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Il riflesso di Kafka
«Versioni», versions nel titolo originale, è termine quanto mai utile per introdurci al tema di questo saggio narrativo di Maïa Hruska su Kafka  (Dieci versioni di Kafka, tr. Francesco Peri, pp. 192, euro 18,00 Mondadori). Dieci versioni di altrettanti traduttori che nella prima metà del Novecento si sono cimentati con lo scrittore ceco allora sconosciuto ai più. Traduzioni da una lingua, il tedesco di Kafka, in un’altra. Nell’ordine: l’inglese di Eugene Jolas, lo spagnolo di Borges, il rumeno di Paul Celan, l’yiddish di Melech Ravith, l’italiano di Primo Levi, il francese di Alexandre Vialatte, il polacco di Bruno Schulz, l’ebraico di Yitzhak Shenhar, il ceco di Milena Jesenská, anonimi invece i primi traduttori russi. Accomunati, i più, dall’esperienza diretta della Shoah, tutti dall’aver attraversato gli orrori del secolo breve e le sue atrocità. Verrebbe da dire: compagni di un viaggio al termine della notte. Un altro tempo e un altro mondo. Tutti, infine, pienamente consapevoli di “cosa vuol dire trasferire una lingua in un altra“. Un Kafka di copertina di Andy Warhol chiarisce meglio la portata dell’operazione: non un Kafka a tutto tondo, à la Scholem per intenderci, assimilato alla tradizione talmudica, o à la Cacciari, di un Kafka leibniziano. No, con le parole dell’Autrice, un Kafka riflesso “nel riverbero dei suoi primi traduttori” ciascuno dei quali lo ha interpretato a modo suo, proiettandoci dentro un po’ di sé. Il che significa che ognuna di queste biografie ha incrociato almeno in un punto quella di Kafka: un ritrovato pokoj – “[…]quel luogo fisico o psichico nel quale aspiriamo a ritirarci per ritrovare la profondità e la distanza critica, lontano dal chiasso del mondo” – nel caso di Jolas, l’amore per la letteratura in quello di Borges, l’yiddish con Ravitch, la morte con Violatte, e via di questo passo. Insomma, una forte attrazione non dissimile da quelle che Goethe, che Kafka leggeva in modo assiduo, chiamava le «affinità elettive». La stessa Autrice, di famiglia ceca e la cui nonna si chiamava, guarda un po’, Ludmilla Kafka, ci confessa di esserne affetta. Sarebbe stata questa risonanza personale a decidere della qualità delle traduzioni. Che non possono essere per ciò stesso fedeli all’originale. Ne era convinto il Borges traduttore il quale aborriva le traduzioni-calco che farebbero sparire l’originale. Meglio la sfasatura, pensava, meglio lo scarto e quel certo «non so che», altrimenti, a renderlo troppo perfetto, l’originale smette di esistere. Eppoi, quel «non so che cosa» non è forse il cuore stesso del reale? Non ne era convinto l’editore di Vialatte, Gallimard, che affida la revisione e la rettifica delle sue traduzioni kafkiane a un professore della Sorbona. Invece ne era convinto Calvino che in veste di redattore dell’Einaudi giudicò troppo letterale la traduzione de Il processo allora in circolazione. Solo Levi, pensava, sarebbe stato capace di rendere con esattezza il tono kafkiano. Di traduzione fedele e infedele aveva parlato Walter Benjamin (Il compito del traduttore in Angelus Novus, Einaudi, 1982), lettore scrupoloso di Kafka e presenza discreta del saggio. La contrapposizione tiene, questa la sua tesi, “finché la traduzione pretende di servire al lettore”. Tutto lascia pensare che nel loro vis-à-vis con Kafka i nostri traduttori avessero in mente non un pubblico di lettori ma solo se stessi. Alcuni, si diceva, erano ebrei sopravvissuti ai campi o costretti a un esilio forzato e come Kafka scrittori. Sensibili al loro essere ebrei, chi meglio di Josef K. de Il processo o K. de Il castello o Karl Rossmann di America avrebbe potuto descrivere la tragedia della loro impotenza in tutti quei terribili anni? Vladimir Jankélévitch ne La coscienza ebraica (La Giuntina, 1995) parla di “una alterità costituzionale” propria dell’ebreo”, di “non essere mai assolutamente presente ma di essere sempre assente”, “due volte assente da se stesso”. L’inafferrabilità di Kafka – Kafka rimane per sempre inafferrabile, scrive la Huskra – affligge anche i suoi traduttori che l’esilio ha precipitato “al tempo stesso nell’estraneo e nel banale condannandoli a portare il viso di sempre, ma indossando