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Antonio Minaldi a Firenze: il potere o la liberazione
Antonio Minaldi ha concluso a Firenze il suo giro di presentazioni dei suoi libri. Qui allo Spazio Tutto e Uno ha dialogato con Gloria Germani e Giuliana Mieli sul suo ultimo libro Gandhi ad Auschwitz, elogio della nonviolenza (e sue problematiche) recentemente uscito con Multimage. Minaldi ha precisato subito che non si tratta di un testo su Gandhi ma piuttosto di quattro saggi scritti in momenti diversi che vogliono testimoniare il suo percorso biografico che lo ha portato da posizioni vicine alla lotta armata negli anni ’70 fino alla scelta etica della nonviolenza. Il problema del movimento rivoluzionario classico (marxista-leninista) era quello della presa del potere – ha continuato Minaldi nella sua esposizione – : prendendo il potere si poteva poi occuparsi di costruire l’uomo nuovo. Questo modello entra in crisi negli anni ’70, soprattutto grazie al movimento femminista, quando la questione si sposta sull’idea di liberazione: i gruppi di autocoscienza, la contestazione delle gerarchie maschiliste, la nonviolenza come principio etico. L’essere umano deve liberarsi individualmente e collettivamente per produrre una vera rivoluzione A partire da queste stimolazioni dell’Autore si è sviluppato un dibattito molto interessante tra i relatori e il pubblico sull’efficacia della nonviolenza, la visione dell’Essere Umano, la crisi attuale, la contrapposizione tra la visione orientale collettiva e quella occidentale individualista. Redazione Toscana
Al bivio tra violenza e non violenza
Antonio Minaldi è un autore assai prolifico, scrive con fluidità e riesce a catturare i suoi lettori. Inoltre, nei suoi scritti troviamo una grande passione etica e politica sicuramente da apprezzare. Nel caso di questo libro “Gandhi ad Auschwitz. Elogio della nonviolenza e le sue problematiche”, Antonio ripercorre la sua vicenda umana e in particolare la sua partecipazione agli eventi politici a partire da 1968 fino ai ai nostri giorni. È abbastanza normale che qualcuno, protagonista di importanti vicende storiche, senta la voglia di raccontarle e di trasmettere la sua esperienza in modo che gli altri, soprattutto i giovani, ne possano ricavare qualcosa di buono. Dicevo il libro costituisce un elogio del pacifismo ed ovviamente non sarò certo io a non condividere tale atteggiamento, però nello stesso tempo Antonio riconosce che ci sono una serie di problematiche inerenti ad esso. Illustrerò prima brevemente il contenuto del libro e poi farò una serie di considerazioni, che si fondano su quanto è anche  stato scritto da Antonio e che riguarda la relazione tra pacifismo e contesto storico. Il pacifismo di Antonio è il frutto di una sorta di ripensamento. Racconta che quando ha cominciato a fare politica era convinto che, per cambiare il sistema sociale nel quale viviamo, fosse opportuno un atto rivoluzionario, il quale in un modo o in un altro inevitabilmente implicasse una qualche forma di violenza. Oggi dichiara di aver abbandonato questo presupposto condiviso da molti, ma bisogna dire non da tutti coloro che si collocano nei cosiddetti movimenti di sinistra. Si potrebbe affermare che il mondo di sinistra è estremamente sfumato e presenta tendenze contraddittorie. Per esempio, soddisfatto dalla forza raggiunta dal Partito Socialdemocratico tedesco, Engels giunse ad ipotizzare che sarebbe stato anche possibile arrivare ad un ribaltamento sociale attraverso una vittoria elettorale, proponendo quindi una prospettiva riformista. Inoltre, inizialmente, i socialdemocratici tedeschi si opposero alla Prima guerra mondiale per poi capitolare tristemente, mentre Karl Liebnecht e Rosa Luxembourg pagarono con la vita il loro antimilitarismo.  Purtroppo la storia ci ha insegnato che le vittorie elettorali non sono sufficienti a sostenere un cambiamento radicale della società, perché le forze sconfitte possono facilmente tornare alla ribalta. Basti pensare alle vicende cilene e al tragico colpo di Stato contro il governo Allende. Qualcosa di simile sta accadendo proprio sotto i nostri occhi con l’attacco statunitense al Venezuela, scatenato dal signor Trump che sta addirittura violando la legge degli Usa, perché  sta intraprendendo azioni militari senza aver consultato il Congresso. Ma torniamo al libro di Minaldi e a Gandhi. In primo luogo Minaldi mette in discussione un’opinione abbastanza comune, secondo la quale la nonviolenza vince, quando ormai la vittoria è scontata, come nel caso dell’India o nel caso di Martin Luther King da lui citati. In realtà si potrebbe dire che in India non vinse la nonviolenza: Gandhi stesso fu ucciso e i conflitti tra le diverse componenti etniche sono stati sanguinosi e non si sono ricomposti. Per Antonio la nonviolenza costituisce un principio etico quasi inerente alla nostra stessa natura di esseri umani, ossia esseri sociali e cooperativi, i quali proprio per questa caratteristica sviluppano comportamenti solidaristici nei confronti dei loro simili. Minaldi sostiene che a partire dall’Olocene  (11.700 anni fa) con la cosiddetta Rivoluzione agricola l’uomo avrebbe imposto il suo dominio sulla natura, e in questo modo si sarebbe affermata quello che lui chiama il dominio dell’uomo sulla natura e sugli altri. A suo parere questo costituisce il filo