In ricordo di Sergio Ferrari
La redazione di Roars.it si unisce al cordoglio per la perdita di Sergio
Ferrari. Con alle spalle una lunga e prestigiosa carriera all’ENEA, dove è
arrivato a ricoprire la carica di Vicedirettore Generale, Sergio non ha mai
cessato di essere un attento studioso del mondo della ricerca del ruolo
crescente che questa ha acquisito nel corso del tempo per lo sviluppo economico
e sociale. Grande attenzione ha riservato inoltre alle vicende italiane,
sottolineando come il declino del Paese fosse intimamente collegato alla
rincorsa di uno “sviluppo senza ricerca”. Lo ricordiamo ripubblicando un
articolo dedicato proprio a questo tema.
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LE VARIAZIONI DEL PIL E LA SPECIFICITÀ DELLA NOSTRA CRISI
Le attese nei mesi scorsi per conoscere le variazioni trimestrali del Pil
nazionale avevano certamente dei buoni motivi, visto la condizione molto critica
del nostro sviluppo; una condizione per la verità non esclusiva per il nostro
paese dal momento che si parlava di una crisi strutturale internazionale. Il
dibattito acceso intorno allo zero della nostra crescita era, tuttavia, il segno
di un nervosismo acuto, anche perché non erano comunque questi i dati che
avrebbero potuto o meno motivare l’esistenza di una nostra uscita dalla crisi.
Questa osservazione vale anche per i dati presentati ai primi di settembre
dall’Istat, al quale va riconosciuto una tenuta professionale rispetto alle
sollecitazioni immaginabili.
Intanto sarebbe stato corretto ricordare, allora come ora, che noi avevamo due
crisi dalle quali uscire; la prima che nasceva negli anni ‘80, mentre la seconda
era la crisi internazionale che iniziata nel 2007/2008, aveva colpito tutti i
paesi sviluppati, compreso il nostro.
In queste condizioni parlare di un’uscita dalla crisi in conseguenza del fatto
che dopo vari trimestri di variazioni in negativo del Pil si era arrivati ad una
variazione che si discetta se essere stata dello 0,7% piuttosto che dello 0,8%,
dà subito l’idea della qualità di quel dibattito, con l’evidente mancanza di una
qualche portata, anche logica. Che la questione si fosse fermata a questo
livello, conferma quel giudizio sulla nostra situazione politico-culturale molto
preoccupante, che sovente e in circostanze molto diverse, si ripresenta e che,
poiché chiama in causa tutta la classe dirigente del paese, meriterebbe una
analisi specifica.
Non deve meravigliare, quindi se, oltre a questo livello del dibattito non si
sia sviluppata un’analisi per verificare se quell’inversione di tendenza
dell’andamento del nostro Pil sia il frutto degli effetti del superamento della
crisi internazionale – che quindi si dovrebbe ritrovare anche nell’andamento del
Pil dei Paesi partner – o se sia l’effetto di un superamento anche della nostra
crisi “storica” come effetto congiunto, quindi, delle politiche internazionali e
di quelle attuate sul piano interno.
E’ evidente che una risposta, magari anche solo indiziaria a questo
interrogativo, può venire solo dal confronto tra gli andamenti del nostro Pil e
quello dei paesi con i quali ci misuriamo. Un confronto che, tuttavia, è
inspiegabilmente mancato.
In altre parole se dai tempi d’inizio del superamento della crisi internazionale
le variazioni del nostro Pil avessero avuto un andamento parallelo a quello di
paesi di riferimento, vorrebbe dire che anche la nostra economia aveva fruito e
fruiva degli stessi effetti positivi indotti dagli interventi ben noti e dei
quali tutti hanno fruito – la riduzione del prezzo del petrolio, l’ampia
disponibilità di risorse finanziarie, la crescente competitività dell’euro.
Diversi andamenti devono corrispondere, evidentemente, a diverse interpretazioni
sul superamento o meno vuoi della crisi internazionale, vuoi anche del nostro
specifico declino. Nel caso di una ulteriore divergenza, sarebbe, ad esempio,
motivabile l’ipotesi della mancanza del superamento da parte del nostro paese,
sia della propria crisi economica sia di quella internazionale. Solo nel caso di
una convergenza nel ritmo di variazione del Pil si potrebbe ritenere che il
nostro paese sia uscito o stia per uscire dalla propria crisi storica.
