intera trasformazione sociale e politica della società, ai salari, alla concentrazione della ricchezza, alla questione ecologica, allo strapotere della finanza e soprattutto alla vita delle persone. > Ha anche il grande pregio di indicare l’alternativa al modello capitalistico > estrattivo che distrugge il nostro abitare, insieme alle nostre vite. «Se ne esce –  scrive l’autrice – con il ritorno di politiche pubbliche per l’abitare declinate in una varietà di misure possibili, con un forte protagonismo del pubblico nella creazione di una nuova offerta abitativa in affitto, dunque con una dotazione finanziaria adeguata» (p. 199). Senza volontà politica e senza finanziamenti pubblici per realizzare case in affitto a canoni rapportati ai salari non si potrà riportare la casa al suo valore d’uso e la città al suo senso originario. Il testo di Sarah Gainsforth dimostra come la questione della casa sia la raffigurazione dell’ingiustizia sociale all’interno del fenomeno urbano. Immagine di copertina dalla pagina FB Blocchi Precari Metropolitani SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo L’Italia senza casa proviene da DINAMOpress.
Le carceri in Italia esplodono
Trovami Sono la poesia nascosta Come una scheggia di bellezza Nella carne del dolore (La poesia nascosta, Tzarina) Non parliamo mai abbastanza di carcere. E siamo circondati da discorsi sempre più repressivi, atti governativi che aumentano le pene e peggiorano la vita fuori e dentro le carceri. In carcere, infatti, si vive, per breve o lungo tempo, e si vive male: «Al 30 aprile 2025 i detenuti in Italia erano 62.445, a fronte di una capienza regolamentare di 51.280 posti. Ma considerando i posti non disponibili (oltre 4.000), il tasso reale di affollamento è del 133%, con circa 16.000 persone che non hanno un posto regolamentare. 58 carceri su 189 hanno un tasso di sovraffollamento superiore al 150%», leggiamo nell’ultimo report di Antigone. Bisogna, quindi, trovare le giuste parole per parlare della prigione. Ed è quello che sta provando a fare Eris Edizioni con due libri della collana Book Bloc Mai farsi arrestare di venerdì di Tzarina Caterina Casiccia e Aboliamo il carcere di Giulia De Rocco. Entrambi i libri sono uno sforzo di immaginazione e di creatività per raccontare una realtà di repressione, costrizione e violenza, cioè la vita in carcere. Entrambi i testi cercano di superare la classica saggista, il primo lo fa mischiando teoria, esperienza personale e poesia, il secondo utilizzando una narrazione dis/topica, una lettera dal futuro in cui il carcere è stato abolito, a suo modo anche molto poetica «È stata l’intimità a distruggere il carcere […], un’intimità creativa. Per poter far a meno della protezione dell’istituzione […] abbiamo dovuto inventare delle alternative» (p. 12). Una narrazione che nasce dall’«urgenza di alternative, di possibilità, di un altro mondo» (p. 7) come scrive l’autrice di Aboliamo il carcere.  > «Delle 189 carceri italiane quelle non sovraffollate sono ormai solo 36, > mentre quelle con un tasso di affollamento uguale o superiore al 150% sono > ormai 58. A fine marzo 2023 erano 39. A oggi gli istituti più affollati sono > Milano San Vittore (220%), Foggia (212%), Lucca (205%), Brescia Canton > Monbello (201%), Varese (196%), Potenza (193%), Lodi (191%), Taranto (190%), > Milano San Vittore femminile (189%), Como (188%), Busto Arsizio (187%), Roma > Regina Coeli (187%), Treviso (187%)».  Tzarina, poeta e artista della scena underground di Barcellona, viene arrestata nel corso di una manifestazione dopo il fermo di Pablo Hasel, un rapper accusato di apologia di terrorismo per una canzone contro il re di Spagna nel 2021. Tzarina viene inserita in un’inchiesta con gravissime accuse penali: «Il caso era esemplare […]. Poco importava che non fosse vero niente, avevano trovato il capro espiatorio perfetto» (p. 16). Leggendo, non si può non pensare all’ultimo processo ad Askatasuna in cui diversi attivisti e attiviste sono state accusate di associazione a delinquere, o al processo in corso contro Anan Kamal Afif a L’Aquila. O ai tanti processi ingiusti contro le azioni non violente del movimento ambientalista o in solidarietà alla Palestina che hanno il principale scopo di bloccare qualsiasi forma di resistenza. Il suo registro narrativo mescola storie delle detenute, poesie, l’esperienza personale della detenzione, e una riflessione teorica sul carcere.  Giulia Rocco, ricercatrice, attivista abolizionista, da anni lavora con laboratori di scrittura autobiografica dentro le carceri e scrive da un futuro in cui il carcere è stato abolito, e in questo modo ne evidenzia il suo paradosso: «lo Stato intendeva rispondere a quello che viene considerato sbagliato, ingiusto, chiudendo le persone in gabbie sorvegliate da altre persone armate. E così fare giustizia. Rispondevano al male, ma non lo risolvevano. Anzi, lo perpetravano, ancora e ancora» (p. 21). E ci mostra un percorso immaginifico quanto possibile verso l’abolizione che comincia con un passo semplice: «nel tempo, sempre più fuori entrava e sempre più dentro usciva» (p. 21).  > «L’emergenza morti in carcere non dànno segni di arresto. Anzi, continua a > peggiorare. Nel 2024 sono stati almeno 91 i casi di suicidi commessi da > persone private della libertà. Tra gennaio e maggio 2025, almeno 33. Il 2024 > passa così alla storia come l’anno con più suicidi in carcere di sempre […]. > Il 2024 passa alla storia anche come l’anno con più decessi in carcere in > generale. Sono state complessivamente 246 le persone che hanno perso la vita > nel corso della loro detenzione». Aumentano anche gli atti di autolesionismo > nelle celle. Il carcere è sottomissione del corpo, disciplinamento dei movimenti, con il supposto scopo della rieducazione: «È umiliante accettare la disciplina del corpo, sottomettersi alla sottrazione della libertà e della dignità, della privacy e dell’indipendenza. È umiliante e doloroso piegarsi, assumere l’impotenza, obbligarsi ad accettare il surrealismo dell’ingiustizia. È nauseante comportarsi bene e obbedire ed è spaventoso rendersi conto di avere paura» (p. 15). In carcere viene negata, prima di tutto, la possibilità di disporre del proprio tempo, del proprio spazio, e quindi del proprio corpo.  A Tzarina è vietato avere una penna durante il periodo di isolamento, per paura che la possa utilizzare per farsi del male, ma continuamente le vengono offerti antidepressivi o metadone. Oggi in carcere il 44,25% delle persone detenute fa uso di sedativi o ipnotici, il 20,4% utilizza stabilizzanti dell’umore, antipsicotici e antidepressivi, e questo numero è in aumento anche negli istituti penitenziari per minori. Ad Alfredo Cospito detenuto in regime di 41 bis viene continuamente negata la possibilità di avere alcune cose come libri, cd, e spesso non gli viene consegnata la corrispondenza. Poter leggere, scrivere, ricevere la corrispondenza significa reclamare di essere una persona: «il carcere è, in primo luogo, il posto dove mantenere la propria identità è una vera lotta quotidiana» (p. 24) scrive Tzarina. Gli fa eco Goliarda Sapienza, citata nel numero di DWF, appena uscito sul carcere, anche questo tassello fondamentale per una riflessione femminista sul carcere: «Il carcere regredisce all’infanzia, lo fa a tutte o solo a me?».  