DL Sicurezza: la repressione del dissenso attraverso la tutela delle forze di polizia
Dallo scorso 11 aprile, il più grande attacco alla libertà di protesta della
storia repubblicana italiana si è trasformato in un decreto che si appresta ad
essere convertito in legge. Coerentemente con il suo contenuto autoritario e
antidemocratico, pensato e disegnato per reprimere il dissenso e colpire
duramente le più disparate soggettività già socialmente vulnerabili, le sue
modalità di introduzione sono anch’esse antidemocratiche: come al solito
emergenziali, motivate da improbabili ragioni di straordinaria necessità ed
urgenza, con tanto di voto di fiducia, al riparo da quella che dovrebbe essere
la naturale dialettica democratica. D’altronde, i cosiddetti pacchetti
sicurezza, varati dai governi di ogni colore e provenienza, hanno da sempre
assunto la forma del decreto (ricordiamo i decreti “Maroni”, d.l. 23 maggio
2008, n. 92; “Minniti”, d.l. 20 febbraio 2017, n. 14; “Salvini”, d.l. 4 ottobre
2018, n.113). Non c’è dunque da meravigliarsi, ma neanche da arrendersi.
> Uno Stato che a forza di decreti si preoccupa dell’ampliamento delle tutele
> delle forze di polizia, relegando all’oblio delle sue agende politiche la
> strage che da oltre un anno si sta consumando nelle galere sempre più
> sovraffollate, è uno Stato che sta dichiaratamente affinando e ampliando un
> potere di sopraffazione sui corpi, utilizzato per incapacitare la
> vulnerabilità sociale e reprimere il dissenso.
Sotto l’apparente neutralità di approntare una tutela efficace alle forze
dell’ordine si introducono nuovi reati, ampliando le pene di quelli già
esistenti e aggiungendo senza alcun criterio di ragionevolezza delle nuove
circostanze aggravanti. Sempre nel capo terzo del decreto, dedicato alla tutela
delle forze di polizia, si prevedono i nuovi reati di rivolta penitenziaria,
così come nei luoghi di accoglienza e trattenimento per migranti. C’è da dire,
però, che la forza di polizia, nell’adempimento del suo mandato di tutela
dell’ordine pubblico, è tutto fuor che neutrale. Mantenere l’ordine, specie
nelle piazze o nelle strade dove si svolge una protesta, tanto più quando
pacifica, (spazi di libertà, questi sì, che dovrebbero essere tutelati secondo i
dettami della nostra democrazia costituzionale) significa conservare un
determinato ordine sociale e di classe, che è anche un ordine simbolico. Ed è
proprio rispetto all’accaparramento di questo capitale simbolico che si
comprende l’inquietudine scomposta del governo nel troncare l’iter legislativo
per ragioni, come ammette lo stesso Ministro dell’Interno, “di opportunità”.
È un consenso di cui si nutrono i populismi di ogni sorta, in quelle che il
filosofo Luigi Ferrajoli chiama demoastenie. Si tratta di un consenso passivo e
vacillante, sorretto da una paura artificiale sul quale hanno soffiato e
continuano a soffiare i governi preoccupati dalla costante perdita di
legittimazione politica. Quest’ordine simbolico viene preservato e nutrito a
suon di decreti, nuovi reati, misure di sicurezza e più potere alla polizia che
ne è garante.
> Si finisce in una forma patologica di democrazia, in cui il popolo è inteso
> come soggetto passivo non autorizzato ad attivarsi per concorrere
> democraticamente alla politica nazionale.
La piazza e le strade, invece, diventano terreno di contesa e di comunicazione
unilaterale. Quanti feriti tra le forze di polizia, quanti facinorosi tra le
fila dei manifestanti. In questo modo, il corpo degli agenti viene
strumentalizzato, divenendo esso stesso mezzo di repressione. Non solo
attraverso le braccia armate di scudi e manganelli, ma anche attraverso i
referti medici, dal quale conseguiranno anni di galera per i manifestanti.
Questi ultimi, magari, individuati in modo approssimativo tramite le bodycam
previste dall’art. 21 del decreto, da cui vengono estratte immagini
decontestualizzate da utilizzare per risalire ai volti presenti in situazioni
concitate, come quelle che si verificano durante una carica della polizia.
Dietro la repressione del dissenso e il contenimento muscolare della marginalità
sociale, sulle strade, in carcere o nei CPR, c’è un non tanto velato desiderio
di disciplinamento e di addocilimento forzato. Manifestare oggi è quindi
necessario per poterlo fare anche domani, in ogni luogo.
Immagine di copertina di Renato Ferrantini
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