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Incendi in Porto Vecchio
-------------------------------------------------------------------------------- -------------------------------------------------------------------------------- Nell’ultima settimana, a Trieste, si sono verificati diversi incendi all’interno dell’area di Porto Vecchio. Alcune testate locali hanno attribuito l’origine dei roghi a fuochi “di fortuna” accesi da persone migranti per riscaldarsi. Le informazioni raccolte sul posto e le testimonianze di chi vive negli edifici indicano, però, una dinamica differente: come appare dalle evidenze raccolte finora, diversi episodi presentano caratteristiche compatibili con l’ipotesi di incendi dolosi, appiccati con l’intento di danneggiare chi, a causa delle inadempienze istituzionali, è costretto a dormire nei magazzini dismessi dell’area portuale. Gli incendi riportati dalla stampa risalgono al 10 e al 13 novembre. Ma chi abita nell’edificio segnala almeno cinque episodi nell’arco dell’ultima settimana: uno sotto la pensilina del varco automobilistico; due davanti agli ingressi al piano terra, in punti non utilizzati da chi vive stabilmente nell’edificio; uno al quarto piano, in una stanza dove trovavano riparo alcune persone (qui sono bruciati indumenti, sacchi a pelo e scarpe, senza alcuna traccia di un fuoco improvvisato per cucinare o scaldarsi…); un ultimo episodio sul retro del magazzino 2A, dove qualcuno avrebbe tentato di incendiare materiale da costruzione, in particolare tubi in plastica corrugata. Quest’ultimo tentativo è stato bloccato da due persone afghane, che raccontano di aver messo in fuga due individui le cui intenzioni non parevano né la solidarietà, né la ricerca di un riparo. Nella sola notte tra 15 e 16 novembre sono stati segnalati altri tre tentativi di incendio, avvenuti intorno alle 20, all’1 e alle 3 del mattino. Chi dorme stabilmente nell’edificio riferisce di aver allontanato anche in questa occasione persone estranee che, aggirandosi nei magazzini, erano arrivate fino all’ultimo piano e cercando di appiccare fuochi all’interno di stanze vuote. Diversi elementi rendono fragile la ricostruzione del “fuoco accidentale”: in almeno due occasioni il fuoco è stato acceso al piano terra dei magazzini, in luoghi dove le persone migranti non dormono. Le temperature attuali sono ancora miti e non richiedono l’accensione di fuochi per scaldarsi. Lo scorso inverno si è verificato un solo incendio nei magazzini, mentre ora gli episodi registrati sono cinque in una sola settimana. A questo si aggiungono le testimonianze raccolte, che raccontano di alcune presenze sospette nelle ore in cui sono divampati gli incendi. I vigili del fuoco sono intervenuti due volte insieme a personale dell’Arma, senza che venissero raccolte dichiarazioni da chi vive nelle strutture coinvolte. Nel frattempo le persone costrette a dormire nei magazzini del Porto Vecchio hanno iniziato turni di sorveglianza notturna, affiancate da cittadine e cittadini solidali, che si sono organizzati per mantenere una presenza attiva nella zona al fine di scoraggiare altri possibili incendi dolosi. Alla luce della natura ripetuta e delle modalità degli episodi, le associazioni Volontariɜ e attivistɜ solidali, ICS/Ufficio Rifugiati Onlus, Linea d’Ombra Odv, No Name Kitchen, scrivono in un messaggio diffuso in rete, “ritengono necessario accertare con urgenza se si tratti di incendi dolosi e, in tal caso, se possano essere prefigurati i reati di danneggiamento, incendio doloso nonché tentate lesioni o tentato omicidio, dal momento che la gravità dell’incendio ha – in almeno un caso – messo in pericolo l’incolumità e la vita delle persone che trovavano rifugio all’interno dei magazzini. Appare infatti plausibile l’azione di individui che mirano a fomentare allarme sociale, alimentando narrazioni che criminalizzano le persone migranti…”. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Incendi in Porto Vecchio proviene da Comune-info.
