Tag - idee

I libri sono liberi, ma le opinioni non sempre lo sono
Evidentemente l’Italia ha maturato un problema con i libri. E’ un problema che ha sempre avuto, ma in questi anni si è acutizzato. Non tanto perchè fanno discutere per i loro contenuti, ma perchè fa discutere ciò che rappresentano spesso politicamente. Hanno fatto discutere a partire da chi li ha scritti, dalle opinioni degli scrittori, o lo hanno fatto a partire dai contenuti del libro stesso. Abbiamo anche un problema di schizofrenia con la democrazia, il fascismo, l’antifascismo, la libertà d’espressione e la censura. Problemi che in questi anni ritornano periodicamente al centro del dibattito perchè evidentemente non si sanno gestire. Uso il termine schizofrenia perchè evidentemente ogni anno diventa sempre più patologico. Sembra che non si riesca più a distinguere ciò che è fascista da ciò che non lo è, libertà d’espressione da ciò che non lo è, censura da ciò che non lo è, democrazia da ciò che non lo è. Tutto questo accompagnato da comportamenti confusionari: un anno si critica uno scrittore per le sue opinioni e si invita alla censura; un anno si invita uno scrittore a non presentarsi ad un festival pur essendo stato invitato; un anno nel silenzio assoluto viene esclusa una casa editrice dichiaratamente antifascista dal Salone del Libro di Torino senza che non troppe voci mediatiche si levino in aiuto; un anno alcuni scrittori fanno un appello in contrarietà alla presenza di una casa editrice dichiaratamente fascista senza essere ascoltati. Tutto questo sembra un teatro, una commedia senza trama di cui si intuisce il contenuto e si ignora la conclusione, perchè la fine è sempre diversa: un misero spettacolo da cui si può indagare la salute della nostra democrazia. I fatti recenti, dopo l’appello – firmato tra gli altri da Alessandro Barbero, Anna Foa, Antonio Scurati, Carlo Ginzburg, Giovanni De Mauro, Christian Raimo e Zerocalcare – per chiedere di escludere dall’evento “Passaggio al Bosco”, la casa editrice che pubblica scritti di e su Mussolini, Degrelle, Codreanu e neofascismo, ce lo manifestano senza tante sfumature. Ciò che mi riporta alla mente sono episodi simili che negli ultimi vent’anni l’Italia ha vissuto su questo tema. Nel 2008 il Salone del Libro di Torino dedicò la sua edizione ad Israele “per i sessanta anni della sua nascita”. Un evento percepito mediaticamente come festoso ed importante che solo qualcuno seppe contestare. Il Forum Palestina e altre reti solidali con i palestinesi, organizzarono una efficace campagna di boicottaggio che aprì un discussione a tutto campo nel mondo della cultura e della politica. Moltissimi scrittori, palestinesi e non solo, decisero di non partecipare perchè non aveva senso che una democrazia come l’Italia dedicasse un evento culturale alla nascita di un Paese nato sulla pulizia etnica da parte di gruppi d’estrema destra sionisti e la Nakba del 1948 del popolo palestinese, al quale – già all’epoca – imponeva di vivere in un sistema di apartheid razzista e coloniale fatto di violenza e soprusi quotidiani e repressione militare sistematica. Conclusione: non troppo clamore mediatico e il mondo della cultura italiana celebrava Israele senza che nessuno si indignasse per la sua storia. Nel 2011 nel Veneto leghista, l’allora assessore alla cultura della Provincia di Venezia, Raffaele Speranzon, iniziava una crociata una serie di scrittori italiani invitando alla censura dei loro testi: “Via quegli autori dalle biblioteche pubbliche” – disse pubblicamente. La loro colpa era aver firmato nel 2004 un appello per la liberazione e l’indulto a Cesare Battisti, combattente militante negli anni Settanta nei Proletari Armati per il Comunismo (PAC), organizzazione italiana della lotta armata di estrema sinistra. Fu così che si chiedeva che gli “scrittori pro-Battisti” – così vennero chiamati – venissero messi al bando nelle scuole. “Non chiediamo nessun rogo di libri, intendiamoci. Semplicemente inviteremo tutte le scuole del Veneto a non adottare, far leggere o conservare nelle biblioteche i testi diseducativi degli autori che hanno firmato l’appello a favore di Cesare Battisti”, disse l’assessore regionale all’istruzione Elena Donazzan, 39 anni di Bassano del Grappa, fervente cattolica del PDL, con alle spalle una militanza nel Fronte della Gioventù e un passaggio in An. “Un boicottaggio civile è il minimo che si possa chiedere davanti ad intellettuali che vorrebbero l’impunità di un condannato per crimini aberranti”, sbottava annunciando una lettera a tutti i presidi, mentre nelle biblioteche comunali, nel silenzio generale, stavano sparendo le opere degli autori politicamente scomodi. Donazzan, nota alle cronache regionali per aver deciso di donare a tutti gli scolari delle elementari una copia della Bibbia, dichiarò: “Un autore, un intellettuale, esiste per quello che scrive. Questo è il suo ruolo nella società. Quella a favore di Battisti non è stata una petizione popolare. Ci troviamo davanti a un messaggio aberrante lanciato da intellettuali. A favore