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Ogni sbarco un progetto di vita
Emergency Life Support: Sbarcati oggi ad Ancona 71 naufraghi soccorsi in acque internazionali della zona SAR libica Un ragazzo sudanese a bordo racconta: “Sono scappato in Libia dal Sudan in guerra per lavorare, ma una volta arrivato mi sono reso conto che neanche lì c’era sicurezza. Venivi aggredito in strada e ti entravano anche in casa per derubarti”. Domenico Pugliese, comandante della Life Support, dichiara: “Auguriamo il meglio alle persone soccorse e ci prepariamo a una nuova missione”. Milano, 26 luglio 2025 – Si è concluso alle ore 15.05 di oggi nel porto di Ancona lo sbarco delle 71 persone soccorse dalla Life Support, la nave di ricerca e soccorso di EMERGENCY, nelle acque internazionali della zona Sar libica.  Lunedì 21 luglio, in due diversi interventi, la Life Support era andata in aiuto di due imbarcazioni entrambe sovraffollate e in condizioni precarie: un gommone con 50 persone e un forte odore di benzina a bordo nel primo caso, un barchino in vetroresina con 21 persone nel secondo caso. Nessuno dei naufraghi indossava il salvagente e tutte le persone soccorse, tra cui 2 donne di cui una al nono mese di gravidanza e 15 minori non accompagnati, sono state portate al sicuro a bordo della nave di EMERGENCY. “Le operazioni di sbarco si sono svolte senza difficoltà grazie anche alla collaborazione con le autorità e ai volontari che ci hanno assistito – commenta Domenico Pugliese, comandante della Life Support -. Mentre ci prepariamo per una nuova missione, ora che i naufraghi sono finalmente al sicuro a terra non possiamo che augurare a tutti loro e al nascituro il meglio per il futuro.”  Ben 46 dei naufraghi recuperati con il primo intervento di soccorso provenivano dal Sudan, paese in guerra da oltre 2 anni. Gli altri da Egitto, Eritrea, Somalia, Bangladesh e Myanmar, paesi afflitti da violenze, povertà, instabilità politica e crisi climatica. “Durante questi giorni di navigazione abbiamo avuto modo di parlare con le persone soccorse, alcune si sono aperte e ci hanno raccontato la loro storia. Mi ha colpito quella di un musicista che è scappato dal Sudan, più precisamente dal Darfur – afferma Abdu Ali Ahmed, mediatore culturale a bordo della Life Support – ha perso la moglie, uccisa nel conflitto, e non ha potuto portare con sé la figlia di 13 anni. Lui ha deciso di partire ed è andato in Libia, di cui ha conosciuto le famigerate carceri, con annesse violenze. È stato trattenuto e maltrattato, ha dovuto pagare più volte il riscatto per comprare la sua libertà e ha provato la traversata più volte venendo intercettato e riportato indietro. Questa volta finalmente ce l’ha fatta”.  Un altro ragazzo sudanese soccorso dalla Life Support condivide la sua esperienza: “Sono nato e cresciuto a Nyala, ho deciso di lasciare la mia città perché non avevo un lavoro, né una possibilità concreta di avere una vita decente e in quanto parte di una minoranza ero anche a rischio della stessa vita. Sono andato in Libia pensando di lavorare, ma una volta arrivato lì mi sono reso conto che non c’era alcuna sicurezza: le persone non solo ti aggredivano in strada ma ti entravano anche in casa per derubarti di soldi e beni. A quel punto ho deciso di tentare il viaggio verso l’Europa e avevo abbastanza soldi per provarci. Le prime due volte con i miei compagni di sventura sono stato intercettato dai libici, riportato indietro e trattenuto per giorni in prigione. La terza volta è andata bene: abbiamo navigato tutta la notte e siamo stati soccorsi da voi.  Quando sono arrivati i gommoni di soccorso e ho letto il vostro nome – prosegue l’uomo –  ho capito che non erano i libici a prenderci, ma persone venute per aiutarci: avevo già conosciuto EMERGENCY a Nyala, dove l’Ong ha una clinica*. Molte persone in città conoscono la clinica. Io non ho mai usato i suoi servizi, ma tutti quanti ne parlano bene. Non so cosa aspettarmi dal futuro, ma spero solo che sia migliore di ciò che ho vissuto finora”.                                                                      Con lo sbarco di oggi la Life Support ha completato la sua 34a missione nel Mediterraneo centrale. La nave Sar di EMERGENCY opera in questa regione dal dicembre 2022 e in questo periodo ha soccorso un totale di 2.854 persone.    *il Centro pediatrico di EMERGENCY a Nyala   Emergency
“La ferita del Mediterraneo”: a Bari un’installazione galleggiante per denunciare le migliaia di morti in mare
