Dagli anni Settanta a oggi: eredità rivoluzionaria e nuove sfide
“Linea del tempo” costituisce di fatto l’ultimo capitolo de I Settanta
sovversivi. La globalizzazione delle lotte (DeriveApprodi, pp. 312, Euro 22.00),
undici pagine in cui Hardt compone il suo spartito musicale per l’inedito
theatrum mundi che guerre di liberazione, rivoluzioni, colpi di stato cruenti,
rivolte di vecchi e nuovi soggetti avrebbero allestito nel ventennio ’60-’70 del
secolo scorso. Al ritmo di taluni suoi temi, veri e propri leitmotiv dello
spartito, avrebbero ballato i movimenti nel loro assalto al cielo. Uno spartito,
dunque, con un suo ordine e un suo senso senza i quali disordine e insensatezza
offrirebbero una musica diversa, à la Bregović per intenderci, con
l’impazzimento di trombe, clarinetti, tamburi, violini e fisarmonica.
Hardt ne è consapevole e infatti per evitare l’anarchia del motu proprio
suggerisce di partire dal riconoscimento del “valore della teorizzazione
avanzata collettivamente nei movimenti (p. 14 ). Un chiaro ribaltamento
dell’assioma deleuziano secondo cui sarebbero i filosofi a inventare i concetti.
Qui invece sono i movimenti rivoluzionari a produrli con le loro lotte[1].
Il tutto all’insegna della Rivoluzione, la sola a proporsi di rifare il mondo
dalle fondamenta, come recita il titolo della Prima parte del Saggio.
Una tesi, questa, mutuata direttamente da molti dei protagonisti di quel
ventennio[2] ed estesa dall’Autore all’universo mondo. Succinto il catalogo dei
suoi concetti chiave: autonomia, molteplicità, democrazia, liberazione (pp.
14-17). La Rivoluzione ne sarebbe stata attraversata da cima a fondo e poco vale
che sia stata sconfitta in malo modo un po’ ovunque ché essa va valutata “non in
base alla sua vittoria finale, ma alla forza delle sue innovazioni principali”
(p. 92), per l’appunto l’idea di un controllo in proprio delle lotte,
l’intersezionalità delle stesse, la democrazia diretta al posto di quella
rappresentativa, la trasformazione radicale della società e degli stessi
soggetti che la promuovono.
Come descrizione del sovvertimento di quegli anni funziona ma il punto dirimente
è un altro e riguarda la tesi secondo cui “gli anni Settanta sono stati l’inizio
della nostra epoca”, che noi, oggi, si condivida “gli stessi sogni e gli stessi
problemi”, che le lotte di allora “hanno costituito lo stadio larvale di
qualcosa che sta oggi raggiungendo la maturità” ( p. 272/273). La rivoluzione,
dunque, come un punto di non ritorno, un evento destinato a ripetersi nel
continuum della linea del tempo.
Volgendo lo sguardo a quel passato, sarebbe dunque possibile ritrovare un agire
rivoluzionario orientato, rintracciabile oggi nel modo di pensare dei
contemporanei che noi siamo e di cui evidentemente dovremmo avvertire l’urgenza
.
Un ritorno alla Denkungsart kantiana[3] e alla sua idea di Rivoluzione come
fenomeno della storia umana “che non si dimentica più”[4]? Parrebbe di sì. Non a
caso ne porta traccia anche la storia della nostra Repubblica sorta, è bene
ricordarlo, da una rivoluzione che la parola «resistenza» ha di fatto nascosto.
Essa rivive kantianamente nelle giornate del 30 giugno-1 luglio nella piazza De
Ferrari di Genova con i «ragazzi dalle magliette a strisce» e poi negli anni
Settanta con una nuova generazione in rivolta – quella di cui si occupa Hardt –
senza memoria per ragioni anagrafiche ma perfettamente consapevole del proprio
legame con quanto accaduto tra il ’43 e il ’45 al punto di mitizzarne il momento
insurrezionale del 25 aprile.
Di rivoluzione in rivoluzione, dunque, dove importante a un certo punto non è
più la rivoluzione in sé ma il pensiero della rivoluzione. Da cui Hardt non
riesce a liberarsi. Pur essendo consapevole che con la fine degli anni Settanta
si è chiuso il cattivo infinito delle rivoluzioni[5] e che per la nuova
intrapresa urgerebbe un linguaggio affatto nuovo, dal vecchio non riesce a
districarsi.
Lunga ad esempio è la storia del fascinoso concetto di democrazia diretta non
inventata, si badi, ma solo innovata dalla prassi rivoluzionaria operaia[6]. E
lo stesso vale per i concetti di autonomia, molteplicità e liberazione generati,
secondo l’ardita tesi di Hardt, dalle lotte dei movimenti del trascorso
ventennio ’60-’70.
Anche se a tutt’oggi evidentemente nulla hanno perso del loro valore
descrittivo, restano pur tuttavia “concetti secondari di per sé esangui”[7].
Cito Deleuze, il filosofo di riferimento del saggio. Il concetto, dice Deleuze,
è un’altra cosa, esattamente conoscenza del nuovo. Guai confonderlo “con lo
stato delle cose nel quale si incarna” e guai riferirlo “al vissuto per
compensazione” (Ivi p. 22/23).