di un personaggio che si è macchiato dei peggiori crimini di sangue. L’unica cosa che possiamo fare è boicottare i loro libri. Smettere di leggerli. Non accoglierli nelle biblioteche pubbliche e nelle scuole. (20 gennaio 2011)”. In seguito, a chiederne ufficialmente la censura nelle scuole, era stato l’assessore regionale con l’appoggio del presidente della Regione Luca Zaia, che definì la vicenda di Battisti “abominevole”: “I delinquenti vanno messi in galera, non lasciati liberi”. Intanto casi di censura leghista, strisciante o esplicita, venivano denunciati da alcuni bibliotecari veneti. A venire sconsigliati erano soprattutto i libri di Roberto Saviano. Soddisfatto di aver sollevato “un gran vespaio”, come lo definì lui, l’assessore provinciale Speranzon disse che “Era proprio quello che volevo” anche se poi la presidente della Provincia, la leghista Francesca Zaccariotto, fu costretta a fargli fare marcia indietro. Riassumendo: dei politici locali decisero che era giusto censurare i libri di alcuni scrittori ed intellettuali, che non avevano violato nella regola della nostra fantomatica “democrazia”, solo perchè avevano chiesto in un appello la liberazione di un guerrigliero politico degli anni Settanta, oltre alla richiesta di fare pace con la travagliata storia degli Anni di Piombo, di “assalto al cielo” e di radicalità delle masse. L’azione dei politici leghisti locali fu sicuramente fascista e antidemocratica che violava il diritto alla libertà d’espressione e limitava la diffusione di cultura. Questi politici volevano censurare dei libri sulla base di una loro politicizzazione strumentale di alcuni fatti passati, fondata sulla loro opinione che volevano trasmutare in convinzione di massa. Le opinioni, proprio perchè tali, sono sempre di bassa lega rispetto ai pensieri strutturati e argomentati con cognizione di causa. Ma la storia non finisce qui. Nel 2019, Wu Ming 4 che avrebbe dovuto presentare al Salone del Libro di Torino l’antologia di suoi scritti su “J.R.R. Tolkien Il Fabbro di Oxford” edito da Eterea, decide di annullare la sua presentazione in quanto al Salone del Libro sarebbe stata presente uno stand Altaforte, di fatto la casa editrice di CasaPound, organizzazione d’estrema destra occupante di un palazzo del Ministero dell’Interno che nessuno ha mai sognato di sgomberare. Nei giorni prima la notizia aveva suscitato molte critiche ed esortazioni a tenere fuori dalla kermesse una presenza platealmente neofascista. Dello stesso avviso anche il fumettista ZeroCalcare, che scrisse: “oggettivamente sta roba prima non sarebbe mai successa. Qua ogni settimana spostiamo un po’ l’asticella del baratro”. Come ha risposto il Comitato d’indirizzo del Salone? Con un comunicato che in sostanza dice: “CasaPound non è fuorilegge, dunque può stare al Salone, basta che paghi”. Non tutti seguirono l’esempio, il saggista Christian Raimo, dimessosi da consulente del Salone del Libro, decise di esserci lo stesso “soprattutto per parlare, discutere, ascoltare, e contestare. Ogni spazio pubblico è un campo di battaglia”. Un’opinione condivisibile, soprattutto se il motivo era provare coi propri mezzi a non normalizzare quella presenza inquietante. Riassumendo: Il Salone del Libro decide di invitare una casa editrice di stampo neofascista perchè CasaPound non è fuori legge, ma si dimentica di due punti fondamentali: la Legge Mancino (1993), che punisce l’incitamento all’odio, alla discriminazione e alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, inclusi gesti e simboli; e la Legge Scelba (1952) che vieta la ricostituzione del disciolto Partito Fascista e punisce l’apologia del fascismo, condannando manifestazioni, propaganda e organizzazioni che ne richiamino principi o metodi, con la Mancino che funge da norma sussidiaria per condotte meno specificamente fasciste ma discriminatorie. Questo basterebbe per dire che il neofascismo non è un’opinione tra le altre e che la sua apologia è reato. Nel 2021, invece, al Salone del Libro di Torino succede qualcosa di estremamente insolito: l’esclusione della casa editrice udinese Kappa Vu da parte della Regione Friuli-Venezia Giulia (con la famigerata Mozione 50) dalla partecipazione al “Salone del libro” di Torino previsto dal 14 al 18 ottobre 2021. La comunicazione è avvenuta non con una comunicazione scritta ma con una telefonata, non alla casa editrice diretta interessata, ma all’Associazione di editori di cui Kappa Vu fa parte, con l’avvertimento di esclusione di tutti gli altri editori appartenenti all’Associazione. Si tratta di un fatto gravissimo un fatto grave: una decisione avvenuta in base ad un “giudizio di merito” dal punto di vista politico da parte della Regione Friuli-Venezia Giulia, sulle pubblicazioni della casa editrice stessa in merito alle esecrabili vicende del confine orientale e sulle foibe. Non si tratta di una casa editrice qualunque, ma una casa editrice che pubblica libri su argomenti storici importanti: l’occupazione fascista della Jugoslavia, l’italianizzazione fascista delle terre slave, la