Normalizzare la violenza, la mobilità criminalizzata
-------------------------------------------------------------------------------- Foto Giovanni Izzo -------------------------------------------------------------------------------- Non è casuale. La deportazione dei migranti, rifugiati e richiedenti asilo si è estesa alla stessa velocità della globalizzazione delle merci e dei capitali. In molti dei Paesi occidentali e, gradualmente anche nel Sud del mondo, i campi di raccolta, identificazione, transito ed espulsione si sono moltiplicati. Fare poi appello a Paesi terzi ritenuti “sicuri” in quanto a rispetto dei diritti umani è una pura finzione giuridica senza fondamento. Le violenze insite nelle sinistre operazioni citate, per la loro pervasività e soprattutto per le collusioni coi poteri politici, sono da tempo “normalizzata”. Non fanno notizia, non danno scandalo, non sono pietra di inciampo, non fanno vergognare, non destano reazioni notabili, non generano sconcerto e non lasciano, apparentemente, traccia. Non è casuale. La mobilità, per la sua intrinseca carica sovversiva, è stata “criminalizzata”. Rivendica un’insopprimibile scorta di futuro da inventare per società dove una delle caratteristiche fondanti è, appunto, il controllo dei cittadini. Diventa insopportabile, per il sistema che va per la maggiore, saltare gli schemi che hanno creato frontiere armate per fronteggiare l’arrivo dei “barbari”. Per i greci i barbari erano coloro le cui parole erano incomprensibili, forse non erano parole ma solo suoni selvaggi da cui distinguersi. La libertà di movimento e cioè la mobilità, seppur affermata al numero tredici delle Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, è notoriamente riservata solo ad una parte degli umani che popolano la terra. Non è casuale. Infatti, a ben vedere, il mondo si divide tra quelli che possono viaggiare e quelli che dovrebbero sottostare a residenza sorvegliata. Tutto dipende da dove e da chi si nasce, tutto lì. Il resto sono corollari che la natura stessa ha pensato bene di catalogare. Ci sono i viaggiatori onesti per lavoro, i turisti, i pellegrini e i popoli nomadi. Arrivano poi coloro che, viaggiando senza chiedere permesso alle frontiere sono definiti clandestini, illegali, irregolari e, senza alcun dubbio, criminali. Le persone che dovrebbero scomparire in silenzio dove il destino li ha posti, ribellandosi apertamente alla stanzialità, diventano dunque il bersaglio favorito dei poteri. Sono visti e considerati come una minaccia permanente al disordine stabilito. Non è casuale. E, di fatto, non c’è nulla di peggio, nella vita che abituarsi, normalizzare, “naturalizzare” l’esclusione sistematica di coloro che sono portatori di un nuovo soffio al presente. Assumere come tedioso fatto di cronica la sparizione di migliaia di cercatori di mondi nuovi non potrà che che incentivare una cultura votata alla morte. Sarebbe un errore credere di passare indenni la “banalizzazione” della violenza di cui i campi di detenzione e le frontiere armate sono espressione. Ogni società che usa la violenza come metodo per dirottare, frenare e, in ultimo, tradire la mobilità, smarrirà irrimediabilmente il senso della vita e la sterilità sarà la sua sorte. Solo se ci accorgeremo che le nostre vite sono appese le une alle altre potremo. forse, aiutarci a sognare un altro mondo. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Normalizzare la violenza, la mobilità criminalizzata proviene da Comune-info.
Testimoni
-------------------------------------------------------------------------------- Foto di Mediterranea -------------------------------------------------------------------------------- Martedì sera 6 maggio ricevo un messaggio da David, mio compagno e fratello della rete RefugeesinLibya. “Bro, guarda”. È un video. Una donna con in braccio un bimbo, accovacciata in un androne lurido, la luce scarsa. Sussurra quasi, in una lingua che non conosco. Si vede un’altra ragazza vicino a lei, distesa a terra. David mi scrive. “È chiusa nel lager di Almasri, con lei tante altre mamme con i bambini. Le hanno catturate in mare, hanno fatto dei morti. Adesso le chiedono il riscatto”. Il 2 maggio, di mattina presto, Fatima con il suo bambino, insieme alla sorella Rakuya, più giovane di lei, sale sul barcone di legno ancorato a cento metri dal bagnasciuga della spiaggia di Sabratha. Provo a immaginare quello che nel messaggio non è scritto. Ha dovuto tenere il bambino in alto, sollevarlo con le braccia sopra l’acqua del mare, mentre i miliziani che gestiscono il business dei viaggi, spingevano la gente avanti, ordinando di fare in fretta. 