Nelle giornate del 12 e 13 luglio una grande installazione sul Lungomare Imperatore Augusto a Bari promossa da SOS MEDITERRANEE con il patrocinio del Comune di Bari Il nostro mare è una ferita aperta. Sono 1692 le persone che hanno perso la vita nel Mediterraneo Centrale solo nel 2024. Quasi 800 persone dall’inizio dell’anno. Più di 32mila dal 2014. Vite, storie inghiottite non solo dal mare, ma da un’indifferenza che ferisce la nostra coscienza collettiva. Ecco il senso dell’installazione comparsa di fronte al Lungomare della città di Bari: un cerotto gigante di 90 mq, composto da 360 blocchi galleggianti visibili dal cielo e dalla costa. A ricordare a tutti e tutte che, nonostante molti degli incidenti mortali avvengano a centinaia di miglia da terra, lontani dai nostri occhi, queste morti esistono e feriscono la nostra umanità condivisa. SOS MEDITERRANEE è attiva nel Mediterraneo centrale dal 2016 e, da allora, ha soccorso più di 42500 persone dalla morte in mare, ma è anche stata testimone di diverse tragedie e, soprattutto, della volontà degli Stati europei di usare la morte come un deterrente alle partenze. L’installazione vuole essere una sveglia a un’opinione pubblica lasciata volutamente all’oscuro della tragedia che si consuma a pochi chilometri dalle nostre coste. L’opera, oltre a denunciare l’ingiustizia e la sofferenza per chi perde la vita nel Mediterraneo, vuole soffermare l’attenzione sul valore delle cure mediche di primo soccorso che gli equipaggi di SOS MEDITERRANEE sono chiamati a garantire una volta soccorse le persone in mare. Chi attraversa il Mediterraneo arriva a bordo delle navi di salvataggio quasi sempre in condizioni critiche: disidratazione, denutrizione, ustioni da carburante, traumi fisici e psicologici. Solo nel 2024 i medici a bordo della Ocean Viking hanno effettuato 1357 visite mediche. «Quest’opera – spiega la direttrice generale di SOS MEDITERRANEE Italia, Valeria Taurino – è il nostro modo per puntare i riflettori sulla tragedia del Mediterraneo, che purtroppo è uscita fuori dalla coscienza collettiva e anche dall’attenzione mediatica ma continua a essere una ferita aperta e dolorosa. Ci auguriamo che serva a riaccendere i riflettori e a stimolare un dibattito pubblico rinnovato. Abbiamo scelto per questo Bari, città di mare e città simbolo di un’accoglienza vissuta come parte identitaria e integrale della cultura, città sensibile e davvero aperta a chi cerca sicurezza e cura. A chi cerca di curare le proprie ferite». «Abbiamo scelto di ospitare la campagna ‘La ferita del Mediterraneo’ di SOS MEDITERRANEE, con il suo grande cerotto simbolico nel nostro mare, perché Bari è una città di pace – dichiara il Sindaco Vito Leccese – L’accoglienza, la solidarietà e la cura verso l’altro sono parte della nostra identità. Vogliamo che il Mediterraneo smetta di essere un luogo di dolore e torni a essere un mare di vita, incontro e abbraccio tra i popoli. Siamo fieri che questo messaggio parta proprio da qui. Grazie a tutte le persone che, con realtà come SOS MEDITERRANEE, fanno della solidarietà una missione quotidiana, tendendo la mano a chi nel mare cerca speranza e non deve mai più trovare morte. Chiudo con un ringraziamento speciale alla Capitaneria di Porto per aver concesso le autorizzazioni all’occupazione dello spazio acqueo in cui è stata installata l’opera».   L’opera è stata ideata da VICEVERSA Studio, specializzato in installazioni artistiche e brand activations, attivo dal 2020. Prodotta dalla casa di produzione Saccage con il supporto di Odd Ep. con sede a Bari e con il patrocinio del Comune di Bari.   Redazione Italia
La CEDU legittima i respingimenti collettivi delegati ai libici
1. Obiettivo raggiunto. E’ bastato rifornire i libici di motovedette e garantire loro formazione congiunta e assistenza operativa. Si completa il circuito di aggiramento della sentenza di condanna dell’Italia sul caso Hirsi per i respingimenti collettivi illegali verso la Libia operati nel 2009 dalla motovedetta Bovienzo della Guardia di finanza. Dopo il Trattato di amicizia firmato da Berlusconi e Gheddafi nel 2008, che dava effetto al Protocollo tecnico-operativo, sottoscritto dal capo della polizia Manganelli con il ministro Amato al Viminale, nel dicembre 2007, durante il governo Prodi, sono risultati decisivi gli accordi stipulati con il governo di Tripoli da Gentiloni e Minniti nel 2017 e poi mantenuti da tutti i successivi governi.  