Le storie delle sue compagne di detenzione sono storie di povertà, marginalità, migrazione, violenza e maltrattamenti subiti. In carcere finiscono le persone più povere, marginalizzate, con problemi di dipendenze, e senza fissa dimora. Alla fine del 2024, 1.373 persone sono finite in carcere per pene di meno di un anno «Si tratta perlopiù di soggetti particolarmente fragili, spesso privi di difesa tecnica e plurirecidivi. Tossicodipendenti che commettono piccoli reati per i quali nessun’altro entrerebbe in carcere», leggiamo sempre nel report di Antigone. Così come chi non ha una residenza fissa non può godere delle misure alternative al carcere, soprattutto della custodia cautelare, e quindi arriva in carcere prima ed esce dopo.  Il carcere «è utile per allontanare dallo sguardo l’evidenza degli effetti della povertà […] per ribadire le subalternità coloniali, per disciplinare corpi, esperienze e abitudini» (p. 24), ma come si può pensare una società senza carcere? E cosa facciamo con chi agisce violenza e provoca profonde sofferenze personali e sociali?  De Rocco non ha paura di nominare i nodi spinosi del progetto abolizionista «certamente le emozioni di vendetta sono comprensibili ed è importante trovino spazio per essere dette: si parli di paura, di rabbia, del desiderio che chi ha commesso violenza stia male. Però le istituzioni, se devono esistere, hanno il compito di agire una mediazione rispetto a tali emozioni» (p. 27). Il carcere, infatti, ci garantisce semplicemente che la persona non commetta reati nella società mentre è dentro, ma non sappiamo se continuerà a usare violenza tra le mura del carcere o di nuovo quando uscirà. Ed è così anche per i reati connessi alla violenza di genere, il carcere reprime il comportamento individuale per un certo periodo, ma non risolve le radici dell’oppressione e non è una misura preventiva.  Nelle carceri italiane quasi non esistono la mediazione culturale, gli e le educatrici sono pochissimi, i progetti lavorativi e sociali anche. Se chi è in carcere riuscirà a rifarsi una vita nel mondo «se trasformerà la sua visione del bene e del male, di ciò che è giusto e di ciò che non lo è, non dipenderà dall’operato del sistema carcerario o dal numero di anni della condanna inflitta, ma dalla forza che troverà dentro se stessa» (p. 76) leggiamo in Mai farsi arrestare di venerdì.  > Abolire il carcere deve cominciare abolendo l’idea della punizione nella > società tutta, a partire dalle nostre pratiche politiche e linguaggi > quotidiani. Dobbiamo ripensare le pratiche educative, la valutazione, le > relazioni con le persone più piccole. Per immaginare un futuro senza prigioni > il conflitto deve trovare «spazio come modello generativo, come occasione per > divergere e comprendere, per esprimere e per far affrontare tensioni latenti» > (p.40).  De Rocco sottolinea come in alcune comunità politiche «esiste un atteggiamento moralizzante [verso] il conflitto che rende alcuni contesti (parlo anche delle comunità scelte, queer, riflessive) molto faticosi. Le indispensabili pratiche di autodifesa e di protezione degli spazi possono non avvalersi dell’esclusione, del call out, della stigmatizzazione» (p.41). Questo significa elaborare il conflitto, prendere del tempo, abbandonare la perfomance, accogliere le vulnerabilità e non abbandonarci alle nostre “attivazioni punitive”.  Ciò di cui ci dobbiamo liberarci profondamente è l’idea che la giustizia abbia a che fare con la punizione. E aprirci a un’idea di giustizia che abbia a che fare con la trasformazione, con l’empatia, con la riparazione. Invece che con la gogna, la vergogna, la sofferenza e la prigionia.  Tutte le illustrazioni sono di Cyril Delacour “Prison et vie carcérale à la Maison d’Arrêt de Privas” via Flickr Tutti i dati nell’articolo sono del Report XXI di Antigone “Senza Respiro” SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Le carceri in Italia esplodono proviene da DINAMOpress.
L’innocenza dei dinosauri
Per avvicinarsi in maniera adeguata al libro di Giovanna Ferrara L’innocenza dei dinosauri (Fuorilinea, 2024) bisogna affrontarlo. Memoriale, romanzo realista autobiografico, doloroso diario, questo libro bellissimo apre ferite profonde grazie a una scrittura capace di evocare gli spettri tragici del nostro tempo, le sue contraddizioni sanguinanti. Il suo dramma di civiltà terminale. Usiamo il verbo “affrontare” perché le pagine che Giovanna ci ha lasciato, prima di andarsene via troppo presto, sono materiale da battaglia. Un’opera che tiene insieme la bellezza formale e una naturale propensione a intervenire nel presente come strumento di analisi e possibile trasformazione. Questa idea di un testo letterario come arma, quindi, in grado di aggredire la cultura e l’ideologia della società alla quale parla è probabilmente il modo più adeguato di leggere un volume dai molteplici significati, tra cui sicuramente quello di testamento politico di un’intellettuale militante. Non un semplice diario interiore ma un elemento di lotta politica. > Costruito tra i tempi rarefatti della crisi pandemica e quelli della sua > malattia, L’innocenza dei dinosauri viaggia dentro la crisi di civiltà che > viviamo con la forza di una densa e dolorosa poesia, danzando con le sue > parole tra l’allucinazione collettiva e il dramma personale. In questo senso si può essere feriti leggendo il libro da pazienti ma se chi legge è un medico le sue pagine risultano ancora più dolorose. Il teatro dentro cui si muove il racconto, infatti, è fatto di corridoi che sono «un perfetto chiaroscuro. Una sorta di transavanguardia caravaggesca. Pennellate di uomini che, a seconda del loro stato vitale, vivevano nel nero senza speranza o avevano in dono una luce che li avvolgeva nel possibile». Queste figure tragiche attraversano una crisi che non è un momento contingente ma un disastro pianificato e organizzato da chi, come la Bce attraverso lo sguardo vitreo di Christine Lagarde, ci tiene a ribadire che niente, nemmeno il disastro della pandemia, quei morti e quella sofferenza collettiva avrebbero intaccato i sacri vincoli dei patti di stabilità. Moriremo con i bilanci a posto. Boris Johnson lo aveva detto chiaramente, preparatevi a dire addio ai vostri cari, non possiamo farci niente. Il declino del servizio sanitario pubblico italiano e di quelli europei, quindi, non è dovuto a una ineluttabile “insostenibilità” ma è un pezzo della ristrutturazione continentale del welfare, in una Unione europea che si fonda sul bilancio, strumento di salvaguardia di profitti per alcuni e sofferenze per altre e altri. La salute pubblica, in questo sistema economico e politico, non è prioritaria. Dentro questo incubo si consuma quello personale di migliaia di vite, come quella di Giovanna, affetta da fibrosi polmonare idiopatica, una malattia cronica di cui poco si conosce e per la quale non esiste cura. Dal giorno della diagnosi comincia un pellegrinaggio attraverso i disastri di una sanità agonizzante, le sue incongruenze, i ritardi, la desolazione dei pasti ospedalieri. «Ormai di me ho la percezione di pezzi assemblati. Ognuno di quei pezzi ha uno specialista. Il corpo, quella serie di rimandi che sperimentiamo continuamente, è un’entità fantastica. Lo vedo intero solo nello specchio. Lo sento intero quando faccio l’amore, quando faccio yoga iyengar con Mattia e Vera […]». Bisogna sempre tenere presente che queste sono prima di ogni cosa le parole di una paziente, oltre che di un’abile scrittrice. Qualche volta è capitato di scherzare amaramente su questo termine che richiama alla resistenza alle lunghe attese in Pronto Soccorso, dal medico di famiglia, in