rosso che attraversa tutta la storia umana. Si potrebbe osservare che, già nel momento in cui l’uomo era cacciatore e raccoglitore, già esercitava una sorta di potere sulla natura, in quanto si appropriava dei suoi frutti per riprodursi. Ma qual è la differenza tra la violenza presente nella società capitalistica e la violenza precapitalistica? L’economista Robert Gordon sostiene che dal 1300 al 1700 non c’è stata nessuna crescita economica, mentre a partire dalla Rivoluzione industriale fino al 1950 la crescita è stata straordinaria con conseguenze dirompenti sugli esseri umani e sulla natura, che sono divenuti oggetto di una violenza industriale. La quale ha partorito tutti quei micidiali apparati bellici che oggi purtroppo vediamo in opera. Una volta stabilito che la nonviolenza è un principio etico, Minaldi mette in evidenza la difficoltà di rispettarlo, sottolineando che in certi casi questo rispetto potrebbe trasformarsi anche in un’auto sacrificio. Per esempio, Gandhi avrebbe potuto idealmente immolarsi per impedire lo sterminio portato avanti dai nazisti. A suo parere tale gesto non sarebbe stato un gesto inutile in quanto avrebbe riaffermato un valore ineludibile e avrebbe costituito un esempio per tutti coloro che volessero ispirarsi ai principi della nonviolenza. Tuttavia, Minaldi riconosce che, se il sacrificio può essere un gesto individuale è assai difficile che esso si trasformi in un gesto collettivo in base al quale una certa comunità subisce passivamente una violenza su di essa esercitata. In questo caso è inevitabile pensare ai palestinesi, al 7 ottobre di Hamas e alla feroce reazione dello Stato d’Israele. Da queste constatazioni il nostro autore ricava quanto cito testualmente: la nonviolenza si trova sempre in bilico tra l’esigenza di riaffermare la primazia dei valori e la nuda realtà delle cose imposta dal realismo della pratica politica. Proprio per questa ambiguità egli trova del tutto accettabile, anche da parte di un non violento, il fatto che si verifichino situazioni estreme nelle quali unicamente a scopo difensivo è legittimo rispondere ad un’aggressione indebita con la violenza. Ciò è quanto prevede il diritto penale a proposito della legittima difesa: vi sono situazioni in cui per difendersi non c’è altro mezzo che il ricorso alla violenza. A mio parere questa posizione è del tutto condivisibile. Infatti, credo che la nonviolenza, là dove è praticabile e può essere efficace, deve essere impiegata, là dove queste condizioni, invece, non si danno e dove non c’è via di scampo, si deve ricorrere alla violenza. In questo senso violenza e non violenza sono atteggiamenti da contestualizzare.  D’altra parte è difficile affermare che sia stata soltanto l’opera di Gandhi a portare alla indipendenza dell’India. Ci sono stati sicuramente molti altri fattori, come per esempio, la debolezza dell’esercito britannico che in gran parte era costituito da indiani, i quali erano stati mandati a combattere nella prima e nella seconda guerra mondiale con tantissime perdite. Inoltre, c’erano anche altri leader politici, in particolare musulmani, che invece portavano avanti la battaglia per l’indipendenza con modelli e progetti diversi.  Paradossalmente dopo la morte di Gandhi, avvenuta per un omicidio, l’India fu teatro di gravi violenze che si concretarono nell’assassinio di importanti leader politici, e che riguardarono anche i conflitti tra le diverse entità etniche presenti nel subcontinente indiano; in particolare il conflitto mai del tutto risolto tra la componente musulmana e quella hindu. Per esprimere meglio la mia idea di contestualizzazione della nonviolenza e della violenza, voglio fare il parallelo tra la importante figura di Gandhi, ispirata da Lev Tolstoj, e un’altra significativa figura di leader politico situata però in tutt’altro contesto storico. Anche lui, profondamente cristiano, si trovò di fronte alla scelta assai difficile tra la violenza e la nonviolenza. Mi riferisco al sacerdote, sociologo, uomo politico colombiano Camillo Torres Restrepo, il quale riteneva che il nucleo del Vangelo fosse la creazione del Regno di Dio in terra. Per l’opposizione della gerarchia ecclesiastica abbandonò il sacerdozio nel 1965, nello stesso anno fondò il settimanale Frente Unido, che aveva lo stesso nome della sua organizzazione politica. Resosi conto che le forze oligarchiche e reazionarie della Colombia non gli avrebbero permesso nessuna azione politica, Torres optò per la lotta armata e si unì ai guerriglieri dell’Esercito di Liberazione Nazionale, gruppo che si ispirava alla Rivoluzione cubana del 1959. Dopo solo un mese di militanza,  fu ucciso il 15 febbraio 1966 dall’esercito nel suo primo giorno di battaglia. Come si vede non è facile scegliere tra violenza e nonviolenza e soprattutto è arduo prevedere le conseguenze della scelta fatta.  Al breve saggio di Minaldi seguono alcune considerazioni di Olivier Turquet, per il quale il primo passo verso la nonviolenza consiste nello scoprire la violenza che si nasconde dentro di noi. Antonio Minaldi, Gandhi ad Aushwitz, elogio della Nonviolenza (e sue problematiche), Multimage 2025 Alessandra Ciattini Redazione Italia
La storia ha la memoria corta