Con un siffatto dispositivo teorico non si pensa il nuovo oltre la rivoluzione,
il nuovo delle lotte s’intende, ché questo e solo questo è l’oggetto del saggio
che evidentemente riprende alcuni temi affrontati a suo tempo in Assemblea
(Negri, Hardt, Ponte alle Grazie, 2018) che, è bene ricordarlo, aveva riposto
la rivoluzione tra le anticaglie del moderno per sostituirlo con il concetto di
potere costituente utile per comprendere le “forme contemporanee di resistenza e
rivolta” e per valutare il “loro potenziale di trasformazione sociale” [8]. Il
ciclo delle rivolte sociali sviluppatosi nelle piazze di mezzo mondo a partire
dal 2011 ne sarebbe il migliore esempio.
Per evitare di confonderlo con la rivoluzione che ha sempre concluso il suo
travagliato viatico con la nascita di una nuova forma di Stato, il potere
costituente è stato pensato “come processo permanente di trasformazione” (p. 64)
e associato direttamente alla rivolta, per l’occasione sganciata dalla classica
sequenza di rivolta, insurrezione, presa del potere nella quale ha sempre
recitato la parte della cenerentola. Fino a ieri era abilitata a funzionare al
massimo come innesco del processo rivoluzionario, ora è finalizzata a non
“prendere il potere così com’è, ma [..] a tenere aperto un processo di
costruzione di contropoteri” (p. 181). Ma anche, alla bisogna, dialogante col
potere costituito e vogliosa di legittimazione (p. 270).
Nonostante l’ottimismo profuso nel saggio per il futuro prossimo a venire, il
bilancio resta negativo. Parliamo ovviamente del ciclo di rivolte sociali
proposto come esempio di produttività della rivolta nelle nuove condizioni di
riaffermato dominio capitalistico. Quanto all’oggi, ovunque nel mondo governi
esplicitamente fascistoidi e antidemocratici rifiutano negoziazione e riforme.
Nessuno, ha ragione Hardt, ascolta le proteste e “il comando e la violenza
diventano le strategie primarie del potere” p. 270).
È dunque lo stato delle cose che ci induce a sollevare più di un dubbio circa la
produttività della rivolta costituente. Ad esempio, dubbio sul fatto che essa
abbisogni, come accade alla rivoluzione, del lavoro sotterraneo della talpa,
vale a dire di strutture organizzative dotate di capacità strategiche che
dovrebbero starle dietro, oppure che debba essere produttiva di sempre nuove
istituzioni partecipative preferibilmente stabili e che non possa essere
spontanea.
Già, la spontaneità della rivolta. È l’accusa che da sempre le è stata
rinfacciata per screditarla. Possiamo veramente pensare che le moltitudini che
la promuovono siano oggi afflitte da ignoranza, che accreditarla come suo
attributo positivo sia “una posizione ideologica” (Assemblea, cit., p. 47)?
Ecco, forse è proprio questo concetto di rivolta, che I Settanta sovversivi
consegnano al lettore, che andrebbe rivisto e approfondito[9].
NOTE
[1] p. 264: “Nel Social Movements Lab, Sandro Mezzadra ed io abbiamo sviluppato
un metodo efficace per iniziare lo studio di ogni movimento esplorando le sue
connessioni genealogiche, trasversali e internazionali”.
[2] Così P. Virno, oggi apprezzato filosofo del linguaggio, ieri militante
dell’autonomia: Negli anni del nostro scontento. Diario della controrivoluzione,
DeriveApprodi, Roma 2022, p. 291: “Sarebbe una sciocchezza, per giunta assai
meschina, raffigurare gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso come una
collezione di violenze subite, un cocktail di soprusi e persecuzioni, una
disperata resistenza all’offensiva di padroni arrembanti. È vero il contrario.
Furono gli anni in cui ebbe luogo il primo e unico tentativo di rivoluzione
comunista in seno al capitalismo maturo”.
[3] «Denkungsart» è per Kant un aspetto del carattere intelligibile degli esseri
umani, per l’esattezza il loro modo di pensare, da distinguere dal loro
carattere empirico o modo di sentire (Sinnesart). Vedi I. Kant, Critica della
ragion pura, Bompiani, Milano 2004, p. 809 (A551/B567)
[4] I. Kant, Il conflitto delle facoltà in tre sezioni in Stato di diritto e
società civile, Editori Riuniti, Roma 1982, p. 324
[5] Sul piano internazionale il pensiero corre alla rivoluzione khomeinista ma
anche quanto è accaduto in Italia merita una qualche considerazione. Così L.
Caminiti in Il fattore A ne Gli autonomi, DeriveApprodi, Roma 2007, p. 26:
“Tutto l’immaginario della rivoluzione è precipitato qui: non v’è stata parola
che non sia stata detta, non v’è stato gesto che non sia stato compiuto. Non v’è
stata teoria che non sia stata teorizzata. Non v’è stata lotta nel mondo di cui
non ci si sia fatti carico e non sia stati fratelli almeno per un giorno. Tutti
i sogni e tutti gli incubi delle rivoluzioni si sono fatti carne qui”.
[6] A. Negri, Democrazia diretta in Scienze politiche I, Feltrinelli Editore,
Milano 1970, p. 101: “Nella prassi rivoluzionaria, dalla Comune del 1871
all’insorgenza europea del movimento dei consigli, con e dopo la rivoluzione
sovietica del 1917, la democrazia diretta diviene una parola d’ordine
assolutamente diffusa: i soviet russi, i Räte tedeschi, i consigli italiani, gli
shop stewards inglesi sono nomi diversi di una sostanza unitaria.”
[7] Deleuze-Guattari, Che cos‘è la filosofia? Einaudi editore, Torino 1996, p.
23
[8] M. Hardt-A.Negri, Assemblea, Adriano Salani Editore, Milano 2018, p. 62
[9] Sul tema G. Cavallini, R. Di Pauli, M. Sersante, Che cos‘è la rivolta? In
Machina Rivista 4 aprile 2025
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