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Quando all’assenza di lavoro si sopperisce con trattamenti assistenziali
Nel Sud e nelle Isole il numero delle pensioni erogate è nettamente superiore a quello dei lavoratori: nel 2024 a fronte di 7,3 milioni di pensioni pagate, avevamo poco più di 6,4 milioni di occupati. Il Mezzogiorno è l’unica ripartizione geografica del Paese che presenta questo squilibrio. E la regione con il disallineamento più marcato è la Puglia che registra un saldo negativo pari a 231.700 unità. Ad eccezione della Liguria, dell’Umbria e dalle Marche, invece, le regioni del Centro-Nord mantengono un saldo positivo che si è rafforzato, grazie al buon andamento dell’occupazione avvenuto negli ultimi 2/3 anni. Dalla differenza tra i contribuenti attivi (lavoratori) e gli assegni erogati ai pensionati, spicca, sempre nel 2024, il risultato della Lombardia (+803.180), del Veneto (+395.338), del Lazio (+377.868), dell’Emilia-Romagna (+227.710) e della Toscana (+184.266).  Sono alcuni dei dati pubblicati di recente dall’Ufficio studi della CGIA. Con sempre più pensionati e un numero di occupati che, tendenzialmente, dovrebbe rimanere stabile, nei prossimi anni la spesa pubblica è destinata ad aumentare e nel giro di poco tempo queste dinamiche potrebbero compromettere l’equilibrio dei conti pubblici e la stabilità economica e sociale dell’Italia. Occorre far emergere i tanti lavoratori in nero presenti nel Paese, incrementando, in particolare, i tassi di occupazione dei giovani e delle donne che, in Italia, restano tra i più bassi d’Europa.  Nel breve periodo, purtroppo, la situazione – sottolinea la CGIA di Mestre –  è destinata a peggiorare, anche al Centro-Nord: tra il 2025 e il 2029 si stima che poco più di 3 milioni di italiani lasceranno il posto di lavoro. Di questi ultimi, infatti, 2.244.700 (pari al 74% circa del totale) riguarderanno persone che lavorano nelle regioni centro settentrionali. Questi dati non lasciano alcun dubbio: nel giro di qualche anno assisteremo a una vera e propria “fuga” da scrivanie e catene di montaggio, con milioni di persone che passeranno dal mondo del lavoro all’inattività con conseguenze sociali, economiche ed occupazionali di portata storica per il nostro Paese. Lo sanno bene gli imprenditori che già adesso faticano a trovare personale disponibile a recarsi in fabbrica o in cantiere. Figuriamoci fra qualche anno, quando una parte importante dei cosiddetti baby-boomer lascerà l’occupazione per raggiunti limiti di età. “Già oggi ci sono 8 province settentrionali, si sottolinea nel report dell’Ufficio studi della CGIA, che al pari della quasi totalità di quelle meridionali registrano un numero di pensioni erogate superiore a quello dei lavoratori attivi. Esse sono: Rovigo (-2.040), Sondrio (-2.793), Alessandria (-6.443), Vercelli (-7.068), Biella (-9.341), Ferrara (-9.984), Genova (-10.074) e Savona (-13.753). Due province della Liguria su quattro presentano un risultato anticipato dal segno meno, mentre in Piemonte sono tre su otto. Delle 107 province d’Italia monitorate in questa analisi dell’Ufficio studi della CGIA, “solo” 59 presentano un saldo positivo. Infine, le uniche realtà territoriali del Mezzogiorno che registrano una differenza positiva sono Matera (+938), Pescara (+3.547), Bari (+11.689), Cagliari (+14.014) e Ragusa (+20.333)”. La CGIA di Mestre sottolinea nel suo report “che l’elevato numero di assegni erogati nel Sud e nelle Isole non è ascrivibile alla eccessiva presenza delle pensioni di vecchiaia/anticipate, ma, invece, all’elevata diffusione dei trattamenti assistenziali e di invalidità”. A dimostrazione che la tanto declamata crescita dell’occupazione su base annuale (250 mila unità, tra l’altro calati di oltre 150 mila rispetto all’anno scorso) è soprattutto dovuta ad un lavoro povero e precario. E la crescita dell’occupazione che si è avuta al Sud,  dove per altro il tasso di occupazione è ancora più basso della media nazionale (dodici punti in meno) e uno dei tassi più bassi d’Europa, dimostra che la metà di chi potrebbe lavorare al Sud è fuori dal mercato del lavoro. Un lavoro comunque povero che