La Corte europea dei diritti dell’uomo ha respinto il ricorso sul caso del gommone intercettato da una motovedetta libica nel novembre 2017. Secondo i giudici di Strasburgo, “le autorità italiane non avevano il controllo effettivo dell’area”. Il capitano e l’equipaggio della nave libica avrebbero agito in modo autonomo e non vi sarebbero prove che suggeriscano che il Centro di Soccorso di Roma avesse “il controllo sull’equipaggio di questa nave e fosse in grado di influenzarne in alcun modo il comportamento”, dunque, “La Corte conclude che i ricorrenti non rientravano nella giurisdizione italiana (…) Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile“. Nel corso della intercettazione violenta, operata in acque internazionali da una motovedetta libica prima che le autorità di Tripoli dichiarassero all’IMO una zona SAR (di ricerca e salvataggio) di propria competenza, come denunciato da Amnesty International, alcune persone finivano in mare e perdevano la vita, tra queste due bambini, figli dei ricorrenti, mentre il Ras Jadir dopo il richiamo giunto da un elicottero italiano si allontanava a grande velocità, trascinandosi un uomo appeso fuori bordo ad una fune. Come si legge nella sentenza, ricorrenti R.J. e E.R.O., rimasti a bordo della Ras Jadir con circa altri quarantacinque sopravvissuti, sarebbero stati legati con delle corde dall’equipaggio libico, che li avrebbe anche picchiati e minacciati; sono stati portati in un campo di detenzione a Tajura, in Libia, dove avrebbero subito maltrattamenti e violenze. In una data imprecisata, sono stati rimpatriati in Nigeria nell’ambito del programma di rimpatrio umanitario volontario assistito dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM). I giudici di Strasburgo richiamano la loro precedente giurisprudenza secondo cui “Anche nei casi in cui sia accertato che le presunte violazioni si sono verificate in un’area sotto il controllo effettivo dello Stato convenuto (e che quindi rientravano nella sua giurisdizione ratione loci), lo Stato convenuto sarà ritenuto responsabile delle violazioni della Convenzione solo se aveva anche la giurisdizione ratione personae. Ciò significa che gli atti o le omissioni in questione devono essere stati commessi da autorità statali o essere altrimenti attribuibili allo Stato convenuto (par.81). La Corte osserva poi “che le prove contenute nel fascicolo dimostrano che il comandante e l’equipaggio della nave libica hanno agito in modo autonomo, rifiutandosi di rispondere alle chiamate fatte loro dalle altre imbarcazioni presenti sul posto e dall’elicottero della Marina italiana per coordinare le manovre di salvataggio (cfr. paragrafi 9 e 12). Inoltre, nulla fa pensare che gli agenti dell’MRCC di Roma avessero un qualche controllo sull’equipaggio della Ras Jadir e fossero in grado di influenzarne in qualche modo il comportamento. In questo modo la Corte ignora quanto emerso nel corso del procedimento, che il coordinamento effettivo delle operazioni di soccorso era effettuato in quel tempo da bordo di una nave italiana che stazionava nel porto militare di Abu Sittah a Tripoli, nel quadro dell’operazione Nauras, e che dalla stessa centrale provvisoria di coordinamento provenivano le intimazioni dirette alla Sea Watch 3 della omonima ONG tedesca, di allontanarsi dal luogo del soccorso. Lo stesso governo italiano aveva affermato nel corso della causa che “la Ras Jadir era stata la prima ad arrivare sul luogo del naufragio ed era stata prontamente designata dal JRCC di Tripoli come OSC” (coordinatrice dei soccorsi). Il centro di coordinamento dei soccorsi (JRCC) di Tripoli a quel tempo operava in stretto collegamento con la centrale di coordinamento (MRCC) della Guardia costiera italiana con sede a Roma. Come emerge anche dalle comunicazioni intercorse tra la motovedetta libica e l’elicottero italiano presente sulla scena dei soccorsi, che intimava inutilmente alla Ras Jadir di spegnere i motori per la presenza di persone in acqua. Sarebbe stato questo il profilo dirimente che i giudici di Strasburgo avrebbero dovuto affrontare, non certo quello del “sostegno economico e logistico fornito dall’Italia alla Libia nella gestione dell’immigrazione”. La Corte si arrocca sul principio della giurisdizione esclusiva (par.96), un principio già utilizzato nel caso Hirsi per affermare la responsabilità extraterritoriale dell’Italia, che non trova corrispondenza nella successiva evoluzione dei rapporti tra autorità italiane e governo di Tripoli, proprio a partire dal 2017, e nella dinamica dei fatti occorsi durante il respingimento collettivo su delega italiana del 6 novembre 2017. Si può avere “controllo effettivo” di un area marittima anche senza esercitare una giurisdizione esclusiva, e le zone SAR sono aree di responsabilità e non certo spazi di giurisdizione che in acque internazionali non si possono riconoscere ad una entità statale, come il governo di Tripoli, che non rispetta gli obblighi di soccorso ed i diritti fondamentali dei naufraghi. Non si vede come si possa escludere nell’occasione giunta all’esame della Corte, che le autorità italiane avessero fornito un concorso, assumendone la responsabilità, per aver contribuito a porre in essere atti contrari alle