Naturalmente i confronti con singoli paesi possono sempre indurre delle
perplessità dal momento che ogni economia può fruire dei vantaggi economici
accennati ma in maniera differente. Poiché tuttavia sono disponibili dati
statistici relativi all’andamento del Pil oltre che specificatamente per il
nostro paese, anche come sintesi dei 15 paesi dell’Unione Europea, è sufficiente
riferirsi a queste statistiche (o allorquando si presentano vincoli statistici,
anche una qualche diversa aggregazione dei Paesi dell’UE) per ridurre le
possibili deformazioni nei relativi confronti.
Per poi identificare i diversi periodi storici entro i quali si sono realizzati
i differenti andamenti del Pil, si è separato il periodo totale in esame – dai
primi anni ’70 al 2015 – in quattro sottoperiodi: dai primi anni ’70 ai primi
anni ’80 durante i quali l’Italia ha conservato un buon andamento relativo della
propria crescita con andamenti positivi di oltre 3 decimi di punto percentuale
all’anno, rispetto ai paesi dell’area Euro; dai primi anni ‘80 al 1996 durante i
quali si è avviata e poi sviluppata una permanente difficoltà della nostra
economia sino ad arrivare al cosiddetto declino con una perdita media di 0,22
punti percentuali all’anno; dal 1997 al 2007 durante i quali si è sviluppata
l’intera fase della speculazione economico-finanziaria internazionale e dal
2008 al 2014 durante il quale si sono manifestate le tendenze – seppur ancora
deboli – al superamento di quella crisi internazionale, con l’aumento, tuttavia,
del divario negativo da parte della nostra economia.
Nella Tabella 1 e nel Grafico 1 sono riportati gli andamenti del Pil come medie
annuali nei diversi periodi presi in considerazione e come differenze tra i
valori del Pil del nostro Paese e quello medio dei paesi dell’UE 15.
TAB. 1 Variazione media annua del Pil nei periodi predefiniti e differenze tra
l’Italia e l’UE 15
Fonte: elaborazione su dati Eurostat
Come si vede è nel primo periodo – dall’1971 al 1982 – che il nostro Pil cresce
di oltre mezzo punto percentuale all’anno in più di quello medio dei 15 paesi
dell’Unione. Una crescita che porta il valore totale del nostro Pil, misurato in
termini di Pil pro capite, a livello di quello dei paesi del’Unione più
sviluppati. E’ dunque dai primi anni ’80 che s’inverte questo andamento positivo
con un andamento del nostro Pil crescentemente inferiore a quello dei 15 paesi
dell’Unione. Questa differenza sale a oltre un punto percentuale all’anno con lo
sviluppo dell’econonomia finanziaria e delle relative speculazioni sino allo
scoppio della crisi internazionale del 2007, mentre dal 2008 la variazione del
Pil annuale scende a livelli medi negativi del -1,26 % all’anno per il nostro
paese mentre si aggira intorno allo 0 per i paesi dell’Unione, come “segnali”
dell’esistenza della crisi economica internazionale la cui natura e la cui
entità vanno ricercate in quelle “forme di spericolato avventurismo finanziario”
già segnalato sin dal 1981, da Federico Caffè. Nel periodo dal 2011 al 2015 si
manifestano i primi pur deboli segnali di un superamento della crisi
internazionale, con una ricaduta, tuttavia, nel 2013 e con incertezze negli anni
successivi e, in conclusione, con un aumento ulteriore delle differenze delle
variazioni del nostro Pil, sino a oltre 1,3 punti percentuali all’anno inferiore
di quello dei Paesi UE 15.
Come si è accennato, per valutare se gli andamenti del nostro Pil possono
indicare un superamento da parte nostra della crisi internazionale, insieme al
superamento anche della nostra crisi specifica, si dovrebbe verificare una
convergenza con gli andamenti del Pil dell’UE 15; andamenti tendenzialmente
paralleli indicherebbero un superamento, analogo a quello dei Paesi dell’UE 15,
della crisi internazionale, ma non della specifica crisi nazionale, mentre un
andamento divergente rappresenta l’indicazione di una crisi complessiva
comprendente sia una componente internazionale sia una permanenza della
componente nazionale.