130, 140 persone per un vecchio peschereccio di legno, a due ponti, dove alla fine, dalla stiva al tetto della plancia, non c’è più posto nemmeno per uno spillo. Quelli in stiva devono premersi sulla faccia dei panni bagnati: il fumo del vecchio motore diesel fa soffocare. È un paradosso quel motore: se i suoi pistoni continuano a martellare, il fumo ti fa morire lì dentro. Se si ferma, e l’aria può finalmente entrarti nei polmoni senza ucciderti, si ferma anche la pompa di sentina, che è quella che butta fuori l’acqua altrimenti, pieno così, il barcone affonda. David dice che loro, Fatima e sua sorella, sono profughe etiopi. Guardo il bimbo nel video: avrà un anno. È nato in Libia. La traduzione delle parole di Fatima la fanno tre persone diverse, che parlano altrettante varianti dell’amarico, la lingua ufficiale. Ma magari è tigrino o oromiffa. In Etiopia si parlano ottanta lingue e duecento dialetti diversi. “Aiutateci, siamo all’inferno”. Appena dopo un’ora dalla partenza, i miliziani stavolta in versione “guardia costiera”, hanno assaltato il barcone pieno di gente. Hanno sparato raffiche di mitra. Qualcuno è morto subito, colpito direttamente. Quando sei ammassato in quella maniera, dove scappi? Dove ti ripari? Solo dietro ad altri corpi, se sei fortunato e quello davanti a te è sfortunato. I colpi di mitra passano lo scafo, e incendiano il motore. “Una ragazza è morta bruciata davanti a noi”, dice Fatima nel video. Ritorno a immaginare. Un’ora di navigazione, con un barcone come quello che massimo fa sei nodi, significa che li hanno catturati a sei miglia dalla costa. Acque libiche. Gli stessi che si sono fatti dare i soldi per il viaggio, li hanno venduti ai loro compari. Un sistema criminale come quello del “controllo delle frontiere” ben congegnato. Questi banditi hanno ben compreso il concetto di “massimizzazione dei profitti e minimizzazione del rischio”. Grazie ai finanziamenti del memorandum Italia-Libia, e ai tanti viaggi del Falcon dei servizi segreti carico appunto di “servizi” da rendere ai signorotti della guerra libici, in otto anni gli “scafisti del globo terraqueo” si sono presi il governo libico. Hanno puntato agli apparati di sicurezza: ministero degli interni, polizia, marina militare e guardia costiera. Organizzano le partenze forti del fatto che non esistono vie legali per un profugo, per una madre con suo figlio, di lasciare la Libia verso l’Europa. I corridoi umanitari, che per fortuna esistono ma solo grazie all’impegno della Chiesa, dei Valdesi e dell’Arci, equivalgono a svuotare il mare con un cucchiaio. L’Unione Europea, codarda in questo come in tutto il resto, è solo passacarte di chi ha preso l’iniziativa, e cioè la premier dell’Italia. Che nonostante l’Onu, nonostante la Corte Penale internazionale e nonostante quello che tutti sanno, ha deciso di caratterizzare il suo “impegno” a dare la caccia agli “scafisti del globo terraqueo”, riempiendo di milioni di euro i loro capi. D’altronde, a chi importano le vite di quelle madri, di quei bambini? Come dice Piantedosi, l’importante è che non partano. Fatima e Rakuya sono registrate da UNHCR. Da anni. Come la stragrande maggioranza. Hanno la certificazione da asilo immediato, venendo dall’Etiopia. Eppure niente. Con David riusciamo, dopo molti tentativi, a prendere di nuovo la linea. Parliamo con Rakuya, che ci spiega nel dettaglio. Quella che vediamo nel video distesa a terra, è una ragazza che è morta. Il giorno dopo, ci dice Rakuya, è morto anche un bimbo piccolo, che aveva bevuto molta acqua in mare. Li hanno assaltati sparando, hanno catturato i sopravvissuti e li hanno portati nel lager di “Osama”. Osama è il nome con il quale è conosciuto Almasri, il protetto del governo italiano, che è “capo della polizia giudiziaria libica” e “direttore del Al-Nasr Detention Center”, il lager di Zawhija, cinquanta chilometri a nordovest di Tripoli. Ci facciamo mandare la posizione. Risulta da Google maps, è quello. Il telefono con il quale ci hanno chiamato da quella prigione, è l’unico che sono riusciti a tenersi, nascondendolo. I miliziani è la prima cosa che fanno: spogliano tutti e tutte nudi, e sequestrano i telefoni: l’addestramento gli ha insegnato che non devono rimanere tracce dei loro crimini. A volte sono distratti, qualcuno gli sfugge. Hanno comunicato agli internati che vogliono 6.000 dinari a testa per farli uscire da lì. Ora non immagino più niente. La mia mente si rifiuta di pensare cosa faranno alle donne adesso. Cosa faranno agli uomini. Cosa faranno ai bambini. Mandiamo tutto alla Corte Penale Internazionale. È questo il motivo per cui, per il governo italiano, siamo un “pericolo per la sicurezza nazionale”. Per questo i servizi segreti ci spiano. In Libia non vogliono testimoni. E nemmeno qui. Hanno ricevuto lo stesso addestramento si vede. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTA NOTIZIA DI MEDITERRANEA S.H.: Uccisioni in mare ad opera della cosiddetta guardia costiera libica e gli orrori nel lager di Almasri, protetto dal governo italiano -------------------------------------------------------------------------------- Luca Casarini, Mediterranea Saving Humans -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Testimoni proviene da Comune-info.