disposizioni della Convenzione, come quelli sanciti con il divieto di tortura (art.3 CEDU) e con il divieto di respingimenti collettivi (art.4, Quarto Protocollo allegato alla CEDU). La decisione operativa assunta dall’autorità marittima italiana di trasferire la competenza esclusiva dei soccorsi ai libici, quando ancora non era stata neppure dichiarata una zona SAR “libica”, ha comportato la successiva lesione dei diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione EDU. Non solo per quanto concerne il diritto ala vita e il diritto al soccorso in mare. Di fronte alla nota situazione di violazione dei diritti umani dei migranti intercettati in acque internazionali e ricondotti in Libia, esisteva un preciso obbligo giuridico per l’Italia di rispondere alla richiesta di soccorso che aveva tempestivamente ricevuto, e di cooperare nelle attività di salvataggio in mare ai sensi dell’UNCLOS, della Convenzione SAR, e del Regolamento adottato ai sensi della Convenzione SOLAS. In modo da garantire lo sbarco in un porto sicuro (place of safety). Obbligo che radicava una giurisdizione italiana, rientrando tra i doveri delle autorità italiane, le prime ad essere investite da una chiamata di soccorso, assumere decisioni tali da incidere sulla vita e sulla libertà di persone che si trovavano in acque internazionali, al di fuori di una giurisdizione nazionale. Non si vede poi come la Corte di Strasburgo possa affermare che l’elicottero della Marina italiana presente sulla scena dei soccorsi non abbia preso parte alle operazioni di salvataggio (par.100). La sentenza appare contraddittoria, quando poi al paragrafo 102 “la Corte osserva che le prove contenute nel fascicolo dimostrano che il comandante e l’equipaggio della nave libica hanno agito in modo autonomo, rifiutandosi di rispondere alle chiamate fatte loro dalle altre imbarcazioni presenti sul posto e dall’elicottero della Marina italiana per coordinare le manovre di salvataggio (cfr. paragrafi 9 e 12). Non si vede come si possa parlare di una giurisdizione esclusiva libica, escludendo la concorrente giurisdizione italiana, quando si ammette che un mezzo della nostra Marina militare partecipava direttamente “per coordinare le operazioni di salvataggio”, tanto da inviare richiami di fermare i motori al comandante della Ras Jadir che questo non rispettava. 2. Nel luglio del 2017, una Deliberazione del Consiglio dei Ministri italiano prevedeva la partecipazione alla missione in supporto alla Guardia costiera libica richiesta dal Consiglio presidenziale del Governo di accordo nazionale. Tra gli obiettivi da raggiungere con l’operazione Nauras , “fornire supporto alle forze di sicurezza libiche per le attività di controllo e contrasto dell’immigrazione illegale e del traffico di esseri umani mediante un dispositivo aeronavale e integrato da capacità I SR (Intelligence, Surveillance, Reconaissance). In particolare, la missione ha i seguenti compiti, che si aggiungono a quelli già svolti dal dispositivo aeronavale nazionale apprestato per la sorveglianza e la sicurezza nell’area del Mediterraneo centrale: – protezione e difesa dei mezzi del Consiglio presidenziale / Governo di accordo nazionale libico (GNA) che operano per il controllo/contrasto dell‘immigrazione illegale, distaccando, una o più unità assegnate al dispositivo per operare nelle acque territoriali e interne della Libia controllate dal Consiglio presidenziale / Governo di Accordo Nazionale (GNA) in supporto a unità navali libiche; – ricognizione in territorio libico per la determinazione delle attività di supporto da svolgere; – attività di collegamento e consulenza a favore della Marina e Guardia costiera libica; – collaborazione per la costituzione di un centro operativo marittimo in territorio libico per la sorveglianza, la cooperazione marittima e il coordinamento delle attività congiunte. Secondo il Gip di Catania a marzo del 2018 (caso Open Arms), pochi mesi dopo il respingimento collettivo delegato ai libici nel novembre del 2017, “la circostanza che la Libia non abbia definitivamente dichiarato la sua zona SAR non implica automaticamente che le loro navi non possano partecipare ai soccorsi, soprattutto nel momento attuale, in cui iI coordinamento è sostanzialmente affidato alle forze della Marina Militare Italiana, con i propri mezzi navali e con quelli forniti al libici (sulla costituzione della zana SAR da parte della Libia si veda quanto comunicato dal Comando Generale del Carpo delle Capitanerie di Porto Italiane con II rapporto di data 23.03.201 8, allegata in atti; dal quale si rileva che la Libia non sembra avere abbandonato ii percorso per dichiarare la detta zona SAR, ma solamente essersi attardata in pastoie