un ambulatorio, al telefono in attesa di una prenotazione per una Tac. Durante la lettura, invece, viene restituita alla parola il senso reale di “sofferente”, la sua paura ma anche la sua rabbia di resistente. Più di ogni saggio, sono le parole della paziente Ferrara a descrivere la nudità del corpo paziente che da “soggetto” umano diviene “oggetto” di studio clinico. Un passaggio che solo il potere del dialogo, la comprensione della sofferenza, il recupero dell’umanità della relazione può salvare compiendo il salto dalla freddezza della medicina alla meraviglia della cura. Possiamo pensare di ricostruire un servizio sanitario solo a partire da questo elemento, che non ha nulla di tecnico ed è alla base di un’idea di società che produca salute e gioia piuttosto che orrende malattie. Tutto questo avviene soltanto se dentro il processo di costruzione di un sistema organizzato trovi adeguato spazio il protagonismo sociale senza il quale il Ssn è quello che abbiamo di fronte, dis-organizzato da tecnocrati al servizio della politica a sua volta agli ordini di banche e finanzieri. Dentro questo sistema decrepito la paziente Giovanna attraversa padiglioni di dolore e abbandono, incontrando un campionario umano perduto tra paura, apatia, astio, incuria. Viva nonostante tutto, il suo sguardo riesce a trasformare il dolore in poesia perché l’esperienza personale diventi un qualcosa di collettivo, capace di raccogliere le esperienze di ciascuno e renderle universali. Ecco perché si tratta di un grande libro. «Ho pianto spesso di rabbia nelle attese all’ospedale San Giovanni di Roma, al suo Pronto Soccorso. – scrive Giovanna – Ho pianto per me e per tutti noi che aspettavamo sulle barelle un destino imprecisato. Attese di nove ore. Dieci ore. Undici ore. Perdere coscienza di dove sono le tue scarpe. […] Cosa può un malato che è in Pronto Soccorso contro questo? Cosa può dire per dichiarare di esistere mentre il dolore lo offusca, l’angoscia si diffonde come un gas che gonfia un senso di impotenza incontrovertibile?». Probabilmente il Pronto Soccorso è lo scenario più indicato per provare a riavvolgere la storia del Servizio sanitario nazionale e del suo declino che va innanzi tutto collocato da un punto di vista storico. Il lavoro in carenza di organico, i turni stressanti che assottigliano la capacità di relazione umana nel fronteggiare un esercito di sofferenti, la loro tosse, le febbri, le flebo, il dolore che non passa e rende cattivi. Una terra desolata dove risuonano le grida, dentro androni stipati di barelle fra sangue, merda, aghi. I deliri di chi ha smarrito la ragione come Orlando dopo aver perso Angelica. > Da queste isole di sconforto arrivano grazie a Giovanna anche interrogativi > profondi. Cosa ci è accaduto? Perché siamo a questo punto? Se si pensa di > poter eludere queste domande, meglio lasciare questo volume sugli scaffali di > una libreria, perché se un libro non ti attraversa e ti trasforma, leggerlo è > soltanto tempo perso. Il Servizio sanitario nazionale era nato, nel 1978, con l’obiettivo di superare il vecchio modello delle Mutue, fondato su un’idea di salute come diritto fondamentale e universale dell’individuo e della società. Un obiettivo prioritario, quindi, era quello di assicurare l’uniformità delle condizioni di salute sul territorio che non era stata garantita dal precedente sistema mutualistico, in paradossale disaccordo con quanto dichiarato dalla Costituzione. Una svolta epocale, nata al termine di un “decennio lungo” di lotte sociali che dalle fabbriche si erano estese alle città come luoghi di produzione e di malattia. La spinta di quelle lotte fu determinante, non a caso il declino di quelle idee e dei contenuti di quella riforma comincia all’indomani della sconfitta operaia di Mirafiori che apre la strada a una lunga controrivoluzione, figlia non del caso ma di processi storici e scelte politiche orientate dall’egemonia del pensiero liberale che rompe gli argini a sinistra, imponendo l’idea che un servizio sanitario pubblico gratuito ed universale sia «insostenibile». Su questo terreno culturale germinano le riforme degli anni ’90, ideate e portate avanti dal centrosinistra «liberal», ansioso di scrollarsi di dosso la polvere del vecchio socialismo per essere accettato al tavolo della borghesia europea. È semplice, avendo sotto gli occhi la situazione attuale, comprendere quanto sia stata drammatica quella stagione di “controriforme” dentro cui matura la frammentazione del sistema sanitario seguita alle Riforme 502 del 1992, 517 del 1993 e al decreto Bindi del 1999, centrate sui principi dell’aziendalizzazione, una “controrivoluzione” cresciuta sulla mancata attuazione della 833, la cui gestione «sembrò la rivoluzione francese gestita dai restauratori» ­– per dirla con la relazione parlamentare di A. Seppilli del 7 dicembre 1988. Quel passaggio dalle Unità sanitarie localia (Usl) alle Aziende sanitarie locali (Asl) non fu un semplice mutamento burocratico ma un più sostanziale e tragico «passaggio da una politica come servizio a un servizio senza politica, quindi a tecnica di servizio» (I.Cavicchi, Il pensiero debole della politica, Dedalo. Bari 2008), cui giunse come degna conclusione l’«inganno federalista» della riforma del Titolo V della Costituzione (cfr. A. Iannello, L’inganno federalista. Vivarium, Napoli 1998). Tutto questo accadeva impunemente sotto i nostri occhi e questo prezioso volume ci “richiama all’ordine”, imponendo la necessità di affrontare un tema che riguarda la vita di ciascuno, il proprio corpo ma anche l’intera natura che abitiamo. La forza poetica di queste pagine impone la necessità di affrontare temi sui quali troppo spesso si è state e stati assenti, opponendo alla pianificazione dei banchieri idee troppo vaghe, enunciati privi di incisività. Un pensiero fragile figlio della una frammentazione di classe che proprio il tema della salute potrebbe, invece, ricomporre. È un libro duro e implacabile, L’innocenza dei dinosauri, nel prendere a schiaffi sicuramente il copro medico – «i loro silenzi, le loro reticenze, le mezze parole, rispondere a monosillabi, andarsene di fretta: non li perdonerò mai» – e la classe politica ma soprattutto chiunque dica di credere in un futuro di giustizia e di gioia, oltre questo orribile presente. Dove eravamo quando accadeva tutto questo? Cosa facevamo mentre i grandi gruppi privati con l’appoggio della politica si mangiavano la sanità? Perché non siamo state e stati in grado di opporci? Troppo facile prendersela con la classe politica che fa quello che i suoi committenti gli chiedono. Le domande di Giovanna sono dirette soprattutto a noi, a chi trova insopportabile far languire i propri diritti in tristi ambulatori dove attendere per ore la propria sorte fra il linoleum screpolato e la freddezza dei neon. Non è più possibile eludere queste domande e opporre a questa deriva lamentazioni o soluzioni generiche. Bisogna agitarsi, studiare, riprendere in mano il difficile compito della lotta politica, partendo da principi semplici come distinguere il superfluo dal necessario. Cominciando dal fatto che sicuramente non serve, in questo pantano, “difendere” quello che abbiamo, il Servizio sanitario nazionale non va salvaguardato, bisogna avere il coraggio di reinventarlo. Immagine di copertina da Bulletin de la Société géologique de Normandie (1908) SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo <em>L’innocenza dei dinosauri</em> proviene da DINAMOpress.
