A che punto è il riconoscimento “strisciante” dei Talebani da parte della comunità internazionaleA quasi un anno dalla Conferenza di Doha che avrebbe dovuto normalizzare i
rapporti con il governo de facto dell’Afghanistan, si afferma un nuovo format
portato avanti dalla Missione Unama e denominato “Piano Mosaico”. Meno “esposto”
mediaticamente, non è meno deleterio per i diritti umani e per l’opposizione
politica, come denunciano 54 organizzazioni sociali, associazioni e gruppi di
attiviste
È passato quasi un anno dalla terza Conferenza di Doha organizzata dall’Onu nel
giugno 2024 per normalizzare i rapporti della comunità internazionale con il
governo de facto dell’Afghanistan e riaprire ufficialmente le relazioni
economiche e politiche.
Un evento che aveva registrato un’importante novità nelle relazioni
diplomatiche: la partecipazione diretta dei rappresentanti del governo talebano,
invitato per la prima volta a partecipare alla pari con i 25 Paesi che ne fanno
parte nonostante la mancanza del riconoscimento ufficiale della sua legittimità.
Una novità scandalosa, non solo perché questa “prima volta” aveva segnato
un’accettazione di fatto del governo talebano come rappresentante del popolo
afghano nonostante la sua presa del potere non sia avvenuta democraticamente, ma
soprattutto perché questa presenza era accettata in cambio dell’estromissione
delle donne afghane e dei loro diritti dai temi trattati nella Conferenza, per
consentire al diktat dei Talebani che l’avevano posta come condizione per la
loro partecipazione. Accettazione che era stata molto criticata non solo dalle
donne e dai movimenti per i diritti umani di tutto il mondo, ma anche da alcuni
esponenti delle stesse Nazioni Unite.
La conferenza si era conclusa senza impegni precisi, ma aveva sancito la
disponibilità dei negoziatori a proseguire con le discussioni sui temi economici
in preparazione di altri appuntamenti e incontri.
Che ne è stato di questi impegni, che seguito ha avuto la Conferenza di Doha? In
questi mesi quasi nulla è apparso sui media per aggiornarci sulle trattative in
corso tra Onu e governo talebano, sullo stato del processo di riconoscimento del
loro governo e sull’avanzamento degli impegni presi.
Questa assenza di notizie non è da imputare all’interruzione dei rapporti o alla
mancanza di sviluppi nel dialogo, ma alla scelta di cambiare strategia: si è
infatti deciso di togliere visibilità al processo di avvicinamento ai Talebani
gestito dall’Onu e delegare invece alla Missione di assistenza delle Nazioni
Unite in Afghanistan (Unama) la conduzione dei colloqui e delle proposte di
mediazione.
Sono state forse le critiche delle associazioni per i diritti umani e delle
donne o la refrattarietà dei Talebani ai cambiamenti a far cambiare strada
all’Onu, forse per cercare modalità più coerenti di difesa dei diritti del
popolo afghano? Purtroppo no, perché il nuovo format proposto e portato avanti
dall’Unama, denominato “Piano Mosaico”, o Roadmap globale per l’Afghanistan, ha
ancora una volta l’obiettivo dichiarato di normalizzare il più presto possibile
le relazioni con l’Afghanistan, per riportarlo nella comunità internazionale
sotto il controllo di “questi” Talebani e di “questo” governo.
E per agevolare le trattative, propone un approccio non più finalizzato a
condizionare i Talebani con preliminari tematiche di principio e richieste di
aperture democratiche, ma invece scorpora i problemi per affrontarli uno alla
volta – fin da subito quelli che interessano ai Talebani, in futuro quelli
proposti dalla comunità internazionale – così che sia più facile, senza
l’appesantimento di questioni scottanti e divisive, arrivare a stabilire degli
accordi. Per ridurre il conflitto viene infatti proposta una strategia che
separa i problemi “pratici”, come la lotta al narcotraffico, lo sviluppo del
settore privato e la cooperazione economica – che piacciono ai Talebani – da
quelli “complessi”, come i diritti umani e delle donne e l’antiterrorismo. Cioè
si lasciano le questioni che riguardano i diritti e la democrazia in una
formulazione generica e ambigua, da affrontare con “gradualità”, nel futuro
indefinito “del prima o poi” – tanto le donne afghane sono resilienti.
