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Colombia, storica sentenza di condanna: 12 anni per l’ex presidente Uribe
La sentenza della giudice Heredia apre una nuova fase nella storia della Colombia, perché per la prima volta l’ex presidente Álvaro Uribe Vélez è stato condannato nell’ambito di un procedimento sulle relazioni tra la politica e il paramilitarismo. Lo scorso lunedì 28 luglio, per oltre 10 ore, la giudice Sandra Heredia ha letto in diretta nazionale circa la metà delle oltre duemila pagine della sentenza. Prima di entrare nel merito della sentenza, aveva dichiarato: «La giustizia non si inginocchia davanti al potere». Ieri, venerdì 1 agosto, è stata resa nota, con effetto immediato, l’entità della condanna: 12 anni di arresti domiciliari, multa di 3.444 milioni di pesos (all’incirca 700mila euro) e interdizioni ai pubblici uffici per 8 anni e 3 mesi. Fin dalla mattina del giorno della sentenza, davanti al Tribunale di Paloquemao erano presenti sia simpatizzanti dell’ex presidente ed esponenti politici di estrema destra (tra cui l’ex vicepresidente dei due governi di Uribe e l’ex ministro della difesa del governo Duque), sia persone che invece denunciavano le responsabilità dell’ex presidente chiedendo verità e giustizia. * * I simpatizzanti dell’ex presidente di estrema destra portavano maschere con la faccia di Uribe e cartelli e bandiere con su scritto “Uribe innocente”, mentre dall’altra parte del Tribunale attivisti per i diritti umani chiedevano condanna e carcere per l’ex-presidente. Secondo quanto appreso dalle testimonianze dei presenti, vi sono stati diversi episodi violenti da parte dei militanti di estrema destra, che hanno portato ad un arresto per aggressione ai danni di giornalisti e attivisti per i diritti umani. * * * * Intanto sia davanti al Tribunale, che nelle zone limitrofe e in altri luoghi simbolo di Bogotá si sono tenuti presidi, mobilitazioni e cucine comunitarie per chiedere verità, giustizia e carcere per l’ex presidente. Poco distante, si è tenuto durante l’intera giornata il “Processo popolare contro Uribe”, una assemblea pubblica in piazza, dove è stato poi dipinto un immenso murales che dice: “Uribe colpevole”. La stessa frase che comincia a circolare sulle reti sociali e che diventa il titolo dei giornali poche ore dopo. * * La vicenda politica e giudiziaria che ha portato a questa sentenza è molto lunga e rappresenta una importante vittoria dei movimenti sociali e per i diritti umani che per decenni hanno denunciato le relazioni tra politica e paramilitarismo e i crimini di Stato. L’attuale procedimento nasce da una denuncia che lo stesso Uribe ha portato avanti contro il senatore Iván Cepeda Castro, figlio di Manuel Cepeda Castro, dirigente del Partito Comunista assassinato dai paramilitari nel 1994. Dopo la morte del padre, Cepeda è stato fondatore e portavoce del Movimento delle Vittime dei Crimini di Stato, e dopo essere stato costretto due volte all’esilio, oggi è una figura fondamentale e importante riferimento della lotta contro il paramilitarismo e il terrorismo di Stato in Colombia. * * * * * Dopo un intervento al Congresso, nel 2012, nell’ambito di un dibattito di controllo politico, in cui Iván Cepeda ha denunciato le relazioni tra paramilitarismo e politica, la cosiddetta “parapolitica”, Álvaro Uribe Vélez lo ha denunciato: proprio durante quel procedimento, terminato con una assoluzione nel 2018, sono stati riscontrati i tentativi di manipolazione delle testimonianze portati avanti da persone di fiducia dell’ex presidente, motivo per cui è stato aperto un nuovo processo giudiziario che ha portato questa settimana alla condanna in primo grado. Secondo quanto emerso dal processo, l’avvocato Diego Cadena, per conto di Uribe, ha visitato diverse carceri per fare pressione sugli ex paramilitari implicati nel procedimento, che avevano rilasciato dichiarazioni sulle relazioni tra l’ex presidente e le organizzazioni paramilitari, al fine di cambiare le loro testimonianze. Così, alla fine, è stato proprio Iván Cepeda a portare a processo Uribe, per il tentativo di manipolazione delle testimonianze dei due ex-paramilitari Carlos Vélez e Juan Guillermo Monsalve, testimoni nell’ambito delle indagini sul “Bloque Metro de las Autodefensas”, formazione paramilitare che, secondo diverse testimonianze, aveva legami stretti con Uribe. Dopo la sentenza, si è atteso fino a venerdì per sapere l’entità della condanna e la modalità di detenzione per l’ex-presidente, il primo della storia colombiana a essere condannato penalmente. Dopo l’annuncio dell’entità della condanna, immediatamente esecutiva per il rischio di fuga dell’ex presidente, di tre anni superiore alla richiesta dei pm (che avevano chiesto 9 anni), la destra in Colombia ha annunciato mobilitazioni il prossimo 7 agosto in difesa di Uribe. A un anno dalle elezioni presidenziali, questa sentenza storica dimostra ancora una volta le complicità dei governi di estrema destra con il paramilitarismo; pochi mesi fa, infatti, la scoperta delle fosse comuni alla Escombrera della Comuna 13 a Medellín, e prima ancora, il riconoscimento da parte della Giustizia Speciale per la Pace dei cosiddetti “falsos positivos”, con 6402 vittime accertate, ha fatto luce sulla sparizione di migliaia di giovani dei quartieri popolari, che dopo essere stati sequestrati sono stati sistematicamente uccisi dalle forze militari tra il 2002 e il 2008, durante i governi di Uribe, e poi presentati alla stampa come guerriglieri caduti in combattimento. Ma la grande sconfitta politica dell’ex presidente e del suo modello politico, prima ancora della condanna di ieri, e prima ancora della vittoria elettorale del progressismo nel 2022, va fatta risalire alle lotte dei movimenti sociali, delle vittime del conflitto e delle organizzazioni per i diritti umani, e soprattutto alle proteste sociali di massa tra il 2019 e il 2021: risuonano ancora gli slogan scritti sui muri, sulle magliette e nelle strade, cantati da migliaia di manifestanti durante le proteste, gli scioperi e le rivolte popolari contro il governo Duque, che più di ogni altro ha rappresentato la continuità dell’uribismo al governo, che dalle strade hanno sfidato il potere: «Questo non è un governo, sono i paramilitari al potere», e «Uribe, paraco [paramilitare, ndr] il popolo è arrabbiato». > Mentre la destra difende Uribe e parla di «persecuzione politica», le > organizzazioni dei diritti umani e le sinistre chiedono che si indaghi a fondo > per far emergere tutta la verità sulle relazioni e le complicità dei governi > di estrema destra con il paramilitarismo. Le posizioni dei partiti di destra in difesa di Uribe è sostenuta anche dalla gravissima ingerenza da parte del governo degli Stati Uniti, con il segretario di Stato Marco Rubio che è intervenuto in difesa di Uribe poche ore dopo la sentenza, in quella che il presidente Petro ha immediatamente qualificato come una intromissione nella sovranità nazionale. Anche il senatore Iván Cepeda Castro e diverse organizzazioni per i diritti umani hanno denunciato l’ingerenza degli Stati Uniti, sollecitando garanzie per difendere l’indipendenza dei giudici in Colombia, ed evitare condizionamenti rispetto al secondo grado di giudizio. All’uscita dal tribunale, Iván Cepeda ha dichiarato: «Oggi è una giornata in cui dobbiamo riconoscere il ruolo della giustizia come garante della democrazia e come forma efficace di controllo dei politici più potenti e dei loro crimini. Nel nostro caso, con questa sentenza, è stata stabilita la verità sul tenebroso apparato diretto da Uribe Vélez e composto da numerosi falsi testimoni che hanno cercato di ingannare la giustizia. Dopo tredici anni e un lungo processo, in cui sono state offerte tutte le garanzie processuali all’ex presidente, è stato condannato in primo grado». Oggi con la persistenza, nonostante anni di esilio e minacce, Cepeda ha vinto la sua causa, che è anche la causa di tanti e tante in Colombia. > Conclude così il senatore Iván Cepeda: «Oggi non solamente viene reso onore > alla nostra dignità, ma anche a quella di tantissime vittime in Colombia. Oggi > questa sentenza giusta la dedichiamo anche alle madri di quei giovani che sono > stati desaparecidos, torturati e gettati nelle fosse comuni o presentati ai > media come falsos positivos» Una sentenza che mette fine all’impunità e apre il cammino verso la ricerca della verità e della giustizia per i decenni di violenza e massacri di Stato in Colombia, per le relazioni tra politica e paramilitarismo nel periodo della “sicurezza democratica”, nome della dottrina applicata durante i due governi del Centro Democratico guidati da Álvaro Uribe Vélez. Un processo che segna, in modo assolutamente significativo, lo scenario elettorale verso le presidenziali da qui al prossimo anno, in cui la destre puntano a tornare al potere, mentre il progressismo punterà a ripetere la vittoria elettorale, con l’obiettivo di migliorare le elezioni al Congresso. In attesa della prossima definizione, ad ottobre, dei candidati delle diverse coalizioni, questa storica condanna inaugura sicuramente una nuova tappa dello scenario politico nel paese. E potrebbe non essere l’ultima. Tutte le immagini sono di Sebastián Bolaños Pérez, fotografo e collaboratore di Dinamopress, dal tribunale di Paloquemao, lunedì 28 luglio 2025, Bogotá SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Colombia, storica sentenza di condanna: 12 anni per l’ex presidente Uribe proviene da DINAMOpress.
