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L’Uganda sta soffocando nei nostri abiti usati
> Cosa succede realmente ai nostri abiti usati quando li “doniamo”? Spesso li > regaliamo alle organizzazioni umanitarie, convinti di fare una buona azione. > Dopo tutto, possono essere riutilizzati e comprati anche a buon mercato. > Tuttavia non tutto è destinato al riuso. Capita che certi oggetti si trovino > in quantità eccessive e il più delle volte perfino in cattive condizioni, come > i nostri vecchi vestiti che stanno sommergendo l’Uganda. Ogni anno in Austria vengono prodotte 228.100 tonnellate di rifiuti tessili: abiti vecchi, scarpe usate, tessuti per la casa e per l’arredamento di cui circa il 17% viene riutilizzato e riciclato, ma la maggior parte viene incenerita. Un’altra grande percentuale viene esportata. Nel 2022 sono state esportate ben 67.000 tonnellate di rifiuti tessili. Spesso non è chiaro dove vadano a finire, avverte l’Associazione austriaca per la Politica dello Sviluppo e per la Giustizia globale, Südwind. 80.000 TONNELLATE DI ABITI USATI ESPORTATI IN UGANDA NONOSTANTE IL DIVIETO DI IMPORTAZIONE Uno di questi Paesi a farsi carico dei nostri vecchi abiti è proprio l’Uganda. Ogni anno nel Paese africano orientale vengono scaricate 80.000 tonnellate circa di vestiti usati, nonostante il divieto di importazione di abiti usati introdotto nel 2023 dal presidente Yoweri Museveni. Gli abiti vengono raccolti, selezionati, smistati e venduti al mercato di Owino nella capitale Kampala. Il commercio del second hand è un mercato enorme in cui si stima lavorino 700.000 persone, soprattutto giovani e donne, ed è un grande problema, riferisce Faith Irene Lanyero, sindacalista dell’Uganda Textile Garments, Leather & Allied Workers Union. VESTITI USATI IN UGANDA: LE IMPRESE LOCALI DI ABBIGLIAMENTO SONO IN DIFFICOLTÀ L’industria tessile ugandese sta vivendo un periodo difficile a causa del basso costo degli abiti di seconda mano. Due sono le ragioni che concorrono a svantaggiare la produzione locale. In primis gli abitati usati vengono venduti ad un prezzo più basso rispetto all’abbigliamento prodotto in loco e in secondo, molte persone considerano gli abiti di seconda mano provenienti dall’estero di qualità superiore rispetto a quelli prodotti localmente, nonostante, secondo Lanyero, il 60% degli abiti usati non è più utilizzabile e quindi è un rifiuto. GLI ABITI USATI: UN PERICOLO PER LE PERSONE E PER L’AMBIENTE Grandi quantità di vestiti usati finiscono nell’ambiente, insieme ad altri rifiuti, rilasciando microplastiche e sostanze inquinanti. Quello che quasi tutti ignorano è che i problemi riguardano anche l’Europa, se pensiamo ai pesci che prima ingeriscono le microplastiche dei nostri vecchi vestiti e poi vengono esportati per il consumo alimentare, spiega Faith Irene Lanyero. Inoltre, gli indumenti finiscono nei corsi d’acqua e nei condotti idrici e li ostruiscono, causando inondazioni. Sulla terraferma spesso si accumulano enormi cumuli di rifiuti che rappresentano un pericolo da non sottovalutare. Nell’agosto 2024, ad esempio, la discarica di Kiteezi, di 14 ettari, a Kampala, ha iniziato a franare dopo le piogge, seppellendo diversi edifici residenziali e causando la morte di 21 persone. Un “disastro che era prevedibile”, ha dichiarato il sindaco di Kampala, Erias Lukwago, all’agenzia di stampa AFP. UNA MALEDETTA BENEDIZIONE Sicuramente il divieto di importazione non rappresenta una soluzione, almeno non nel breve periodo, sottolinea il sindacalista. Da un lato, il mercato del second hand è un’importante fonte di occupazione, anche se spesso non ufficiale e quindi sempre un problema rimane se pensiamo ai diritti dei lavoratori. I salari sono bassi e le tutele scarse. La sindacalista riferisce di lavoratori che vengono rinchiusi e che passano lunghi turni al caldo senza cibo né acqua potabile e di abusi, delle vere e proprie condizioni di “schiavitù moderna”. Un altro aspetto che, secondo