Dal Grafico 1 emerge come sino alla fine del 2015 la variazione del nostro Pil
espresse in termini di valore prodotto per ora lavorata, non solo è inferiore a
quello dei paesi dell’UE 19, ma come questa differenza tenda ad aumentare nel
tempo. Anche i dati trimestrali per i primi due trimestri per il 2016 confermano
queste tendenze.
Occorre segnalare che la progressiva perdita di spinta per lo sviluppo, misurato
in termini di Pil pro capite, ha già comportato per i cittadini italiani una
perdita, rispetto ai cittadini europei, di quasi 4000 euro pro capite in dieci
anni. La cattiva distribuzione di queste perdite di reddito individuale fa parte
di un andamento generale sul quale si dovrebbe intervenire se non altro dal
momento che è pressoché unanime il parere circa la negatività, ai fini dello
sviluppo, della cattiva distribuzione della ricchezza. Interventi in questa
direzione dovrebbero essere presenti nella prossima legge di bilancio, al di là
di ogni altro provvedimento.
Grafico 1 – Andamento del PIL
(Fonte: elaborazioni su dati Eurostat)
Resta la riflessione da sviluppare circa le riforme necessarie per correggere
questo nostro divario negativo dal momento che le riforme introdotte danno
segnali precisi di un non avvenuto superamento delle cause della nostra crisi
interna.
Tornando, quindi, alla questione delle cause di questa nostra crescente
debolezza economica, la letteratura viene certamente in soccorso, incominciando
da Kaldor a Verdoorn che da tempo avevano posto l’attenzione alle correlazioni
che legavano l’andamento del Pil con quelle del settore manifatturiero e in
particolare con la sua capacità competitiva. Una correlazione che era ed è,
peraltro, comprensibile dato il peso diretto e indiretto che ha questo settore
nell’economia di un paese.
Senza escludere altre connessioni, incominciamo a verificare se nel caso del
nostro paese esiste e di che natura è questa correlazione. A questo fine è
possibile ricorrere a diverse verifiche, ponendo attenzione alle vicende
internazionali che dovrebbero essere alla base del nostro diverso comportamento
e che non devono essere di natura contingente.
Se si analizza l’andamento delle quote del commercio internazionale da parte
dell’UE19 e dell’Italia, da un certo periodo in poi – intorno agli anni fine
decennio ’80 – entrambi questi attori economici vedono ridurre i valori delle
rispettive quote. Il che, tenendo presente l’emergere dei Paesi in via di
sviluppo, appare del tutto logico e corretto. Ma nel caso dell’Italia si nota
una riduzione maggiore della propria quota anche rispetto a quella complessiva
dell’UE 19. In sostanza i processi che hanno messo alla prova la competitività
del sistema produttivo dei paesi europei, hanno avuto un maggiore rilievo nel
caso italiano.
A questo punto è opportuno ricordare le vicende che si sono verificate in quei
decenni: è del 1971 la fine della convertibilità in oro del dollaro; è del 1973
– e poi all’inizio degli anni ’80 – la moltiplicazione del prezzo internazionale
dei prodotti petroliferi. Occorre aggiungere un fenomeno già accennato e che ha
trovato un punto di accelerazione con la fine della guerra fredda e il crollo
del muro di Berlino: l’allargamento degli orizzonti delle relazioni
internazionali era una conseguenza evidente. Nel contempo la percentuale degli
scambi commerciali di prodotti ad alta tecnologia è cresciuta di circa dieci
punti contro i circa tre del commercio nel suo complesso, evidenziando una
accentuazione straordinaria del ricorso all’innovazione tecnologica e agli
investimenti nel Sistema Ricerca e Innovazione. Le relazioni e le
interdipendenze tra questi vari fenomeni economici sono evidenti e non è questa
la sede per sviluppare tutte le conseguenti riflessioni. Sembra sufficiente
constatare come le politiche economiche elaborate nei vari paesi, se volevano
far fronte a trasformazioni che ponevano delle sfide e delle alternative
pressanti, o progettavano una qualche strategia, delle risposte che adeguassero
il proprio sistema economico e produttivo ad una competitività che aveva
cambiato molte carte in tavola o altrimenti occorreva mettere nel conto una più
o meno rapida retrocessione nella scala economica e sociale internazionale.