burocratiche, al pari di altri Paesi, che comunque operano i soccorsi”. In precedenza la Corte di Strasburgo era stata molto attenta rispetto alle Convenzioni internazionali che oggi finge di ignorare. La Corte europea dei diritti dell’Uomo (caso Hirs), richiamata dalla Corte di cassazione sul caso ASSO 28, aveva affermato che “il divieto di respingimento  costituisce un principio di diritto internazionale consuetudinario che vincola tutti gli Stati, compresi quelli che non sono parti alla Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati o a qualsiasi altro trattato di protezione dei rifugiati. È inoltre una norma di jus cogens: non subisce alcuna deroga ed è imperativa, in quanto non può essere oggetto di alcuna riserva” (articolo 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, articolo 42 § 1 della Convenzione sullo status dei rifugiati e articolo VII§1 del Protocollo del 1967). Il principio di non respingimento, dettato dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, non può essere dunque oggetto di alcuna riserva, ma non dovrebbe neppure essere aggirato con il ricorso ad accordi bilaterali, e con la delega alle autorità libiche di operare respingimenti collettivi sotto coordinamento europeo, senza fare esporre direttamente unità navali italiane o maltesi. 3. La Corte europea dei diritti dell’uomo delimita adesso la propria giurisdizione in modo da non intralciare le intese operative tra Italia e Libia per sequestrare i naufraghi in acque internazionali e deportarli nei lager dai quali sono fuggiti. Anche per la Corte di Strasburgo, evidentemente, le Convenzioni internazionali di diritto del mare ormai non valgono nulla. E non rileva neppure il ruolo criminale di comandanti libici come Bija o come Abdel Ghani al-Kikli, uccisi in faide tra milizie, dopo essere stati, per conto del governo di Tripoli, interlocutori privilegiati delle autorità italiane e protagonisti di respingimenti collettivi su delega e di sequestri di persone migranti intercettate in acque internazionali. Il riconoscimento della giurisdizione esclusiva libica in acque internazionali, prima ancora che nel 2018 fosse istituita la zona Sar “libica” con l’esclusione totale della giurisdizione italiana, in un caso nel quale, nel novembre del 2017, era presente un nostro elicottero sopra il barcone intercettato, con un preciso ruolo di assistenza affidato dall’IMRCC di Roma (Centrale di coordinamento della Guardia costiera), è un precedente gravissimo che conferma come la Corte europea dei diritti dell’Uomo, sulle questioni di maggiore “spessore politico”, sia ormai condizionata da governi xenofobi che cancellano i diritti umani ed il rispetto della vita e degli obblighi di soccorso in mare. Risulta assai inquietante, per i possibili sviluppi futuri, la considerazione finale dei giudici di Strasburgo, secondo cui “La Corte sottolinea, tuttavia, di essere competente solo a controllare il rispetto della Convenzione. Il compito della Corte è quello di interpretare e applicare la Convenzione. La Corte non è quindi competente a verificare il rispetto di altri trattati internazionali o obblighi internazionali che non derivano dalla Convenzione. Pertanto, ha sottolineato che, anche se altri strumenti possono offrire una protezione più ampia della Convenzione, non è vincolata dalle interpretazioni di strumenti simili adottate da altri organismi, poiché le disposizioni di tali altri strumenti internazionali e/o il ruolo degli organismi incaricati di controllarne l’applicazione possono differire dalle disposizioni della Convenzione e dal ruolo della Corte (par.113). La vergognosa decisione di irricevibilità per carenza di giurisdizione adottata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo non permetterà al governo italiano di proseguire impunemente la collaborazione con le autorità libiche nelle intercettazioni e nel sequestro in acque internazionali dei naufraghi fuggiti dai campi di detenzione ancora gestiti dalle milizie che, come dimostrano il caso Almasri, sul quale dovrà pronunciarsi la Corte Penale internazionale, e gli scontri più recenti a Tripoli, continuano ad essere responsabili di gravi crimini contro l’umanità e non costituiscono un soggetto legittimo per le operazioni di ricerca e soccorso. Come ha recentemente affermato la Corte d’Appello di Catanzaro che lo scorso 11 giugno ha respinto il ricorso del governo italiano contro una sentenza che aveva dichiarato illegittimo il fermo della nave di soccorso Humanity 1, motivato proprio con il riconoscimento della “giurisdizione esclusiva” della sedicente guardia costiera libica in acque internazionali. Fulvio Vassallo Paleologo
Processi e processi
