Quel deserto chiamato paceSi vis pacem para bellum: se vuoi la pace prepara la guerra. La pace di chi la
persegue in questo modo non è altro che guerra. In questa sequenza: riarmo,
guerra, vittoria, imposizione delle proprie condizioni al nemico vinto, oppure
sterminio. Anche questo è uno dei tanti modi di chiamare la pace: Solitudinem
faciunt, pacem appellant (Tacito), fanno un deserto e lo chiamano pace.
Questo modo di perseguire la pace si chiama anche deterrenza: armarsi fino ai
denti per essere più forti del “nemico”, il quale si armerà anche lui di più per
sentirsi più forte: una spirale senza fine. O meglio, con una fine scontata: la
guerra, la messa alla prova delle armi di cui ci si è dotati. Deterrenza, lo
dice la parola, significa tenere a bada il nemico con il terrore. Gli Stati che
promuovono o praticano questa “dottrina” sono, per forza di cose, terroristi:
usano le armi per terrorizzare il nemico e costruiscono un mondo fondato sul
reciproco terrore. L’altro “terrorismo”, quello messo al bando dagli Stati, ne è
solo una parziale imitazione. L’unica vera deterrenza dovrebbe essere l’orrore
per quello che è già successo: la Shoah, Hiroshima. “E’ successo, potrebbe
succedere di nuovo!”. Sta succedendo.
La pace perseguita preparando la guerra la stiamo vivendo: innanzitutto con lo
spostamento di risorse dal welfare alle armi, violando quello che fino a poco fa
era la linea rossa invalicabile per tutti gli Stati dell’Unione Europea:
finanziare il welfare a debito. Contando sul fatto che chi “ha dichiarato guerra
all’Europa” (la Russia, per Readiness 2030, documento approvato dal Parlamento
Europeo), prima di attaccarci aspetterà comunque che noi si sia pronti. Anche la
deterrenza ha le sue regole…
Ma c’è di peggio: il clima asfissiante di ostilità, bellicosità, paura,
insicurezza, militarismo promosso per sostenere quei preparativi, dove si
ritrovano tutti gli stereotipi di una retorica grottesca che la guerra in
Ucraina ha riportato in auge: gloria, eroismo, valore, onore, sacrificio, tutto
ovviamente ricondotto all’ambito militare. Un’aggressività e uno spirito di
competizione, un disprezzo per “il nemico” che mette fuori gioco ogni desiderio
e aspirazione alla solidarietà, alla fratellanza, alla sorellanza, alla
cooperazione, alla condivisione.
Ma il risultato è l’abbandono definitivo della lotta per il clima, degli
obiettivi del vertice di Parigi, della conversione ecologica, del green deal – o
di quello che ne era rimasto dopo il suo spolpamento – del rispetto e della cura
quotidiana del proprio territorio. Perché la guerra è un’aggressione diretta non
solo contro “il nemico”, ma anche, e soprattutto, contro le basi stesse della
nostra esistenza: l’integrità del pianeta, la sua e la nostra vita.
La pace, invece, quella vera, quella che tutti vorrebbero, soprattutto dopo aver
sperimentato la guerra – come dimostra il reclutamento dei soldati in Ucraina,
passato in pochi anni da uno slancio generoso e volontario a una caccia feroce,
ma, pur sapendone poco, il rifiuto di arruolarsi non è certo minore in Russia –
la pace vera è il contrario di tutto ciò che il “prepararsi alla guerra”
trascina con sé. E’ innanzitutto pace con la Terra, con il suolo, l’aria, le
acque, la “natura”, l’insieme di tutte le cose di cui anche noi siamo fatti. E
dentro questo approccio, che è vero amore di sé inteso come amore della vita e
di tutto ciò e di tutti coloro che ne partecipano, c’è posto per tutto ciò che
ne costituisce gli ingredienti indispensabili e che la guerra risucchia nel suo
vortice: l’umiltà di chi si riconosce parte di un tutto, la solidarietà (che una
volta si chiamava internazionalismo proletario), la condivisione, la fratellanza
e la sorellanza, la cura di sé e del prossimo attraverso cooperazione, lotta
contro le diseguaglianze, rispetto delle differenze. E poi bellezza, cultura,
istruzione, talento, salute, casa, mobilità, tempo da dedicare a figli e figlie,
mogli e mariti, genitori e nonni, compagni e compagne, amici e amiche.
Ci troviamo nel bel mezzo di uno scontro di civiltà: non tra capitalismo e
comunismo o tra progresso e stagnazione, non tra illuminismo e oscurantismo o
tra Cristianesimo e Islam e meno che mai tra Occidente e Oriente o tra
democrazia e autocrazie, bensì tra civiltà della cura e cultura della
distruzione. Bisogna saper ripartire da qui, dagli “elementari”.
La pace di chi la persegue con le “armi della pace” è invece la valorizzazione
di ciò che accomuna avversari e contendenti e la messa al bando non delle
differenze, ma di ciò che esclude, di ciò che contrappone. E’ il potenziamento
delle mediazioni, della diplomazia, della cooperazione, la creazione di corpi di
pace: una strumentazione che richiederebbe almeno tante risorse quante ne
vengono oggi dissipate per produrre o comprare armi.
Guido Viale