Il peso temporale delle nostre fedeltà
Che cosa significa oggi fare filosofia politica, situandosi nel solco della tradizione marxiana e marxista? In un contesto come quello francese, in cui il dibattito contemporaneo si svolge prevalentemente nel campo della filosofia sociale e della teoria critica, questo essai di Chiara Collamati su Sartre, Le passé qui vient, fornisce una risposta all’altezza della radicalità della crisi che la filosofia politica sta attraversando. L’autrice moltiplica le mediazioni concettuali per individuare qualcosa di terribilmente concreto e urgente: «la possibilità di assumere, con Sartre e attraverso i suoi strumenti concettuali, una delle sfide imprescindibili per la riflessione contemporanea sulla politica: pensare una riorganizzazione dei rapporti sociali e politici che non si esaurisca nella logica del contropotere e che non presupponga un soggetto collettivo che sarebbe per essenza “oppositivo” alla macchina Stato-capitale» (p. 39). Il compito è chiaro: si tratta di affrontare il presente come un défi lanciato al pensiero, utilizzando gli strumenti concettuali di un filosofo considerato superato e inattuale già dalle sue contemporanee e dai suoi contemporanei. Il che significa che Sartre, e in particolare la Critica della ragione dialettica, è il primo “passato a venire” che il libro ci propone. Se il compito è concreto, la sfida è nondimeno squisitamente teoretica – in tutti i sensi che questo termine ha in filosofia: dall’analisi dello statuto dei concetti politici alla necessità di scardinare l’ontologia della storia di matrice heideggeriana, dal tentativo di porre le basi per una teoria del legame sociale e della sua specifica temporalità, fino al rapporto tra normatività e contingenza storica. Come si sarà capito, il termine filosofia politica ricopre in realtà tutta la filosofia, al di là delle distinzioni disciplinari che dovrebbero rendere il percorso più “praticabile”. Chiara Collamati ci insegna innanzitutto che le opzioni filosofiche non si misurano in termini di fattibilità, come si evince da una formula che ricorre costantemente nel libro: si tratta di porre le «condizioni di “pensabilità“ delle lotte, o ancora di pensare l’intelligibilità della storia. Per evitare la trappola dell’astrazione, il libro non si stanca di problematizzare quello che Étienne Balibar ha definito “il concetto di concetto in politica“». > In ogni paragrafo, l’autrice cerca di pensare, in modo sempre più dettagliato, > una certa disciplina dell’impegno politico. La riconosce in due pratiche > distinte che fungono da motori dell’argomentazione: il giuramento da un lato e > gli esempi dall’altro. Vale a dire, rispettivamente, una pratica del gruppo > sociale e una pratica intellettuale. Proprio perché il sociale non possiede un essere in sé, l’accento viene posto sulla dimensione delle pratiche che definiscono un gruppo, marcando uno scarto rispetto agli approcci che si rifanno all’ontologia sociale. Se il problema della politica non è tanto quello dell’essere, quanto quello del dover essere, tale normatività non informa alcuna materia preesistente. Chiara Collamati ci ricorda che, per il filosofo politico, l’etica è sempre e solo un punto di arrivo; l’esito di un percorso che richiede, come condizione preliminare, di tracciare una me-ontologia (un modo di pensare il non-essere sociale) che non dia nulla per scontato, o meglio: che non dia questo nulla per scontato. È solo riconoscendo la cavità di tale assunto che gli strumenti della politica (diritto, istituzioni) possono essere definiti precisamente come strumenti forgiati per rendere il non-essere produttivo. Dal momento che, come scrive Sartre, ogni giuramento implica una «vertigine dell’abbandono», ciascun membro di un gruppo «ha paura di essere colui che potrebbe mettere a repentaglio il legame di reciprocità» (p. 75): in questione è dunque un modo di pensare la politica che, senza liquidare questa vertigine, ci aiuti a rimetterci in piedi per continuare a camminare insieme. La lettura che Chiara Collamati propone della Critica della ragione dialettica è guidata appunto dalla ricerca dei processi attraverso i quali il gruppo in fusione «cerca di inventare la forma della propria permanenza» (p. 63). A causa del suo carattere evanescente, la temporalità dell’azione storica ha uno statuto ambiguo che la condanna non tanto al fallimento sistematico, bensì a un’incertezza costitutiva, vissuta dall’individuo come una sensazione di perenne ritardo rispetto alla propria epoca. Un’asimmetria che si spiega con l’intreccio di due temporalità distinte: quella delle disposizioni corporee dell’individuo e quella delle condizioni oggettive storicamente determinanti. Dialetticamente, questi due poli si producono a vicenda nel loro incontro sfasato e ciò che conta sono le pratiche dei legami a venire: pratiche costrette ad assumere il passato come loro materiale costitutivo. La nozione di praxis viene quindi ripensata per analogia con la dimensione dello strumento: la filosofia politica sarebbe il suo savoir-faire, il passato il suo materiale. Le azioni storiche si rivelano infine come degli usi del passato. Le passé qui vient non prende mai la strada più facile. Nella veste di storica della filosofia, Collamati non si accontenta di esplorare le opere sartriane degli anni Sessanta, per smarcarle dalle critiche di Merleau-Ponty. In un punto nodale dell’opera, all’altezza del quarto capitolo, viene infatti proposta una lettura innovativa de L’essere e il nulla, opera a cui l’autrice restituisce tutta la sua carica esplosiva e il suo scandalo anti-heideggeriano – tornerò su questo punto. Ma l’aspetto forse più importante è che, nella veste di filosofa politica, Collamati non cade mai nell’astrazione dell’immediatezza, né in una concretezza storico-filosofica priva di riflessività. Pur non nominando esperienze di lotta o pratiche politiche contemporanee, il libro è attraversato da interrogativi quanto mai attuali: come costruire un senso condiviso della storia quando ci è stato detto che le nostre vite non valgono nulla o quasi? Quando sembra che nessuno delle nostre antenate e dei nostri antenati meriti di “passare alla storia”? Come selezionare il nostro “passato futuro” e distinguerlo dalle sue forme reattive? Possiamo davvero scegliere la nostra storia, nel duplice senso della praxis e della storiografia? > La posizione di Chiara Collamati è piuttosto inusuale per una filosofa formata > al pensiero hegeliano: la filosofia politica ci prepara a vivere ciò che ci > aspetta. Questo ci conduce a un altro aspetto importante del libro: la profondità con cui l’autrice tratta il tragico che la storia porta in sé, senza cadere nel romanticismo dell’azione collettiva – o ancora, dal momento che si tratta prioritariamente dello statuto del passato, senza lasciarsi sedurre da una qualche forma di “mito della storia”. Uno dei gesti fondamentali che il Sartre di Collamati permette di compiere è infatti quello di uscire dal problema della morte in prima persona: abbandonare un pensiero della morte al singolare per pensare i morti o, più profondamente, i nostri morti. Ma compresa dialetticamente, la verità della morte non sta nemmeno nel lutto, nella morte alla seconda persona. La vera morte sta tutta nello scioglimento del legame: non è tanto nella persona (che sia prima, seconda o terza) quanto nel passaggio dal singolare al plurale. Alla stanchezza e all’esaurimento del collettivo, alla vera morte, si oppone ciò che Collamati chiama «il comunismo» (p. 132): anzitutto un legame di reciprocità, una forma di fedeltà. Fondare collettivamente il “passato che viene” significa allora inventare dei modi per riattivare il passato (potremmo definirli dei rituali) capaci di riportare in vita i morti attraverso una forma di ripetizione selettiva. Sappiamo bene che i morti non devono mai ritornare come fantasmi. Quello che ancora non sapevamo, è che i nostri