La nonviolenza attiva di Gesù, tra riflessioni storiche e urgenze del presente Sabato 20 settembre, in un caldissimo pomeriggio, numerosi partecipanti hanno preso parte ai tre eventi dell’Eirenefest – Festival del Libro per la Pace e la Nonviolenza – ospitati dal Presidio Permanente di Pace presso la Libreria IoCiSto: due tavole rotonde e la presentazione del romanzo Dugo e le stelle di Francesco Troccoli. Mi soffermo sulla seconda tavola rotonda, dal titolo “La nonviolenza attiva, tra teoria e Vangelo” . Moderata da Livio Gaio di Pax Christi Napoli, ha visto in dialogo padre Alex Zanotelli e Giuliana Martirani, meridionalista e membro del direttivo dell’International Peace Research Association (IPRA). La riflessione si apre con la “parabola del seminatore”: i due protagonisti della tavola rotonda sono a pieno titolo un seminatore e una seminatrice, perché nel loro cammino hanno sempre portato il seme della parola. Tema principale: la nonviolenza attiva di Gesù Cristo , che possiamo definire a pieno titolo il primo fautore della nonviolenza nella storia. Per Martirani oggi la parola pace è paradossalmente usata per fare le guerre ed è quindi fortemente compromessa nel suo senso originario, spogliata del suo significato; la parola nonviolenza è invece chiarissima. L’uomo sta causando alla Natura la sesta estinzione di massa: non solo riscaldamento globale, ma anche inquinamento, accaparramento e sfruttamento dei beni comuni. Analizzando l’attuale situazione mondiale, Martirani afferma che i confini tra gli Stati sono il più grande ostacolo all’aumento del PIL. Oggi l’ignoranza non è più ammissibile. Con padre Alex Zanotelli il dibattito si sposta sulla nonviolenza attiva di Gesù, al centro della sua testimonianza, che pur essendo stata oggetto di studio non emerge a sufficienza, nonostante abbia messo in crisi, all’epoca, la struttura dello Stato romano, basata sulla militarizzazione e sulla forza dell’esercito. I cristiani, per i primi tre secoli, in seguito hanno con coerenza il Vangelo, e quanti martiri hanno pagato col sangue il rifiuto di entrare nell’esercito romano. Sant’Agostino, che viveva nel terrore della fine dell’Impero Romano, con la teoria della “guerra giusta” evidenziò che, ai fini del giudizio sulla guerra, non contava l’uso delle armi in sé, ma la disposizione dello spirito: male era agire per odio, vendetta, sete di potere, crudeltà; bene era agire in obbedienza alla volontà del Signore ea quella dei poteri legittimi. In seguito, il cristianesimo ha benedetto tutte le guerre. Fu Martin Luther King a riscoprire la massima coerenza col Vangelo, che si esprime pienamente nella frase: «non è più tra violenza e nonviolenza, ma tra la nonviolenza o la non esistenza». Secondo padre Zanotelli è necessario rivalutare la ricerca su Gesù nella e della storia. Gesù era un uomo del suo tempo, vissuto con i popoli della Galilea, schiacciati e oppressi da tasse e tributi sull’agricoltura. Gesù ha sposato la causa di questi popoli e l’ha portata a Gerusalemme, territorio su cui insisteva il potere dell’Impero romano. La nonviolenza attiva di Cristo si esprime in sette verbi che postulano l’azione, un movimento che dall’interno si fa comportamento e si incarna in scelte ben precise, pena il restare un flatus vocis : prevenire (che si esprime nel “Ama i tuoi nemici”), intervenire (che ispira all’azione), resistere (la forza della nonviolenza per superare la violenza strutturale della società), riconciliare (per guarire la comunità: vittime e aggressori devono riconciliarsi), difendere senza aggredire , costruire una cultura di servizio basato sulla nonviolenza e vivere nell’amore. La pace è azione che richiede impegno, fedeltà e vigilanza sulla propria interiorità. La cultura della pace ripudia l’immobilismo dell’animo e dell’agire e si propone come modus operandi nella società. La nonviolenza di Gesù attiene quindi non solo alla sfera privata dell’individuo, ma anche a quella pubblica, configurandosi come agire in relazione al contesto socio-politico e religioso nel quale egli vive. La nonviolenza attiva di Gesù fu riscoperta anche dallo scrittore Tolstoj che, in crisi profonda per la deriva dell’Occidente, dopo aver riscoperto il Vangelo deciso di non scrivere più romanzi. Con Il regno di Dio è in mezzo a voi , centrato sulla nonviolenza attiva, diede un nuovo orientamento alla sua scrittura e per questo fu profondamente osteggiato dalla Chiesa ortodossa russa. Il libro fu intercettato da Gandhi che, folgorato, deciso di tornare in India, dove fondò una vera scuola sulla nonviolenza basata sulla satyagraha (forza della verità) e sull’ahimsa ( non collaborazione con il male) e fu a capo del primo movimento per l’indipendenza dall’Inghilterra. Le “armi” di Gandhi erano la non collaborazione e la disobbedienza civile . «Amate i vostri nemici»: il messaggio, semplice ma potentissimo, di Gesù è il più forte strumento della nonviolenza attiva. Riprende la parola Martirani, che risponde alla domanda di Gioia: “La violenza è istituzionale?”