riguarda soprattutto gli over 50, mentre soprattutto al Sud resta un’elevata disoccupazione e inoccupazione giovanile e un calo dell’occupazione femminile. All’assenza di lavoro dignitoso, si affianca poi nel nostro Mezzogiorno l’assenza o la scarsa qualità di servizi pubblici, a partire da quelli sociali. E anche il DdL di Bilancio 2026 continua a non prendere di petto la questione dei divari territoriali, sempre più insostenibili. Come ha denunciato la SVIMEZ, tra gli altri: “ L’esperienza recente dimostra che l’obiettivo di attenuare i divari territoriali nei livelli di servizio difficilmente può essere perseguito in assenza di stanziamenti idonei. I LEP indicati dalla manovra sarebbero invece largamente finanziati a parità di risorse; il richiamo alle disponibilità finanziarie dei bilanci locali sembra mettere in discussione il carattere di “essenzialità” delle prestazioni, poiché la loro erogazione sarebbe condizionata dalla capacità fiscale locale (contrariamente a quanto stabilito dalla legge 42 del 2009). Anche a parità di risorse un’attenuazione dei divari territoriali potrebbe essere realizzata attraverso una revisione dei criteri di riparto delle risorse, chiaramente improntata a finalità perequative. Il DDL, tuttavia, prevede che nell’allocazione delle risorse si tenga conto “degli effettivi beneficiari dei servizi”, riproponendo in tal modo il criterio della spesa storica che perpetuerebbe le differenze attuali”. E così, l’assenza di lavoro regolare e dignitoso e la scarsità di servizi trovano una certa compensazione nei trattamenti assistenziali e di invalidità, spesso l’unica possibilità di sopravvivenza. Qui per approfondire: https://www.cgiamestre.com/wp-content/uploads/2025/11/Pensioni-stipend-prov-08.11.25.pdf.   Giovanni Caprio
Perché la libera circolazione dei lavoratori danneggia tutti noi
Già Aristotele, padre fondatore dell’economia, era contrario alla libera circolazione delle persone. Perché capiva davvero qualcosa di economia. Gli economisti moderni sono unanimi nel sostenere mercati del lavoro flessibili fino alla libera circolazione transfrontaliera delle persone. Essi motivano questa posizione affermando che la forza lavoro contribuisce maggiormente al Prodotto Interno Lordo (PIL) quando viene impiegata esattamente dove e quando apporta il massimo beneficio. Ad esempio, quando un’azienda non deve cercare gli specialisti di cui ha urgente bisogno solo nel proprio paese. Oppure quando un imprenditore edile della Germania meridionale può sfruttare meglio il proprio personale inviandolo in Svizzera per lavori di montaggio. Per tutti questi motivi, i mercati del lavoro dovrebbero essere flessibili dal punto di vista geografico e temporale e i disoccupati sono obbligati ad accettare lunghi tragitti per recarsi al nuovo posto di lavoro. UN AUMENTO DEL PIL NON SIGNIFICA SEMPRE MAGGIORE BENESSERE Gli economisti giustificano la loro massima sostenendo che un aumento del PIL crea maggiore benessere. Ma questo vale anche quando la crescita del PIL deve essere pagata con mercati del lavoro flessibili? I dubbi sono giustificati: è possibile che il PIL guadagnato grazie alla flessibilità venga più che consumato dai costi e dai tempi di trasporto aggiuntivi e dai relativi danni ambientali. Il PIL aumenta complessivamente, ma la parte «consumabile» che rimane dopo aver dedotto questi costi si riduce. Se si considera che in Svizzera il tragitto medio casa-lavoro è di un’ora e che i relativi costi di trasporto comportano almeno altri 20 minuti di lavoro, questa ipotesi è addirittura molto probabile. Già Aristotele sosteneva una tesi diversa. Per lui la questione fondamentale era se le «cose» aggiuntive contribuissero davvero a ciò che conta, ovvero a una «vita buona». Martha Nussbaum riassume così la sua opinione: «Troppa ricchezza può portare a un’estrema competitività o a un’estrema concentrazione su compiti tecnici e amministrativi e allontanare le persone dai contatti sociali, dall’interesse per le arti, dall’apprendimento e dalla riflessione». Aristotele ha naturalmente ragione: avere ancora più cose (oggi parliamo di PIL) ha, nella migliore delle ipotesi, una ripercussione