morti non devono tornare nemmeno come degli eroi. Possiamo nominare questo problema con l’aiuto del primo pensatore che lo ha posto correttamente, cioè il Nietzsche della Seconda considerazione inattuale, dove vengono descritte le forze e le debolezze della storia monumentale. Che uso possiamo fare del passato per uscire dalle semplificazioni della storia monumentale, per liberarci cioè, una volta per tutte, del concetto di storicità che Heidegger ha posto al centro di Sein und Zeit? Collamati conduce una feroce battaglia contro l’individualismo heideggeriano su almeno tre fronti: il circolo vizioso dell’essere-per-la-morte, lo sfondo nichilistico del decisionismo astratto, la visione del futuro come destino. Senza poter commentare in questa sede i densi passaggi analitici che l’autrice dedica al confronto tra Sartre e Heidegger, mi limito a riportare una frase tratta dal manoscritto Morale e storia, che potrebbe fungere da esergo alla critica a Heidegger realizzata nel libro: «l’eroe della guerra è molto spesso inadeguato per la pace che segue». Come adattare le nostre pratiche di legame, le nostre fedeltà, in modo che esse resistano in tempi di guerra e di pace? O meglio, in modo da poterci allontanare da questa separazione un po’ artificiale che ci impedisce di vedere che, in realtà, stiamo ancora continuando a combattere? > Rispondere a queste domande non significa conferire un senso alla storia – si > tratti di tutta la storia o dell’evento che è supposto riaprirla; significa, > piuttosto, farsi carico della necessità di ciò che non è più, e di coloro che > non sono più. Abbandonando gli eroi a favore degli esempi, sappiamo solo cosa stiamo perdendo, poiché «gli esempi sono sempre dubbiosi». In realtà, Collamati ci indica anche cosa stiamo guadagnando: dei concetti senza artigli, riprendendo e tradendo il lemma tedesco Begriff. Un rapporto del concetto rispetto alla storia e alla politica che non è più verticalmente normativo: il concetto lascia il posto a quella che Sartre definisce nozione dialettica. La teoria non è una rete che il filosofo getta sulla storia, ma una costellazione di punti o di intensità, lo spazio aperto dal filosofo affinché le praxis del passato possano connettersi tra loro e con il presente, secondo variabili modalità di riattivazione politica. Da qui, tre suggestioni che riprendono e interrogano i grandi luoghi del libro: la storia della filosofia, la filosofia politica e gli esempi. Le Passé qui vient instaura un rapporto con la storia della filosofia che appare al contempo intenso e ambiguo. La ricostruzione delle reti di influenze è acuta e sempre molto (quasi troppo) informata. Emblematiche a tal proposito le pagine costruite a partire da un articolo di Karl Löwith su Heidegger: l’autrice mostra come la critica di Merleau-Ponty a Sartre si sovrapponga a quella che Löwith rivolgeva a Heidegger – dal punto di vista della storia intellettuale si tratta di una congettura, la cui solidità sembra tuttavia patente se pensiamo che l’articolo di Löwith è stato pubblicato nella rivista Les Temps Modernes e che è stato letto e commentato da Merleau-Ponty. A ogni modo, dimostrare la fondatezza di tale congettura non è ciò che interessa Chiara Collamati: «Il lettore non dovrà cercare la pertinenza di questo gesto nei riferimenti o nelle allusioni, più o meno esplicite, che Merleau-Ponty, nel momento in cui si accingeva a criticare Sartre, avrebbe potuto fare a Heidegger, a Schmitt o a Löwith. È piuttosto su un piano strettamente concettuale, sul piano della sequenza logica che struttura l’argomentazione merleau-pontiana, che tale confronto trova, a mio avviso, la sua giustificazione filosofica» (p. 156). Ne Le Passé qui vient, la storia della filosofia è costantemente sottoposta alla questione dell’esposizione filosofica, della Darstellung, che ne determina una verità ulteriore rispetto a quella della ricerca storica. Sebbene Collamati dialoghi costantemente con la letteratura critica sul Sartre politico, è molto attenta a non allontanarsi dall’oggetto specifico che intende trattare: una filosofia politica della temporalità o, come scrive all’inizio e alla fine del libro, una «filosofia politica della storia». La verità della giustificazione filosofica si gioca tutta all’altezza di un’adeguata disposizione degli argomenti: la filosofia politica sfida la storia della filosofia, usandola come un serbatoio di risorse da cui attingere, seppur con rigore. Ci sembra, tuttavia, che l’autrice non assuma fino in fondo le conseguenze di questo gesto metodologico. Nell’ultima parte del libro, Chiara Collamati passa dalla Critica della ragione dialettica all’esplorazione di un’«etica materialista» di cui gli esempi sono al contempo «gli oggetti, il metodo e il contenuto» (p. 180) – una descrizione in linea con quelli che sopra ho definito dei «concetti senza artigli». Ora, non vi è dubbio che, dal punto di vista storico-filosofico, il metodo critico e il metodo normativo, le nozioni dialettiche e gli esempi, possano essere produttivamente accostati. Tuttavia, se ci poniamo dal punto di vista di una “filosofia politica della storia”, non siamo forse costretti a scegliere tra un metodo e l’altro, tra una forma e l’altra dell’esposizione? Il mosaico di nozioni dialettiche è davvero compatibile con la pretesa di «definire i criteri di intelligibilità formale di qualsivoglia storia» (p. 176)? Possiamo davvero integrare nell’esposizione critico-filosofica l’intelligibilità degli esempi che Sartre avrebbe scoperto o selezionato per noi, senza rinunciare alla pretesa della filosofia politica a inglobare «qualsivoglia storia»? Immagine di copertina di Julien (flickr) SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Il peso temporale delle nostre fedeltà proviene da DINAMOpress.
Ribaltare (con) l’autismo
Le mie mani, come sempre, sfarfallavano. Gli uccelli sapevano che ero autistico; in tutto ciò, non hanno trovato nulla di sbagliato. Tito R. Mukhopadhyay, Misfit Negli ultimi anni, l’autismo è entrato prepotentemente nelle nostre vite: se ne discute sulle prime pagine dei giornali, si guardano frettolosamente contenuti correlati sui social network, si ascoltano purtroppo interpretazioni fantasiose e complottistiche come quelle recenti di Robert F. Kennedy Jr., rumorosamente rilanciate da Donald Trump. La presenza, la visibilità, la diffusione, come ci insegnano studi critici quali la teoria femminista, la teoria queer e gli studi decoloniali, non sono tuttavia garanzia di una rappresentazione corretta dal punto di vista etico, e di una prospettiva allertata dal punto di vista politico. Un ruolo dirimente per la costruzione di cornici alternative, teoriche e politiche, deriva dagli Studi critici sull’Autismo che, circa dal secondo decennio del Duemila, rappresentano l’esito della riflessione sviluppatasi nei circuiti attivisti dagli anni Novanta. Fino a questo momento, non solo era molto raro che l’autismo venisse discusso e raccontato dalle persone autistiche, ma era anche difficile rinvenire delle ricostruzioni storiche e socioculturali di questo concetto “mobile” (la cui storia culturale e scientifica è ripresa, in questo volume, nel contributo di Alice Scavarda). L’interpretazione dell’autismo è rimasta infatti a lungo strettamente legata all’ambito psi- (psicologico, psicoanalitico e psichiatrico). > Nel panorama italiano, le sfide ad allargare le maglie del discorso sono > purtroppo state accolte limitatamente fino agli ultimi anni, sia > specificamente riguardo all’autismo che, in senso più recente, attraverso la > lente della neurodiversità. È evidente, però, che ci troviamo finalmente in un momento fertile da questo punto di vista. A proporre – per ora l’unico caso – un’antologia di sistematizzazione di alcuni lavori fondanti di questi studi è stato Enrico Valtellina nel 2020 (L’autismo oltre lo sguardo medico. I Critical Autism Studies, pubblicato da Erickson). Si segnala