Nel nostro Paese sulla base del successo ottenuto nei decenni precedenti il
mondo politico, economico ed imprenditoriale ritenne di poter continuare sulla
strada precedente, la strada “del piccolo è bello”, della forza dei distretti
industriali, di una competitività che aveva bisogno solo di tenere e bada il
costo del lavoro e le pretese sindacali, di una cultura microeconomica applicata
anche ai livelli macro, di una dimensione culturale del ceto imprenditoriale che
non a caso aveva, tra i paesi avanzati, la più bassa percentuale di dirigenti
laureati, ecc., ecc.
Tutto questo accrebbe le deformazioni nella specializzazione produttiva e nella
struttura dimensionale delle imprese. Un dato che può sintetizzare questa
condizione è rappresentato dal numero di ricercatori operanti nel sistema delle
imprese: come si nota dal Grafico 2, il divario con i paesi avanzati è tale da
non poter essere colmato se non in tempi storici o progettando degli interventi
di carattere del tutto straordinario. La Confindustria chiede degli incentivi
per la spesa in Ricerca e, stante al suo Vice Presidente, dei super ammortamenti
per agli acquisti di macchinari.
Per gli incentivi alla spesa in ricerca già vari interventi precedenti hanno
indicato, con indagini specifiche sul campo, svolte anche dalla Banca d’Italia,
la loro totale inutilità. Se poi si pensa di recuperare capacità innovativa
attraverso l’acquisto di macchinari, si tratta della via scelta da tempo e che,
oltre a portare il sistema ad un livello comune con i concorrenti, rischia di
danneggiare poprio quei settori delle macchine che dovrebbe concorrere alla
nostra competitività tecnologica; così come l’ipotesi avanzata di intervenire
sui beni dell’Industria 4.0 “per diffondere l’innovazione tra le imprese “
presuppone che ci sia qualcuno che questa innovazione sia in grado di produrla,
che è, per la verità, il punto negativo della nostra situazione, come si
evidenzia anche dai dati riportati nel Grafico 2, nonché da una bilancia
commerciale relativa ai prodotti ad alta e medio-alta tecnologia da sempre
caratterizzata da un andamento crescentemente in negativo, senza nemmeno la
capacità di cogliere le straordinarie occasioni che pur si sono presentate. E’
il caso, ad esempio, degli impianti per la produzione di energia fotovoltaica
elettrica: come è noto, il costo del kwh è dato dalla somma del costo capitale –
gli impianti per produrre l’energia elettrica – e il costo del combustibilile
che per il nostro paese è essenzialmente un voce importante delle nostre
importazioni e, quindi, con ricadute negative sul Pil. L’adozione e lo sviluppo
nell’utilizzo della fonte fotovoltaica poteva essere molto evidentemente una
straordinaria occasione per superare il vincolo energetico oltre che per
corrispondere alle sfide ambientali. L’attenzione per le fonti rinnovabile ha
prodotto da noi la solita politica degli incentivi – mai una politica
industriale vera che nel caso specifico del nostro paese avrebbe costituito una
occasione storica proprio per coniugare qualità e quantità dello sviluppo. Ma
poiché si è operato agevolando l’acquisto all’estero del capitale – che nel caso
del fotovoltaico rappresenta pressoché la totalità del costo del kwh – si sono
caricate sugli utenti le relative agevolazioni con oneri sulle bollette e che ai
cittadini sono costati in dieci anni circa 30 miliardi di euro, peggiorando la
nostra bilancia energetica e perdendo nel contempo le opportunità occupazionali.
Tutto questo mentre erano disponibili all’interno del Paese le conoscenze
scientifiche-tecnologiche per avviare un percorso di qualificazione
economica-ambientale-sociale del nostro sistema produttivo nel settore delle
produzione delle fonti energetiche rinnovabili; ma si è rinunciato a quel
percorso senza che nessuno – o quasi – abbia sentito la necessità di esprimere
una critica o almeno di cercare di capire la logica di un provvedimento
approvato dal Governo e ampiamente apprezzato, ambientalisti compresi. Il
difetto stava nel manico, nel senso che queste conoscenze non appartenevano al
sistema delle nostre imprese, delle quali erano ben noti i limiti strutturali in
materia di ricerca e sviluppo, ma erano disponibili presso le strutture di
ricerca pubblica con il rischio di “interferenze” in politiche che dovevano
essere decise e attuate solo da interessi privati in quanto espressioni del
“mercato”.