. Purtroppo sì: oggi la politica è mossa dall’economia, dagli accordi che favoriscono gli scambi commerciali tra America e Israele, escludendo la Palestina, che non viene riconosciuta come Stato. Bisogna rispondere a tutto ciò con una nonviolenza istituzionale che, per Martirani, si sostanzia nel ratificare e riconvertire : invece dei carri armati , ottimi trattori. Ma soprattutto, dovere di una società civile è parlare, fare cultura della pace, divulgare. Concludere con una frase di don Tonino Bello, quando scoppiò la guerra in Iraq: «Meno male, Giuliana, che abbiamo preparato le vie del Signore, sennò ora chi ci sarebbe a combattere le guerre?». Infine padre Zanotelli denuncia, con amarezza e dolore, il silenzio delle comunità cristiane su quanto sta succedendo in Palestina. Si tace, non si agisce in alcun modo. Un silenzio che fa troppo rumore e che riporta dolorosamente alla memoria le parole di papa Francesco durante la 50ª Giornata Mondiale della Pace (2017): «In questa occasione desidero soffermarmi sulla nonviolenza come stile di una politica di pace e chiedo a Dio di aiutare tutti noi ad attingere alla nonviolenza nelle profondità dei nostri sentimenti e valori personali. Che siano la carità e la nonviolenza a guidare il modo in cui ci trattiamo gli uni gli altri nei rapporti interpersonali, in quelli sociali e in quelli internazionali. Quando sanno resistere alla tentazione della vendetta, le vittime della violenza possono essere i protagonisti più credibili di processi nonviolenti di costruzione della pace. Dal livello locale e quotidiano fino a quello dell’ordine mondiale, possa la nonviolenza diventare lo stile caratteristico delle nostre decisioni, delle nostre relazioni, delle nostre azioni, della politica in tutte le sue forme». Giuliana Martirani-Padre Alex Zanotelli-Livio Gaio (Pax Christi Napoli) Saletta Giancarlo Siani-IoCiSto Redazione Napoli
La narrativa cristiana della lotta non violenta contro le strutture di violenza (o di peccato)
Gandhi ha esteso l’antico insegnamento dello Jainismo (ahimsa) ad una capacità di lottare non violentemente contro ogni struttura negativa della società. Per ispirarsi alla tradizione millenaria dei testi sacri indù la sua lotta non violenta egli ha dato una nuova interpretazione alla Bagavad Gita: ha ribaltato il senso della guerra affrontata da Arjuna in una lotta non violenta con se stesso e con gli altri (Gandhi, Gandhi commenta la Bagavad Gita, Ed. Mediterranee, Roma, 2012).   A noi non violenti interessa sapere se ci sono altre tradizioni religiose che con particolari insegnamenti religiosi abbiano anticipato il senso spirituale della lotta non violenta. Per i cristiani, qual è la maniera di affrontare i conflitti senza “reagire al male senza fare il male” (Mt 5, 39; Rm 12, 17)?  Una risposta viene da una corretta interpretazione delle Beatitudini (Mt 5). Su di esse Lanza del Vasto (LdV) ha avuto un suggerimento fondamentale: le Beatitudini debbono essere lette in sequenza, una dopo l’altra (L’arca aveva una vigna per vela, Jaca book, Milano, pp. 242-243). Così esse esprimono un crescendo, dalla reazione intima o personale (vivere la povertà, piangere, restare miti, avere sete di giustizia) alla azione nella società (avere misericordia, darsi un impegno sociale, fare la pace, lottare per la giustizia sociale). Anche la ricompensa a questi impegni di lotta cresce in parallelo: da quelli di consolazione solo intima o personale (sentirsi in cielo, essere consolati, ricevere la propria terra, avere una soddisfazione di giustizia), al crescere spiritualmente nei rapporti sociali (ricevere misericordia, vedere Dio nelle persone, essere chiamati figli di Dio, realizzare qui la vita Trinitaria).  (Si noti però che questa sequenza è chiara se 1) si scambia l’ordine della seconda con la terza; 2) si rimedia alla mancanza di alcune parole nella sesta Beatitudine: “Beati coloro che hanno il cuore puro [invece: … che si impegnano nella vita sociale purificando il cuore] perché vedranno Dio [nelle persone]”e 3) si migliora l’ultima Beatitudine: “Beati coloro che combattono l’ingiustizia fino al sacrificio personale, perché con essi si rappresenta la vita della Trinità sulla Terra”).  Queste “reazioni al male senza ricorrere al male” sono ricompensate dallo Spirito Santo in quanto Lui fa leva sulla reazione umana per invertire i mali in beni trascendenti, cioè in quello che le corrispondenti Beatitudini promettono.   Un altro suggerimento fondamentale di LdV è che quando nella società il male diventa strutturale, si concretizza in uno tra quattro flagelli, tutti “fatti da mano d’uomo”: Miseria, Sedizione, Guerra e Servitù (Lanza del Vasto, Les quatre Fléaux, Denoël, Parigi, 1959; SEI, Torino, 1996, cap. 1, par. 1). Allora l’inizio di ogni beatitudine indica una sofferta reazione non tanto ad un male generico, ma soprattutto al male diventato strutturale, ad uno di questi quattro flagelli. Allora scopriamo che il testo delle beatitudini deve essere completato con una parte rimasta implicita: ognuna di esse deve dichiarare all’inizio a quale flagello si sta reagendo. Per questo occorre premettere ad ogni beatitudine, ad es. la prima: “Contro la Miseria, beati…” Ma i flagelli sono quattro e le Beatitudini sono otto. In effetti le Beatitudini sono le reazioni ai flagelli elencati due volte; le prime quattro indicano la politica delle reazioni personali, le seconde quattro la politica di intervento nella società. Pertanto, le Beatitudini nel complesso sono una precisa politica di azione non violenta contro tutti i principali casi del male strutturato nella società. Tutto quanto sopra era incomprensibile prima del XX secolo, quando è stata scoperta la non violenza e a sua prova Gandhi ha realizzato “tre miracoli storici (politici): una liberazione nazionale senza spargimento di sangue, una rivoluzione sociale senza rivolta, l’arresto di una guerra” (ibidem, cap. v, §§. 