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Afghanistan, che cosa c’è dietro l’immagine ripulita dei Talebani. Prima parte
Il 15 agosto 2021 Kabul fu presa dai Talebani mentre gli Stati Uniti con i loro alleati abbandonavano in tutta fretta il Paese. Questo evento ha segnato un punto di non ritorno per le donne afghane, che da quel giorno sono progressivamente cadute in un incubo senza fine. Per questo  il CISDA (Coordinamento italiano di sostegno alle donne afghane ) ha organizzato un incontro con una esponente di RAWA (Revolutionary Association of Women in Afghanistan), che afferma: ”Ci consideriamo la più antica organizzazione politica femminile in Afghanistan. Pensiamo che qualsiasi cambiamento, qualsiasi miglioramento della situazione delle donne, in qualsiasi società, non possa realizzarsi senza cambiamenti politici.” Pubblichiamo di seguito le sue considerazioni. La situazione attuale in Afghanistan non è quella dipinta dai media occidentali. Di solito si legge che la vita è tornata alla normalità, c’è la pace e che la situazione è in qualche modo migliorata, ma questa non è assolutamente la realtà. C’è un livello di pressione sulla nostra società che fa sì che tutto sembri tranquillo. Ma quando vivi qui come afghano, vedi che ogni singolo uomo e donna ha i suoi problemi, le sue preoccupazioni, che sono infinite. L’attuale regime talebano è principalmente, come abbiamo sempre detto, sostenuto dagli Stati Uniti. I Talebani non sono mai stati una forza unita. Ci sono state e continuano a esserci delle divergenze tra loro, tra filo-cinesi, filo-iraniani e filo-sovietici, ma continuano a rimanere collegati e dipendere dal sostegno finanziario degli Stati Uniti. Si affidano alla leadership della CIA e all’ISI pakistano e il regime pakistano continua la sua funzione di guardiano, una sorta di padre per i Talebani afghani (anche se la prima ad organizzarli in realtà fu una donna,  Benazir Bhutto). Le divergenze più accese e crescenti tra i Talebani sono dovute alla situazione interna; le varie regioni in Afghanistan sono divise tra le diverse fazioni e ognuna di loro, come Mula Habibullah, Mula Yakub o Mula Hakani, cerca di avere più potere controllando le miniere, le zone di produzione dei minerali, la produzione di droga, lo smercio di droga verso gli altri Paesi e anche il contrabbando che è estremamente redditizio. Nel giro di quattro anni, da quando sono tornati al potere, molti funzionari nel governo, leader e  comandanti si sono trasformati in potenti figure politiche, sostenuti da una forza finanziaria e da diversificate fonti economiche. Il denaro settimanale che arriva dagli Stati Uniti viene diviso tra i loro comandanti e leader. Non si può dire che i Talebani siano deboli finanziariamente. Stanno cercando di sfruttare sia le opportunità che hanno a livello locale, sia quelle internazionali, attraverso i finanziamenti degli Stati Uniti, da cui ricavano un reddito considerevole. In alcune regioni dell’Afghanistan, come ad esempio Tahar, una provincia settentrionale del Badakhshan, e Panjsher, che si trova anch’essa per la maggior parte nella zona settentrionale, nel Nuristan, si trovano le principali grandi miniere del Paese e ogni fazione talebana sta cercando di metterci le mani. Apparentemente è un progetto governativo, ma per lo più si tratta di un progetto privato in cui stanno cercando di scavare più miniere possibili e prenderne il controllo prima che la gente possa accaparrarsi oro e pietre preziose. I Talebani non permettono ai contadini e alla gente del posto di avvicinarsi; per questo  mandano i loro soldati a controllare e a difendere le miniere. I media internazionali affermano che la produzione e la coltivazione di droga sono diminuite in Afghanistan, ma questa non è la realtà: a livello