minima sulla buona vita. È quindi ancora più importante chiedersi in che modo le misure volte ad aumentare il PIL, in particolare la flessibilizzazione dei mercati del lavoro, influiscano sugli aspetti più importanti della buona vita. LA FUNZIONE INTEGRATIVA DEL LAVORO DIVENTA PIÙ IMPORTANTE Diamo un’occhiata più da vicino. Uno dei bisogni fondamentali delle persone è l’appartenenza sociale. I luoghi in cui si sviluppa questa appartenenza sono principalmente la famiglia, il vicinato e, soprattutto per le persone in età lavorativa, il posto di lavoro. La flessibilizzazione dei mercati del lavoro ha un impatto negativo su tutti e tre questi ambiti. Pensiamo ai lunghi tragitti per recarsi al lavoro, ai frequenti cambiamenti di posto, ai turni di notte e così via. Quanto siano già distrutte le famiglie lo dimostra il fatto che dal 1970 la percentuale di famiglie monoparentali rispetto alla popolazione totale della Svizzera è aumentata di 2,5 volte, mentre la percentuale di coppie con figli è diminuita di un quarto. E sebbene dal 1970 i matrimoni ogni 1000 abitanti si siano quasi dimezzati, i divorzi sono quasi raddoppiati. Poiché le famiglie e i quartieri sono sempre più danneggiati, l’importanza del lavoro retribuito come «produttore» di comunanza e integrazione sociale è notevolmente aumentata. Secondo la ricerca sulla felicità, la disoccupazione riduce la felicità (la buona vita) in misura pari a quella di una malattia di media gravità. Secondo uno studio tedesco del 2006, sarebbe necessario un aumento di undici volte del reddito medio per compensare il danno psicologico causato dalla disoccupazione. Questo può sembrare incredibile, ma dimostra quanto sia irrilevante un reddito o un PIL ancora più elevato per una buona vita. LA CREAZIONE DI POSTI DI LAVORO COME FINE A SE STESSA Anche gli economisti e i politici hanno notato questo fenomeno, con conseguenze fatali. La «creazione» di posti di lavoro è diventata un fine a se stessa, rafforzando enormemente il potere delle aziende. Oltre ai loro prodotti, ora possono vendere anche i posti di lavoro e la conseguente integrazione sociale. Secondo il motto: sociale è ciò che crea lavoro. Noi creiamo posti di lavoro, quindi non potete pretendere anche salari dignitosi e buone condizioni di lavoro. Ciò ha fortemente compromesso anche il potere di integrazione sociale del lavoro (mal) retribuito. Torniamo brevemente ad Aristotele, l’inventore dell’economia, che all’epoca si svolgeva ancora prevalentemente nella comunità domestica, l’oikos. Ancora oggi, almeno il 60% delle attività con cui soddisfiamo i nostri bisogni e garantiamo la sopravvivenza vengono svolte nelle famiglie e nei quartieri. Tuttavia, la flessibilizzazione del lavoro retribuito e la concorrenza fiscale, nonché la migrazione interna da esse provocata, hanno ulteriormente indebolito la forza produttiva dell’oikos. Ciò anche perché, nel tentativo di creare posti di lavoro, il lavoro non retribuito è stato sostituito in modo mirato da quello retribuito. I COMPITI FAMILIARI SONO STATI PROFESSIONALIZZATI Con conseguenze costose: un tempo la cura dei bambini piccoli era compito della famiglia e del vicinato. Oggi è necessario ricorrere al lavoro retribuito degli asili nido. Solo il tempo impiegato dal personale degli asili nido, dai burocrati degli asili nido e dai genitori supera di gran lunga il tempo richiesto dalla soluzione di un tempo, basata sul vicinato. D’accordo: in cambio si svolge più lavoro retribuito e il PIL è aumentato, ma tutto sommato si tratta di un enorme spreco di tempo lavorativo. Ma questa è solo la punta dell’iceberg. L’indebolimento dell’oikos costa molto di più. Anche l’assistenza agli anziani sta diventando sempre più commercializzata e professionalizzata. In Svizzera, un’ora di assistenza costa ormai circa 80 franchi (86 Euro). Se il lavoro viene svolto dai familiari, questi ricevono al massimo 38 franchi. Il resto va alle organizzazioni Spitex che formano gli assistenti. Secondo il giornale svizzero Sonntags-Blick, i servizi di assistenza di base di queste aziende sono quintuplicati dal 2020 al 2023. E poi ci sono i bambini che necessitano di