34, 46); ai quali  oggi si può aggiungere il miracolo storico delle rivoluzioni non violente delle popolazioni dell’Europa orientale negli anni 1989 e seguenti; le quali ci hanno liberato dall’antagonismo sordo dei Due Blocchi e dalla loro Guerra Fredda che minacciava una guerra di sterminio colossale.   Da tutto ciò ricaviamo un nuovo testo delle beatitudini che è pienamente significativo e aderente alla vita di oggi.  Nuovo Testo delle Beatitudini Contro la Miseria, beati quelli che sono poveri in virtù dello Spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Contro la Sedizione, beati quelli che piangono, perché saranno consolati. Contro la Guerra, beati quelli che sono miti, perché possederanno la terra.  Contro la  Servitù, beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati.  Contro la Miseria, beati quelli che si piegano alla misericordia, perché riceveranno misericordia. Contro la Sedizione, beati quelli che si impegnano nel sociale con cuore puro, perché vedranno Dio nelle persone. Contro la Guerra, beati quelli che fanno la pace nel prossimo, perché saranno chiamati figli di Dio. Contro la Miseria, beati quelli che lottano per la giustizia sociale fino al sacrificio personale, perché con essi si rappresenta la vita trinitaria di Dio sulla terra.   Ma in che cosa consiste la vita interiore di chi lotta non violentemente, così come è indicata da ogni Beatitudine? L’ha rappresentata in pittura e scultura una lunga tradizione popolare, che è nata nel basso medioevo (a mia conoscenza, la sua prima immagine è una scultura nella cattedrale di Compostela in cima alla colonna centrale del portico del paradiso (1211); la più famosa è quella della Trinità di Masaccio in S. Maria Novella a Firenze del 1427). E’ stata una lotta non violenta quella con cui il Figlio ha risolto il conflitto del peccato originale dell’umanità con Dio (cioè la massima violenza strutturale); questa sua lotta ha comportato la sua incarnazione, la sua lotta (contro sia il potere religioso dell’Ebraismo di allora, autoritario e formalista, che quello della dominazione politica dell’Impero Romano), la sua crocifissione e la sua resurrezione. L’immagine suddetta dice che tutto l’evento è stato sostenuto dalla volontà del Padre (che sostiene la croce) ed è stato assistito dallo Spirito Santo (che aveva progettato il tutto). In sintesi, questa immagine dice che il conflitto degli uomini con Dio è stato risolto dal Figlio, che, come esperienza compiuta, l’ha fatto entrare dentro la vita di Dio stesso.  Notiamo che la risoluzione del conflitto passa sì per la morte in croce, ma è data infine dalla risurrezione; senza di essa la fede cristiana è stolta. Il fatto che lui dopo la morte è risorto è la promessa dello Spirito Santo: chiunque combatte così come fece Gesù contro i peccati (o violenze) strutturali in modo non violento, vincerà sulla Terra o in Cielo. Quindi il Dio cristiano si pone come il Dio che essenzialmente fa la pace nei conflitti. E’ in questo senso preciso che il Dio cristiano è amore, non lo è in senso generico. Ma dovendo combattere strutture anche schiaccianti con la non violenza, cioè solamente con la forza dello spirito, dove si può trovare la forza spirituale per fare il Davide davanti al Golia di una struttura di violenza che nella società magari si impone come assoluta? La risposta del cristianesimo è: la comunione. Ma che cosa è in fondo la comunione? Per la Chiesa cattolica è dogma che con essa avviene una comunione dell’uomo con Gesù. La tradizione teologica dice che ciò avverrebbe in quanto c’è una “transustanziazione” (cioè con la trasformazione del pane e vino in Gesù). Questa parola indica una trasformazione materiale di oggetti materiali (pane e vino), la quale avverrebbe al di fuori di ogni relazione sociale. Però essa non è stata finora spiegata da alcuna dottrina filosofica o metafisica.  Ma ai non violenti non può interessare granché che cosa fanno nella comunione le sostanze materiali (pane e vino), se esse subiscano o no un processo di tramutazione alchemica o nucleare; Noi non violenti abbiamo una altra interpretazione da suggerire: a noi interessa che le persone che si impegnano con tutta la loro interiorità in una lotta non violenta potenzialmente schiacciante, si trasformino, per opera di Dio, nel massimo delle loro capacità spirituali; cioè si identifichino il più possibile con il Cristo per diventare sin nel profondo cristiani, cioè veri seguaci di Cristo. La comunione è il massimo aiuto che il Figlio di Dio poteva dare ad un cristiano che lotta non violentemente, anche al rischio della morte, contro un peccato strutturale: unirsi con lui mediante una compartecipazione di cose elementari concrete, pane e vino, in modo da agire assieme.  