resistenza antifascista jugoslava, le foibe, le amnesie di Stato italiane sulle vicende del Confine Orientale, l’antislavismo fascista, i campi di concentramento fascisti dove vennero rinchiusi e sterminate le popolazioni slave etc. La politica non potrebbe operare discriminazioni sulla base di pubblicazioni non ritenute “proprie”. L’Anpi Udine con il coordinatore Dino Spanghero affermò: “inaccettabile e antidemocratico, una violazione della libertà di stampa sancita dalla Costituzione”. Conclusione: evidentemente la Regione Friuli Venezia Giulia ha delle simpatie revisioniste della storia a tal punto da impedire la presenza di una casa editrice che, attraverso la ricerca storica, ha dichiarato guerra al revisionismo storico. Interessante che il Salone del Libro non si sia espresso…. Per concludere, l’art. 21 della nostra Costituzione afferma che “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”, essendo il pluralismo delle idee e dei pensieri, e non la censura, patrimonio delle società democratiche. Un conto è esprimere la propria opinione libera; un conto è imporre forzatamente la propria opinione pensando che debba essere legge; un conto è dichiararsi fascisti e, in quanto tale, pretendere di avere voce in capitolo; un conto è accettare che i fascisti possano essere normalizzati in quanto agenti d’opinione; un conto è escludere chi la pensa diversamente a prescindere proprio per il suo pensiero; un conto è esporsi per chiedere democraticamente chiarimenti su fatti democraticamente inspiegabili come appunto la presenza di case editrici apertamente schierate Credo che sia urgente più che mai discutere ampiamente sui temi della libertà di espressione, dei valori dell’antifascismo e sul fatto che l’apologia di fascismo sia reato. Un questione che prima o poi si dovrà affrontare se vogliamo continuare a vivere in un clima pacifico di dialogo. Lorenzo Poli
Perché l’ideologia woke è di destra
L’ideologia woke già da due anni ha perso smalto e innocenza, per diventare nelle mani delle destre l’insulto ideale con cui screditare ogni lotta contro razzismo, ingiustizia, oppressione. Il wokismo è diventato il dispositivo retorico reazionario della destra per criticare chiunque parli di lotta al colonialismo e all’imperialismo, anche se spesso e volentieri discorsi apparentemente anticoloniali stanno sullo sfondo dei discorsi woke. Non è un caso infatti che erroneamente molti autori progressisti vengono definiti woke, pur non essendolo di fatto. Ciò alimenta ancor di più la confusione sotto il cielo. L’obiettivo della destra è delegittimare chi parla di colonialismo occidentale e dei suoi crimini nella storia degli ultimi secoli, continuando a portare in palmo di mano i presunti “valori occidentali”. Dall’altra parte le esplosioni di puritanesimo rieducativo scatenato dagli eccessi della cancel culture hanno alienato chi, pur di opinioni progressiste, non accettava questo clima di inespressione. C’è chi la demonizza, descrivendola come una sorta di perversione-ossessione, e c’è chi invece la considera una forma addirittura di “progresso morale e spirituale dell’umanità”. Ma che cosa significa Woke? E in che cosa consiste questa nuova ideologia che sembra diventata egemone in molti ambienti della cosiddetta “sinistra neoliberal” occidentale? Sebbene sia fondamentalmente presa di mira dalla destra più reazionaria, davvero è di sinistra? Esistono, oltre alle solite critiche della destra bigotta e conservatrice, anche altre più sensate che mettono a nudo le ipocrisie e fanno luce sui suoi legami con l’attuale sistema-mondo e la sua ideologia di fondo, il neoliberismo? Il termine Woke,– letteralmente “sveglio” – entra ufficialmente nei dizionari dell’anglosfera a partire dal 2017 dopo essere stato adottato dal movimento anti-razzista Black Lives Matter. Non si tratta di una visione politica complessiva e organica, ma di un insieme – spesso anche un po’ caotico – di teorie e di rivendicazioni diverse ma che, secondo autori importanti come Chomsky o Zizek, hanno comunque un senso storico preciso e coerente: un vero e proprio cambio di paradigma nelle teorie e nelle pratiche politiche della sinistra occidentale. La sinistra non di sempre, ma la sinistra liberal: quella che non critica il capitalismo, ma parla di “capitalismo inclusivo”; quella che non parla di liberazione dai sistemi di oppressione, ma di emancipazione nei sistemi stessi; quella che non parla di mettere in discussione gli attuali rapporti di potere, ma vuole integrare tutti negli attuali ruoli di potere; infine quella che non parla di socialismo, ma di “mercato libero” in nome del “neoliberismo progressista”. L’ideologia Woke spazia dai classici temi connessi ai diritti civili ad alcune nuove battaglie culturali che vanno dalla distruzione di monumenti del passato alla politicizzazione degli orientamenti sessuali visti come atti di autoaffermazione, alla legalizzazione della gravidanza surrogata, alla censura del linguaggio ritenuto scorretto: da qui i grandi temi delle “guerre culturali”, la polarizzazione radicale dell’opinione pubblica e la lotta per il politically correct).   