La risposta del Viminale sugli agenti infiltrati in Potere al Popolo non reggeCinque agenti infiltrati nei collettivi e nelle assemblee del partito per mesi
senza copertura giudiziaria. Mentre il governo minimizza, cresce la denuncia:
sorveglianza politica e violazione delle libertà costituzionali.
Dopo oltre un mese di assoluto silenzio, il Viminale ha accennato una risposta
all’interpellanza urgente presentata dal Movimento 5 Stelle; il Sottosegretario
all’Interno Emanuele Prisco ha negato che vi sia stata qualsiasi infiltrazione
in partiti o movimenti politici. «I cinque giovani poliziotti che hanno
attraversato le assemblee di Potere al Popolo», ha riportato, «erano
semplicemente studenti regolarmente iscritti all’università, operanti con le
loro vere generalità» e si limitavano a «partecipare a manifestazioni pubbliche
di collettivi con connotazioni estremistiche che avevano mostrato crescente
aggressività».
Una puntualizzazione che tuttavia, lungi dal chiudere il caso, apre molte altre
crepe e conferma la situazione gravissima nata a partire dall’inchiesta di
Fanpage.it. Grazie ai documenti raccolti dal giornalista Antonio Musella, è
venuto alla luce che i cinque agenti del 223° corso hanno agito per almeno otto
mesi – da ottobre 2024 a maggio 2025 – fra Napoli, Milano, Bologna e Roma,
inserendosi nei movimenti studenteschi Cambiare Rotta e CAU e, attraverso
questi, nella vita interna di Potere al Popolo: chat organizzative, riunioni e
perfino all’assemblea nazionale del partito.
«Il governo ha ammesso l’operazione, ma sta minimizzando», spiega
Giuliano Granato, portavoce nazionale di Potere al Popolo. «Hanno spiato un
partito che si presenta alle elezioni: vogliamo sapere chi l’ha ordinata e
perché. Cinque poliziotti, tutti trasferiti all’antiterrorismo nello stesso
periodo, sono finiti solo nei due collettivi legati a noi. Nel Paese esistono
centinaia di realtà studentesche: possibile che l’allerta ordine pubblico
riguardasse soltanto le nostre?».
La linea del Viminale
Nel suo intervento in aula, Prisco ha dipinto un quadro di crescente
conflittualità: «12 mila manifestazioni nel 2024, con turbative dell’ordine
pubblico nel 2 % dei casi. In questo contesto sono maturati livelli crescenti di
tensione», da cui la decisione «ordinaria, prevista dalla legge 121/1981» di
potenziare l’attività informativa della Direzione centrale della Polizia di
prevenzione. «Nessuna operazione sotto copertura, nessuna identità falsa. Ogni
agente, anche libero dal servizio, ha l’obbligo di segnalare reati alle
autorità. Si è trattato solo dell’adempimento dei propri compiti istituzionali,
nel pieno rispetto della legge».
La risposta di Potere al Popolo
Per i soggetti coinvolti la ricostruzione non regge. «Ci eravamo quasi abituati
alla favola dei poliziotti innamorati delle militanti; adesso ci dicono che
erano studenti modello mossi da preoccupazioni di sicurezza nazionale», ironizza
Granato. «Peccato che abbiano partecipato, abbiamo anche le prove, a momenti
privati del partito, chat organizzative, riunioni e perfino all’assemblea
nazionale, non a semplici iniziative pubbliche».
Anche Matteo Giardiello, membro dell’esecutivo nazionale di Potere al Popolo,
commenta duramente: «Ci dobbiamo aspettare che più aumenta il dissenso e più il
governo porterà avanti pratiche antidemocratiche per fermarlo? Ci dobbiamo
aspettare di essere sempre di più spiati solo e soltanto perché proviamo a
opporci a quello che sta avvenendo? Vogliamo dire chiaramente che, se il
dissenso è reato, noi siamo colpevoli».
«Sorvegliare il dissenso non è compito dei servizi»
Potere al Popolo ha lanciato un appello pubblico, firmato da oltre 2.000 persone
nelle prime 24 ore, che denuncia l’operazione come una grave lesione delle
libertà costituzionali: «L’assenza di una cornice giudiziaria e la natura
prolungata e sistematica di queste attività disegna un profilo allarmante: non
si tratterebbe di operazioni a scopo investigativo, ma di sorveglianza politica
preventiva», si legge nel testo.
Il documento ricorda che la libertà di associazione e partecipazione politica
non è «un privilegio», ma un diritto inalienabile sancito dalla Costituzione. Il
silenzio delle autorità, si denuncia, «è inaccettabile e pericoloso».
Nell’appello si legge inoltre: «In una democrazia, il dissenso politico non è
materia per i servizi di sicurezza. Nessuna forza dell’ordine dovrebbe
infiltrarsi in un partito senza un preciso fondamento giuridico». Il timore,
condiviso anche da altri intellettuali e sigle, è che l’approvazione del nuovo
decreto sicurezza imponga agli atenei di consegnare dati su studenti e gruppi
ritenuti “pericolosi” per la sicurezza nazionale, trasformando le università da
luoghi di libertà intellettuale in snodi di controllo.
Fra i primi firmatari figurano Carlo Rovelli, Zerocalcare, Mimmo Lucano, Andrea
Segre, Fabrizio Barca, Luigi De Magistris, Vauro, Vera Gheno, Elena Granaglia, e
decine di accademici, giuristi, attivisti, sindacalisti e parlamentari. Il
movimento chiede che Meloni e Piantedosi riferiscano in Parlamento, chiariscano
«chi ha autorizzato l’operazione» e pongano limiti chiari all’uso degli apparati
di sicurezza contro chi esercita legittimamente il dissenso.
Dalle aule ai telefoni: il filo che porta a Graphite
Il caso degli agenti‑studenti si intreccia, anche temporalmente, con un’altra
vicenda rimasta senza risposta: l’uso dello spyware Graphite (Paragon Solutions)
sui telefoni del direttore di Fanpage Francesco Cancellato, di Ciro Pellegrino e
di Roberto D’Agostino. Meta e Apple hanno certificato gli attacchi, ma nessuna
autorità italiana ha chiarito chi li abbia commissionati. Degli episodi che,
letti parallelamente, restituiscono l’immagine di una sorveglianza particolare
dello Stato verso redazioni, attivisti e collettivi.
Il Ministro Piantedosi si era detto “pronto a riferire” in aula già a fine
giugno. Da allora nulla è cambiato, se non la versione ufficiale: da “agenti
innamorati” a “studenti zelanti”. Nel frattempo, cinque poliziotti restano
iscritti a corsi universitari, i collettivi continuano a protestare sotto i
rettorati e un partito politico attende di sapere perché è finito, di fatto, in
un dossier di pubblica sicurezza.
Rimane ancora senza risposta la domanda: “Chi ha ordinato tutto questo e per
quale motivo?”
Emiliano Palpacelli