In passato alcuni nonviolenti hanno scoperto dalle idee che caratterizzano in maniera approssimata la trasformazione nonviolenta che si deve compiere dentro un conflitto: (a parte l’Aufhebung nella fuorviante, perché metafisica, dialettica di Hegel) l’”osare la pace” del pastore Dietrich Bonhoeffer; il saper “portare una libera aggiunta” di Aldo Capitini; il cercare il punto di conciliazione di due linee apparentemente parallele anche se esso è posto all’infinito (Lanza del Vasto), il “trascendere” di Johan Galtung. E’ anche interessante quanto diceva in proposito un grande riformatore del Cristianesimo: Martin Lutero (sermone del 1520, anno della sua scomunica):  … vi è un largo uso di questo sacramento, senza alcuna intelligenza del suo significato, né alcun esercizio in esso… Molte persone [che prendono la comunione, poi di fatto] non vogliono essere solidali, non vogliono aiutare i poveri, sopportare i peccati, aver cura dei miserabili, soffrire con i sofferenti, pregare per gli altri, e neppure vogliono difendere la verità e promuovere il miglioramento della Chiesa… Non sanno far altro, con questo sacramento, che temere e onorare, con le loro orazioncelle e le loro devozioni, il Cristo presente nel pane e nel vino… Gesù ha preferito queste forme del pane e del vino per esprimere più ampiamente [possibile] l’unità e la comunione che si compiono in questo sacramento; perché non v’è unione più intima, profonda e indivisa che l’unione del cibo con colui che ne viene nutrito, in quanto il cibo penetra e si trasforma nella natura stessa e diventa un essere solo con chi se ne ciba. Altri modi di unire, come con chiodi, colla, corda o altre cose simili, non fanno una unità indivisibile.  Alcuni esercitano la loro arte e le loro sottigliezze per cercare dove rimane il pane quando è trasformato nella carne di Cristo e il vino nel suo sangue, e anche come in una così piccola particella di pane e di vino possa essere contenuto tutto il Cristo, la sua carne e il suo sangue. Ma non importa nulla che tu non lo veda. Basta che tu sappia che è un segno divino, in cui la carne e il sangue di Cristo sono veramente contenuti; il come e il dove rimettilo a Lui… Allo stesso modo anche noi, nel sacramento, veniamo uniti con Cristo e incorporati con i suoi santi a tal punto che egli assume le nostre parti, [cosicché] egli fa o non fa per noi, come se egli fosse quello che siamo; e che quello che ci accade, [accada] anche a lui e più che a noi; affinché anche noi possiamo assumere le sue parti, come se fossimo quello che egli è… Così profonda e totale è la comunione di Cristo e di tutti santi con noi… Ma attenzione! Con questo aiuto formidabile, il massimo che un Dio può dare, un cristiano dovrebbe essere il primo a buttarsi nella lotta non violenta contro i flagelli che colpiscono una popolazione! Se non lo fa, resta “un pagano battezzato a metà…; o segue il suo battesimo o diventa doppiamente colpevole.” (ibidem, cap. V, par. 24 ) Antonino Drago
Mirare alla coscienza
Sarà presentato a Palermo il prossimo 16 giugno presso il No Mafia Memorial, il bel libro edito dal Centro Gandhi nella collana Quaderni di Satyagraha “La coscienza dice no alla guerra. Per un rilancio dell’obiezione di coscienza a tutti gli eserciti e per una nuova idea di difesa”, curato da Enzo Sanfilippo e Annibale Raineri e prefato da Alex Zanotelli. Ne parliamo con i due curatori, che appartengono entrambi alla Comunità dell’Arca fondata da Lanza Del Vasto. D. Caro Enzo, com’è nata l’idea di realizzare questo volume e in che relazione si trova con la campagna di obiezione alla guerra? R. Tutto nasce con l’inizio del conflitto in Ucraina che ha riportato tutti noi all’evidenza della guerra come dato epocale e drammatico. Abbiamo sentito nel nostro piccolo gruppo un senso di impotenza aggravato dal fatto che esso è legato alla tradizione nonviolenta che tramite Lanza del Vasto arriva direttamente a Gandhi. Perché – ci siamo chiesti – questa nostra cultura e le pratiche che ad essa si ispirano non dicono più niente al mondo? Sono anzi spesso derise e ritenute non credibili… Due persone impegnate nell’Arca hanno deciso di recarsi in Ucraina con una Carovana organizzata da Stop the War Now per un’esigenza di condivisione e di comprensione. Al loro rientro è iniziata una riflessione collettiva che ci ha portati a conoscere le azioni che altri movimenti dell’area pacifista e nonviolenta avevano già messo in campo, ad incontrarli e dialogare con loro.  Abbiamo così aderito alla “Campagna Obiezione alla Guerra” lanciata dal Movimento Nonviolento e abbiamo fatto sì che tante persone potessero tradurre in questo primo gesto individuale ciò che ciascuno di noi sente nel profondo: un rifiuto ad uccidere e un desiderio di trovare e sperimentare vie concrete alla gestione nonviolenta dei conflitti. Quel Sì che in più parti del libro tutti gli autori propongono di accompagnare al semplice rifiuto della guerra e degli eserciti. In questo percorso di approfondimento abbiamo preso consapevolezza che il diritto all’obiezione di coscienza e la necessità di forme istituzionali di difesa non armata e nonviolenta sono scomparse dal dibattito pubblico già da vent’anni, da quando cioè la leva non è più obbligatoria. Questo è un dato paradossale: il fatto che i giovani non vengano più chiamati a svolgere il servizio militare o quello civile in forma sostitutiva, ha fatto sì che il tema della difesa, che la costituzione aveva collocato tra i “doveri” di ogni cittadino (art.52), non venga più preso in considerazione dai più e affidato ai militari di professione.  