Questo nuovo orientamento politico ha origine in quella corrente culturale nota come postmodernismo emersa negli anni Settanta nelle università francesi e poi diffusasi in alcuni ambienti della sinistra liberal americana da cui poi è stata pienamente fecondata. Un nuovo approccio che prenderà anche il nome di New Left e che si caratterizza per una cesura piuttosto netta con la tradizione socialista e marxiana e si fonda su nuove teorie dello sfruttamento e dell’emancipazione più compatibili con le strutture capitaliste. A partire dagli anni Ottanta, con la crisi dell’Urss e l’affermarsi delle strutture economiche neoliberiste, che questa ideologia comincia a diffondersi e ad affermarsi. Per quanto quasi nessuno si definirebbe Woke, oggi nel nostro Paese gran parte di queste idee sono entrate a far parte dell’immaginario politico delle nuove generazioni, e questo anche grazie all’adesione ad alcune delle sue teorie da parte attori, influencer e di buona parte dell’industria dello spettacolo e dell’intrattenimento. Dall’altro lato della barricata, ad avere risonanza sono purtroppo quasi solo le critiche mosse dalla destra bigotta e reazionaria che, in nome di una tradizione da loro arbitrariamente inventata, si erge ad eroica guardiana dei sacri valori del patriarcato, della distinzione dei ruoli di genere e, in generale, di come si facevano le cose una volta. Ma al di là del generale Vannacci e dell’estrema destra italiana, in questi anni anche tanti intellettuali di sinistra hanno preso posizione contro alcune delle tesi antropologiche e politiche dell’ideologia Woke più superficiali e contro l’atteggiamento aristocratico e antidemocratico di alcuni suoi esponenti. Nel suo libro Categorie della politica, Vincenzo Costa sottolinea, ad esempio, anche l’atteggiamento spesso elitario e classista di questa nuova sottocultura. Maturata all’interno delle università, l’ideologia Woke ha infatti fatto presa soprattutto negli ambienti di lavoro intellettuale e negli strati più agiati della popolazione. Nonostante il bombardamento mediatico, le classi popolari ne sono rimaste sostanzialmente estranee e, anzi, spesso guardano ad essa con ostilità e sospetto. Come scrive la giornalista Florinda Ambrogio: “La correlazione tra redditi alti dei genitori e comportamenti Woke dei figli salta agli occhi. […] In Francia, solo il 40 per cento degli operai ha sentito parlare della scrittura inclusiva e solo il 18 per cento sa di che cosa si tratta, contro il 73 per cento nelle categorie superiori.” Ma questa diffidenza e ostilità non è casuale e ha ragioni politiche profonde. Nella New Left postmoderna vengono infatti ridefinite le nozioni di dominio e di emancipazione: il soggetto da emancipare smette di essere identificato nei ceti subalterni e nelle classi lavoratrici – ossia le persone vittime della miseria e della precarietà – per diventare le minoranze etniche e sessuali e di coloro che, indipendentemente dal reddito, sono considerati o si sentono “diversi”. Diventando questi ultimi i soggetti sociali da emancipare, gli operai, contadini, impiegati e, in generale, le classi popolari, a causa della loro cultura – che viene considerata dallo wokismo retrograda, ignorante e prevaricatrice – diventano magicamente espressione del nuovo potere da abbattere. Dalla lotta politica allo sfruttamento e per l’emancipazione del 99% quindi, con l’ideologia Woke si passa alla lotta culturale contro il costume e le tradizioni popolari, ritenute come un bacino uniforme di sessismo, razzismo, omofobia. Per questo, scrive Costa, “anche l’atto rivoluzionario non consiste più nello spezzare i legami di potere e dipendenza tra le classi e gli uomini, ma nel distruggere la cultura popolare come emblema di oppressione delle minoranze”. Diventa quindi chiaro perché la sinistra liberal appaia sempre più spesso un’elitè che, demonizzando lo stile di vita e i legami comunitari, vorrebbe imporre loro una rieducazione dall’alto in base alle proprie convinzioni di nicchia. “Categorie della politica” di Vincenzo Costa Come nota Zizek, questo progetto è probabilmente destinato a fallire. “Sceneggiatori, registi, attrici e attori” – scrive il filosofo marxista sloveno in un articolo chiamato Wokeness is here to stay – “cadono sempre di più nella tentazione di impartire lezioncine moraleggianti. Una forzatura che non ha riscosso successo tra il pubblico, nonostante il settore dell’immaginario è dove si conquista il mondo reale e si rovescia il pensiero delle persone”. Differentemente dalle grandi figure della tradizione socialista, insomma, queste nuove forme di “intellettualismo degenerato” (parafrasando Adriana Zarri, quando si scagliava sia contro il pensiero unico democristiano sia contro i falsi intellettuali pronti ad esaltare la società dei consumi), non sembrano interessati ad ascoltare e a dare voce agli interessi della maggioranza delle persone, ma solo a biasimarne gli stili di vita accusandoli di ignoranza e discriminazione: “Quella che in origine