locale, ogni comandante talebano ha le proprie regioni, le proprie aree in cui è ancora consentita la produzione di droga e le proprie aree di confine in cui la contrabbanda. A volte leggiamo che ci sono stati scontri armati tra Talebani, come ad esempio nelle zone in cui si scava una miniera. Di recente dei soldati talebani hanno preso le armi contro il loro comandante perché sapevano che non avrebbero ricevuto lo stipendio, mentre il comandante si stava costruendo una grande casa. Il governo non prende alcuna decisione perché le stesse persone che ricoprono posizioni chiave sono coinvolte in questa corruzione. Non si preoccupano della gente, non si preoccupano del miglioramento dei loro soldati, ma di ciò che serve per riempirsi le tasche. I Talebani stanno attenti a fornire al mondo un’immagine di sé “ripulita”, ma noi vediamo quotidianamente le prove dei loro crimini morali sui social media locali. Parliamo ad esempio del rapimento di ragazze e donne, i matrimoni forzati, le minacce e così via. Abbiamo un sacco di prove in forma di videoclip o clip vocali, pubblicate per denuncia dalle persone o dalle stesse vittime. Sfortunatamente nessuno di loro viene rilanciato sui media internazionali. I Talebani hanno successo nel propagandare un’immagine di se stessi come persone pulite, molto religiose, oneste, ma questa non è la realtà. Fanno schifo, tanti di loro minacciano, usano la forza delle armi per il loro tornaconto economico; è un comportamento diffuso e molto comune. Oggi molte famiglie stanno affrontando una grave pressione a causa della crisi economica e non trovano altra soluzione se non quella di dare in sposa le figlie in età molto giovane. È più comune, come lo era in passato, nei villaggi delle zone rurali, ma dalla chiusura delle scuole e dai cambiamenti avvenuti nella vita degli afghani negli ultimi quattro anni è un fenomeno che possiamo riscontrare anche nelle grandi città come Kabul. Nelle nostre società le donne in genere non sono protette, soprattutto quando sono giovani e adolescenti vengono considerate un peso per la famiglia; hanno solo la responsabilità di contrarre un matrimonio il prima possibile, di avere figli e di gestire una famiglia. Questo è l’unico dovere che la società attuale attribuisce alle donne. Ed è per questo che molte famiglie credono che sia una sorta di protezione per le bambine darle in sposa il prima possibile. Quando subiscono pressioni da parte dei Talebani o dei comandanti, le danno in sposa a chiunque. Negli ultimi quattro anni, esattamente come sta accadendo con i signori della guerra jihadisti, i Talebani, usando la forza delle armi, cercano ragazze non sposate, poi le danno come seconde, terze e persino quarte mogli ai loro leader religiosi e comandanti militari. Oggi quando si entra nella capitale, metà degli appartamenti, delle grandi case, delle grandi proprietà bene in vista sono state acquistate dai comandanti militari o dagli spacciatori. Se un domani i Talebani dovessero trovarsi nella condizione di fuggire, non potranno farlo facilmente perché qui hanno molte proprietà. I comandanti talebani sono presenti in ogni zona residenziale con le loro guardie del corpo, le loro auto costose e il loro personale. Nelle zone più eleganti di Kabul, nel ristorante più costoso, con decorazioni dorate come se fosse un palazzo antico, i Talebani arrivano scortati dalle guardie del corpo e anche nei negozi più costosi i clienti sono quasi solo loro. I Talebani di oggi non sono quelli che presero il potere nel 1996  per cinque anni; ora si preoccupano dei loro interessi privati e benefici economici, come hanno imparato dalla corruzione dei leader jihadisti, da Khazai, dal regime di Ashraf Ghani. Se si hanno più risorse finanziarie, si possono proteggere meglio i propri cari, le