Quella che ai più era sembrata una vittoria (la cancellazione della naja) si è rivelata un boomerang. La ripresa di questo tema è in linea con due pronunciamenti della Corte Costituzionale che ha sancito che si può assolvere al dovere di difesa della patria sia in forma armata sia in forma non armata. Bisogna pertanto istituire formalmente l’istituto della Difesa nonviolenta a cui potranno partecipare i cittadini obiettori di coscienza. D. Il libro è un corale a molte voci, che muove dagli interrogatori e dalle testimonianze degli obiettori durante la guerra d’Algeria, narrati da Lanza del Vasto, per giungere alle esperienze di diserzione attuali in Russia e Ucraina, Israele e Palestina. R. Sì, abbiamo voluto inserire, ad inizio del volume, questo diario che racconta dell’incontro tra giovani francesi chiamati alla leva nei primi anni sessanta con alcuni compagni della Comunità dell’Arca del tempo. Questi giovani sentivano forte nel proprio intimo la volontà di non partecipare alla guerra d’Algeria in cui la Francia era impegnata in quegli anni e nella quale manifestava in pieno l’idea di dominio coloniale, con l’uso di tutti i mezzi, compresa la tortura contro i dissidenti. Atti di questo genere sono stati ripetuti oggi da giovani russi, bielorussi, ucraini e israeliani, come è detto in un’altra parte del libro. Far conoscere direttamente queste testimonianze ci è sembrato molto significativo per due motivi. In primo luogo perché nel caso della Francia degli anni ‘60 si realizzò l’incontro tra persone di generazioni diverse che oggi molti di noi pensano assente o in forte sofferenza: non sarà forse perché si cerca il confronto su idee e opinioni e non su atti di vita?   L’altro motivo risiede nel fatto che l’obiezione di coscienza, testimoniata con atti di disobbedienza ad una legge dello Stato, ha storicamente introdotto istituti assolutamente innovativi nella concezione stessa dello Stato. Specialmente in Italia l’istituto della Difesa non armata e nonviolenta è contenuto nel nostro ordinamento giuridico, come in pochi altri paesi al mondo (cosa ignorata dall’opinione pubblica).   Quindi le scelte politiche in tema di difesa, compresa la sospensione della leva obbligatoria e la costituzione dell’esercito professionale e la trasformazione del servizio civile in forme di semplice tirocinio pre-lavorativo (nonostante esso sia ancora formalmente finalizzato alla difesa nonviolenta), hanno di fatto interrotto un interessante percorso di riforma dello Stato che può e deve essere ripreso e sostenuto. D. Caro Annibale, tu e gli altri autori e autrici siete fermamente convinti che le pratiche di ripudio nonviolento della guerra – espresse per esempio negli Interventi Civili di Pace in contesti bellici internazionali o nelle attività dell’Osservatorio contro la Militarizzazione delle Scuole e delle Università o nei numerosi Presidi di Donne per la Pace, che proprio in questi giorni stanno coordinandosi per dare vita ad una manifestazione diffusa e unitaria il 26 giugno in molte città – possano costituire esempi concreti di una “politica dal basso”, alternativa alle passerelle istituzionali, ormai estranee alla società civile, e molto più coinvolgente. R. Sì, ma la questione ha contorni più radicali. Non si tratta di “rivitalizzare” la politica con un incremento dell’attivismo “dal basso”. Si tratta piuttosto di mettere in campo forme di agire e di pensare diverse dall’agire politico che ha strutturato la modernità, l’ordine simbolico dentro cui si è mosso tanto il potere di governo che chi a quel potere si è contrapposto (anche quando, come per me, si sente la storia di quelle lotte come la propria storia). Ogni agire politico è un agire che definisce mezzi e strategie per conseguire obiettivi sulla base di una “mappa” della “congiuntura”, cioè di un tempo non lungo. Nell’agire politico, cioè, i mezzi e le strategie non valgono per se stessi, ma solo per la loro (presunta) efficacia. Ma qual è la congiuntura attuale? Viviamo in un tempo di crisi radicale di una storia millenaria in cui le società sono state strutturate in base al principio della forza, al potere di dare la morte (principio figlio della sovversione patriarcale). Questo modello sociale attraversa una crisi radicale perché, grazie allo straordinario sviluppo della scienza-tecnica, ha condotto l’umanità sull’orlo del baratro.  Se si ha questa coscienza storica, allora non si tratta di mettere in campo altre forme di agire strategico, ma anzitutto di mirare alla coscienza, come scriviamo nel libro, in forza unicamente della verità. Il resto verrà di conseguenza, e con esso la costruzione di un “campo comune” e di percorsi parziali, passo dopo passo. Ripeto: il primo ed essenziale passo è un duplice atto di coscienza, individuale, responsabile, pubblico: un No che sia anche un Sì, come diceva prima Enzo. D.Infine un interrogativo che ci angoscia da sempre e per il quale forse non esiste una risposta univoca: ci sono momenti storici, dolorosissimi e conflittuali, in cui anche i nonviolenti sono coinvolti in conflitti ineludibili, se vogliono stare, come oggi si usa dire, “dalla parte giusta della Storia”.  Penso a Lidia Menapace, staffetta partigiana disarmata, allo stesso Gandhi che invitò gli indiani a combattere a fianco degli inglesi nelle due guerre mondiali suscitando enorme scandalo, alle donne curde del Rojava costrette fino a poco fa a imbracciare il fucile nonostante Ocalan oggi raccomandi il disarmo.  