un’assistenza particolarmente intensiva nell’ambito del sostegno integrativo a scuola. A tal fine vengono impiegati assistenti di classe. Nel Cantone di Berna nel 2020 erano ancora 918; nel frattempo questo numero è salito a 2954 e anche nella città di Zurigo il numero degli assistenti è triplicato, passando da 340 a 1020. Nelle scuole elementari dell’Argovia, il numero di assistenti scolastici a tempo pieno è raddoppiato da 220 a 437, mentre il numero di alunni è aumentato solo dell’8%. È lecito supporre che la scuola debba svolgere un ulteriore lavoro di socializzazione, perché sempre più famiglie sono sopraffatte. Anche gli adulti sono sopraffatti dal nuovo disordine sociale. Molti diventano depressi, vanno dallo psichiatra o cercano orientamento altrove. Ciò è dimostrato dal fatto che solo nella regione di Zurigo nove istituti privati formano life coach. MIGRAZIONE GLOBALE DI MANODOPERA E chi fa poi il lavoro vero e proprio? Nessun problema. Importiamo le persone. Questo ci porta alla dimensione internazionale della libera circolazione delle persone. Questo aspetto è esemplificato dall’UE: le zone periferiche della Spagna, del Portogallo, dell’Italia meridionale, della Romania o della Croazia si stanno svuotando. Al contrario, la popolazione nelle aree metropolitane sta esplodendo. Prendiamo l’esempio del Portogallo: nel 2009 è stato creato lo status di «residenza non abituale» per attirare lavoratori qualificati e pensionati dall’estero. Nel 2012 sono stati introdotti i «visti d’oro», che offrono agli stranieri con un conto in banca ben fornito un accesso privilegiato alla cittadinanza. Ciò ha provocato un aumento dei prezzi degli immobili e degli affitti, con la conseguenza che i giovani portoghesi non possono più permettersi un alloggio. Oggi un terzo dei portoghesi di età compresa tra i 15 e i 39 anni vive all’estero. Per ogni portoghese in età lavorativa ci sono oggi due pensionati. Per i lavori semplici viene quindi reclutata manodopera a basso costo dal Brasile, dall’Angola, dall’India, dal Bangladesh o dal Marocco. Lo stesso fenomeno si verifica a livello globale. Sempre più paesi stanno perdendo la capacità di provvedere al proprio fabbisogno e quindi all’occupazione. Il motivo principale è sempre lo stesso: per sviluppare economicamente una regione occorrono, nel migliore dei casi, diversi anni. Ma le persone che potrebbero plasmare questo sviluppo trovano già domani un lavoro meglio retribuito all’estero, lasciandosi alle spalle una patria disfunzionale. LA CREAZIONE DI VALORE GLOBALE PRODUCE PERDENTI OVUNQUE La ragione risiede nelle catene globali di creazione di valore. Un paio di scarpe On, ad esempio, viene venduto in Svizzera a 200 franchi (ca. 215 Euro) a un pubblico che guadagna 100 franchi all’ora. Il 90% del lavoro necessario per produrre queste scarpe viene svolto con una retribuzione oraria di, diciamo, 5 franchi. Ciò consente di retribuire il restante 10% del lavoro con 300 franchi. I relativi «creatori di valore» amano stabilirsi con le loro aziende in zone residenziali esclusive con aliquote fiscali basse e buoni collegamenti di trasporto. Queste catene di creazione di valore globali e i loro ricchi beneficiari presentano notevoli svantaggi: da un lato, nelle nazioni perdenti il potere d’acquisto necessario per lo sviluppo locale viene sottratto o non può nemmeno nascere. E nei paesi vincitori, come la Svizzera, i beneficiari delle «estremità grasse» con il loro potere d’acquisto provocano aumenti dei prezzi, soprattutto degli affitti e degli immobili, e quindi una massiccia ridistribuzione dai cercatori di alloggi verso i proprietari terrieri. L’elevato potere d’acquisto e il corrispondente fabbisogno di consumo provocano inoltre una migrazione di massa di manodopera a basso costo dai paesi perdenti verso quelli vincitori. Viviamo quindi in un mondo che Aristotele avrebbe considerato paradossale. Ai suoi tempi, il lavoro serviva principalmente a soddisfare le esigenze locali. Il lavoro era dove si trovavano i lavoratori. Oggi il lavoro deve rincorrere la domanda monetaria, che nell’economia di mercato globale viene distribuita in modo molto sbilanciato, ora