Jeannette Jara: la prima comunista che guiderà la sinistra cilena
Alle primarie delle elezioni cilene ha vinto Jeannette Jara per il Partito Comunista con oltre il 60% dei voti. Domenica 29 giugno si sono tenute le primarie della sinistra cilena. L’elezione vedeva confrontarsi quattro candidati: Carolina Tohá per il PPD, partito di centrosinistra membro della storica Concertación; Gonzalo Winter per il Frente Amplio, la coalizione del presidente Boric; Jaime Mulet, della Federación Regionalista Verde Social, e Jeannette Jara per il Partito Comunista. Ha vinto Jara, che con oltre il 60% dei voti ha ottenuto una vittoria non solo netta, ma anche storica: per la prima volta, infatti, una militante del Partito Comunista guiderà la candidatura presidenziale della sinistra cilena. Fino a oggi, il Partito Comunista del Cile (PCCh) aveva partecipato a numerose candidature e governi della sinistra cilena. Il governo del presidente Boric, quello di Salvador Allende o il secondo mandato di Bachelet sono alcuni degli esempi più rilevanti. In questi governi e nelle candidature che li hanno portati alla Moneda, il PCCh era presente, ma sempre in secondo piano. I comunisti fornivano disciplina, lavoro e forza militante, ma si riteneva che un candidato di quell’area fosse un suicidio politico. Il Cile era un paese troppo conservatore, o troppo anticomunista, perché qualcuno del PCCh potesse raggiungere la presidenza. Questa narrazione è durata a lungo ed è stata presente persino nella precedente primaria presidenziale, in cui il comunista Jadue partiva come favorito, ma fu ampiamente superato da Gabriel Boric che, oltre a fare una campagna migliore, era considerato più competitivo per la corsa presidenziale. Oggi, per la prima volta, questo racconto si è spezzato e Jara si è imposta con una forza che neppure le più ottimiste si sarebbero aspettate. L’ex-ministra di Boric ha vinto in tutte le regioni e ha ottenuto il doppio dei voti rispetto all’altra ex-ministra Carolina Tohá, che inizialmente molti consideravano come la favorita. Ha dimostrato chiaramente di essere la miglior candidata della primaria e ora resta da vedere come si muoverà in un terreno più difficile: l’elezione presidenziale. Foto di Luca Profenna JARA PUÒ VINCERE? La grande domanda che aleggia nella conversazione pubblica cilena è se Jeannette Jara abbia la possibilità di vincere un’elezione presidenziale. La candidata comunista ha già rotto lo schema delle primarie, ma riuscirà anche a rompere quello di un’elezione presidenziale? La prima cosa da dire è che Jara affronterà la sfida elettorale in un contesto estremamente difficile. La candidata della sinistra cilena avrà molte difficoltà non solo per essere comunista, infatti, molte delle sfide che dovrà affrontare sarebbero toccate a qualunque altro vincitore delle primarie. La prima di queste è il clima di smobilitazione che sta vivendo la sinistra cilena. La campagna ne è stata un chiaro riflesso: mentre la primaria del 2021 fu vibrante, intensa e pervasa da un certo sentimento di speranza, quella del 2025 è stata monotona, noiosa e ha faticato a suscitare l’interesse dei cileni. I numeri della partecipazione parlano da soli: nel 2021 votarono 1,7 milioni di persone in una primaria tra Frente Amplio e Partito Comunista; nel 2025 sono stati solo 1,4 milioni, nonostante questa volta partecipasse anche il centrosinistra e ci fossero quattro candidati. Le differenze non sono solo quantitative, ma anche qualitative: è sembrato che nel 2021 si corresse per vincere, mentre nel 2025 si è corso per sopravvivere. Il secondo elemento che complica qualsiasi candidatura da sinistra è l’usura del governo di Gabriel Boric. Un altro cambiamento del 2025 rispetto al 2021 è che “la primaria della sinistra” è diventata “la primaria del governo” e qualsiasi candidatura vincente sarà la rappresentante dell’attuale esecutivo nel prossimo agosto. Il governo di Boric non è affondato nei consensi, tutt’altro, e a differenza degli ultimi governi Piñera e Bachelet ha mantenuto percentuali stabili fino alla fine del mandato. Il problema è che questi numeri non sono sufficienti, poiché si aggirano attorno al 30% dell’elettorato, più o meno la percentuale che lo sostenne al primo turno nel 2021. Per arrivare al ballottaggio, Jara dovrà inizialmente conquistare quel 30% da cui al momento è piuttosto distante. Nelle elezioni di ieri ha votato solo il 9% del corpo elettorale e la candidata comunista, con i suoi 800.000 voti, dovrà arrivare almeno a due milioni per avere possibilità di giocarsi il secondo turno. Non è impossibile, ma certo non sarà una passeggiata. Il terzo punto critico per la sinistra è un’agenda mediatica sbilanciata a destra, dove l’insicurezza e la lotta alla criminalità restano i temi dominanti del dibattito pubblico e le principali preoccupazioni dei cileni. Questi temi, come già nel 2021, continuano a penalizzare la sinistra, oggi anche considerata responsabile per non averli risolti durante il mandato. In questo contesto, le ricette securitarie e i discorsi della mano dura di Kast, Matthei o Kaiser risultano molto più in sintonia con il sentire comune e hanno maggiori possibilità di crescere rispetto a una sinistra che fatica ancora a trovare tono e proposte. L’unico lato positivo è che almeno la candidata non sarà l’ex-ministra dell’interno – Carolina Tohá – che avrebbe avuto molte difficoltà a convincere qualcuno di essere la soluzione per problemi che non è riuscita a risolvere nell’ultima legislatura. Nonostante uno scenario tutt’altro che promettente, ci sono tre elementi chiave che sono stati determinanti nella vittoria di Jara e su cui si può costruire una candidatura presidenziale vincente. Foto di Luca Profenna LE BUONE CHANCES Il primo è che Jara è l’unica candidata in grado di articolare, in qualche modo, un discorso anti-establishment. A differenza di Winter e Tohá, la candidata comunista è cresciuta in un quartiere popolare e ha una storia personale che può connettere con il cileno medio, evitando di essere percepita come parte dell’élite. Questo è fondamentale nel contesto cileno, dove il rifiuto delle élite è stato una costante negli ultimi anni. Questo rifiuto ha avuto espressioni tanto a destra quanto a sinistra, a seconda del momento politico, ma è presente dal estallido social [una serie di manifestazioni scoppiate in Cile, principalmente nella capitale Santiago, a partire dal 7 ottobre 2019, inizialmente contro l’aumento del costo del biglietto della metropolitana, ma ben presto estese alla protesta contro il carovita e la corruzione, ndt] del 2019. È stato presente nelle proteste contro il governo Piñera, nel rigetto di due proposte costituzionali e anche in un’elezione presidenziale in cui Boric riuscì a incorniciare il secondo turno come uno scontro tra “il nuovo e il vecchio”, che lo portò alla vittoria su Kast. Se Jara vuole vincere l’elezione dovrà in qualche modo cavalcare questo sentimento diffuso tra molti cileni. Avrà un’occasione, dato che i suoi principali avversari – Matthei, Kast e Kaiser – provengono da famiglie con generazioni alle spalle in posizioni di potere politico o militare. Il punto sarà capire se riuscirà a farlo in un contesto di forte distacco verso un governo di cui ha fatto parte attivamente. Il secondo elemento che favorisce Jara è che probabilmente è colei che meglio può sopravvivere al sentimento antigovernativo oggi prevalente in Cile. Tra tutte le misure adottate dal governo in questi quasi quattro anni, quelle uscite