anche il suo lavoro precedente sulla ex-sindrome di Asperger (Tipi Umani Particolarmente Strani: La sindrome di Asperger come oggetto culturale, uscito per Mimesis nel 2016). A questi contributi si sono recentemente aggiunti, però, proprio il libro qui in oggetto, Politiche dell’autismo. Etica, epistemologia, attivismo (a cura di Alberto Bartoccini, Lorenzo Petrachi, Giulia Russo), DeriveApprodi, Bologna 2025 con il suo “gemello” – esito, cioè, della stessa call for papers –, intitolato La triade dell’autismo. Etica, epistemologia, attivismo (uscito per LEM nel 2024, a cura di Anonima Autisticɜ Associatɜ). Sempre nel 2024 ci siamo trovat* nelle librerie un piccolo saggio, che rappresenta un validissimo tentativo di creare ponti tra i lavori strettamente scientifici e quelli invece di stampo più divulgativo e/o autobiografico: La città autistica, di Alberto Vanolo (uscito per Einaudi). Un lavoro di familiarizzazione culturale e narrativa con l’autismo era d’altronde già stato inaugurato dal genere del memoir, che tuttavia porta sempre con sé alcuni rischi; in particolare, può corrispondere al voyeurismo generale rispetto a ciò che viene percepito come esoticamente diverso, contribuendo a isolare i soggetti, piuttosto che produrre una visione strutturale delle forme di disabilitazione e stigma subìte dalle persone autistiche. In questo quadro, sono particolarmente noti i racconti in prima persona dell’etologa Temple Grandin, in alcuni casi anche tradotti in italiano. La storia di Grandin ha avuto un forte impatto culturale, inclusa una trasposizione cinematografica. La figura di Grandin può essere però considerata un punto di riferimento problematico dalla comunità autistica: da un lato perché si rileva un residuo patologizzante nelle sue affermazioni, dall’altro perché le sue posizioni possono essere considerate irricevibili in un’ottica intersezionale. Grandin, infatti, progetta metodi di macellazione del bestiame, rivendicando il dato che sia proprio l’autismo a farla “empatizzare” con gli animali condotti al macello. A fine anni Novanta, vengono tradotti anche alcuni memoir della scrittrice autistica Donna Williams. Più recentemente, è stato invece tradotto, da Marco Reggio e feminoska, Canti della Nazione Gorilla. Il mio viaggio attraverso l’autismo, dell’etologa Dawn Prince-Hughes (Edizioni degli animali, 2024): un viaggio, anche per chi legge, sorprendente, poetico e militante rispetto all’ingiustizia abilista e multispecie. È stata menzionata più volte, fin qui, la dimensione politica. Naturalmente, non è un riferimento casuale: Alberto Bartoccini, Lorenzo Petrachi e Giulia Russo scelgono proprio Politiche dell’autismo per denominare il volume collettaneo di cui qui si parla. Posto che, come loro stess* specificano nella Prefazione, il riferimento è anche un rimando al celebre saggio Le politiche della disabilitazione di Mike Oliver, con cui viene inaugurata la disciplina dei Disability Studies (pubblicato nel 1990, tradotto in italiano nel 2023 da Enrico Valtellina per ombrecorte), la sensazione è anche che questa connessione dovesse avere, finalmente, uno slancio vitale; anche nel contesto italiano. > L’autismo è una questione politica. Attorno all’autismo, inoltre, vengono > attuate delle pratiche che possono essere configurate come politiche, nel > momento in cui l’impresa psichiatrica – come hanno a più riprese evidenziato > gli Studi critici sull’Autismo, gli studi sulla Neurodiversità e gli Studi > Matti – non è avulsa da una rete sociale, culturale, economica, politica. Tali pratiche – istituzionali, mediche, discorsive, educative, tra le altre – definiscono quale soggetto corrisponda al termine “autismo’” chi possa eventualmente intervenire in questa definizione, e quali interventi queste definizioni comportino. Una lettura politica dell’autismo prevede, come emerge anche da questo volume, quando queste pratiche possano essere lette attraverso un desiderio di normalizzazione – o meglio, di neurotipicizzazione – del soggetto, colto “in fallo” nel suo farsi eccentric*/divergente/«legittimamente» e «particolarmente stran*». Rimandiamo qui all’invito del poeta René Char a coltivare la propria «legittima stranezza», invito ripreso sia nella Prefazione del libro che in molteplici testi della letteratura sul tema. Lo sguardo che emerge da Politiche dell’autismo è quindi duplice: si presta attenzione, da un lato, a come l’autismo, e di conseguenza la persona autistica, possano essere disciplinati. Dall’altro lato, si mette a fuoco, invece, come l’autismo, e di conseguenza la comunità autistica e la singola persona autistica, possano in qualche modo fare uno sgambetto politico ai codici culturali e alle teorie scientifiche più soffocanti. In numerose occasioni, chi ha contribuito al volume sfida in maniera chiara non solo la norma neurotipica, ma anche l’abilismo (ad essa strettamente collegato), il binarismo di genere, e in generale le richieste sociali considerate la soglia da oltrepassare per accedere ad una soggettività piena: sennò, non entri (l’implicito: prima di tutto nel consesso umano e poi, a cascata, in tutti gli spazi, materiali o discorsivi, in cui ci si muove). Da questo punto di vista, in diversi contributi – specialmente quello di Caro Gervasi – si cerca di attivare il movimento di neuroqueering auspicato, tra le altre, da Melanie Yergeau: in questo quadro, l’esperienza autistica può mettere nelle condizioni di sfidare le aspettative dominanti rispetto alla comunicazione, alla socialità e al vissuto corporeo, in modo analogo a quanto possono fare le esperienze queer. D’altra parte, tuttavia, Gervasi ci ricorda come le esperienze reali siano molto più discriminanti e faticose di quanto emerga dalle cornici teoriche: nel suo caso, essere autistico e trans pare comportare, dal punto di vista sociale, «un’ingiunzione a fornire spiegazioni in merito alla propria stranezza, […] un’invasività e una brutale disattenzione delle norme conversazionali, un’impennata unidirezionale della confidenza cui non è stato dato alcun consenso» (p. 51). Un tema similmente importante, com’è evidente dal sottotitolo scelto, è la questione epistemologica. In diversi passi, infatti, ci si interroga sul rapporto (tuttora in qualche modo irrisolto, ma certo lungamente esplorato, in primo luogo dall’epistemologia femminista nera e poi anche dai Disability Studies) tra il soggetto e la conoscenza; come direbbero Sandra Harding, Patricia Hill Collins e Donna Haraway, insomma, si tematizzano il punto di vista (standpoint) e i saperi situati. È infatti ancora utile chiedersi come si costruisce l’autorità epistemica rispetto ad un tema che, di norma, prevede un sapere specialistico, che segue dei criteri condivisi dalla comunità di riferimento. In quest’ottica, un tema centrale, affrontato ad esempio da Enrico Valtellina, Caro Gervasi, Giulia Russo, Luca Negrogno, Eleonora Marocchini, è quello del rapporto col mondo psichiatrico, in particolare attraverso la lente dell’evento diagnostico. > Quale processo può dirsi effettivamente una diagnosi (per esempio se parliamo > di autodiagnosi)? La diagnosi è, per tutt*, un passaggio inevitabile per ottenere un senso di legittimità e comprensione da parte delle altre persone, e una sorta di “accessibilità” nei confronti del proprio sé? In che senso può rappresentare un atto performativo? Valtellina ne scrive in questi termini: «Mi sono progressivamente disassoggettato. Ora, se mi chiamano, non mi giro, e questa mi sembra la più deliziosa delle risposte autistiche» (p. 30). Questo nodo è tanto complesso, da una prospettiva inestricabilmente politica ed epistemologica, da aprire più domande di quante risposte possiamo ritrovarci tra le mani. Esula, inoltre, dal caso specifico dell’autismo, chiamando in causa non solo l’impresa psichiatrica in generale, ma anche l’idea stessa di identità. Oltretutto, è bene ricordarlo, la diagnosi non è l’unico evento psichiatrico