qui ora là. Viviamo in un’economia globale ipermobile e migratoria. Ma questo mondo non è benefico. In definitiva è estremamente inefficiente. Ogni lavoratore che emigra indebolisce la forza produttiva della famiglia e del vicinato. Ma è proprio da questo che dipende la buona vita molto più che dal lavoro retribuito. Aristotele se ne sarebbe accorto. Gli economisti di oggi non se ne rendono conto. Sono ciechi. Il loro unico parametro di riferimento è il PIL o, al massimo, l’occupazione retribuita. AFFRONTARE IL PROBLEMA DELLA MIGRAZIONE ALLA RADICE E poi c’è un altro punto importante: l’uomo è un animale gregario. Fin dall’infanzia dipendiamo estremamente dall’aiuto degli altri: dalla famiglia, dagli amici, dai vicini e anche dallo Stato sociale. Per rendere sopportabile questa dipendenza e poter fidarci degli altri, creiamo una fitta rete di obblighi sociali reciproci. E creiamo istituzioni con cui organizziamo la nostra convivenza e rinnoviamo costantemente il capitale di fiducia sociale. Questo processo è già abbastanza difficile e diventa ancora più complesso con l’aumento dell’immigrazione di persone provenienti da culture straniere con regole sociali diverse. Questo metastudio dimostra che maggiore è la diversità etnica in una zona, più forte è il calo della fiducia sociale. Ciò vale in particolare per la fiducia locale nei confronti dei vicini. E i quartieri e i distretti socialmente degradati rischiano di diventare una «nazione fallita», un paese fallito. In Germania e in molte zone dell’Europa occidentale questo pericolo è reale. Sia perché l’integrazione è fallita, sia perché sono arrivati semplicemente troppi immigrati. Ma non basta semplicemente chiudere le frontiere. Dobbiamo affrontare il problema alla radice. Abbiamo bisogno di un ordine economico mondiale che consenta a tutti i paesi di svilupparsi, di organizzarsi in modo tale da poter tornare a prendersi cura del proprio oikos, invece di produrre ancora più scarpe Nike per ricchi stranieri. -------------------------------------------------------------------------------- Traduzione dal tedesco di Thomas Schmid. INFOsperber
L’immigrazione è cruciale per colmare i vuoti creati nel mercato del lavoro
La popolazione residente in Italia è in calo dal 2015 e, secondo le proiezioni dell’Istat, tale tendenza si intensificherà da qui al 2050, per effetto di un numero di nascite insufficiente a compensare quello dei decessi, malgrado il saldo migratorio rimanga positivo. E il prolungato calo delle nascite e l’invecchiamento delle coorti del baby-boom comporteranno una diminuzione del numero delle persone in età da lavoro ancora più intensa: nel 2050 la popolazione di età compresa tra i 15 e i 64 anni sarà inferiore ai 30 milioni di unità, circa un milione in meno di quanto non fosse nel 1950; per ogni dieci persone in età da lavoro, vi saranno otto bambini e anziani, rispetto agli attuali sei. Sono alcuni dei dati della “testimonianza” del Vice Capo del Dipartimento Economia e Statistica della Banca d’Italia Andrea Brandolini, tenuta davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sugli effetti economici e sociali della transizione demografica. Il calo della popolazione e il suo invecchiamento avranno profonde ripercussioni su molti aspetti, a partire dal lavoro e dalla crescita economica, con le relative conseguenze sulle finanze pubbliche. Gli andamenti demografici determinano il numero delle persone potenzialmente disponibili a lavorare e così influenzano uno degli input fondamentali del processo produttivo. La partecipazione effettiva al mercato del lavoro dipende da molti fattori, tra cui le condizioni della domanda di lavoro e varie scelte individuali (percorso scolastico, impegni familiari, momento del pensionamento), ma in generale l’invecchiamento della popolazione tende a ridurre il numero delle persone in età da lavoro, convenzionalmente fissata tra i 15 e i 64 anni. Una minore disponibilità di manodopera ha meccanicamente un effetto negativo sulla crescita economica, se non è compensato da una maggiore intensità di lavoro o da una sua maggiore produttività. Brandolini sottolinea che: “Nei prossimi venticinque