dal ministero di Jara sono state le più apprezzate dalla popolazione cilena. La riduzione della giornata lavorativa e l’aumento del salario minimo sono state tra le poche promesse che il governo Boric ha mantenuto in modo soddisfacente, insieme alla riforma delle pensioni, che pur se insufficiente, almeno indica una direzione. Dunque, se si tratta di difendere l’eredità del governo Boric, Jeannette Jara è probabilmente la più preparata a farlo e la meno esposta alle critiche sull’insoddisfazione verso l’esecutivo. Il terzo punto a favore di Jara riguarda il suo rapporto con il partito. Si è ripetuto fino alla nausea che la sua militanza comunista potrebbe condannarla al fallimento, ma Jara non è percepita come una comunista tipica. Il suo rapporto con il partito è stato molto teso negli ultimi mesi e la candidata si è notevolmente distanziata, senza però rompere del tutto con la cupola comunista. Jara ha dichiarato che chi «vince la primaria sarà la candidata di una coalizione ampia, non di un solo partito» e ha evitato di prendere posizione sugli orientamenti internazionali del partito in temi delicati come Cuba o Venezuela, questioni su cui Jadue perse terreno nelle passate primarie. L’ex-ministra del lavoro sa perfettamente che se sarà percepita come una comunista intransigente non avrà nessuna possibilità in queste elezioni, per cui negli ultimi mesi ha cercato di distaccarsi da quella immagine. La figura di Jara, quindi, non è quella di una militante comunista tradizionale, ma quella di una persona che, tanto per il suo percorso personale quanto per la sua traiettoria politica, può essere considerata a suo modo un’outsider – e questo, negli ultimi anni, ha avuto un certo valore nella politica cilena. Per molti, la nuova candidata ricorda più Bachelet per il suo carisma e la sua empatia nel rapporto con le persone, rispetto a una tipica candidata comunista; questo potrebbe aiutarla nelle prossime elezioni. Come detto, per Jara sarà una sfida molto difficile ed è bene essere consapevoli della realtà e non farsi troppe illusioni, nonostante la forza della sua vittoria. Tuttavia, la campagna delle primarie ha mostrato chiaramente – come già si era visto nel suo lavoro di governo – che è una persona capace di connettere con la gente e che ha delle qualità come candidata. Non sarà la candidata ideale, ma è senza dubbio di gran lunga, colei che meglio può rappresentare la sinistra tra coloro che possono (e vogliono) farlo. Articolo pubblicato originariamente in castigliano su El Salto Diario. Traduzione in italiano di Alessia Arecco per DINAMOpress Immagine di copertina di Voceria de Gobierno de Chile, 2022, da commons.wikimedia L'articolo Jeannette Jara: la prima comunista che guiderà la sinistra cilena proviene da DINAMOpress.
Le nuove forme della guerra e la pace che verrà: prospettive dalla Colombia
Le nuove forme della guerra, come le definisce l’antropologa argentina Rita Segato, non si limitano alle dispute territoriali o alle risorse, ma si concentrano sul controllo di popolazioni, corpi e soggettività: la guerra è, quindi, il linguaggio della dominazione assoluta. In queste nuove guerre, la crudeltà assume un valore simbolico e comunicativo, o come dice Segato, «espressivo», che produce effetti concreti nel contesto dell’occupazione territoriale. Con la privatizzazione dell’uso della violenza, gli effetti delle azioni di guerra restano al di fuori dei limiti della legge e questo spostamento consente agli attori armati di usare questa spettacolarità come una finestra privilegiata all’interno del campo che intendono occupare. L’impiego di droni pilotati a distanza e le riprese video dei loro risultati diventano azioni congiunte per instillare la paura: l’aria trema in un’atmosfera rarefatta. > La guerra si trasforma così in un’industria che combina i progressi della > conoscenza scientifica con l’esercizio del potere per occupare un territorio. > I suoi attori contemporanei hanno trasformato la violenza armata in una merce > in vendita nella quale i corpi, soprattutto quelli dei giovani marginalizzati, > sono sacrificabili (la necropolitica). Nel quadro della cosiddetta “guerra alla droga”, i cartelli del narcotraffico operano come multinazionali che subappaltano a piccole agenzie criminali i loro lavori più sporchi: dagli omicidi mirati alle operazioni logistiche, tutto è affidato a giovani precari che scelgono la violenza come un ordine dall’alto. Le trame della guerra si intrecciano con le rendite fondiarie e in questa logica la forza motrice è l’accumulazione: un desiderio che oggi sembra inesauribile e che contraddice la finitezza della vita stessa. In Colombia, possiamo vedere chiaramente come la violenza armata, un tempo considerata motivata politicamente, sia stata sostituita da nuovi sistemi di guerra locale in cui attori armati hanno creato una serie di frontiere interne nelle quali si regolamentano corpi, si confinano popolazioni e si compiono omicidi mirati. Allo stesso tempo, l’economia della rendita del narcotraffico permea la maggior parte delle attività quotidiane e il controllo sui corpi è imposto tramite rigidi codici della strada. I territori occupati dagli attori armati funzionano come governi privati indiretti, governati dalla forza e dal controllo dei profitti derivanti da attività legali e illegali, operando come filiali del grande capitale che nasconde i propri profitti tra il sistema bancario e i nuovi fenomeni di investimento di capitali. > Il governo di Gustavo Petro ha ragione a proporre una strategia per far fronte > alla dinamica di queste nuove forme di guerra. La pace totale, con i suoi > successi e fallimenti, deve consolidarsi come politica statale che affronti > queste dinamiche di frontiere interne e di scontro per il controllo dei > proventi illeciti. La pace che verrà deve interrompere la circolazione di questi proventi, trasformando le condizioni di queste migliaia di giovani assoldati per combattere una guerra che avvantaggia solo i grandi narcotrafficanti. Per consolidare questa pace, è necessario pacificare e ridurre le violenze, trasformare i territori in modo che nessun giovane scelga la guerra e consolidare la collaborazione tra istituzioni statali e organizzazioni della società civile per destabilizzare le economie che il narcotraffico ha costituito nel corso di decenni. La sicurezza territoriale è un elemento fondamentale del futuro processo di pace e non può limitarsi alla presenza di forze militari nei territori. Piuttosto, deve essere concepita all’interno delle trasformazioni che rendano possibile la pace come risultato di azioni concrete e durature. Per garantire che queste trasformazioni siano sentite dalla cittadinanza, è necessario consolidare un orizzonte futuro in cui nessuna vita sia sacrificabile. Il prossimo processo di pace deve essere concreto e può essere promosso soltanto sotto l’egida di una società civile che comprenda la natura complessa di questi nuovi regimi di guerra. Articolo pubblicato dall’autore, dottore in Filosofia, Universidad de los Andes, co-fondatore di REC-America Latina, professore universitario e consulente, sul sito del Centro Ciam. Ringraziamo per la disponibilità alla traduzione e pubblicazione in italiano. Traduzione a cura di Michele Fazioli per Dinamopress. Immagine di copertina di Alioscia Castronovo (Street art di Colectivo Dexpierte, Casa de La Paz La Trocha, Bogotá) L'articolo Le nuove forme della guerra e la pace che verrà: prospettive dalla Colombia proviene da DINAMOpress.