proprie forze armate e le proprie famiglie. Molti leader talebani hanno mandato i figli, anche le bambine, a vivere all’estero, in Qatar e in altri Paesi arabi, dove godono di una vita migliore e di una migliore istruzione. Attualmente l’Afghanistan non ha un’economia. La vita è gestita attraverso il sostegno settimanale che arriva al governo dagli USA e attraverso il sistema di tassazione forzata introdotto dai Talebani: ogni negozio, ogni casa e persino le ONG, le organizzazioni, le aziende… tutti pagano tasse elevate, raddoppiate rispetto a prima. La maggior parte dei lavori infrastrutturali, come la costruzione di strade, l’installazione di telecamere di sicurezza, la creazione o la ricostruzione di piazze e altro ancora sono eseguiti con l’uso della forza, costringendo organizzazioni e imprenditori privati. Apparentemente, agli occhi stranieri, sembra che i Talebani abbiano migliorato la vita, perché sono state costruite le strade principali, ma la maggior parte dei finanziamenti viene sottratta con la forza a donatori privati e individui.   Fiorella Carollo
Consegna a Giorgia Meloni delle firme della petizione Stop fondamentalismi. Stop apartheid di genere
Lo scorso 26 maggio, il CISDA – Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane ha inviato la Petizione Stop fondamentalismi Stop apartheid di genere, corredata di 1.725 firme, di cui 85 da parte di Associazioni, alla Presidente del Consiglio Italiano e, in copia, alla Camera dei Deputati e al Senato della Repubblica. Con la consegna delle firme della petizione non si ferma la Campagna Stop fondamentalismi. Stop apartheid di genere per spingere il governo italiano e gli organismi internazionali a rendere fattiva la condanna dei fondamentalismi e dell’apartheid di genere. Queste le azioni intraprese a oggi dalla campagna e i risultati raggiunti: * Con il supporto di un team di giuriste abbiamo inviato una proposta di codificazione del reato di “apartheid di genere” come contributo della società civile ai lavori in corso della Sesta Commissione giuridica dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per un recepimento nella Convenzione sulla prevenzione e la punizione dei crimini contro l’Umanità in fase di discussione da parte dell’ONU. Abbiamo ricevuto un riscontro da parte del Segretariato della Sesta Commissione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite in data 17/11/2024. * Il 10 dicembre 2024 abbiamo attivato la Petizione “Stop Fondamentalismi – Stop Apartheid di Genere” per chiedere al governo italiano di sostenere gli obiettivi della Campagna e di farsene promotore presso le istituzioni internazionali. La Petizione – come detto – si è chiusa il 26 maggio u.s. con l’adesione di più di 1700 firmatari. * Alcuni Enti locali si sono attivati promuovendo mozioni di sostegno: la Regione Lazio, il Comune di Monza e il Comune di Pomarance. Abbiamo incontrato il 16/6 la Commissione pari opportunità di Roma Capitale che ha espresso il suo sostegno. * L’8 aprile 2025 abbiamo organizzato 2 importanti eventi a Roma per promuovere la Campagna: una conferenza stampa presso la Camera dei deputati alla quale hanno partecipato alcune parlamentari e un evento nel pomeriggio al Polo Civico Esquilino aperto a tutti. * Il 24 aprile 2025 abbiamo inviato alla Corte Penale Internazionale la richiesta di considerare la codificazione dell’apartheid di genere come un crimine contro l’umanità nello Statuto di Roma, ricevendo una risposta il 6 maggio. C.I.S.D.A. si impegnerà per proseguire le attività rivolte alla C.P.I. Per ulteriori informazioni sulla Campagna visita la pagina dedicata sul sito CISDA oppure scrivi a stampa@cisda.it CISDA - Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane
Non dimentichiamo le donne afghane: Stop all’Apartheid di genere!