il nome di un altro”. Letteralmente una metamorfosi a rovescio. Che la loro vita sia trascorsa anche in divergente accordo con quella di Kafka non deve allora stupire. Si prenda la lingua. Germanofoni come Kafka sono in particolare Celan e Milena Jesenská, letterato yiddishofono è Ravitch e sappiamo quanto Kafka sentisse lo yiddish una lingua al tempo stesso intima e lontana, del tedesco dei campi si serve Levi per la sua traduzione de Il processo mentre per il ceco Kafka scrivere in tedesco significava appropriarsi «di un possesso altrui che non si è conquistato, ma rubato con un gesto (relativamente) distratto e che rimane possesso altrui». Un tedesco impeccabile, di cancelleria, nella sua essenzialità quasi un altro scrivere, il suo, per qualcuno addirittura un “linguaggio di carta o artificiale”1. Pur tuttavia, necessario. Anche nell’intimità. Vuole che Milena gli scriva in ceco ma lui risponde nel suo tedesco. Al pari dei suoi traduttori, uno straniero nella propria lingua. Ma il nostro saggio narrativo riserva qualche sorpresa in più. Chi sono questi traduttori? Alcuni nomi ci sono noti perché di loro abbiamo letto qualcosa, ma gli altri? Ad esempio, chi erano Eugene Jolas, Melech Ravitch, Alexandre Vialatte? Dei noti e dei meno noti la Hruska riesce a tracciare un profilo che nulla concede alla secchezza delle biografie di seconda copertina. La modalità del suo procedere ricorda quella dei macchiaioli in pittura. Piccoli ma significativi episodi di vita vissuta, piccoli dettagli a disegnare un destino scritto da altri, subito stoicamente. Ma questo è Eugene Jolas? È questo, Melech Ravitch? Alexandre Vialatte … Yitzhak Shenhar? Siccome tutti questi destini alludono sapientemente a quello di Kafka di cui sono di fatto un riverbero, la domanda riguarda anche il nostro. Ma proprio questo è Kafka?2 Posseduto dal demone della scrittura, un po’ introverso, sensibile al comico, riservato in amore? Sì, in questi piccoli frammenti, abbiamo qualche difficoltà a riconoscerlo. Nei panni di conferenziere, ad esempio. Lui così schivo che “organizza nel municipio del suo quartiere una serata dedicata alla lingua yiddish”, sale in cattedra e riesce “a turbare il pubblico in sala” oppure, nel mentre sorseggia un caffè “sotto i lampadari di cristallo del caffè Arco”, cercare furtivamente lo sguardo della giovane Milena… 1 G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, Quodlibet, 1996, p. 30 2. Ovvio il riferimento a R. Stach, Questo è Kafka?, Adelphi, 2016   L'articolo Il riflesso di Kafka proviene da Pulp Magazine.
Chiara Piaggio / Africa fraintesa
Nel suo saggio Chiara Piaggio mette in discussione i cliché che ancora incorniciano il continente africano: la povertà come destino, la violenza come natura, la resilienza e l’autenticità come unico racconto possibile. Fin dall’episodio d’apertura — la bara ghanese a forma di pesce, oggetto rituale che diventa arte contemporanea — l’autrice ci invita a cambiare prospettiva, a spostare lo sguardo dall’alto all’interno e a scoprire un’Africa viva, molteplice, spesso sorprendentemente normale. Non c’è in queste pagine nessuna fascinazione esotica né residuo missionario. Piaggio, forte della sua lunga esperienza di cooperazione e di ricerca culturale nel continente, scrive da un’angolatura consapevole e disincantata: conosce le contraddizioni dei progetti di aiuto, le distorsioni della filantropia, ma anche la vitalità sociale, artistica e politica di un’Africa che non attende più di essere interpretata. La scrittura piena di dettagli visivi è nutrita di incontri reali — da Abidjan a Cotonou, da Accra a Nairobi — che diventano piccoli studi di caso. Ne risulta un’Africa urbana, giovane, connessa, tecnologica; un continente che non si riconosce più nei codici dell’arretratezza e che, tuttavia, continua a fare i conti con le diseguaglianze e con i lasciti del colonialismo. Pur senza porsi sul piano accademico, L’Africa non è così condivide alcune intuizioni con autori come Jean-Loup Amselle e Achille Mbembe: l’idea di un’Africa plurale, ibrida, attraversata da scambi e contaminazioni; il rifiuto dell’essenzialismo culturale; la critica delle categorie rigide con cui l’Europa ha tentato di definire “l’altro”. A differenza della saggistica