Condanna a Cristina Kirchner in Argentina in corso uno svuotamento della democrazia
Due settimane fa, il 10 di giugno, è arrivata la sentenza definitiva della Corte Suprema argentina, senza dibattito pubblico, per il processo denominato “Causa Vialidad”, in cui l’ex presidente Cristina Fernández de Kirchner è stata condannata a sei anni di carcere (poi trasformati, il 17 giugno, in reclusione domiciliare) con l’accusa di corruzione e alla proscrizione politica a vita (vero obiettivo politico del processo). Una manovra politica del potere giudiziario (e della destra) che aveva come intento, ormai da diversi anni, di eliminare l’ex presidente dallo scenario politico argentino, a poche settimane dalle elezioni dove Cristina era candidata. In questo modo è stata colpita, con accuse non dimostrate e con centinaia di irregolarità nel processo che ha portato alla condanna, la principale figura dell’opposizione e leader del peronismo (tra le questioni, il fatto che il procuratore generale e il giudice della causa fossero molto vicini all’ex presidente di destra Mauricio Macri, come testimoniato dalle foto pubblicate dal quotidiano Pagina 12 che li ritraggono mentre giocavano a calcio assieme nella villa di quest’ultimo). Una evidente e chiara manovra di lawfare, come accaduto con Lula in Brasile, necessaria per disarticolare forme di opposizione alle politiche neoliberiste con il beneplacito del Fondo Monetario Internazionale e del governo Milei, che stanno devastando le condizioni di vita e dei diritti sociali e del lavoro in Argentina. Al di là del giudizio politico sull’operato dei diversi governi kirchneristi, peronisti e progressisti in Argentina, questa condanna è un precedente gravissimo, che segna una nuova tappa della persecuzione politica e della crisi della democrazia in Argentina. Nelle scorse settimane in America Latina vi sono state importanti manifestazioni di solidarietà da parte di presidenti, partiti e movimenti politici a Cristina, e in Argentina, in più di una occasione, migliaia di persone sono scese in piazza, bloccando strade ed autostrade e marciando fino alla Plaza de Mayo, per chiedere la libertà di Cristina e l’annullamento della proscrizione politica [ndr]. La sentenza contro Cristina Fernández de Kirchner segna una proscrizione che, attraverso Cristina, è anche la proscrizione stessa della possibilità di opposizione politica all’interno del sistema istituzionale. In questo senso rappresenta un nuovo punto di svolta nella forma di governabilità strutturata dall’estrema destra al potere. Dobbiamo leggere in questa sentenza, di fatto, una modalità di annullamento della forma democratica elettorale, che esprime una profonda disinibizione del potere economico concentrato, al punto da decidere di fare a meno del regime politico liberale. L’ordine politico non si distingue più dal blocco di potere: coincide con l’assetto di un sistema d’affari monopolizzato da pochi settori della rendita (finanziaria, estrattiva e immobiliare) che non ha più bisogno di spazi di negoziazione. Ci sono prove più che sufficienti dell’influenza della Camera di Commercio degli Stati uniti, del FMI (Fondo Monetario Internazionale) e della calorosa accoglienza — come si suol dire — da parte dei mercati alla sentenza. Quella che in un testo collettivo abbiamo definito la “geopolitica del testo della condanna” è proprio questa, e si completa con la celebrazione di Milei da Israele, nel bel mezzo del genocidio contro il popolo palestinese. Sappiamo che la democrazia, nel contesto del capitalismo, sopravvive sempre grazie al mantenimento di settori della popolazione in condizioni non democratiche. Ma la democrazia, riaperta di volta in volta come terreno di conflitti molteplici, rappresenta lo sforzo di contrastare e rendere illegittime e intollerabili quelle situazioni. Con le destre estreme al governo, però, questo non è più così: sono proprio loro a radicalizzare l’indistinzione tra economia e politica e, di conseguenza, a fare a meno delle condizioni democratiche del conflitto. Proprio per questo, questa congiuntura non può avere una pura risoluzione elettorale, cioè non si può passare immediatamente a discutere di riorganizzazione delle correnti interne o delle liste, normalizzando o sorvolando sul significato profondo della proscrizione contro Cristina Fernández de Kirchner. Persino la strategia, di cui si vocifera, del voto bianco o dell’astensione — richiamandosi a tattiche storiche — rischia, in assenza di un’organizzazione dell’opposizione che prenda sul serio la drammaticità di quanto sta accadendo, di essere anch’essa assorbita in un tatticismo elettorale frammentato e dispersivo. I segnali di questo svuotamento democratico ci sono — e da tempo, naturalmente. Alcuni esempi: i risultati elettorali modesti dei partiti di governo che, ciononostante, non ne intaccano né il potere né l’iniziativa politica; oppure l’astensionismo crescente, che non suscita interrogativi profondi sulle ragioni del disaffezione generalizzata verso il voto. È necessario — e non solo come richiamo formale — iscrivere questa sentenza nella sequenza che ha incluso il tentato omicidio ai danni di Cristina Fernández de Kirchner di tre anni fa. Non solo per il nesso, sottolineato dai titoli dei media, tra il proiettile e la condanna. Ma come allerta rispetto a come quella situazione sia stata banalizzata all’interno del sistema politico e di fatto svalutata. Lo dimostra lo stato in cui versa oggi l’indagine. > Che altro può accadere? Tutto dipende da ciò che succederà nelle strade, nei > blocchi stradali, negli appelli allo sciopero, in ogni azione capace di > interrompere la normalizzazione di questo fatto, di contrastare l’assorbimento > di questo nuovo punto di svolta nella velocità della congiuntura e nella crisi > economica che governa imponendo l’emergenza quotidiana. Il compito di costruire una confluenza tra i settori in conflitto — che sappiamo non essere soltanto quelli organizzati: sono anche famiglie, pazienti, vite disgregate dalla precarietà, esistenze a rischio per il livello di violenza classista, machista e razzista che si vive quotidianamente — trova nella strada un luogo insostituibile. La lotta delle persone pensionate, la convocazione trasversale del 4 giugno — in occasione dei 10 anni di Ni Una Menos — da parte dei transfemminismi insieme a lavoratorə della sanità, dell’istruzione, dei diritti umani, del movimento per l’emergenza nella disabilità, delle tifoserie antifasciste, è stato un esercizio fondamentale, che in un certo senso si è ripetuto anche mercoledì scorso. Ma non è affatto chiaro in che modo quella composizione, quell’articolazione e quell’incontro possano assumere forme efficaci di deliberazione, decisione e accumulo di forza. La domanda è: come costruire quell’intreccio? Questa è un’interrogazione decisiva, soprattutto di fronte all’assenza di altre istanze (un tempo rappresentative) che si assumano questo compito. Il sistema politico, da parte sua, imbocca una scorciatoia: ridurre la piazza a una mera strategia elettorale, scartandone la capacità di portare fino in fondo le domande su come si siano consolidate le condizioni che rendono possibile un simile livello di crudeltà, di angoscia e di odio di fronte all’impoverimento accelerato. La stessa Cristina, negli ultimi discorsi, ha cominciato a dire che così non si potesse andare avanti, che questo modello non avrebbe retto (il calcolo, fino a poco tempo fa, era di arrivare al 2027, ma sembra che ormai nemmeno quello sia sostenibile). In altre parole, il ragionamento è che la tenuta fondata su un indebitamento fuori controllo, su cui il Governo ha puntato tutto, è insostenibile. Non sappiamo se questo modo di garantire redditività ai settori concentrati — che con ogni probabilità fornirà anche risorse alla stessa macchina elettorale che sostiene La Libertad Avanza, come ha già chiarito il FMI — non sia già, in sé, una forma di durata: una permanenza costruita su una velocità che rinuncia a qualsiasi calcolo del rischio. Ancor meno si sa valutare quanto incida, su questa resistenza, lo sforzo quotidiano di sopravvivenza che sostengono milioni di persone di fronte all’inflazione, alla perdita di reddito, agli aumenti incontrollati dei prezzi e alla caduta in condizioni disperate. È proprio questa energia che chiaramente non viene presa in considerazione quando, da certi analisi politiche colpevolizzanti, si afferma che dovrebbe esserci più gente in strada, più protesta, più indignazione. Il dilemma del “resistere” è, quantomeno, bifronte. È evidente quale strategia sostenga non solo il Governo, ma un intero regime politico che sembra aver abbandonato, più che mai, ogni pretesa di legittimità. Resta da vedere come questo cambiamento nelle coordinate politiche si innesti in una società simultaneamente esausta e in movimento in molteplici forme. Articolo pubblicato su eldiarioar.com. Traduzione in italiano di Alessia Arecco per DINAMOpress. L’immagine di copertina è di Juan Valeiro da lavaca.org, che ringraziamo per la gentile concessione. SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Condanna a Cristina Kirchner in Argentina in corso uno svuotamento della democrazia proviene da DINAMOpress.