Il richiamo a questa vicenda serve per riprendere il percorso centrale di questo
intevento che intende individuare le cause della difficoltà del nostro sviluppo
economico, difficoltà che, come si è visto, hanno almeno una componente di
origine para-ideologica ma, in effetti, di ottusità microeconomica.
Grafico 2 – Numero di ricercatori ogni mille occupati nel sistema industriale
(Fonte: elaborazioni su dati Ocse)
Nel Grafico 2 sono riportati gli andamenti del numero di ricercatori ogni mille
addetti nel sistema industriale italiano e come media nei paesi dell’UE 15.
La prima osservazione sta negli andamenti di queste curve, che appaiono del
tutto coerenti rispetto a quelli relativi agli andamenti del nostro Pil a fronte
di quello dei paesi della UE. La cosa non è casuale dal momento che gli
andamenti del Pil sono gli effetti la cui causa stà, in maniera non esclusiva ma
certamente rilevante, nei dati espressi nel Grafico 2. Il fatto che come
conseguenza di questa carenza del nostro sistema produttivo si verifichi un
eccesso nella “produzione” di laureati per cui ne possiamo esportare, viene
affrontato dall’attuale “sistema” politico come una necessità di limitare o
privatizzare l’azione del sistema universitario, riducendone, tra l’altro gli
oneri, quindi con un effetto finale, secondo questa “scuola”, fortemente
positivo dal momento che si potrebbe così ridurre la spesa pubblica.
Questi scenari insieme alla mancanza di segnali circa il superamento della
nostra crisi, pongono una questione apparentemente molto semplice ma, di fatto,
molto complessa. La componente apparentemente semplice sta nella evidente
necessità di mettere in discussione rapidamente le politiche economiche e
industriali sin qui adottate e che hanno portato a questi esiti. Poiché questo
non è avvenuto e non ci sono, almeno per ora, segnali di un qualche cambiamento,
quanto piuttosto si rilevano frequenti indicazioni di conferma, evidentemente le
complessità di una tale decisione sono a tutt’oggi nettamente prevalenti
rispetto alla apparente semplicità. E’ bene precisare che le responsabilità
vanno ben oltre a quelle dell’attuale governo, per il quale occorre solamente
rilevare come le sue azioni di riforma possano confondersi con delle azioni di
controriforma dal momento che non è semplice – per motivi culturali – saper
cogliere le differenze nella nomenclatura adottata. Questa situazione è,
peraltro, una conferme della battuta secondo la quale tra destra e sinistra non
ci sono più differenze.
Ma poiché per uscire da questa nostra crisi occorre cambiare quelle scelte
economiche attuate sino ad ora, ne consegue che occorre modificare quelle
politiche “comuni”, o, meglio, quella cultura che ha inventato l’identità tra
destra e sinistra. Ed è a questo punto che si esalta la complessità della nostra
situazione poiché all’evidenza del fallimento di quelle scelte non corrisponde
ancora, neanche a sinistra, ad una concreta proposta alternativa, nemmeno sugli
aspetti analitici che dovrebbero almeno indicare le cause della nostra specifica
crisi, senza le quali non è pensabile di elaborare delle terapie corrette.
Le previsioni sull’andamento del PIL 2016 – in attesa degli aggiornamenti
contenuti nel prossimo DPF e del confronto con i dati degli altri paesi – per
ora rappresentano una conferma del giudizio critico sulle politiche economiche e
sociali di questo Governo, facendo emergere, visti i consensi di esponenti
dell’accademia, della Confindustria e di buona parte dell’informazione,
l’esistenza di una crisi dell’intera classe dirigente di questo paese.
Questa crisi, se non consente di immaginarne il superamento a breve, chiama in
causa anche le politiche dell’Unione verso la quale si cerca di scaricarne le
responsabilità, mentre le sue origini sono tutte interne.