postcoloniale militante, Piaggio mantiene però un tono narrativo e pragmatico: non teorizza la decolonizzazione, la osserva nei gesti quotidiani, nei mercati, nei linguaggi, nelle contraddizioni dei giovani. La sua è una scrittura che nasce dall’esperienza — quella di chi ha vissuto e lavorato a lungo in Africa — e da lì costruisce un pensiero critico, più empirico che ideologico. Nel volume l’autrice affronta anche il tema decisivo della giovinezza africana, “l’anomalia statistica di un continente”. Piaggio scrive infatti che “ad avere meno di trentacinque anni è il 75% cento della popolazione, dispersa su cinquantaquattro Paesi. Il 60% è così giovane da essere nato dopo l’attentato alle Torri Gemelle”. In questa rappresentazione ambivalente, il continente appare ora come una minaccia, ora come una promessa, raramente come una realtà da conoscere per se stessa. Dietro le astrazioni statistiche, Piaggio mostra una realtà concreta, fatta di creatività, innovazione e adattamento. Il caso del Kenya è emblematico: nel 2007, quando solo il 19% della popolazione possedeva un conto in banca ma oltre la metà aveva un telefono cellulare, nacque M-Pesa, il sistema di pagamento elettronico via SMS partendo dall’uso spontaneo del credito telefonico come moneta di scambio, M-Pesa trasformò la SIM in un portafoglio digitale accessibile anche senza internet né smartphone. Nel giro di pochi anni, oltre il 40% del PIL del Kenya transitava su quella piattaforma, che divenne un modello di inclusione finanziaria per tutto il continente. Le sue pagine dedicate alle città — Accra, Lagos, Abidjan — proseguono su questa linea concreta: restituiscono l’energia delle metropoli in espansione, la creatività dell’economia informale e le reti di solidarietà che suppliscono all’assenza di politiche pubbliche. Ma non eludono precarietà e diseguaglianze: mostrano come crescita e esclusione convivano, e come la vitalità sociale sia inseparabile dalla fatica della sopravvivenza quotidiana. Quando descrive la normalità di una città africana come la capitale del Ghana, Accra, Piaggio osserva che non è una città “bella” nel senso estetico europeo — mancano piazze e viali, non c’è monumentalità — ma è funzionale, coerente con una logica pratica più che decorativa. La sua struttura urbana risponde ai bisogni concreti della vita quotidiana, e in questa efficienza priva di ornamenti Piaggio riconosce un’altra idea di modernità: un’estetica dell’uso, non della rappresentazione. Da questo sguardo concreto nasce una delle osservazioni più forti del libro: la normalità del Ghana come ragione della sua invisibilità. Piaggio scrive che, a differenza di altri Paesi africani segnati da guerre o crisi umanitarie, il Ghana non fa notizia: non interessa ai media, né ai politici, né — e qui l’autrice è tagliente — ai solidali europei. È un Paese che, dal 1957, quando per primo in Africa ottenne l’indipendenza dal Regno Unito, non ha conosciuto guerre civili né conflitti etnici di vasta scala, e che ha saputo mantenere una forma di democrazia abbastanza stabile e una reputazione di affidabilità nella regione. Mi viene in mente che proprio questa stabilità — più sociale che economica — ha reso i lavoratori ghanesi riconosciuti e ricercati in Europa. In Friuli Venezia Giulia, Confindustria ha promosso negli ultimi anni programmi di formazione e reclutamento che coinvolgono giovani del Ghana, presentati come esperienze di cooperazione ma di fatto rispondenti al fabbisogno di manodopera delle imprese locali. Non è un fenomeno nuovo: già dai primi anni Novanta molti ghanesi lavoravano all’Electrolux, costruendo una presenza discreta ma solida, basata su competenza, affidabilità e capacità di adattamento. A fronte di queste qualità — e della volontà di costruirsi un futuro in contesti difficili — il racconto pubblico continua però a ignorarli, come se la loro normalità non fosse degna di attenzione. Piaggio non affronta direttamente questi casi, ma la sua riflessione li lascia intravedere in filigrana: ciò che è stabile, ciò che funziona, non genera empatia né riflessione. L’immagine del Ghana come Paese “che non ha bisogno di essere salvato” diventa allora un controcampo potente: mostra come la cooperazione, economica o umanitaria, spesso