Primo maggio a Bogotá: dalla Minga indigena alla Consulta Popular
La giornata di mobilitazione e di lotta in tutto il paese è stata dedicata alla rivendicazione popolare di una maggiore giustizia sociale per lavoratori e lavoratrici ed è stata la seconda grande mobilitazione a sostegno della Consulta Popular, referendum propositivo sui temi dei diritti del lavoro, proposto dal presidente Petro dopo il blocco del Congresso alla proposta di riforma del lavoro, che è stata bocciata dalla Commissione Settiman del Senato lo scorso 18 marzo, durante una moltitudinaria mobilitazione sociale. Le mobilitazioni per i quattro anni dall’estallido social, a partire dello sciopero e delle manifestazioni del 28 aprile 2021, si sono tenute alla vigilia del primo maggio, per ricordare le 89 vittime di quelle proteste sociali, le centinaia di vittime di ferite oculari, di violenza della polizia e delle forze militari, per richiedere la libertà di chi ancora si trova in carcere, per chiedere verità e giustizia. Ed in continuità, per rivendicare le ragioni di quella protesta che è stata fondamentale per aprire un processo di cambiamento poilitico nel paese. * * Nei giorni precedenti al primo maggio, si è tenuta inoltre a Bogotá la Minga Indigena, ospitata dall’Università Nacional, dove nonostante le polemiche razziste dei media mainstream e delle destre, i popoli indigeni sono stati ben accolti, come confermano gli interventi pubblici del rettore Leopoldo Múnera Ruíz, della vicerettrice Carolina Jiménez, e di diversi docenti e studenti. Ma soprattutto, l’atmosfera che si respirava nel campus universitario, tra cucine comunitarie, assemblee, conferenze stampa, riunioni, musica e feste, è stata quella di un importante momento politico che coinvolgeva sia i popoli indigeni che il mondo universitario. L’Università ha concesso le facoltà e gli spazi del campus per l’accoglienza di oltre cinquemila persone appartnenti a decine di popoli indigeni provenienti da tutto il paese che hanno animato e partecipato alle giornate di assemblee, mobilitazione, musica, feste e rituali popolari, e diversi momenti di incontro e negoziazione politica con il governo, che si sono tenute dal 29 aprile fino al 2 di maggio. Decine di chivas, i camion coperti utilizzati per gli spostamenti dei popoli indigeni, sono partiti dalle regioni più diverse e lontane del paese, e sono arrivate dopo diversi giorni di viaggio fino alla capitale, montando un accampamento, le cucine popolari e inventando nuovi spazi per la musica e le assemblee dentro l’università. Tra le organizzazioni che hanno organizzato la Minga e partecipato alle mobilitazionie il Consejo Regional Indígena del Cauca (CRIC), il Movimiento de Autoridades Indígenas de Colombia (AICO), la Organización Nacional Indígena de Colombia (ONIC), la Organización Nacional de los Pueblos Indígenas de Colombia (OPIAC) e la Confederación Indígena Tayrona (CIT). Le rivendicazioni della Minga Indigena riguardavano diversi temi, e gli accordi sono stati raggiunti dopo tre intense giornate di negoziazione in piazza e al Congresso: si tratta dello sblocco dei fondi per il Buen Vivir, il riconoscimento del Sistema autonomo di educazione indigena, il riconoscimento del Sistema di salute indigeno, con finanziamenti statali, e dei processi di riconoscimento dei Cabildos urbani, lo sblocco dei fondi per la reincoporazione e reintegrazione dei popoli indigeni, e l’sitituzione di fondi speciali per crisi umanitaria in Guajira e in Amazzonia. * * La Minga si è poi unita alle manifestazioni popolari del Primo Maggio, e nella capitale il corteo è partito dall’Università, con delegazioni di decine di popoli indigeni di tutto il paese che hanno raggiunto la Plaza Bolivar, con centinaia di migliaia di persone che hanno affollato i sette cortei che hanno attraversato le strade della capitale, così come di tante altre città in Colombia. > Alla moltitudinaria manifestazione hanno partecipato decine di organizzazioni > sindacali, movimenti sociali, popoli indigeni, partiti di sinistra, studenti e > studentesse, lavoratrici e lavoratori delle economie popolari, confluendo > sulla centralissima Plaza de Bolivar, dove il presidente Petro ha tenuto il > suo discorso in una piazza gremita di manifestanti. Attaccando le destre per le responsabilità del paramilitarismo e del terrorismo di Stato, per l’assenza di diritti sul lavoro e le giornate infinite, i contratti super precari, l’assenza di garanzie, di pensione, di accesso alla salute per milioni di persone in Colombia, eredità del peggiore neoliberismo e della violenza statale e paramilitare degli ultimi decenni: le riforme del lavoro e della salute, proposte dal governo sulla base del voto popolare, sono state però fermate dal Congresso, dove la coalizione di governo non ha la maggioranza. Per questo la Consulta Popular, ufficialmente proposta in Senato lo stesso primo maggio, subito dopo la manifestazione e il discorso del presidente in piazza, rappresenta la possibilità di riaprire la contesa politica, e la campagna elettorale in vista delle prossime elezioni del 2026, a partire dalle riforme per la giustizia sociale. * * Si è tenuto poi un commovente minuto di silenzio per Alberto Peña, leader delle lotte per i diritti umani e militante di Colombia Humana, partito politico da cui proviene il presidente, assassinato nella stessa giornata del primo maggio da gruppi armati paramilitari mentre stava facendo campagna per la Consulta Popular nella regione del Cauca, poco prima di raggiungere il corteo del primo maggio nella sua città. «Non possiamo tornare al terrorismo di Stato e alle fucilazioni e alle fosse comuni, come duranti i governi di Uribe», ha detto il presidente Petro dal palco, accusando senatori delle destra della responsabilità politica di questo assassinio per aver bloccato la riforma. Dopo aver ricordato il militante per la pace e i diritti umani assassinato poche ore prima, Petro ha invitato lavoratori e lavoratrici, popoli indigeni e movimenti di tutto il paese a mobilitarsi per la Consulta Popular, sguainando poi sul palco la spada di Bolivar in per rivendicare il potere popolare e la giustizia sociale. * * «Come può essere che nel ventunesimo secolo ancora dobbiamo lottare per la giornata lavorativa di otto ore? Chi vota contro la riforma è uno schiavista» ha detto il presidente accolto dall’ovazione della piazza. Limitare la giornata lavorativa a 8 ore, è infatti uno dei dodici punti della Consulta Popular, assieme all’aumento del salario nei giorni festivi, il riconoscimento del lavoro comunitario e di cura, all’approvazione di migliori tassi di interesse per le piccole e medie imprese e le economie popolari, il riconoscimento di una licenza dal lavoro durante il periodo mestruale, l’inclusione di lavoratori e lavoratrici diversamente abili come quota obbligatoria per tute le imprese, il riconoscimento generalizzato dell’accesso alla sicurezza sociale e ai contributi per le pensioni, speciali garanzie dei diritti per il lavoro e accesso ai contributi pensionistici nel mondo dell’agricoltura, limitazione delle contrattazioni precarie, il riconoscimento delle lavoratrici domestiche e un fondo pensione specifico per chi svolge lavori domestici, comunitari e precari. «Siamo disposti a compiere il mandato popolare senza fare nessun passo indietro, perché camminiamo verso la libertà. Con questo