Si apre a questo punto la necessità di una analisi e di una riflessione che deve
aprirsi anche a questi orizzonti europei e internazionali. Una questione che
deve essere affrontata ma non senza aver prima chiarito, tuttavia, la natura dei
vincoli interni, se non altro per evitare di sperperare eventuali “concessioni”
dell’Unione.
Se esiste un accordo nel ritenere che l’attuale politica industriale –
abbandonata come è alle scelte e alla gestione degli stessi imprenditori,
confondendo così la microeconomia con la macroeconomia – non è in grado di
recuperare la perdita di competitività internazionale che da molto tempo la
distingue e debba essere corretta recuperando una moderna presenza industriale,
questa non può poi identificarsi con il recupero di vecchie specializzazioni –
come alle volte emerge anche a sinistra – se non altro perchè lo scenario
competitivo interrnazionale non lo consentirebbe nemmeno sulla carta. Ma anche
la riduzione dei problemi competitivi alla questione della scarsa spesa in
ricerca da parte pubblica e privata, con conseguenti sollecitazione da parte
industriale per ricevere degli incentivi in materia, confonde l’innovazione
tecnologica con la ricerca scientifica, essendo quest’ultima la necessaria
premessa – oltre che una dimensione della qualità culturale e sociale della
società – ma non certo l’insieme di un Sistema Nazionale dell’Innovazione. Non a
caso analisi varie, comprese quelle condotte dalla BdI, oltre alla logica, hanno
confermato l’inutilità di questo intervento pubblico a favore degli incentivi
alla spesa in ricerca da parte delle imprese, mentre sarebbe stato molto più
intelligente sollecitare e agevolare l’intervento del sistema della ricerca
pubblica, invece di tendere di fatto alla sua eliminazione. Quindi anche
affidare l’elaborazione di una alternativa agli stessi operatori che hanno
condotto la nostra società a questo punto, appare, a dir poco, molto
discutibile.
Volendo, quindi, entrare nel merito di una elaborazione progettuale alternativa
l’unica questione che può e deve essere anticipata riguarda la precisazione dei
valori che è necessario tenere presenti anche in materia di politica economica e
sociale; la crisi ha generato ambiguità e confusioni anche in questo campo:
occorre precisare che i valori da assumere sono quelli del socialismo
riformatore e cioè l’eguaglianza e la libertà. Si tratta di scelte che
prescindono e precedono la pur importante questione delle forme che deve o può
assumere la democrazia.
Altri potranno assumere altri valori ma almeno si saprà che vengono assunti
valori diversi da quelli riformatori e si saprà anche che senza quei valori
della sinistra, il nostro declino non avrà alternative.
Con questa premessa è possibile poi riprendere le indicazioni di merito espresse
– ancorchè sino ad ora inascoltate – in un dibattito rimasto estraneo alle
responsabilità di Governo. In questo caso la sintesi offerta, ad esempio da
Paolo Leon (P. Leon: I Poteri Ignoranti – pag 62), può rappresentare un ottimo
riferimento: “E’ evidente che sarebbe necessario l’intervento pubblico. Ma il
problema è complesso perché occorrerebbe, nei paesi ricchi, una riforma della
finanza e delle banche, un redistribuzione di reddito e ricchezza, una riduzione
del grado di monopolio, un aumento della spesa e proprietà pubblica, un
rafforzamento legislativo del sindacato per aumentare la domanda effettiva e il
reddito nazionale, e tutto ciò senza vendere titoli di Stato sul mercato, ma
obbligando la Banca Centrale ad acquistarli, riducendone l’indipendenza. “Poiché
nel frattempo si è aggiunta la disgraziata concomitanza della sequenza di
terremoti, anche questa situazione deve finalmente essere affrontata con una
approccio “all’economia della manutenzione” indicata da R. Lombardi sin dagli
anni ’60. Il tempo trascorso negativamente è di oltre mezzo secolo ma, come si
vede, non è ancora un approcio superato. Non così si potrà dire tra
cinquant’anni per la politica economica e sociale che ha condotto il Paese al
declino ormai pluridecennale che conosciamo.
A questo punto non ci resta che preparare una nuova classe dirigente.