era una sacrosanta volontà di uguaglianza di diritti” – continua Costa in Le categorie della politica – “rischia di diventare una vera e propria guerra culturale dei primi contro gli ultimi”. Un esempio emblematico, in questo senso, è il caso del cosiddetto linguaggio inclusivo: in maniera del tutto arbitraria e in barba ai secolari processi storici di formazione linguistica, alcune nicchie di intellettuali americani e europei hanno deciso di voler modificare alcune desinenze e pronomi, accusando di discriminazione e prevaricazione tutti coloro che non si adeguano. Il linguaggio è un discorso molto più complesso e non avviene mai per scelte arbitrarie prese da un momento all’altro. Mentre si bersagliano i plurali linguistici, a non essere mai toccate dalle critiche Woke sembrano essere proprio le principali cause della riproduzione della diseguaglianza e della discriminazione, ossia i meccanismi di mercato e di distribuzione della ricchezza. Per dirla con una battuta “Ci si emancipa con successo dall’oppressione di grammatica e sintassi, mente ci si prosterna accoglienti verso i consigli per gli acquisti degli influencer” scrive Andrea Zhok. Alla luce di questa trasformazione nei concetti di “discriminazione” ed “emancipazione” appare ora molto più chiaro il nesso tra cultura Woke e neoliberismo e la ragione per la quale i grandi poteri di questo mondo si siano spesso fatti portavoce di questa nuova ideologia. Nel wokismo, le questioni socioeconomiche, i rapporti tra lavoro e capitale, lo strapotere della finanza internazionale e la perdita di sovranità democratica vengono surclassate. Centrale è invece il tema dell’identità e delle narrazioni identitarie poichè a destare scandalo è la notizia di cronaca, sulle quali si fa leva per generare consenso. In secondo luogo, il wokismo promuove una politica dell’individualismo e della frammentazione in cui ogni fronte comune che si fondi sull’interesse nazionale, sull’interesse di classe, sull’interesse di una comunità locale viene infiacchito da conflitti privati di autoaffermazione. Si parla spesso, per questa tendenza, di Identity politics – politiche dell’identità -, ma sarebbe più giusto parlare di politica di rigetto dell’identità, visto che ogni identità collettiva viene percepita con disagio da individui abituati a pensare che la libertà sia totale assenza di vincoli e legami e che il processo di liberazione sia sempre un processo non con, ma contro ogni comunità di appartenenza: per citare Sartre, per i rappresentati della cultura Woke, “l’altro è l’inferno.” A partire da questo tema, un’altra grande critica all’ideologia woke è stata mossa dalla filosofa Susan Neiman – statunitense trapiantata in Germania – nel suo libro “La sinistra non è woke. Un antimanifesto”. Dappertutto sta risorgendo un nazionalismo feroce e cinico, contrapposto alla globalizzazione e l’elezione di Donald Trump è arrivata a coronare una rimonta delle destre reazionarie in tutto il mondo, con punte di neofascismo o addirittura neonazismo. Com’è potuto succedere? Neiman ha una sua risposta. Non è economica, geopolitica o tecnologica, ma è una risposta culturale: la destra ha vinto perché la sinistra non esiste quasi più. Come ha dichiarato Neiman in una intervista a La Repubblica: «È dal 1991 che la sinistra è allo sbando. Non solo il socialismo di Stato; ogni forma di socialismo è stata vista come fallimentare. In più, con la fine del socialismo di Stato è come se si fosse estinto ogni altro ideale e proprio qui il neoliberalismo, sostenuto dalla psicologia evoluzionistica, ha sostenuto e propagandato che l’unica forza universalista valida fosse il desiderio generale per beni di consumo e potere. E quelli a sinistra che non accettavano di aderire a questa prospettiva, si sono sentiti senza alternative se non combattere l’oppressione in termini molto particolari: la lotta al razzismo, al sessismo e all’omofobia. Lotte fondamentali, ma che non si possono portare avanti senza quei princìpi che proprio il progressivismo woke ha abbandonato». Dalla seconda metà del Novecento, secondo Neiman, i valori della sinistra sono stati messi in discussione proprio da certe frange neoliberali e movimentiste. Ed è così che molti fra coloro che oggi si considerano “di sinistra” non sono davvero “di sinistra”, ma sono “woke”. Che è una cosa diversa, anzi, in un certo senso è proprio il contrario: un movimento che vive la modernità in tutti i suoi aspetti futili, ma diffida delle sue fondamenta spesso senza cognizione di causa; che vive del mito del progresso economico, ma diffida dei suoi presupposti; che nega ogni fronte comune possibile, frammentando il corpo sociale in tribù identitarie in lotta; che rinuncia ai diritti sociali e si aggrappa esizialmente ai diritti civili. Già alla prima riga, Susan Neiman dichiara che questo libro non è «una tirata contro la cancel culture», ma è molto di più: un anti-manifesto, una lucida requisitoria sugli sbagli che la sinistra ha fatto, in questi decenni confusi. Perché è solo tornando a costruire, dalle fondamenta dei