Come ti ripulisco l’immagine del poliziotto: Polizia Ferroviaria al Magicland
Il 21 maggio 2025 nella Disneyland “de noantri”, MagicLand, dove il divertimento
dei piccoli è giusto accanto a quello dei loro genitori, cioè l’Outlet di
Valmontone, si è tenuta una delle due giornate della fiera delle guardie, lo
“School-Day” (21 maggio e 5 giugno): accanto a montagne russe, castelli
incantati e giardini degli orrori, hanno stazionato almeno una trentina di mezzi
delle varie forze dell’ordine coi lampeggianti rigorosamente accesi.
Tra questi, ad attirare genitori e figli, spiccava, facendo bella mostra di sé
all’ingresso del parco, la “Pantera” della Lamborghini, diventata nota più che
per quei dieci viaggi a tutta birra all’anno per portare organi da trapiantare,
per aver dato un passaggio alla befana poliziotta che rendeva visita, calze alla
mano e pistola nella fondina, ai bambini malati oncologici del Policlinico
Gemelli di Roma.
Col processo di militarizzazione in atto, sociale, culturale e pedagogico, gli
stand che fanno propaganda e a tempo perso, anche una qualche forma di
educazione, sebbene con un approccio basato sempre sulla deterrenza e
repressione, non ci sorprendono più di tanto. Uno di questi però, ha attirato in
modo particolare la nostra attenzione, perché era targato Polizia Ferroviaria:
cosa ci faceva una specializzazione della polizia così residuale all’interno di
un evento che pretendeva goffamente di essere educativo? Nulla! O, meglio, le
indicazioni banali, ridondanti ma soprattutto inutili, perché rivolte ad un
pubblico di bambin3 della primaria che notoriamente non vanno in stazione e
prendere il treno da soli, avevano in realtà uno scopo sotterraneo più che
valido e tutto a favore delle forze dell’ ordine (e di repressione).
La risposta del poliziotto alla nostra obiezione che chiedeva conto del motivo
per cui, invece di chiamare un capostazione o un ferroviere, per parlare appunto
dei pericoli nell’attraversare i binari oppure la striscia gialla all’arrivo del
treno o di buttare bottigliette dal finestrino, non ci ha convinto: «È proprio
grazie alla nostra costante sorveglianza – ci ha spiegato, infatti, con non
molta convinzione il poliziotto – che non accadono incidenti».
In realtà, questa presunta costante ed attenta presenza della Polfer lungo le
banchine dei treni non ha impedito, per esempio nel 2019, a 165 persone di
suicidarsi e a 176 di farlo due anni prima. In realtà, la spiegazione va
ricercata andando a ripescare i fatti accaduti il 20 ottobre dell’anno scorso
nei pressi della stazione Porta Nuova di Verona. Il ventiseienne Moussa Diarra,
originario del Mali, venne raggiunto da tre proiettili tutti sparati ad altezza
d’uomo, di cui uno fatale in pieno petto. La tragica storia di Mussa iniziava a
dieci anni prima, con l’odissea di un viaggio che passando dall’inferno della
Libia lo portò a Lampedusa. Da lì è stato tutto un susseguirsi di atrocità
burocratiche di tipo kafkiano, fatto di permessi di soggiorno che scadevano poco
prima di essere ritirati negli uffici della questura e tanti altri percorsi ad
ostacoli fino ad arrivare a uno stato di esaurimento nervoso che lo portò quel
giorno ad aggirarsi per ore a partire dall’alba in preda ai deliri.
A nessuno venne in mente di chiamare un’ambulanza, ma in compenso qualcuno
dimenticò di riparare proprio quelle telecamere che avrebbero potuto inquadrare
la tragica scena in modo adeguato. Il giorno dopo si assistette ad un capolavoro
inedito delle istituzioni poliziesche e giudiziarie della città scaligera: un
comunicato stampa congiunto, Procura-Questura che attribuiva in tempi record le
cause dell’accaduto ad una legittima difesa a causa di un’aggressione con arma
da taglio.
La Procura di Verona affida le indagini alla Polizia di Stato per indagare su
fatti commessi dalla Polizia di Stato. Per fortuna, il caso che da subito si
preannunciava ad altissimo rischio di insabbiamento, è stato preso in carico,
sul versante della difesa, da Fabio Anselmo, l’avvocato, tra gli altri di
Stefano Cucchi, Federico Aldovrandi e Giuseppe Uva.
L’immarcescibile teoria delle “poche mele marce”, quindi, passa anche attraverso
l’indottrinamento delle piccole menti, fortemente ricettive, di bambine e
bambini, soprattutto se immerse in un contesto ludico e coinvolgente come quello
di un parco giochi all’americana come MagicLand.
Stefano Bertoldi, Osservatorio contro la militarizzazione delle Scuole e delle
Università