che riguarda la persona autistica, per cui possono essere ipotizzate terapie passibili anche di critica (per esempio, rispetto alla “carica” normalizzante che possono palesare, come già menzionato poc’anzi). Il volume, denso e stimolante, è dunque adatto a rendere ragione di un concetto ancora così scarsamente saggiato da prospettive multidisciplinari. I molti temi toccati, e l’eterogeneità degli approcci, può anche favorire la costruzione di un percorso personale da parte di chi legge: sicuramente chiunque troverà la dimensione (teorica, retorica, tematica) che le si addice. Anche l’accessibilità dei saggi è variabile, richiedendo – in alcuni casi – certamente una familiarità con le questioni e i dibattiti divenuti centrali negli ultimi decenni. Particolarmente interessante, a questo riguardo, la scelta di inserire un contributo scritto in Linguaggio Chiaro, a opera di Andrew Dell’Antonio, che introduce anche una questione significativa: quando, cioè, siamo di fronte a «esigenze di accesso contrastanti» (p. 176). Il suo obiettivo, anche a discapito di chi potrebbe trovare la stesura del suo saggio poco scorrevole, è coinvolgere nella discussione sull’autismo anche le persone autistiche che non hanno un particolare background teorico, o comunque sono facilitate dall’impiego di questa modalità comunicativa. Gli approcci disciplinari sono molteplici: il volume si muove tra la filosofia della psichiatria, l’epistemologia, la filosofia della storia, l’etnopsichiatria, gli studi culturali e dei media. Di questi ambiti, quello tuttora più scarsamente frequentato è l’ambito etnopsichiatrico/antropologico, per cui sorprende, positivamente, il contributo di Francesca D’Egidio, che connette le caratteristiche (oggi definite) autistiche con alcune esperienze, suggestioni e figurali culturali, in particolare legati alle donne, presenti nell’Italia meridionale, a loro volta residui delle società della Grecia antica. In quest’ottica, l’auspicio è registrare, dal mondo antico richiamato, la possibilità «non solo [di] riconoscere potenzialità e bellezza della divergenza oggi inavvertite, ma anche [di] comprendere la crisi come occasione e strumento di guarigione e non ricacciarla nel vuoto di senso della patologia» (p. 119). E l’auspicio è anche, forse, quello di ricordarci che questo «spettro [che] si aggira» (nel doppio senso di complesso e di minaccia) è sempre stato tra noi, in quanto aspetto intrinseco alla biodiversità umana. Non mancano poi i saggi impiantati più profondamente nel tessuto biografico e politico di ciascun*, o esempi in cui – anche senza riferimenti personali – il soggetto che scrive è evidentemente situato, non parla dall’alto o dal di fuori. Rispetto a questa dimensione, un tema evidentemente urgente è quello dell’attivismo; in altre parole, cosa sperare a partire da un posizionamento autistico, e come realizzarlo? Questa riflessione, che attraversa in particolare i contributi di Alberto Bartoccini e Lorenzo Petrachi, trova una forma classicamente politica nel manifesto composto da Alessandro Monchietto e Alice Sodi, che concludono scrivendo «Non si tratta di chiedersi come rimuovere gli ostacoli, interni ed esterni. […] Si tratta di accettare di osservarli, entrarci in relazione, considerarli condizioni per l’azione, accettare di trasformarsi per trasformarli. Un incedere potenzialmente inesauribile tra decostruzione e ricostruzione» (p. 214). Il volume segna quindi un ulteriore passo in avanti in un percorso, si spera fecondo e partecipato, di decostruzione e ricostruzione collettiva, anche attraverso l’esperienza autistica. L’immagine di copertina è di Pierre-Louis Pierson (wikimedia) SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Ribaltare (con) l’autismo proviene da DINAMOpress.
Una cosmografia dell’umano
L’esordio è una lunga teoria di volti, di mani che sorreggono una sedia, strascinata come un fagotto da emigrante. Entrano in scena ribadendo che l’inizio è sempre abborracciato. Difficile metterli a fuoco tutti, ci vuole il tempo della loro lenta processione attraverso lo spazio di un vecchio edificio delle Ferrovie dello Stato strappato al degrado della prima periferia della Capitale. Si vede così l’avventura in tutta la sua ampiezza, già da ora, abbarbicata al corpo deglə attorə che non mimano più niente, perché c’è solo una vita e ogni finzione è soltanto una parte, altra vita che si aggiunge ad altra vita. Poco a poco, però, alcune frasi si fanno strada attraverso una geografia di donne e di uomini che si siedono in modo appassionatamente casuale, in contemplazione del loro stesso arrivo, frasi che si susseguono, si rincorrono, si sovrappongono, in cerca di un’armonia che si darà solamente a chi non la vorrà per davvero. Chi siano, perché ci siano, cosa debbano, a chi lo debbano, non è dato saperlo: tuttə si osservano dall’interno, fissano un oggetto, ne estraggono un motto. È un rituale di presentazione, ma che non pare presupporre nessun destinatariə deputatə.  L’ultimo spettacolo di nontantoprecisi, compagnia teatrale che opera al limite tra esperienza artistica e terapeutica, ci traghetta infatti in un mondo senza inizio né fine, senza pregiudiziali sociologiche a monte né partizioni di ruolo rintracciabili in ultima analisi. Portato in scena per la prima volta il 16 e il 17 maggio scorsi, con un titolo, Città instabile: presagio e prefigurazione di un luogo, che è già di per sé un’opera a parte, lo spettacolo dice molto, ovvero che dire non basta. > Bisogna agire, stare, abitare, prima ancora che pensare a come farlo, a come > coordinare il brulichio dei nostri sensi, dei nostri movimenti, e delle nostre > parole, naturalmente, che non sono in questo caso appunto troppo > indispensabili. Esattamente il contrario di quello che accade e sembra accadere ai nostri giorni, quando alla dittatura dei corpi irregimentati dai sistemi simbolici di una volta – dalla tradizione – è subentrata la legge insondabile e insindacabile degli algoritmi, alla quale devono essere consacrati e sacrificati anche i moti più segreti e intimi dei nostri sogni – dei nostri desideri più o meno conformi. La città che si incarica di imporci a cosa aspirare attraverso le sue infrastrutture sempre più inviolabili è un’aberrazione, a cui occorre replicare con l’anomalia delle proprie traiettorie più aleatorie, non ancora studiate e progettate da chi vorrebbe che non ci fosse più niente da indovinare, ma solo da sapere. Ventiquattro persone in scena – dirette da un regista, Nino Pizza, in ascolto di ciò che succede – sono la dimostrazione insomma che l’esperienza la vince sempre sulla scienza. Pittorico, cinematografico, scultoreo, ogni momento ha infatti una sua sintassi, una sua grammatica, una sua forma espressiva elettiva, che richiede di essere accolta nella sua specificità, nel suo sillabarsi ogni volta in piena autonomia. > Lo spettacolo, in breve, è tutto fuorché un blocco monolitico, orientato alla > realizzazione di una intenzione creativa escludente. E la musica, che > accompagna ogni gesto, lo propone a se stesso, è come un fragile commento al > commento reciproco che le azioni fanno della musica, e si fanno tra di esse. Ma appunto, questa storia è fatta di continui rivolgimenti. Ogni figura è l’inverso della precedente, e la successiva lo è a sua volta della prima. I filosofi avevano ragione, in qualche modo, la fenomenologia dello spirito, la grande epopea trans-epocale delle scimmie nude, è una sequela di antitesi sbagliate, che promanano l’una dall’altra noncuranti del loro debito reciproco, ignorandosi alla fin fine per sempre. È così che tuttə imparano a essere in sintonia con il nuovo, a credere all’inedito, almeno fino a quando l’attesa non si fonde con il ricordo, e la prospettiva di andare avanti rischia di collassare nel baratro di un odio per se stessə in cui da un po’ di tempo affondano i nostri simili. È così insomma che accade ogni volta l’imprevedibile, ogni volta