propri valori, che la sinistra può risorgere. «Woke fa appello alle tradizionali emozioni liberali e di sinistra: il desiderio di aiutare oppressi ed emarginati. Per questo motivo si tende a sottovalutare i vari modi in cui il movimento woke è profondamente minato al suo interno da idee molto reazionarie: il rifiuto dell’universalismo, la negazione che esista una distinzione di principio tra potere e giustizia, credere che ogni tentativo di progresso sia una forma mascherata di sottomissione. Tutte le idee che il woke tenta di boicottare sono valori fondamentali di sinistra» – ha affermato Neiman nell’intervista a La Repubblica – «(…) confonde la mente a progressisti e liberali che non riescono ad agire con chiarezza e, come si vede dalle recenti iniziative di Donald Trump, consente alla destra di qualificare e attaccare come woke qualsiasi tentativo di promuovere la giustizia sociale». Secondo la Neiman, è stata l’ideologia woke, con la sua retorica spesso irragionevole, a spalancare la strada alla destra più reazionaria. Il principale merito del pamphlet di Susan Neiman (che sta sbancando negli Stati Uniti) è di spiegare bene che il wokismo, un’ideologia fondamentalmente di destra, si è impossessata di ampie frange della sinistra. Neiman documenta brillantemente lo svilimento delle lotte “umanistiche” in rivendicazioni identitarie, l’infiltrarsi delle categorie schmittiane “amico-nemico” nel discorso politico di sinistra, la rinuncia alla concezione progressiva della storia ereditata dall’illuminismo. Rigettando universalismo, giustizia e progresso, i woke si sono sostanzialmente uniformati al particolarismo, all’ideologia del dominio e all’abolizione della speranza. Neiman non ha timore di dichiararsi socialista e persino illuminista. Se si va a vedere, la sua pars construens non è lontana da quella offerta da Axel Honneth in L’idea di socialismo. “La sinistra non è woke. Un antimanifesto” di Susan Neiman Ma la soluzione a queste contraddizioni non sarebbe il tanto ripetuto argomento per il quale bisogna portare avanti sia i diritti civili che quelli sociali? Sicuramente, ma dovremmo anche fingere di non vedere che, da mezzo secolo, il dibattito pubblico verte solo sui primi, mentre sono solo i secondi ad andare a picco; a questo proposito, una menzione merita l’ultimo libro di Carl Rhodes – Capitalismo Woke – dedicato ad un fenomeno in espansione, quello del Wokewashing, e cioè l’attitudine delle aziende a sostenere cause progressiste quali l’ambiente (greenwashing e veganwashing), le cause LGBT (pinkwashing o rainbow-washing), l’antirazzismo (blackwashing), i diritti delle donne (purplewashing), le azioni umanitarie (bluewashing), i diritti animali (animal-washing), o addirittura i temi sociali e i diritti del lavoro (redwashing): dal ricco CEO di BlackRock che tuona contro le discriminazioni allo spot di Nike contro il razzismo; da Gillette che fustiga la mascolinità tossica al sostegno di varie compagnie al referendum australiano del 2017 sul matrimonio omosessuale. Questi non sono esempi isolati: “Fra le imprese, soprattutto quelle globali, vi è una tendenza significativa ed osservabile a diventare woke” scrive Rhodes, tanto che “Secondo il New York Times il capitalismo woke è stato il leitmotiv di Davos 2020”. L’autore – che non è certo un conservatore di destra – ha, nei confronti di questo fenomeno, una posizione piuttosto negativa e ne sottolinea l’aspetto ipocrita e strumentale volto a sviare l’attenzione dalle pratiche oligarchiche e antisociali dei grandi gruppi economici: «È tempo di abbandonare l’idea che le imprese, in quanto attori principalmente economici, possano in qualche modo aprire la strada politica per un mondo più giusto, equo e sostenibile. Il capitalismo woke è una strategia per mantenere lo status quo economico e politico e per sedare ogni critica. Questo libro è un invito a opporgli resistenza e a non farsi ingannare». E’ infatti facile vedere come fra i temi di tale impegno ci sia una forzosa selezione determinata dai propri interessi: non si è ancora visto, ad esempio, le grandi aziende scendere in campo contro l’elusione fiscale, dato che sono i primi a praticarla. In qualche modo, Capitalismo woke di Carl Rhodes si sposa perfettamente con la critica, che fece la giornalista e saggista Naomi Klein in No Logo, ai processi di rebranding e di rebrandizzazione delle menti da parte delle multinazionali con il fine di rifarsi una verginità a fini di immagini pubblicitarie e propagandistiche. L’ideologia Woke, secondo Rhodes, sta diventando il corrispettivo di ciò che era il cristianesimo per la borghesia dell’800 e 900: un modo per vendersi come difensori della morale e del bene, sviando l’attenzione dalle forme sistemiche di sfruttamento che portano avanti. Dopo aver lottato contro il moralismo religioso di stampo cristiano di qualunque declinazione, ci troviamo oggi imbrigliati in una forma rigenerata di moralismo laico che nulla ha di diverso strutturalmente rispetto al primo se non nei contenuti. “Capitalismo woke. Come la moralità