Esprimiamo tutta la nostra solidarietà a Luca Casarini per l’accanimento persecutorio contro di lui e la nostra stima profonda per il suo operato in mare. Ricordiamo che giovedì 5 giugno alle 18 sarà a Palermo ad Una Marina di Libri, ai Cantieri Culturali alla Zisa, per intervenire alla presentazione del volume di Giovanna Fiume “Mediterraneo corsaro. Storie di schiavi, pirati e rinnegati in età moderna” Dopo 5 anni dai fatti, siamo chiamati a processo. Un dibattimento pubblico al quale non vogliamo sottrarci: non invochiamo l’immunità come se fossimo ministri. L’accusa di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per aver introdotto sul suolo italiano 27 persone senza documenti “, e’ una medaglia. Quelle 27 persone erano state abbandonate in mare per 38 giorni da più Stati: Malta, Italia, Danimarca, e infine, l’Unione Europea intera. Durante le udienze preliminari dalla loro voce, di quei 27 che hanno nomi e cognomi, storie, vita, abbiamo potuto sentire, anche la giudice e anche il pubblico ministero, in che condizioni erano a bordo della petroliera che li aveva soccorsi, ottemperando alla legge del mare. Una sola donna, con il marito e altri 25 uomini, uno minore. Dovevano fare i propri bisogni su un secchio, senza nemmeno un angolo di privacy. Erano relegati in una parte della prua della nave, all’aperto giorno e notte. Il Covid imponeva all’equipaggio il distanziamento, ma comunque su una petroliera non ci sono cabine passeggeri. A un certo punto sono finiti i piatti di plastica sui quali poter mangiare quel poco che veniva spartito: hanno dovuto usare dei pezzi di cartone come recipienti per il cibo. Per lavarsi stessa storia: davanti a tutti, utilizzando un barile pieno d’acqua dissalata e un mestolo. L’acqua di mare dissalata era anche quella da bere: si chiama tale, ma il sale ancora si sente. Ad agosto, con 40 gradi di giorno, si sente ancora di più. In mezzo al mare, di notte invece fa freddo. Dormivano buttati sul cordame, sulle cime della nave che è come dormire sui sassi. Il pavimento era tubi, acciaio, grate di ferro. Come stare su una graticola rovente con il sole, su una ghiacciaia durante il buio. La giovane donna, la chiamerò qui Miryam, ha raccontato di come le guardie del lager libico l’abbiano violentata in gruppo, davanti a suo marito e davanti a tutti gli altri prigionieri. Ha descritto, e questo la giudice e il pubblico ministero lo hanno sentito bene, di come quegli uomini strafatti di droga e viagra, facessero lo stesso con le altre, davanti ai loro figli. Il marito, lo chiamerò qui Yusuf, ha raccontato del tentativo di suicidio che tre dei sopravvissuti a bordo della petroliera, dopo un mese di abbandono, hanno tentato: si sono buttati in mare. Il pubblico ministero ha ironizzato: “si sono buttati in acqua, non era mica un suicidio”. Peccato che la paratia della Maersk sia di 15 metri. Equivale a buttarsi da un palazzo di dodici piani in mare aperto. Per 38 giorni nessuno, dico nessuno delle civili e democratiche autorità europee, ha sentito il dovere di mandare almeno un medico. Perché nessuno voleva essere costretto poi a prendersi carico di quei profughi fuggiti dalla Libia. E allora, dopo 38 giorni, ci siamo andati noi. Ci condanneranno per questo? Va bene, lo accetto. Lo rifarei mille volte. Ma loro lo sanno bene questo. E quindi non gli basta. Sanno che imputarci questo “reato” è come darci una medaglia. Nel loro mondo chi fa morire i naufraghi, chi paga per tenerli nei lager o perché siano deportati nel deserto, si può fregiare del titolo di “onorevole”. Chi protegge i criminali contro l’umanità è ministro o premier. Noi ci teniamo a non essere del loro mondo. E allora qual è lo stigma, l’accusa infamante da associare all’articolo 12, per il quale rischiamo 15 anni di galera? Il “lucro”. Come nel caso del mio amico e fratello Mimmo Lucano. Aver tratto profitto. Siamo spiati e scandagliati da anni. Sanno come viviamo, sanno quanti soldi abbiamo, meglio quanti debiti abbiamo. Sanno che non ci siamo arricchiti, sanno tutto. Si inventano la storia della Maersk che decide di farci una donazione tre mesi dopo quel settembre del 2020. Dal dossier dei servizi che è allegato agli atti con la formula della “relazione di polizia giudiziaria “, si capisce che hanno paura di una possibile, strana alleanza che potrebbe allargare il sostegno al soccorso in mare: i grandi armatori del traffico commerciale del Mediterraneo. Lo scrivono nero su bianco, sulla relazione che è agli atti: “obiettivo che gli imputati perseguono, nel tentativo di cambiare le leggi sull’immigrazione decise dagli Stati europei”. La donazione dunque, 125 mila euro, decisa dalla Maersk proprio per scelta politica dopo l’esperienza vissuta con i 27 naufraghi che nessuno voleva, diventa “il lucro”. A nulla valgono le deposizioni degli armatori, che spiegano perché hanno deciso di donare dei soldi a una ONG. Il pubblico ministero di fronte a tanta evidenza, nella requisitoria finale dichiara: “non abbiamo trovato le prove di un accordo, ma come non ipotizzarlo?”