governo, il popolo può decidere con la Consulta Popolare quali siano i suoi interessi e le sue necessità», conclude Petro in una piazza gremita che canta «¡No pasarán!» e «¡Consulta Popular ya!». Il Senato si dovrà pronunciare nelle prossime settimane per approvare la Consulta Popular, e sono in gioco alleanze, negoziazioni e tensioni politiche: non permettere il voto della Consulta sarebbe un ennesimo blocco politico contro il governo, approvarla significa aprire un semestre di campagna politica e mobilitazione sociale in vista del voto, pochi mesio prima delle elezioni presidenziali del 2026. * * Un primo maggio moltitudinario che ha segnalato la continuità, e la potenza, del processo di mobilitazione sociale e politica in Colombia, decisivo per le prossime sfide politiche in un contesto politico globale e regionale avverso, con l’avanzata del blocco reazionario, testimoniato dalle recenti elezioni in Ecuador, in un quadro di instabilità e di tensione politica che attraversa anche il paese in un momento decisivo per la possibilità di continuità del progetto politico progressista e di sinistra in Colombia. Tutte le immagini e i video sono di Natalia Hernandez Fajardo e Alioscia Castronovo da Bogotá per DINAMOpress L'articolo Primo maggio a Bogotá: dalla Minga indigena alla Consulta Popular proviene da DINAMOpress.
Ecuador, Noboa eletto presidente in un paese travolto dalla violenza
«Questo paese è in stato di choc collettivo. Non ha gli anticorpi per coabitare, affrontare, proteggersi dalla tremenda ondata di violenza che lo ha travolto in pochi anni»: con queste parole commentavamo la situazione in Ecuador con Carlos Beristain, medico e dottore in psicologia sociale, già consulente della Commissione per la Verità in Colombia, e sui fatti di Ayotzinapa in Messico, stretto collaboratore e giudice del Tribunale Permanente dei Popoli, incontrato a Quito poco più di un anno fa. Da pochi mesi si erano tenute le elezioni anticipate che portarono a Palazzo Carondelet un giovane tycoon di Guayaquil, Daniel Noboa, outsider asceso al potere sull’onda lunga dell’assassinio di un altro candidato, Ferdinando Villavicencio, da parte della criminalità organizzata al soldo dei narcos.   Allora la vittoria di Noboa era stata accompagnata da quella di segno diametralmente opposto della consultazione popolare per non estrarre petrolio dalle viscere del Parco Yasuni e per impedire l’estrazione mineraria nelle foreste del Chocó Andino, nel distretto metropolitano di Quito. Era come se si fossero materializzati due paesi, distinti, politicamente ed ontologicamente. La candidata della Revolución Ciudadana Luisa Gonzales perse al ballottaggio, e per l’ennesima volta il partito fondato dall’ex-Presidente Rafael Correa in esilio in Belgio non riuscì a tornare a Palazzo. Da allora, la situazione nel paese è andata peggiorando nonostante le boutade di Noboa, che dichiarò nel gennaio dello scorso anno lo stato di conflitto armato interno, dispiegando i militari nelle strade e piazze del paese e annunciando la costruzione di due supercarceri, tentando di emulare Bukele, anche se grazie alla resistenza dal basso dovette abbandonare almeno uno dei due progetti in Amazzonia. Venne anche annunciato un non meglio definito piano Fenix per la sicurezza interna che non ha sortito effetti di rilievo. A riprova di ciò il fatto che il numero di morti uccisi per mano criminale o dello Stato da allora è aumentato esponenzialmente. Nel solo febbraio del 2025 il numero di morti è salito a 736 con un incremento del 90% rispetto all’anno precedente (1.1 morti ammazzati ogni ora). Per contro si è registrata una pausa – seppur temporanea – nelle rivolte carcerarie, sanguinose e spietate, scoppiate per il controllo del territorio da parte di gang contrapposte di narcotrafficanti.   LA VIOLENZA TRAVOLGE IL PAESE Lo scontro tra bande ormai è alla luce del sole come dimostrano alcuni drammatici fatti di sangue, stragi tra bande rivali, quelle dei Los Lobos e dei Tiguerones, l’ultima delle quali la scorsa settimana, in un ring di combattimento di galli presso Santo Domingo dos Tsachilas nella quale hanno perso la vita 11 persone. La popolarità di Noboa era in caduta libera anche a fronte della manifesta incapacità di gestire la cosa pubblica, in mano a un governo di parvenus, provenienti dalla stretta cerchia di amicizie di questo rampollo figlio del ricco bananiere Álvaro Noboa, da una vita aspirante presidente del paese. > Il paese ha vissuto mesi di apagones, interruzioni continue e quotidiane > dell’erogazione di energia elettrica dovute alla assenza di piogge e scarsa > manutenzione delle grandi dighe che producono la maggior parte dell’energia, > con grande impatto sull’economia e che avevano portato gli ecuadoriani e le > ecuadoriane sull’orlo della disperazione collettiva. E poi la rottura delle relazioni diplomatiche con il Messico, importante partner commerciale, a seguito dell’attacco da parte di esercito e polizia all’ambasciata, dove si era rifugiato l’ex-vicepresidente correista Jorge Glas, accusato e condannato per corruzione. Un gesto che avrebbe messo Noboa ai margini delle relazioni diplomatiche continentali.   E come se ciò non fosse stato abbastanza, nei giorni scorsi il governo ha dichiarato di elevare il livello di sicurezza a causa di supposte minacce alla vita del presidente e di terrorismo, per mano di sicari provenienti dal Messico. Denunce seccamente smentite da Città del Messico. Così la violenza continua, sempre più efferata, sofferta silenziosamente da un popolo che ha perso l’innocenza, stretto tra la ferocia delle gang di narcos, e la violenza di stato, facile preda di istituzioni che non hanno alcuna considerazione della cultura e della pratica dei diritti umani. Quel che si temeva all’indomani della dichiarazione di conflitto armato interno, decisa da Noboa dopo un attacco da parte di giovani pistoleros a una stazione TV nel gennaio dello scorso anno, fatto mai chiarito in realtà, si è tragicamente verificato. Ph David C. S. Come nella Colombia di Uribe, si sono verificati casi di falsos positivos, chiunque portasse un tatuaggio o avesse la pelle scura diventava un obiettivo della polizia e delle forze armate. Uno dei tanti casi, quello senz’altro più efferato, l’esecuzione sommaria di quattro ragazzini afrodiscendenti (i quattro di Malvinas) presi per strada a caso da militari alla vigilia di Natale, uccisi e bruciati. Dalle istituzioni di governo reazioni ciniche, dal presidente solo l’annuncio ad effetto della loro nomina ad “eroi nazionali” mentre gli apparati dello stato tentavano invano di nascondere le responsabilità di militari e polizia. Nessun gesto invece da parte sua nel caso del massiccio sversamento petrolifero con conseguente disastro ecologico o in occasione delle alluvioni che hanno colpito duramente la provincia di Esmeraldas. Ciononostante, Noboa è entrato nell’immaginario, giovane millennial, con moglie di origine italiana, Lavinia Valbonesi, le sue sagome di cartone a grandezza naturale ovunque nel paese, nelle case, nei negozi. Un popolo in preda allo sbandamento, stordito, di un paese paralizzato fin dai tempi del COVID, diventa così terreno fertile per forme nuove di populismo. La sagoma di cartone è il presidente giovane, il nuovo che ti porti a casa, a tavola, il presidente che hai davanti ogni giorno. Non c’è bisogno di base sociale organizzata, ognuno ha un rapporto diretto, personale, quotidiano, con chi elegge. > Ed è proprio questo il primo fattore da tenere a mente: la violenza, la > criminalità, il disprezzo della vita umana, si sono trasformati in attore > politico, presenza inquietante e costante che determina seppur per default il > comune sentire, i bisogni indotti o effettivi del popolo, le sue aspirazioni o > necessità. Dove la parola svuotata di significato prende il posto della realtà dei fatti, al punto che il movimento-piattaforma elettorale di Noboa, ADN (Movimiento Acción Democrática Nacional) si professa “socialdemocratico” (sic!). Dove Tik-Tok prende il posto delle piazze e la disinformazione e le fake news dilagano, e le reazioni impulsive prendono il sopravvento su ogni pensiero critico.   