Lanyero, è ancora parzialmente a favore del mercato degli abiti di seconda mano è la sua offerta di capi a prezzi accessibili per le persone con un reddito basso; uno svantaggio per l’industria tessile locale che non è in grado di soddisfare la domanda di abiti richiesti, a causa di vecchi macchinari impiegati nella sua produzione. QUALI SOLUZIONI? Secondo Lanyero e la portavoce di Südwind, Gertrude Klaffenböck, le soluzioni a breve e a lungo termine di cui avremmo bisogno includono: maggiore trasparenza sulla destinazione dei nostri vecchi abiti; norme più severe per le esportazioni di abiti usati, in modo che non siano più costituiti per il 60% da rifiuti tessili; diritti più forti per i lavoratori e posti di lavoro equi. Inoltre, le leggi dell’UE hanno il dovere di promuovere la giustizia sociale ed ecologica nel commercio. Tuttavia, i primi passi in questa direzione sono già stati fatti. Lanyero riferisce di un progetto di riciclaggio tra l’UE e l’Uganda, già avviato e destinato a fornire una soluzione temporanea per i rifiuti. L’obiettivo è quello di riciclare gli indumenti in filati. Tuttavia, è importante che venga gestito e attuato correttamente. Secondo Klaffenböck, sono di fondamentale importanza altri tre strumenti giuridici a disposizione dell’UE, che nascono anch’essi da una fase precedente e impongono obblighi alle aziende manifatturiere: il regolamento sulla progettazione ecocompatibile (ESPR), che mira a rendere i prodotti più efficienti dal punto di vista energetico e delle risorse e a migliorarne la riciclabilità. La Responsabilità Estesa del Produttore (EPR), che incoraggia le aziende a progettare prodotti e processi produttivi più sostenibili e riciclabili e la legge sulla catena di fornitura, Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CSDD). Südwind ha grandi speranze per quest’ultima, dice il portavoce delle filiere tessili. “Tuttavia, stiamo assistendo a un’industria che si lamenta della burocrazia quando è chiamata a rispettare i requisiti dei diritti umani e del diritto internazionale. Se la legge europea sulla catena di approvvigionamento verrà effettivamente annacquata, come si teme, le aziende dell’ultra fast fashion e della fast fashion rimarranno relativamente incontrastate e potranno continuare ad agire indisturbate come prima”, avverte. Il pacchetto omnibus dell’UE sta mettendo a rischio queste riforme. Con il pretesto della “semplificazione”, ritardi e scappatoie minacciano di indebolire la responsabilità delle aziende nei confronti dei diritti umani e degli standard ambientali. Il nuovo ministro austriaco dell’Economia Wolfgang Hattmansdorfer (ÖVP) si è espresso apertamente contro la legge sulla catena di approvvigionamento. COSA PUÒ FARE IL SINGOLO? Oltre alla responsabilità delle aziende, anche i privati possono fare qualcosa per risolvere i problemi causati dagli abiti usati. Gertrude Klaffenböck riporta alcuni esempi: gli indumenti non più indossati dovrebbero essere donati solo se sono ancora in buone condizioni, altrimenti dovrebbero essere smaltiti nella spazzatura. In questo modo, la responsabilità dello smaltimento è limita al Paese. Dovremmo evitare di: “scaricare anche la responsabilità del problema dei rifiuti sugli altri. Così come abbiamo esternalizzato i problemi ambientali e di diritto al lavoro in altri Paesi, dove è stato prontamente preparato il quadro giuridico”, avverte Klaffenböck. “IL CAPO DI ABBIGLIAMENTO PIÙ SOSTENIBILE È QUELLO CHE NON VIENE MAI PRODOTTO” Ma la questione nasce ancora molto prima. Quando acquistiamo un oggetto, dovremmo già prestare attenzione al suo ciclo di vita e assicurarci che sia il più lungo possibile e quindi puntare alla qualità. Tuttavia, è ancora più importante comprare il meno possibile, poiché “il capo di abbigliamento più sostenibile è quello che non viene prodotto”, ricorda Gertrude Klaffenböck. di Lisa Wohlgenannt (Moment.at) Traduzione dal tedesco di Maria Sartori. Revisione di Thomas Schmid. Pressenza Wien