Il sangue versato – che sia in una guerra o in una rivoluzione – è pur sempre preziosissimo sangue… R. La questione che poni è un dilemma impossibile da sciogliere. Eppure qualcosa mi sento di dirti, provando a distinguere due livelli. Anzitutto il piano morale, quello che esplicitamente indichi. Su questo piano non si può far altro che appellarsi alla coscienza individuale, evitando scorciatoie: chi non si sente di portare le armi ma nondimeno partecipa ad una lotta partigiana ne condivide il peso morale. Nei drammi morali non è mai questione della “salvezza della mia anima”. Nessuno dei maestri della nonviolenza condannerebbe chi usasse la violenza (anche a costo del “proprio inferno”) di fronte ad una impossibilità a non “usare il male” di fronte ad un male infinitamente maggiore. Ma chi decide? Sul piano della moralità non c’è altro che la coscienza individuale di fronte ai drammi della storia.  Ma, oltre al piano della moralità, c’è il piano della eticità, cioè dell’orientamento di valore oggettivato nella concretezza storica in cui sono immerse le vite delle comunità, con le loro istituzioni e gli universi simbolici dentro cui si rappresentano. Se il nostro tempo è il tempo storico in cui l’uccidibilità come millenario principio ordinatore delle comunità umane è “oggettivamente” posto in questione perché sta precipitando l’umanità in una catastrofe mortale irreversibile, allora è chiaro che di fronte a questa “situazione del tempo” del tutto nuova è necessario uscire da quel paradigma (e dalle forme simboliche corrispondenti).  Uscire dal paradigma della guerra (che non è un conflitto fra stati, ma qualcosa che struttura tutti gli ambiti della nostra esistenza) con un pensiero ed una pratica nonviolenta è l’unico modo di stare all’altezza del presente. Al contrario continuare a pensare in termini di conflitto fra poteri e contropoteri ci ricaccia dentro quell’agire strategico subalterno, nei presupposti impliciti, all’ordine dominante. Non si tratta di sfuggire ai conflitti, ma di stare dentro essi con un’altra logica, la logica della vita e non della morte. Come dici tu, si tratta di stare dalla parte giusta della storia: nonviolenza non è, come molti credono, essere equidistanti, è stare nell’unico posto in cui è possibile guardare il mondo con giustizia creativa: la parte delle vittime, tutte. le modalità per ricevere una copia del libro si trovano alla pagina https://www.trefinestre.com/come-ricevere-il-libro Daniela Musumeci
Mao Valpiana: “Il decreto sicurezza diventa Legge: non ci interessa, non ci fa paura”
Il Movimento Nonviolento storicamente si ispira, nei valori e nella pratica, alla nonviolenza gandhiana, quindi alla vera disobbedienza civile, che è obbedienza alle leggi superiori. “Se vi illudete che questa nuova legge, che introduce reati e inasprisce le pene, fermi la disobbedienza civile, vi siete sbagliati di grosso”, ha dichiarato Mao Valpiana, presidente del Movimento Nonviolento. E prosegue: “Siamo stati obiettori di coscienza al servizio militare, affrontando processi e carcere per affermare un principio inalienabile di coscienza, riconosciuto poi dalla Legge che ha accolto le nostre ragioni morali, istituendo il servizio civile alternativo. – Abbiamo sostenuto denunce e processi per “istigazione” per aver promosso e attuato la Campagna di obiezione di coscienza alle spese militari, l’obiezione fiscale, per cui abbiamo subito pignoramenti e sanzioni amministrative. Ma non ci siamo fermati, fino ad ottenere il riconoscimento con Sentenze della Corte Costituzionale, perché abbiamo preferito “pagare per la pace, anziché per la guerra”. – Siamo stati arrestati e processati per aver fermato, con blocchi ferroviari, treni che trasportavano armi nei teatri di guerra. Poi abbiamo ottenuto assoluzioni piene per aver agito per alti valori morali. – Abbiamo praticato la disobbedienza civile per impedire l’installazione dei missili a Comiso, che poi sono stati ritirati. Abbiamo bloccato l’entrata nella basi militari dove erano depositate armi nucleari. Abbiamo manifestato pacificamente davanti a tribunali e carceri militari, anche quando era vietato, salvo poi veder riconosciuto il nostro diritto democratico a farlo. – Abbiamo marciato nei territori militarizzati, violando il divieto di entrare nelle servitù militari. – Abbiamo bloccato il traffico ferroviario e stradale per protestare contro l’installazione delle centrali nucleari, che poi un referendum popolare ha eliminato, dandoci ragione”. Nessuna vostra legge, per quanto repressiva, fermerà la forza della nonviolenza che, come diceva Gandhi, è la forza più potente a disposizione dell’umanità (più potente della bomba atomica, perché l’atomica ha una forza distruttiva, mentre la nonviolenza ha una forza creatrice). La legge sicurezza ha un carattere solo repressivo, aumentando le pene e introducendo nuovi reati: dimostra che chi l’ha concepita è mosso dalla paura. I regimi basati sulla paura, la violenza, lo stato di polizia, alla fine sono sempre crollati sotto la spinta dei popoli che si liberano. La storia di Gandhi e della nonviolenza lo sta a dimostrare. Sappiate che mai nessuna legge, mai nessun carcere, ha fermato la forza attiva e liberatrice della nonviolenza dei forti. La disobbedienza civile, la non collaborazione, l’azione diretta nonviolenta, lo sciopero, il boicottaggio, l’obiezione di coscienza, sono immensamente più forti e puri di questa Legge. Mao Valpiana presidente del Movimento Nonviolento Mao Valpiana