l’intera sequenza di apparizioni storiche, materiali o culturali, è ricalcolata nel suo significato di fondo, spinta in un altrove dal quale la tirerà fuori solo l’ennesima (dis)organizzazione di gruppo. Ma è così, anche, che la Storia cambia faccia, sporge infine una ricerca inedita – la tensione a una ricerca assoluta, alla ricerca della ricerca, ormai forma prominente di una vita che non cede alla sconfitta. Tutto questo non conta, d’altronde, se non quando la relazione tra le persone diventa per la prima volta una vocazione obbligata (si pensi all’iper-connessione in cui siamo gettati da mattina a sera), impattando sulla carne di ciascunə di noi come una rivelazione lancinante, assumendo paradossalmente la cifra di uno slegame universale. Chiamatə a essere qualcosa, qualcunə, a volere non volere, a praticare la brutale disciplina della condotta collettiva, ognunə diventa allora un ‘uno’, un uno tutto solo che conta come qualsiasi altro ‘uno’, e che può prendere posto nella collosa evoluzione di un muta proliferante. È una visione per certi versi abbacinante, fastidiosa, ma affascinante. Un corpo in ispezione quasi furiosa della scena, ne aggrega un altro, a tutta prima incapace di tenersi dritto da solo, come fosse l’appendice di un essere invece già sicuro, fin troppo diritto, già umano. E a loro volta i due corpi attraggono altri corpi, cominciano ad annodarsi, a stirarsi, a prendersi proprio quando stanno per perdersi. Si accumulano, si strattonano, si sfaldano. È tutto sformato, diveniente, quasi compatto, quasi. La metamorfosi è l’unica legge dell’esistenza, adesso è chiaro, è indiscutibile, ma questa mancanza continua di forma non può durare, deve cedere il passo ad altro. Con le sue forme istituzionali più o meno stabili, con i suoi imperativi a essere qualcuno o qualcosa di definito, la Storia è iniziata da un pezzo, anche se ogni tanto ce lo dimentichiamo. > Ci riconosciamo, allora, ci crediamo che siamo noi a guardarci per la prima > volta, ci crediamo perché dobbiamo smettere di crederci. Dietro le quinte avviene infatti nient’altro che l’incessante riassortimento delle aspirazioni. L’umanità è un tragitto incompiuto, un’impresa a perdere, senza ritorno di alcun tipo. E le sedie a questo punto possono volteggiare al di sopra delle teste, per essere riordinate in file parallele, le une davanti alle altre. È il momento in cui ci si guarda dritti negli occhi, è il momento in cui bisogna saltare. E saltano, allora, cominciano a correre tuttə quantə, cercando di non colpirsi, per trovare un posto anche loro, accanto aglə altrə, e forse, in questo frangente storico decisivo e feroce, anche contro glə altrə. C’è una situazione stralunata in cui la danza può farsi scomposta, ogni immagine rinviare a tutte le altre, in un gioco di paralisi improvvisate nel quale non c’è più spazio nemmeno per eseguire gli ordini, perché persino l’atto della trasgressione è comunque un programma, una partitura già scritta, una scoperta fallita. E c’è una voglia sorda e strisciante di ritrovarsi, anche quando tutto lavora per separarci. Ma arriva infine la scena che racchiude tutte le altre, che fa precipitare il racconto dentro una persecuzione senza aguzzini né vittime definitive. Una giovane donna che fugge, piantandosi ogni volta davanti a uno o più altri corpi, che la fendono, la impressionano, la proiettano sul limite in cui ogni incontro diventa deviazione. E senza mai toccarsi, sfiorandosi a malapena, come nel pieno di un’emergenza pandemica da cui è stato esclusa l’usanza primordiale del contatto corporeo. Ogni dibattito è tramontato, a ben vedere, ogni attesa di consenso inabissatasi nel buio. La relazione è ridotta ormai alla sua dimensione elementare di urto, di impatto, di choc. Di trauma ripetuto. > C’è un tempo per competere, quindi, e uno per cooperare, se non fosse che il > grido certe volte rimane chiuso dentro, bloccato da un nodo, fattosi da parte > a parte nodo puro. Non esplode più, non si fa più scontento e dissenso. E tuttavia è proprio adesso che vediamo davvero come stanno le cose. Ci sono solo moltitudini, in effetti, molteplicità e insiemi irriducibilmente plurali, dappertutto. L’anarchia elementare e spontanea che da sempre attraversa ogni lotta si raccoglie in fondo in questa consapevolezza sempre negata e sempre instancabilmente rinascente. Dal punto di vista del non-umano, l’umanità non è altro che un profluvio formicolante di aggregati tutti diversi, tutti ricombinati, non è mai niente di preordinato, niente di perfettamente unito, niente di preciso. Bisogna scegliere dove guardare, sempre. Non si è mai a casa, qui, ogni visione è straniante, anche se non mai l’ultima.   Fino a che l’avanguardia di un corpo sociale all’arrembaggio assiepata epicamente su un trabattello da cantiere avanza verso un punto invisibile, le cose non sono mai del tutto quello che sembrano. Lo sguardo puntato all’orizzonte, il fedele ascendere verso il sol dell’avvenire. Non basta, anche questo deve passare. La sommità della struttura viene quindi smontata pezzo a pezzo e una cornice vuota, nel frattempo, mette in rilievo i volti di tuttə lə presenti, li restituisce per un istante alla loro perfetta singolarità. Come una murata che cade all’improvviso, un ultimo movimento brusco dell’intero gruppo verso chi guarda e ascolta. Sembra di assistere a un attacco, a un conflitto preparato sul lungo periodo, ma è la fine, la luce illumina tutto per un secondo, poi tutto scompare, diventa un’immagine che persiste sulla retina, fluttuando nel vuoto. L’antropologia trascolora nell’ontologia, l’auto-comprensione dell’essere umano si traduce in pensiero del mondo, e viceversa. Le teorie, le filosofie della storia e della politica, a cui chi comanda vorrebbe da che tempo è tempo allineare l’intera specie, non sono che la pallida e stentorea registrazione di quanto hanno fatto gli esseri umani, consci e meno di farlo. Prima c’è sempre l’indagine disarmata, l’esplorazione senza direzione, l’andare alla deriva. Uno spettacolo del genere ce lo fa capire, perché non ha bisogno di articolarlo come un messaggio, ma gli è sufficiente praticarlo. > Di fronte a questo insolito e rigoroso teorema si resta ricettivi sino > all’ultimo, si è all’oscuro di ogni significato, e soltanto quando le > coordinate utili all’intelligenza degli eventi emergono dallo sfondo in cui > erano annidate e si rendono finalmente percepibili nella chiusura, solo allora > possiamo risignificare retrospettivamente ogni passaggio. Si è schiantati da ciò che si vede, per capirlo solo a cose fatte. Abbiamo assistito a una strana poesia, ora lo sappiamo, una poesia in cui la nostra vicenda è come colta dal suo margine più estremo, quando la Storia stessa si mostra nel suo versante meno scontato, quello di una stratigrafia dell’umano, di una stenografia convulsa e stranita di tutte le sue incarnazioni. Anzi, la posta in gioco è ancora più alta, ne va della possibilità di tracciare una cosmografia dell’umano, una scrittura delle sue forme illimitate, sempre eterogenee, inesauribili, come fosse un continente, o un pianeta, o una galassia, ma vista da un popolo alieno, ancora all’oscuro del nostro codice di comportamento indeciso tra il predatorio e il solidale. La soggettività a venire ha questo profilo, la malattia che l’affligge di questi tempi ne è la lucida anche se scomposta generazione. Dopo la contro-rivoluzione neoliberista iniziata quarant’anni fa scopriamo che “essere” significa “essere insieme”, sì, ma come altrə, come divergenti glə unə daglə altrə. Stare sul confine è difficile, richiede una vigilanza costante, un esercizio di apertura sempre sul chi vive, ma è anche una sfida senza la quale non c’è speranza né comunanza reale. All’inizio erano tuttə solə, ora siamo tuttə unicə. L’immagine di copertina è di Francesco Falciani (Flickr) SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Una cosmografia dell’umano proviene da DINAMOpress.