. Nessuna prova. Ma ci voleva il “lucro” per farci condannare subito, dal governo e dai suoi sostenitori, per via mediatica. E per farci stare male, come lo sono stato io, per una accusa infamante e spregevole, una menzogna lurida. Una calunnia che infanga. Chi si leggerà la mia deposizione troverà le parole che ho rivolto al pubblico ministero: “mi metta in galera per favoreggiamento, mi dia tutti gli anni che vuole, ma non usi contro di me l’infamia. Lei lo sa chi sono e come vivo. Voi mi conoscete. Sapete che non abbiamo mai fatto nulla, nessuno di noi, per trarre profitto “. Alla fine faremo, dopo 5 anni, questo processo. Lo trasformeremo in un processo all’omissione di soccorso. E nel mentre, saremo in mare con una nuova nave, grande il doppio. Oggi abbiamo anche saputo che siamo formalmente parte civile nel processo per la strage di Cutro. Più di cento morti, tanti bambini. Il rinvio a giudizio lì è stato chiesto per 4 ufficiali della Guardia di Finanza e due della Guardia Costiera. L’accusa è aver fatto morire cento persone, cento esseri umani. Ma non troverete tweet del governo su questo. Redazione Italia
Un tranquillo week end di paura (e caos)
Condividiamo (riprendendola dal sito di Adif, curato da Fulvio Vassallo Paleologo) per gentile concessione dell’autore, che ringraziamo, una importante ricerca di Sergio Scandura (OSINT), corrispondente senior di Radio Radicale per il Mediterraneo 26 maggio 2025 Un tranquillo week end di paura (e caos) Due barconi di legno partiti da Sabrata: allerta Alarm Phone la mattina del 24 maggio. Il primo barcone con 128 Naufraghi soccorso a sud di Lampedusa dalla Guardia Costiera Italiana. Il secondo barcone con 117 Naufraghi abbandonato a sud nel weekend alla deriva, con mare sostenuto (2 metri di onda): una odissea di soccorsi frazionati in tre giorni, con alcuni (35) presi a bordo dal mercantile MvBocic che li ha poi respinti in Libia (a nord di Zawia), altri (26) su EcoOne rimorchiatore italiano in servizio nella piattaforme offshore ENI/NOC, altri ancora (53) su OceanViking, 3 sarebbero i dispersi. Il primo evento SAR (#AP554) La prima imbarcazione in legno con 128 Naufraghi a bordo ha avuto la fortuna di risalire verso nord fino a quando poteva. Dopo una attività SAR della Guardia Costiera Italiana – che sabato sera ha visto in scena il velivolo Manta_10_01 – i Naufraghi sono stati soccorsi a 42 miglia sud di Lampedusa dalla vedetta CP322. Recap * (caso AP554) 25.5.2025 CP322 Sbarco POS Lampedusa 128 Persone: 98 uomini, 21 donne, 9 minori. Nazionalità: Eritrea, Etiopia, Sudan, Siria, Egitto. Località di partenza: Sabrata (Libia). (* fonti OOII a SCA) Il secondo, incredibile, evento. Caso Alarm Phone #AP555. Imbarcazione con 117 a bordo (numero aggiornato alle 13:00 in data odierna suscettibile di aggiornamenti). Una odissea segnata dal rituale pasticcio politico italiano e libico, da ritardi, da sollecitazioni delle ONG, da tentennamenti, disimpegni e tardivi ripensamenti: con soccorsi difficili, recuperi frazionati dei naufraghi col mare ostile (che poi è impietosamente arrivato, cosa che le sale operative degli RCC ben sapevano da giorni). La seconda imbarcazione in legno si è trovata in difficoltà già all’alba di sabato 24 maggio, nelle acque internazionali dell’area SAR libica, a 10 miglia est dal campo offshore della piattaforma petrolifera Al Jurf. Nessuno dei rimorchiatori in servizio nelle aree offshore di Al Jurf e Bouri muove subito un remo: le ‘supply vessels’ restano ferme come al solito, nonostante fossero vicini al caso SAR. Sabato 24 maggio, al momento dell’allerta Alarm Phone, nessuna nave ONG è in area: dal momento che il governo italiano tiene lontane le navi del soccorso civile con l’assegnazione di porti lontani del nord Italia. La mattina del 25 maggio la nave ONG Ocean Viking è ancora all’altezza di Malta, in rotta verso l’area SAR: viene dal porto Ancona, dove era stata inviata giorni fa dal Viminale di Piantedosi nell’ormai rituale giro di rotte vessatorie. Sabato, la nave portarinfuse MvBocic, che stava nel golfo di Gabes con destinazione di scalo commerciale a Sfax, fa rotta verso su sudest alla ricerca dell’imbarcazione. Una volta rintracciata la seconda imbarcazione, il mercantile sarebbe rimasto per diverse ore in ombreggiamento, in attesa di istruzioni e coordinamento da un RCC. Comincia la solita, rituale, disumana, empasse politica tra Italia e Libia. In casi del genere – non sarebbe la