anni, se i tassi di occupazione, gli orari di lavoro e la produttività oraria rimanessero immutati sui livelli attuali, il calo della popolazione in età da lavoro implicherebbe una diminuzione dell’input di lavoro e quindi del PIL dello 0,9 per cento all’anno. La riduzione del PIL pro capite sarebbe più contenuta, lo 0,6 per cento annuo, per effetto della parallela flessione della popolazione complessiva”. Un fattore demografico che può controbilanciare il saldo naturale negativo anche nel breve periodo è l’immigrazione. L’ingresso di cittadini stranieri ha interamente sostenuto la crescita della popolazione residente dall’inizio degli anni duemila fino al 2014; ciò non è più avvenuto dal 2015 quando i flussi in entrata si sono ridotti e l’emigrazione di italiani e stranieri è aumentata. “L’immigrazione è stata finora cruciale – si legge nella testimonianza di Brandolini – per colmare i vuoti creati nel mercato del lavoro dal declino della popolazione autoctona. Nel 2024 gli stranieri rappresentavano il 10,5 per cento dell’occupazione totale, ma raggiungevano il 15,1 per cento tra gli operai e gli artigiani e il 30,1 tra il personale non qualificato; erano il 16,9 per cento nelle costruzioni e il 20,0. in agricoltura. I lavoratori immigrati per lo più svolgono occupazioni di bassa qualità e peggio retribuite, meno accette ai lavoratori italiani”. Secondo dati dell’INPS per il settore privato non agricolo, nel 2019 tra i lavoratori dipendenti che avevano una retribuzione settimanale appartenente al quinto meno pagato dell’intera distribuzione il 35 per cento era nato all’estero, a fronte di solo il 7 per cento nel quinto più pagato. Queste stime riguardano la componente regolare dell’occupazione dipendente che ha un contratto dichiarato all’INPS: il quadro si aggraverebbe se fossero considerati anche gli occupati irregolari e gli addetti dell’agricoltura. Come evidenzia il Vice Capo del Dipartimento Economia e Statistica della Banca d’Italia, l’Italia destina meno del 25 per cento delle risorse europee del Fondo Asilo, Migrazione e Integrazione (AMIF) a misure di integrazione attiva; nessuna a informazione, orientamento, sportelli unici, formazione civica e di altro tipo, eccetto i corsi di lingua. Secondo l’indagine europea sulle forze di lavoro, nel 2021 il 51,1 per cento degli immigrati in Italia non conosceva la lingua italiana prima di trasferirsi nel nostro Paese, quasi cinque punti percentuali in più della corrispondente media per Francia, Germania, Paesi Bassi e Spagna; meno di un immigrato ogni cinque partecipava in Italia a corsi di lingua, rispetto a più di uno ogni quattro negli altri principali paesi dell’area dell’euro. “Nel contesto normativo attuale – evidenzia Brandolini – permangono spazi per migliorare significativamente l’attrattività dell’Italia, in particolare per i lavoratori stranieri qualificati. Interventi che, oltre alla formazione linguistica, favoriscano il riconoscimento delle qualifiche professionali ottenute all’estero, permetterebbero di massimizzare i benefici a lungo termine dell’immigrazione meno qualificata, come dimostrato dall’evidenza internazionale”. Anche l’attuale governo di destra, quello dei “blocchi navali”, è stato costretto a fare i conti con questa realtà, aumentando – quatto quatto – i numeri dei decreti flussi per i lavoratori extraeuropei in ingresso. Aumento che resta comunque del tutto insufficiente. Alla base dell’accoglienza dovrebbero esserci ben altre considerazioni (e valori), perché come spesso ha “gridato” Papa Francesco: “i migranti scappano per povertà, per paura, per disperazione”, sottolineando che alcune delle cause più visibili delle migrazioni sono “persecuzioni, guerre, fenomeni atmosferici e miseria”. Tuttavia, non cogliere il nesso tra immigrazione e mercato del lavoro e la più “miserevole” necessità di colmare (organizzandosi) i vuoti creati dall’incessante diminuzione della popolazione autoctona è soltanto stupida e pericolosa miopia. Qui la “testimonianza” di Andrea Brandolini: https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/interventi-vari/int-var-2025/Brandolini-15.04.2025.pdf. Giovanni Caprio