Con questa strategia il coinvolgimento dei Talebani nel dialogo non punta più a
un evento-manifesto che dia visibilità all’intervento conciliatore dell’Onu, ma
preferisce un processo in sordina, strisciante, fatto di incontri bilaterali o
poco più, che non dia nell’occhio, nella speranza che sia finalmente possibile
accordarsi con i Talebani e fare affari con loro senza fastidiosi interventi
critici, quegli affari che per ora sono solo nelle mani delle piccole e grandi
potenze regionali che sgomitano per arrivare per prime.
Nelle intenzioni l’obiettivo di questo processo dovrebbe essere “un Afghanistan
in pace con sé stesso e con i suoi vicini, pienamente reintegrato nella comunità
internazionale e in grado di rispettare gli obblighi internazionali”. Così si
dice nel Piano, basato sulle raccomandazioni della valutazione indipendente di
Feridun Sinirlioglu e in applicazione della Risoluzione 2721 del Consiglio di
sicurezza delle Nazioni Unite del 2023.
Le associazioni di donne e per i diritti umani hanno criticato questo nuovo
piano. Sostengono che l’Unama sta di fatto facilitando la legittimazione dei
Talebani anziché difendere i diritti del popolo afghano e che in
questa roadmap non sarebbe stato previsto alcun ruolo per le donne, la società
civile e le reali vittime del governo.
In una dichiarazione congiunta, 54 organizzazioni sociali, associazioni e gruppi
di attiviste hanno denunciato l’accettazione dei Talebani come principali
interlocutori e avvertito che l’iniziativa garantisce al governo concessioni
concrete mentre chiede in cambio poco più che vaghe e inattuabili promesse.
Inoltre, dicono che l’Unama, rendendo i diritti umani un oggetto di
contrattazione, ne compromette l’universalità e l’inviolabilità, venendo meno
alla missione imparziale e umanitaria delle Nazioni Unite che le è propria.
Le Nazioni Unite hanno sottolineato che il loro impegno con i Talebani non deve
essere frainteso con un riconoscimento politico. L’Unama ha dichiarato che il
piano è ancora in fase di revisione e di voler coinvolgere nella sua gestione
tutte le parti interessate, dai Paesi che fanno parte del Processo di Doha alle
altre componenti che giocano un ruolo chiave nella regione, come il G7, i
governi che detengono risorse afghane, il team delle sanzioni dell’Onu e i
cosiddetti gruppi “non talebani” menzionati vagamente alla fine del piano. Ma
l’Unama ha rifiutato di specificare esattamente quali, al di fuori dei Talebani,
siano state le parti finora coinvolte.
Intanto i Talebani, ben felici di essere al centro dell’attenzione diplomatica,
puntano in alto e rispondono alle aspettative del Piano chiedendo la revoca
delle sanzioni Onu, attualmente imposte a oltre 130 membri del gruppo ed entità
affiliate; il recupero dei beni congelati dagli Usa; l’assunzione della
rappresentanza diplomatica all’estero, cioè il seggio all’Onu, attualmente in
mano ai rappresentanti del governo della precedente Repubblica. Insomma, un vero
e proprio riconoscimento di legittimità.
In cambio il Piano chiede riforme globali, come la formazione di un governo
inclusivo, il rispetto dei diritti umani e l’impegno nella lotta al terrorismo,
ma, non prevedendo meccanismi di applicazione o inclusione, queste richieste
rimangono generiche e vuote. Come osserva l’opposizione politica, “le richieste
dei Talebani sono concrete e misurabili: vogliono legittimità diplomatica,
accesso alle riserve estere e revoca delle sanzioni. Al contrario, le
aspettative della comunità internazionale rimangono indefinite”.
Il “Piano Mosaico” dichiara di puntare, per ottenere cambiamenti nella politica
talebana, sulla reciproca fiducia e la dimostrazione dei vantaggi che la
cooperazione può portare alla governance e al popolo afghano. Ma come può
esserci collaborazione con un governo fondamentalista che ritiene che non sia
sua responsabilità provvedere ai bisogni dei cittadini perché crede che il
benessere e la sopravvivenza del popolo provengano direttamente da dio? Come si
può avere fiducia in un regime che si preoccupa solo di ottenere con la violenza
l’obbedienza a quella che pretende sia la vera religione?
Il governo talebano non può essere un interlocutore credibile. Non vi è garanzia
che il popolo afghano possa ottenere dai Talebani il rispetto dei suoi diritti
umani, economici e sociali. Come hanno giustamente sostenuto le donne e le
associazioni democratiche, “questo piano deve essere fermato, le nostre voci
devono essere ascoltate”.
Beatrice Biliato fa parte del Coordinamento italiano a sostegno delle donne
afghane (Cisda)
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