DAL PRIMO TURNO AL BALLOTTAGGIO Si arriva così alle elezioni del febbraio scorso, con i sondaggi che davano un testa a testa tra Noboa e Luisa González, dati poi confermati dalle urne. I due così passano al ballottaggio in una situazione di empate técnico, di fatto un pareggio con un distacco a vantaggio del primo di poche decine di migliaia di voti. Finalmente il correismo pareva fosse riuscito a rompere il tetto del 30% al quale era rimasto confinato negli ultimi anni, sperando nella rimonta al ballottaggio. Gli altri partiti di destra e sinistra registravano percentuali dall’1 allo zero virgola per cento a parte la candidata Andrea González (del partito di Ferdinando Villavicencio e che avrebbe poi espresso sostegno a Noboa) e Pachakutik , il partito di riferimento della CONAIE, la Confederazione delle Nazionalità Indigene dell’Ecuador, forse uno dei movimenti sociali più solidi e longevi del continente, da sempre importante “player” nella vita politica del paese. Il candidato e presidente della CONAIE Leonidas Iza, leader indigeno della provincia del Cotopaxi, e di ispirazione marxista mariateguista, aveva conseguito il 5% dei voti totali, un pacchetto di 500mila voti di tutto rispetto, che ne avrebbe fatto ipoteticamente l’ago della bilancia tra i due candidati al ballottaggio. Quel pacchetto di voti non poteva comunque considerarsi di fatto in transito verso il sostegno a Luisa González, troppo difficile dimenticare la repressione contro i movimenti indigeni, sociali e ecologisti scatenata dall’allora presidente Rafael Correa, che li vedeva come ostacoli per l’espansione della frontiera estrattivista. > Ha avuto di fatto vita facile Noboa, nell’imporre la sua presenza e la sua > figura nella campagna verso il ballottaggio, puntando soprattutto su un > elettorato “over-65” in un contesto dove i principali media sono allineati, e > dove il presidente, con cospicui fondi a disposizione e violando apertamente > la Costituzione non ha lasciato il suo incarico alla vice per fare campagna > elettorale. Così ogni mossa a effetto fatta in campagna elettorale nella sua veste del Noboa presidente si sovrapponeva alla presenza pervasiva del Noboa candidato. La mossa di andare, a pagamento ma non invitato, alla cerimonia di insediamento di Trump e di nuovo a pagamento a un incontro alla Casa Bianca. La mossa di invitare al suo cospetto come consulente per la sicurezza il fondatore dell’impresa militare privata Black Water, Erik Prince, era da presidente ma anche da candidato. Eppoi il negoziato per concedere alle forze armate statunitensi due basi militari una alle Galapagos, l’altra a Manta, chiusa a suo tempo da Rafael Correa. Ogni dichiarazione da presidente aveva ampio spazio sulla stampa e l’elettore e l’elettrice non potevano più distinguere il presidente dal candidato. Questa e altre manovre hanno contribuito a porre Noboa su quello che gli analisti chiamano “piano inclinato” che avrebbe poi fatto la differenza al ballottaggio, più che una possibile ma non ancora verificabile frode, assieme ad altre mosse quali l’elargizione di buoni per le famiglie più povere, o meglio impoverite, o la distribuzione di magliette di colore viola (quello della sua campagna elettorale) ai pubblici funzionari. O l’uso di fondi pubblici con l’avallo da parte delle istituzioni competenti ad assicurare il rispetto delle regole elettorali. Da wikimedia Dall’altra parte, la candidata della Revolución Ciudadana continuava a rivendicare le grandi conquiste del passato, inanellando una serie di gaffes quali quella di prospettare, per bocca di alcuni esponenti di spicco del partito, la de-dollarizzazione del paese, proponendo la costituzione di brigate popolari che nell’immaginario collettivo evocavano i guardianes barriales chavisti, o dichiarando di voler espellere tutti i migranti venezuelani dal paese. > La mossa più significativa e controproducente di Luisa González è stata però > quella di firmare, da fervente evangelica, un documento promosso da > organizzazioni di estrema destra religiosa contro il “gender”, i diritti > LGBQT, e l’aborto. Del resto anche Rafael Correa da presidente aveva alzato le barricate contro una legge sull’aborto per stupro. Documento firmato anche da Daniel Noboa che nei mesi precedenti si era prodigato in una campagna senza esclusione di colpi contro la sua vice eletta Veronica Abad, fin da subito “bullizzata”, inviata senza scrupoli fuori dal paese in assoluto disprezzo per la legge e la costituzione. Che differenza ci sarebbe stata quindi tra i due, sul tema del patriarcato?  E questo vale anche per altre questioni quali il contrasto all’estrattivismo, con il primo che firma un accordo di libero scambio con il Canada per agevolare gli investimenti nel settore minerario, tenta di concludere in accordo con i cinesi per la più grande concessione petrolifera della storia, nel campo Sacha (poi fallita per l’opposizione dell’Assemblea Nazionale), e che mette ogni ostacolo possibile all’attuazione del mandato popolare su Yasuni e il Chocó Andino, e la candidata correista che incarna un passato del tutto simile? O sulla sicurezza quando a prescindere da quanto dicesse  riguardo alla necessità di affrontare le cause sociali che sono alla base della violenza, la candidata correista non esitava rincorrere Noboa sullo stesso piano arrivando a proporre a un ex-candidato presidenziale di destra ed ex-mercenario, Ian Topic, la poltrona di ministro degli interni mentre l’altro flirtava con l’altro mercenario Prince? > A nulla è valso anche l’accordo tra “sinistre” cotto prima della prima tornata > elettorale e mangiato a ridosso della seconda, dove si fissavano alcuni punti > programmatici sui quali Luisa si sarebbe poi impegnata, almeno in teoria, in > cambio dell’endorsement alle presidenziali. Endorsement poi arrivato dal Partito Socialista, e da Pachakutik, financo dai leader del movimento Yasunidos nonostante i pregressi con il correismo che li perseguitò cercando di annullare in ogni modo le firme raccolte per il referendum. Del movimento indigeno parleremo a breve, per ora basta sottolineare come gli ecuadoriani e le ecuadoriane abbiano seguito con un certo distacco le campagne elettorali dei due, ma sottotraccia l’elemento psicologico, quello della paura faceva il suo lavoro. Paura della violenza da una parte, paura del ritorno di Correa dall’altra, e il presidente che mostra il muso duro, dichiara di nuovo lo stato di emergenza prima dell’apertura delle urne e invoca l’Ecuador del domani. Il domani, via di fuga in avanti, il nuovo che