prima volta, anzi Roma tende a prendere tempo, come al solito spera (e sollecita) che ad occuparsene siano le vedette libiche: peccato però che i libici siano già ostici a uscire col mare mosso, peccato che il ‘sistema vedette’ in Libia – imbastito da Italia e UE per i respingimenti illegali in mare – vada a bloccarsi spesso quando ci sono guerre sul terreno di Tripoli e nella sua costa ovest, peccato che la Tripolitania sia in preda all’odierna instabilità con gli scontri tra milizie dopo la morte del leader SSA AlKikli Gnewa. Intanto, come previsto, in area è ormai arrivato da tempo il mare ostile con altezze onda fino a due metri. Le correnti da nord avrebbero poi fatto scarrocciare l’imbarcazione coi naufraghi a bordo per diverse miglia verso sud est, rispetto alla posizione dell’allerta Alarm Phone. Nella notte tra sabato e domenica il comandante della nave portarinfuse MvBocic attiva un recupero: ma buio notturno e condizioni di mare mosso avrebbero consentito al mercatile battente bandiera Belize di imbarcarne solo 35 dei 117 che erano a bordo. I restanti naufraghi resteranno poi alla deriva, nel buio della notte tra sabato e domenica. Rimangono ancora 82 naufraghi a bordo del barcone. Il mercantile MvBocic resta in area coi 35 Naufraghi presi a bordo. Degli altri, rimasti a bordo del barcone se ne sarebbe perso l’avvistamento. Domenica 25 maggio MvBocic – nonostante gli avvertimenti delle ONG sulle conseguenze di un respingimento illegale in Libia – punta la prua verso sud: e nel tardo pomeriggio consegna ai libici, dieci miglia a nord di Zawia all’interno delle acque nazionali libiche, i 35 Naufraghi che aveva a bordo. Domenica, alle 10:14 CEST del 25 maggio, decolla da Lampedusa il velivolo Frontex Sparow1 per rintracciare – in sette ore di missione aerea – gli 82 rimasti sul barcone. Sulla scena SAR- finalmente – si attiva il rimorchiatore italiano EcoOne in servizio nelle piattaforme dell’area offshore ENI/NOC Al Bouri. Anche per EcoOne il recupero dei naufraghi sarà parziale: degli 82 Naufraghi rimasti sul secondo barcone ne prenderà 26. Nel frattempo, in area SAR è arrivata anche OceanViking che, alle 03:00 CEST di stanotte 26 maggio, ha soccorso e preso a bordo 53 Persone: sono gli ultimi rimasti nell’odissea del secondo barcone (tra loro 19 donne e 29 minori non accompagnati). Secondo le testimonianze raccolte stanotte dai superstiti a bordo di Ocean Viking ci sarebbero 3 dispersi. Nel dramma: cinismo, disumanità e beffa dalle ‘autorità’ italiane. L’odissea continua. Ai 26 Naufraghi a bordo di Eco One rimorchiatore servizio nelle piattaforme dell’area offshore ENI/NOC Al Bouri il Viminale assegna il porto vicino di Lampedusa. Ai 53 Naufraghi a bordo della nave di soccorso ONG OceanViking il Viminale assegna, secondo i dettami del decreto Piantedosi, la rotta vessatoria del lontano porto di Livorno. Ocean Viking ha persone in condizioni critiche a bordo ed è in navigazione al largo di Lampedusa.   Update 26 maggio 2025 – ore 20,31 da Sergio Scandura (OSINT) La sfortuna di essere Persone e non barili di petrolio. Una scena già vista, più volte, in altre occasioni. EcoOne ha potuto sbarcare in fretta i suoi 26 Naufraghi a Lampedusa: e in fretta il rimorchiatore – in servizio nelle piattaforme petrolifere dell’area ENI/NOC Al Bouri – torna in area offshore per gentile concessione del Viminale e dell’ITMRCC della Guardia Costiera Ocean Viking, con i Naufraghi a bordo decisamente malmessi dopo questa odissea, è riuscita a ottenere un MEDEVAC (evacuazione medica d’urgenza) per 5 Persone al largo di Lampedusa, trasbordate nel tardo pomeriggio su CP322. La nave di soccorso ONG Ocean Viking non ha potuto sbarcare tutti i 53 Naufraghi a Lampedusa. Con 48 superstiti a bordo ora va verso Livorno, rotta vessatoria, 1150 km e giorni di navigazione, per tenerla come al solito fuori dall’area SAR del AR del Mediterraneo Centrale (sempre per gentile ‘concessione’ del Viminale di Piantedosi).   Appena tre giorni fa, sempre da Sergio Scandura, la notizia di un possibile naufragio, su cui nessuno ha fatto ricerche Guardia Costiera Italiana: “possibile naufragio di circa 48 migranti” a sud est di Lampedusa. Il dispaccio di allerta “SAR CASE 775 a tutte le navi in area”, diffuso in data odierna dal Centro di Coordinamento e Soccorso ITMRCC avvisa della ricerca di “circa 48 migranti a bordo di una barca in ferro partita il 17 maggio da Sfax”. Il dispaccio SAR è trasmesso da Roma via rete InMarSAT e rilanciato anche via Navtex dalla stazione RadioMalta (area T – type D Search And Rescue ai numeri #TD66 e #TD22). Nota: il primo dispaccio di allerta del “SAR CASE 775”, appare sul mio monitor InMarSAT il 21 maggio (0427z). Fulvio Vassallo Paleologo