aziendale minaccia la democrazia” di Carl Rhodes Il wokismo è un esempio di americanizzazione culturale in nome dell’individualismo liberale della società dei consumi dove tutto (corpo, idee, pensiero, identità, linguaggio) finisce per essere frammentato oltre ad essere poi ridotto a merce o a feticcio. Pier Paolo Pasolini, uno dei primi critici ante-litteram dell’ideologia woke, pochi mesi prima di essere ammazzato, aveva capito che sotto la copertura delle giuste rivendicazioni politiche delle minoranze si stava sviluppando una nichilistica distruzione di tutte le forme di vita difformi alla norma del consumismo individualistico. Così, a tal riguardo, scriveva sul Corriere della Sera nel 1975: “Tale rivoluzione capitalistica dal punto di vista antropologico pretende degli uomini privi di legami con il passato, cosa che permette loro di privilegiare, come solo atto esistenziale possibile, il consumo e la soddisfazione delle sue esigenze edonistiche. […] tale nuova realtà ha tratti facilmente individuabili; borghesizzazione totale e totalizzante; correzione dell’accettazione del consumo attraverso l’alibi di un’ostentata ed enfatica ansia democratica, correzione del più degradato e delirante conformismo che si ricordi, attraverso l’alibi di un’ostentata ed enfatica esigenza di tolleranza”. Nulla di più vero. Questa società ha un immenso bisogno di diritti civili, che possono progredire di senso solo laddove sono accompagnati dallo sviluppo dei diritti sociali, altrimenti rimarranno diritti per pochi. Come direbbe la filosofa femminista e marxista Nancy Fraser, serve più che mai una ribellione del 99% della popolazione per pensare ad un mondo di verso in nome della cura, delle relazioni, della difesa dell’ambiente dalle follie delle nostre società capitaliste industriali opulente odierne. Servono alleanze dal basso per capire l’interconnessione di eventi e fenomeni perché non ci si salva da soli, ma serve capire quali siano i nostri interlocutori senza farci abbindolare da distrazioni di massa volte solo a canalizzare la rabbia collettiva per disperderla nel nulla, illudendoci di essere incisivi mentre i fatti di questo mondo ci ricordano che siamo sempre più impotenti.   (1) Vi è una sola pecca nel libro: un sostanziale fraintendimento di Foucault, di cui va di moda dire che è un postmodernista scettico, relativista e celebratore di una “concezione neutra del potere”. Il grande accusato è “Sorvegliare e punire”. Ma Foucault va letto fino agli ultimi corsi al Collège de France, per capire anche le prime opere e la sua critica radicale ad ogni potere. E Neiman finisce invece per alimentare questo superficiale cliché.   Ulteriori info: https://www.ondarossa.info/iniziative/2025/02/capitalismo-woke  https://www.futuroprossimo.it/2024/06/dal-blackwashing-al-rainbow-washing-per-le-aziende-impegno-o-facciata/ https://site.unibo.it/canadausa/it/articoli/fenomenologia-della-cancel-culture-tra-woke-capitalism-e-diritti-delle-minoranze https://www.limesonline.com/rivista/censura-e-wokismo-uccidono-l-universita-tedesca–16365764/ > Capitalismo woke https://www.globalproject.info/it/in_movimento/cannibalizzazione-e-resistenza-lecopolitica-anticapitalista-di-nancy-fraser/25269 https://www.leftbrainmedia.co.uk/post/the-comfortable-embrace-how-the-woke-left-serves-capital Lorenzo Poli
Israele, quando oltre le idee di giusto e sbagliato c’è un campo (di concentramento)
Proponiamo di seguito una riflessione per Pressenza Italia dello scrittore e saggista trapanese Luca Sciacchitano sulla situazione attuale tra Israele e Palestina. Sciacchitano, Classe 1975, laureato in scienze e tecnologie delle arti e linguistica moderna, vive e lavora a Trapani dove è titolare di un’azienda pubblicitaria e di una scuola di inglese. Attivista sociale, ha scritto per diverse testate locali e nazionali, ha pubblicato diversi romanzi e saggi e “Il Pelecidio, perché è moralmente giusto criticare Israele”  è il suo ultimo libro edito da Multimage-casa editrice dei diritti umani. Le prime 50 pagine sono scaricabili gratuitamente a questo link   È risaputo che la mente umana tende alla semplificazione cognitiva tramite ragionamenti euristici binari. Si tratta di teorizzazioni postulate da Kahneman e Tversky negli anni ’70, secondo le quali concetti complessi ed estremamente sfumati vengono compressi dentro un Tao bicromatico (nero o bianco) incapace di trattenere al suo interno tutte le varie sfumature situazionali. La semplificazione cognitiva, a mio avviso, è la marca di riferimento del pensiero contemporaneo dove lo slogan sostituisce la complessità, la rapidità delle informazioni occupa il posto che prima spettava all’approfondimento. Il concetto di “timeline” domina le nostre tempistiche che necessitano di frenetici rabbocchi di contenuti, scoop, esclusive, foto, slogan, urli. Tutto ruota vorticosamente; la forza centrifuga scaglia via il vecchio e risucchia il nuovo per pochi “frame”. Poi di nuovo nel pattume. E il frullatore continua a girare. Dentro questo meccanismo socio-biologico si innestano tutte