Nella lotta contro l’Apartheid di Genere, in difesa dei diritti delle donne in Afghanistan e ovunque nel mondo siano in atto sistemi di governo o apparati che operano continuativamente la segregazione delle donne e la privazione dei loro diritti fondamentali, il CISDA (Coordinamento italiano sostegno donne afghane) ha un nuovo ulteriore alleato: la Commissione Pari Opportunità di Roma Capitale. Il 12 -6, a seguito all’audizione del Cisda in merito, la commissione ha approvato all’unanimità il sostegno alle richieste contenute nella Campagna STOP APARTHEID DI GENERE – STOP FONDAMENTALISMI così espresso in una nota dalla presidente della commissione Michela Cicculli:  … sono orgogliosa di registrare l’appoggio trasversale, emerso nella seduta odierna, all’attività del Cisda-Coordinamento italiano sostegno donne afghane impegnato nella campagna Stop Fondamentalismi per il riconoscimento come crimine contro l’umanità dell’apartheid di genere e il deferimento dell’Afghanistan alla Corte di Giustizia internazionale e alla Corte penale internazionale. Un sostegno su cui lavoreremo nelle prossime settimane per contribuire come amministrazione e portare all’attenzione del Governo e della cittadinanza la gravità delle discriminazioni sistematiche compiute dal regime talebano nei confronti delle donne, ragazze e persone Lgbt nel paese” perchè “è importante che si continui a parlare di una situazione giunta all’apice della violazione dei diritti fondamentali sistematizzata e normalizzata a livello normativo e politico e si supporti l’attività svolta dal Cisda, dalle forze democratiche e associazioni che nel paese, in maniera clandestina, portano avanti attività in ambito sanitario e di istruzione come pure lavorativo per aiutare chi viene discriminato”. Anche Marilena Grassadonia, Coordinatrice politiche diritti Lgbt+ di Roma Capitale, in una nota dichiara: “Accendere i riflettori su una questione che rischia di rimanere nell’ombra e’ compito delle istituzioni democratiche del nostro Paese. Grazie alla discussione di oggi in Commissione Pari opportunità, Roma Capitale non intende sottrarsi a questa responsabilità e sosterrà con una prossima iniziativa il lavoro del Cisda impegnato nella campagna ‘Stop Fondamentalismi, per il riconoscimento come crimine contro l’umanita’ dell’apartheid di genere e per il deferimento dell’Afghanistan alla Corte di Giustizia internazionale e alla Corte penale internazionale”. Beatrice Biliato (CISDA) Redazione Italia
Non dimentichiamo le donne afghane. Stop all’Apartheid di genere!
Nella lotta contro l’Apartheid di Genere, in difesa dei diritti delle donne in Afghanistan e ovunque nel mondo siano in atto sistemi di governo o apparati che operano continuativamente la segregazione delle donne e la privazione dei loro diritti fondamentali, il CISDA (Coordinamento italiano sostegno donne afghane) ha un nuovo ulteriore alleato: la Commissione Pari Opportunità di Roma Capitale. Il 12 giugno, a seguito all’audizione del Cisda in merito, la commissione ha approvato all’unanimità il sostegno alle richieste contenute nella Campagna STOP APARTHEID DI GENERE – STOP FONDAMENTALISMI così espresso in una nota dalla presidente della commissione Michela Cicculli: … sono orgogliosa di registrare l’appoggio trasversale, emerso nella seduta odierna, all’attività del Cisda-Coordinamento italiano sostegno donne afghane impegnato nella campagna Stop Fondamentalismi per il riconoscimento come crimine contro l’umanità dell’apartheid di genere e il deferimento dell’Afghanistan alla Corte di Giustizia internazionale e alla Corte penale internazionale. Un sostegno su cui lavoreremo nelle prossime settimane per contribuire come amministrazione e portare all’attenzione del Governo e della cittadinanza la gravità delle discriminazioni sistematiche compiute dal regime talebano nei confronti delle donne, ragazze e persone Lgbt nel Paese” perché “è importante che si continui a parlare di una situazione giunta all’apice della violazione dei diritti fondamentali sistematizzata e normalizzata a livello normativo e politico e si supporti l’attività svolta dal Cisda, dalle forze democratiche e associazioni che nel Paese, in maniera clandestina, portano avanti attività in ambito sanitario e di istruzione come pure lavorativo per aiutare chi viene discriminato”. Anche Marilena Grassadonia, Coordinatrice politiche diritti Lgbt+ di Roma Capitale, in una nota dichiara: “Accendere i riflettori su una questione che rischia di rimanere nell’ombra è compito delle istituzioni democratiche del nostro Paese. Grazie alla discussione di oggi in Commissione Pari opportunità, Roma Capitale non intende sottrarsi a questa responsabilità: sosterrà con una prossima iniziativa il lavoro del Cisda impegnato nella campagna ‘Stop Fondamentalismi, per il riconoscimento come crimine contro l’umanità dell’apartheid di genere e per il deferimento dell’Afghanistan alla Corte di Giustizia internazionale e alla Corte penale internazionale”. Il Cisda ringrazia e spera in una proficua collaborazione. Prossimo appuntamento a settembre! Beatrice Biliato     CISDA - Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane
A che punto è il riconoscimento “strisciante” dei Talebani da parte della comunità internazionale
A quasi un anno dalla Conferenza di Doha che avrebbe dovuto normalizzare i rapporti con il governo de facto dell’Afghanistan, si afferma un nuovo format portato avanti dalla Missione Unama e denominato “Piano Mosaico”. Meno “esposto” mediaticamente, non è meno deleterio per i diritti umani e per l’opposizione politica, come denunciano 54 organizzazioni sociali, associazioni e gruppi di attiviste È passato quasi un anno dalla terza Conferenza di Doha organizzata dall’Onu nel giugno 2024 per normalizzare i rapporti della comunità internazionale con il governo de facto dell’Afghanistan e riaprire ufficialmente le relazioni economiche e politiche. Un evento che aveva registrato un’importante novità nelle relazioni diplomatiche: la partecipazione diretta dei rappresentanti del governo talebano, invitato per la prima volta a partecipare alla pari con i 25 Paesi che ne fanno parte nonostante la mancanza del riconoscimento ufficiale della sua legittimità. Una novità scandalosa, non solo perché questa “prima volta” aveva segnato un’accettazione di fatto del governo talebano come rappresentante del popolo afghano nonostante la sua presa del potere non sia avvenuta democraticamente, ma soprattutto perché questa presenza era accettata in cambio dell’estromissione delle donne afghane e dei loro diritti dai temi trattati nella Conferenza, per consentire al diktat dei Talebani che l’avevano posta come condizione per la loro partecipazione. Accettazione che era stata molto criticata non solo dalle donne e dai movimenti per i diritti umani di tutto il mondo, ma anche da alcuni esponenti delle stesse Nazioni Unite. La conferenza si era conclusa senza impegni precisi, ma aveva sancito la disponibilità dei negoziatori a proseguire con le discussioni sui temi economici in preparazione di altri appuntamenti e incontri. Che ne è stato di questi impegni, che seguito ha avuto la Conferenza di Doha? In questi mesi quasi nulla è apparso sui media per aggiornarci sulle trattative in corso tra Onu e governo talebano, sullo stato del processo di riconoscimento del loro governo e sull’avanzamento degli impegni presi. Questa assenza di notizie non è da imputare all’interruzione dei rapporti o alla mancanza di sviluppi nel dialogo, ma alla scelta di cambiare strategia: si è infatti deciso di togliere visibilità al processo di avvicinamento ai Talebani gestito dall’Onu e delegare invece alla Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama) la conduzione dei colloqui e delle proposte di mediazione. Sono state forse le critiche delle associazioni per i diritti umani e delle donne o la refrattarietà dei Talebani ai cambiamenti a far cambiare strada all’Onu, forse per cercare modalità più coerenti di difesa dei diritti del popolo afghano? Purtroppo no, perché il nuovo format proposto e portato avanti dall’Unama, denominato “Piano Mosaico”, o Roadmap globale per l’Afghanistan, ha ancora una volta l’obiettivo dichiarato di normalizzare il più presto possibile le relazioni con l’Afghanistan, per riportarlo nella comunità internazionale sotto il controllo di “questi” Talebani e di “questo” governo. E per agevolare le trattative, propone un approccio non più finalizzato a condizionare i Talebani con preliminari tematiche di principio e richieste di aperture democratiche, ma invece scorpora i problemi per affrontarli uno alla volta – fin da subito quelli che interessano ai Talebani, in futuro quelli proposti dalla comunità internazionale – così che sia più facile, senza l’appesantimento di questioni scottanti e divisive, arrivare a stabilire degli accordi. Per ridurre il conflitto viene infatti proposta una strategia che separa i problemi “pratici”, come la lotta al narcotraffico, lo sviluppo del settore privato e la cooperazione economica – che piacciono ai Talebani –  da quelli “complessi”, come i diritti umani e delle donne e l’antiterrorismo. Cioè si lasciano le questioni che riguardano i diritti e la democrazia in una formulazione generica e ambigua, da affrontare con “gradualità”, nel