L’isola dei bambini mai arrivati. C’è chi giura di averla vista navigare
SONO TANTISSIMI I BAMBINI E LE BAMBINE, I RAGAZZI E LE RAGAZZE CHE ATTRAVERSANO IL DESERTO E IL MEDITERRANEO DA SOLI. NEGLI ULTIMI DIECI ANNI OGNI GIORNO UNO DI LORO È SCOMPARSO IN MARE. MANCAVA PERFINO LA MANO DI UNO DEI GENITORI A DARE L’ULTIMO AIUTO -------------------------------------------------------------------------------- Molti di loro sono certamente passati dal Niger, Terra di Mezzo. Li abbiamo incontrati e poi dimenticati. Erano accompagnati da uno o entrambi i genitori oppure confusi tra fratelli, amici e conoscenti d’occasione. Hanno attraversato non si come il deserto e, per gli strani sentieri del destino, sono riusciti a imbarcarsi e tentare il Mare di Mezzo, il Mediterraneo. Secondo l’ultimo rapporto dell’agenzia Onu per la protezione dell’infanzia l’UNICEF, in dieci anni, almeno 3.500 bambini e bambine hanno perso la vita nel mare, sulla rotta del Mediterraneo centrale. Questa porzione di mare è riconosciuta come la frontiera più mortale del mondo. Ciò significa, sempre per il rapporto citato, che in questi ultimi dieci anni ogni giorno un bambino è scomparso nel mare. Mancava perfino la mano di uno dei genitori a dare l’ultimo aiuto. Sette bambini su dieci che hanno effettuato la traversata viaggiavano soli. Quanti sono giunti sull’altra riva e interrogati hanno confessato che, durante il viaggio, molti di loro hanno sofferto violenze fisiche e altri sono stati arbitrariamente detenuti. Sono fuggiti da guerre, conflitti, violenze, miseria e soprattutto da una parte d’Africa che ha tradito e venduto il loro futuro ai commercianti di vite umane. I bambini fanno parte delle oltre 20 mila persone morte o disperse nel corso egli ultimi dieci anni nello stesso Mare. L’isola dei bambini si è creata da sé, come per caso, un giorno feriale di un anno che nessuno ricorda. Il numero dei piccoli e delle piccole migranti mai arrivati aumentava al quotidiano e si rese necessario, col tempo, organizzare la vita della colonia e far sentire i nuovi arrivati come a casa loro. All’inizio non è stato facile perché i bambini cercavano di imitare quello che ricordavano della società dei grandi. Armi, guerre, muri come frontiere e parole armate generatrici di violenza e divisione. Si organizzò dunque una prima assemblea aperta a tutti i residenti senza distinzione: si decise all’unanimità che l’isola sarebbe stata guidata senza più tener conto del sistema creato dai grandi. Inventarono strade, cortili, piazze, giochi e feste. Alcuni dei più grandi che già avevano imparato un mestiere si industriarono a trasmettere ad altri il loro sapere. Altri e altre organizzavano la cucina, la cura dei più piccoli e rallegravano la vita dell’isola con canti e danze improvvisate. L’isola delle bambine e dei bambini mai arrivati era anch’essa migrante e, in realtà, non andava da nessuna parte. Si muoveva, invisibile o visibile secondo le stagioni e, come esse, mutevole nei colori e nella forma. Quando, da lontano, spuntava un’imbarcazione i bambini migranti innalzavano una bandiera inesistente e accendevano fuochi sperando che il fumo avrebbe segnalato la loro presenza. L’isola è ben là fino a tutt’oggi e continua a ricevere nuovi ospiti ai quali viene chiesto il nome, l’età e il Paese di origine. Nel caso di neonati i nomi sono scelti a seconda dei giorni di sole, di pioggia e di vento. Non c’è una rotta prestabilita perché l’isola inventa ogni giorno nuovi orizzonti e c’è chi giura d’averla vista passare ma c’era nebbia quel giorno. Alcuni dei primi residenti immaginano che un giorno l’isola dei bambini si trasformerà in un continente che avrà dimenticato per sempre l’arte della guerra. -------------------------------------------------------------------------------- Mauro Armanino, vive a Niamey in Niger. Ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura. Questo articolo è stato inviato anche a ilfattoquotidianot.it -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo L’isola dei bambini mai arrivati. C’è chi giura di averla vista navigare proviene da Comune-info.