quelle strategie politiche che necessitano di consegnare a un rapido oblio i propri errori. Emerse all’opinione pubblica per dovere di cronaca, queste macchie hanno la caratteristica di sfilarsi dai palinsesti con la stessa rapidità con cui vi sono entrate. Magari manipolate in narrazioni superficialmente più “soft”. E dunque, oggi, nella timeline che chiameremo “della redenzione”, quasi tutti i politici occidentali iniziano a condannare il primo ministro israeliano Netanyahu addossando a lui le colpe del genocidio in corso; sarà capitato a tutti di vedere il suo volto in bianco e nero con sotto uno slogan accusatorio (magari con un bel font sporco) dentro uno qualsiasi dei prodotti mediali che consumiamo giornalmente. Il male da un lato, il bene dall’altro. Euristica cognitiva. Eppure la questione è molto più complessa e gioca come un’equilibrista su un filo sospeso sopra il vuoto dell’antisemitismo, tra i cui esempi, (secondo l’International Holocaust Remembrance Alliance) c’è il “considerare gli ebrei collettivamente responsabili per le azioni dello Stato di Israele[1]”. A parte l’excusatio non petita di un’associazione che sembrerebbe mettere le mani avanti, consapevole dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità (e a breve, probabilmente, del genocidio) che lo Stato di Israele sta e ha commesso negli ultimi 70 anni, colpisce l’illogicità della loro affermazione. Secondo l’IHRA, “considerare gli ebrei collettivamente responsabili per le azioni dello Stato di Israele” sarebbe antisemitismo. Ma cosa succede se una larghissima parte di quella collettività approva apertamente quelle azioni? È qui che il principio mostra tutta la sua fragilità: ignora il peso del consenso e congela la realtà dentro un dogma astratto. In una democrazia, lo Stato è espressione diretta della volontà popolare e se la stragrande maggioranza sostiene certi crimini, parlare di responsabilità collettiva non è più un pregiudizio, ma una constatazione. Per addentrarci nei numeri, nel mio libro “Il Pelecidio, perché è moralmente giusto criticare Israele” viene certificato il 48,38% degli israeliani che hanno votato, alle elezioni 2022, per partiti nei cui programmi era sostenuta la politica di espansione delle colonie e/o l’annessione delle stesse in una “Grande Israele”, non escludendo la possibilità dell’eliminazione (fisica o diatopica) dei palestinesi lì residenti[2]. Eppure, secondo una recente inchiesta del giornale israeliano Haaretz, in collaborazione con la Pennsylvania State University, l’appoggio al genocidio di Gaza da parte della popolazione israeliana avrebbe contorni ancora più nefasti[3]. Ben l’82% degli israeliani si dichiara favorevole alla pulizia etnica nella Striscia di Gaza e un preoccupante 47% degli intervistati è favorevole all’uccisione dei rimanenti civili all’interno di Gaza (quindi, favorevoli al genocidio dei gazawi). Di fronte a questi numeri, la definizione dell’International Holocaust Remembrance Alliance diventa una gabbia dentro cui il pensiero dicotomico si dissolve. Questo perché dovremmo un giorno essere chiamati a scegliere tra antisemitismo o giustizia; ritenere responsabili l’82% di criminali oppure puntare il dito contro il 47% dei genocidari potrebbe far calare su di noi la mannaia dell’accusa antisemita. Si tratta di una questione centrale, da mettere sotto l’occhio di bue dell’attenzione internazionale perché altrimenti (pensiero dicotomico) diventa fin troppo facile accusa Benjamin Netanyahu di crimini di guerra e scaricare le responsabilità di un’intera narrazione genocidale solo sulle sue spalle. Il premier israeliano è con tutta evidenza al capolinea della sua parabola umana e politica. Sotto processo in patria e alla sbarra nei tribunali internazionali, con un futuro ormai segnato, sarebbe il perfetto capro espiatorio per mondare i peccati dei tanti. In fondo, com’è che si dice? Sui cadaveri dei “leoni” festeggiano i cani. Eppure, se non affrontiamo di petto i tragici numeri evidenziati dall’Università della Pennsylvania, la certezza è che presto verrà eletto un nuovo Netanyahu, con nuove pulizie etniche e nuovi genocidi. È per questo il motivo che diventa imperativo morale puntare il dito sia su Israele sia su tutti coloro che al suo interno si rendono complici del genocidio in corso. Perché i diritti umani volano spanne sopra le propagandistiche accuse di antisemitismo. E se per difendere la vita di un bambino innocente si verrà bollati da coloro che quel bambino vogliono uccidere, beh, fatevi sotto. Noi siamo la civiltà contro le vostre barbarie. E se la nostra civiltà dovrà attaccarsi al petto la coccarda di un antisemitismo pretestuoso, lo si farà a testa alta.   [1] https://holocaustremembrance.com/resources/la-definizione-di-antisemitismo-dellalleanza-internazionale-per-la-memoria-dellolocausto [2] https://multimage.org/libri/il-pelecidio/ [3] https://www.haaretz.com/israel-news/2025-05-28/ty-article-magazine/.premium/yes-to-transfer-82-of-jewish-israelis-back-expelling-gazans/00000197-12a4-df22-a9d7-9ef6af930000 Redazione Sicilia