futuro indefinito “del prima o poi” – tanto le donne afghane sono resilienti. Con questa strategia il coinvolgimento dei Talebani nel dialogo non punta più a un evento-manifesto che dia visibilità all’intervento conciliatore dell’Onu, ma preferisce un processo in sordina, strisciante, fatto di incontri bilaterali o poco più, che non dia nell’occhio, nella speranza che sia finalmente possibile accordarsi con i Talebani e fare affari con loro senza fastidiosi interventi critici, quegli affari che per ora sono solo nelle mani delle piccole e grandi potenze regionali che sgomitano per arrivare per prime. Nelle intenzioni l’obiettivo di questo processo dovrebbe essere “un Afghanistan in pace con sé stesso e con i suoi vicini, pienamente reintegrato nella comunità internazionale e in grado di rispettare gli obblighi internazionali”. Così si dice nel Piano, basato sulle raccomandazioni della valutazione indipendente di Feridun Sinirlioglu e in applicazione della Risoluzione 2721 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite del 2023. Le associazioni di donne e per i diritti umani hanno criticato questo nuovo piano. Sostengono che l’Unama sta di fatto facilitando la legittimazione dei Talebani anziché difendere i diritti del popolo afghano e che in questa roadmap non sarebbe stato previsto alcun ruolo per le donne, la società civile e le reali vittime del governo. In una dichiarazione congiunta, 54 organizzazioni sociali, associazioni e gruppi di attiviste hanno denunciato l’accettazione dei Talebani come principali interlocutori e avvertito che l’iniziativa garantisce al governo concessioni concrete mentre chiede in cambio poco più che vaghe e inattuabili promesse. Inoltre, dicono che l’Unama, rendendo i diritti umani un oggetto di contrattazione, ne compromette l’universalità e l’inviolabilità, venendo meno alla missione imparziale e umanitaria delle Nazioni Unite che le è propria. Le Nazioni Unite hanno sottolineato che il loro impegno con i Talebani non deve essere frainteso con un riconoscimento politico. L’Unama ha dichiarato che il piano è ancora in fase di revisione e di voler coinvolgere nella sua gestione tutte le parti interessate, dai Paesi che fanno parte del Processo di Doha alle altre componenti che giocano un ruolo chiave nella regione, come il G7, i governi che detengono risorse afghane, il team delle sanzioni dell’Onu e i cosiddetti gruppi “non talebani” menzionati vagamente alla fine del piano. Ma l’Unama ha rifiutato di specificare esattamente quali, al di fuori dei Talebani, siano state le parti finora coinvolte. Intanto i Talebani, ben felici di essere al centro dell’attenzione diplomatica, puntano in alto e rispondono alle aspettative del Piano chiedendo la revoca delle sanzioni Onu, attualmente imposte a oltre 130 membri del gruppo ed entità affiliate; il recupero dei beni congelati dagli Usa; l’assunzione della rappresentanza diplomatica all’estero, cioè il seggio all’Onu, attualmente in mano ai rappresentanti del governo della precedente Repubblica. Insomma, un vero e proprio riconoscimento di legittimità. In cambio il Piano chiede riforme globali, come la formazione di un governo inclusivo, il rispetto dei diritti umani e l’impegno nella lotta al terrorismo, ma, non prevedendo meccanismi di applicazione o inclusione, queste richieste rimangono generiche e vuote. Come osserva l’opposizione politica, “le richieste dei Talebani sono concrete e misurabili: vogliono legittimità diplomatica, accesso alle riserve estere e revoca delle sanzioni. Al contrario, le aspettative della comunità internazionale rimangono indefinite”. Il “Piano Mosaico” dichiara di puntare, per ottenere cambiamenti nella politica talebana, sulla reciproca fiducia e la dimostrazione dei vantaggi che la cooperazione può portare alla governance e al popolo afghano. Ma come può esserci collaborazione con un governo fondamentalista che ritiene che non sia sua responsabilità provvedere ai bisogni dei cittadini perché crede che il benessere e la sopravvivenza del popolo provengano direttamente da dio? Come si può avere fiducia in un regime che si preoccupa solo di ottenere con la violenza l’obbedienza a quella che pretende sia la vera religione? Il governo talebano non può essere un interlocutore credibile. Non vi è garanzia che il popolo afghano possa ottenere dai Talebani il rispetto dei suoi diritti umani, economici e sociali. Come hanno giustamente sostenuto le donne e le associazioni democratiche, “questo piano deve essere fermato, le nostre voci devono essere ascoltate”. Beatrice Biliato fa parte del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda) altreconomia