avanza, messaggio efficace di deresponsabilizzazione del qui e ora. Noboa. Ph da Flickr NOBOA E LA “UR-POLITIK” Così milioni di ecuadoriani ed ecuadoriane incuranti della gestione disastrosa di Noboa, del suo distacco emotivo dal comune sentire, della sua estrazione profondamente oligarchica, del suo messaggio autoritario e conservatore –  altro che il nuovo che avanza, il paese del futuro –  si portano a casa la sua sagoma di cartone. Lo emulano, addirittura. Per le strade si vedono sempre più giovani con la sua pettinatura, la sua polo a maniche corte, i suoi occhialoni neri, il suo ghigno sprezzante. Salta ogni canale di analisi politica, l’ideologia della guerra e dello stato di eccezione permanente conducono inesorabilmente verso quella che potrebbe essere definita con un neologismo tedesco la “Ur-Politik”, politica allo stato primordiale, dove chi governa può farlo in assoluto sprezzo delle regole, dove la parola e la declamazione prendono il posto della realtà, dove vite incarnate che soffrono sulla loro pelle gli effetti devastanti della privatizzazione e del liberismo selvaggio alla fine scelgono di sostenere il loro carnefice.   Fece grande effetto qualche settimana fa un appello disperato di migliaia di malati di insufficienza renale che da un giorno all’alto stavano rischiando di morire per la mancanza di accesso agli strumenti per la dialisi. Ignorati dai loro governanti. E subito dopo l’annuncio della vittoria di Noboa, un video di una donna di una periferia diseredata del paese che ballava in estasi con la sagoma di cartone di Noboa, rotolandosi felice tra le acque di una strada inondata dall’ennesima alluvione. > Ecco quindi la “Ur-politik” che assieme alla paura, alla sua costruzione > scientifica, all’irrazionale, all’immedesimazione con la figura del capo, e > quel “piano inclinato” che più di una frode elettorale tutta ancora da > dimostrare, avrebbe fatto la differenza, determinando un risultato > assolutamente inatteso. Chiuse le urne, i numeri fin da subito parlavano di una vittoria schiacciante di Noboa che da poche decine di migliaia di voti di differenza passava a oltre 1 milione e 100mila. Mentre Luisa, pur tenendo la posizione nelle province a lei vicine nella costa e riconquistando il Guayas, non riusciva ad andare oltre il 44% della prima tornata. Importante poi il voto dei migranti da sempre bacino di consenso del correismo e ora nettamente a favore di Noboa. La prima reazione di Luisa González e di Correa è stata quella di denunciare una megafrode elettorale, smentiti però da alti dirigenti del partito, tra cui il sindaco di Quito Pabel Muñoz e quello di Guayaquil, ambedue sotto attacco e che vedono i loro incarichi a rischio, uno per una imminente raccolta di firme per la sua rimozione, l’altro per una denuncia per supposta corruzione, situazione ormai ricorrente nelle strategie di lawfare contro i rappresentanti correisti. Ed eccoci ora a cercare di sondare quanto accaduto con il pacchetto di 500mila voti di Leonidas Iza. Quando si stava prospettando la possibilità di un endorsement di Iza e di Pachakutik a Luisa González si aprirono immediatamente le prime crepe. Da una parte chi nelle comunità indigene prospettava il voto nullo, («tanto per noi da sempre la lotta è sempre la stessa a prescindere dai governi», era il mantra) e chi tra cui alcuni ex-dirigenti storici si dichiararono esplicitamente a favore di Noboa in chiave decisamente anti-correista. Così per salvare l’unità interna della CONAIE, Iza decise di non apparire formalmente accanto a Luisa González, mentre il partito di riferimento Pachakutik sì. Aperte le urne, si capì che la base indigena non ha seguito in massa le scelte del partito di riferimento, e l’endorsement non avrebbe fatto grande differenza per l‘esito finale. E per Luisa González a nulla è servito firmare l’appello antiabortista per cercare di attrarre il voto delle donne indigene. Da wikimedia QUALE SCENARIO PER LE OPPOSIZIONI? Cosa accadrà ora, quali le sfide nell’immediato per le opposizioni? Per il correismo senz’altro una necessaria e ormai improrogabile autocritica e la necessità impellente di sganciarsi dalla presenza ingombrante e controproducente del suo padre fondatore che da Bruxelles continua a dettare le condizioni, con risultati evidentemente fallimentari. Il dilemma è quello tra emancipazione dal “padre-padrone”, o implodere. Ci vorrà certamente un certosino di ricucitura con movimenti sociali ed ecologisti, indigeni, transfemministi e sindacali, possibile solo con una presa d’atto degli errori passati.   > Per Pachakutik l’urgenza di capire come la ridotta presenza parlamentare e il > lavoro nei territori possano ridare rappresentanza a chi non ha dato fiducia > alle scelte della dirigenza. Per la CONAIE, uscita malconcia da questa contesa elettorale e per il suo presidente Iza il cui mandato è comunque in scadenza (il congresso della CONAIE si celebrerà a fine anno), l’urgenza di rinserrare le fila, per potersi proporre come il pilastro imprescindibile per la riorganizzazione del conflitto e della resistenza. Che passerà attraverso due assi, quello della difesa della Costituzione, alla luce dell’annunciata intenzione di Noboa di lanciare una nuova Costituente (proposta paradossalmente fatta propria anche da Luisa González, visto che quella costituzione rappresenta la cornice legale e ideale della Revolución Ciudadana), e quello di sostenere la resistenza all’avanzata della frontiera estrattivista, mineraria e petrolifera nei territori. Questione che si preannuncia di immediata urgenza anche in vista di nuovi accordi che il neoeletto presidente dovrà stringere con il Fondo Monetario Internazionale a fronte di un calo del prezzo del petrolio, del crollo della produzione di circa 200mila barili al giorno e dell’imminente pagamento di una mega-multa di due miliardi di dollari per una causa persa contro la Chevron-Texaco. > Intanto il paese si avvia ad almeno 4 anni di governo di una destra coloniale, > liberista e oligarchica, uscendo forse definitivamente dalla logica > correismo-anticorreismo che ha permeato anche quest’ultima elezione, ma che > d’ora in poi cederà il passo a una nuova inedita fase nella storia del piccolo > paese andino, il “noboismo”. Che per affermarsi definitivamente dovrà scardinare la cornice di riferimento dell’Ecuador di ieri, la Costituzione di Montecristi, ostacolo alla privatizzazione e alla svendita del paese alle oligarchie e ai capitali internazionali, e baluardo della difesa dei diritti della natura, dei popoli indigeni, della giustizia sociale, del diritto sacrosanto alla resistenza. Non è un caso che subito dopo la vittoria di Noboa il rischio-paese sia calato di ben 500 punti e il mondo della finanza e dell’imprenditoria si sia affrettato a congratularsi con un presidente che garantirà loro la mano dura contro il conflitto sociale e condizioni agevolate per massimizzare il ritorno sui loro investimenti, o per espandere le loro attività di sfruttamento delle risorse naturali. Intanto compaiono nuove sagome di cartone nelle finestre, quelle di un Noboa non più candidato, ma Presidente con tanto di fascia con i colori della bandiera. Immagine di copertina di Presidencia Ecuador da Flickr SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Ecuador, Noboa eletto presidente in un paese travolto dalla violenza proviene da DINAMOpress.