presentata come gesto di solidarietà, nasconda rapporti di forza e disuguaglianze persistenti. In questa distanza — tra la retorica della cooperazione e la realtà materiale del lavoro — si gioca il vero nodo politico delle relazioni tra Africa ed Europa. Nell’ultima parte, dedicata alla politica e ai nuovi equilibri geopolitici, la riflessione si fa più problematica. Piaggio osserva e descrive la presenza crescente della Cina in Africa, sottolineando come la retorica della “cooperazione Sud-Sud” e della “non interferenza” possa apparire, agli occhi di molti africani, una forma di rispetto più concreta di quella offerta dall’Occidente. “La Cina — scrive — non impartisce lezioni di democrazia, non pretende riforme, propone scambi.” Il suo sguardo, qui, non è ingenuamente entusiasta, ma resta indulgente verso la pragmaticità cinese, letta come alternativa alla moralità coloniale europea. È un punto di vista che rischia di sottovalutare gli effetti strutturali di una nuova dipendenza economica e simbolica: l’Africa come mercato, come serbatoio di risorse, come tappa della Belt and Road. Similmente, la figura del giovane presidente burkinabé Ibrahim Traoré, che si dichiara “erede” di Thomas Sankara, viene evocata come sintomo di una domanda di riscatto e di orgoglio nazionale. Piaggio osserva che per molti giovani “la democrazia è diventata un concetto vuoto, imposto dall’alto”, e riconosce in Traoré la capacità di parlare a quella disillusione. È una posizione comprensiva più che schierata, ma lascia aperto un interrogativo: quanto può la rivolta contro l’’ipocrisia’ occidentale trasformarsi in una nuova forma di autoritarismo? Qui l’autrice sfiora un terreno scivoloso, dove la sua empatia rischia di indebolire l’analisi. Sono proprio queste zone più ambigue — il giudizio sospeso sulla Cina, la benevolenza verso i leader carismatici anti-occidentali — a rendere L’Africa non è così un libro vivo, non pacificato. Non si tratta di un pamphlet politico, né di un diario di viaggio, ma di un esercizio di sguardo: un tentativo di vedere il continente da vicino, “senza illusioni ma con curiosità”. Piaggio non chiede di scegliere tra progresso e tradizione, tra Occidente e Africa: chiede di comprendere come le immagini si costruiscono, chi le produce, e come possono essere ribaltate. E in questo gesto di decentramento — critico, talvolta spigoloso — sta il valore del suo lavoro. L’Africa non è così non è un libro da leggere per sapere “com’è l’Africa”, ma per capire quanto ancora sia necessario guardare meglio.   L'articolo Chiara Piaggio / Africa fraintesa proviene da Pulp Magazine.
Giotto / Nel blu dipinto di blu
Giotto abita quella zona della memoria dove teniamo le certezze scolastiche: grande, e fondatore della pittura moderna, è colui che dà corpo alla storia sacra. Ma, a dirla tutta, resta un sapere un po’ polveroso. Poi lo si incontra di nuovo — nella cappella di Padova, alzando gli occhi al blu profondo e terso del cielo, che sembra trattenere la luce più che rifletterla, o anche in una buona riproduzione — e quel deposito di manuali si dissolve: la sua pittura, ferma e necessaria, torna viva, piena di luce e misura. Con accanto un libro come quello di Chiara Frugoni, limpido e preciso, la meraviglia si riattiva: il sapere ridiventa conoscenza. Nel piccolo edificio voluto dal facoltosissimo Enrico Scrovegni all’inizio del Trecento, “la pittura raggiunge una coerenza narrativa e una profondità spirituale mai viste prima” grazie a Giotto e alla “sua visione concreta dell’umano” che “apre una strada nuova alla rappresentazione del sacro”. Non più simbolo lontano, ma incarnazione visibile; non illustrazione, ma narrazione. In Gli affreschi della Cappella Scrovegni a Padova — Einaudi, 2017; ora in edizione economica, bilingue italiano-inglese (pp. 224, euro 14,00) — Chiara Frugoni mette in atto il suo metodo: leggere un affresco come una pagina di storia. Tra le maggiori studiose di francescanesimo, iconografia medievale e cultura figurativa, unisce rigore filologico e chiarezza narrativa; non si limita a spiegare le immagini, le interroga come documenti di fede, potere e linguaggio. La cappella diventa così un laboratorio di significati: la teologia mariana, la costruzione del tempo e della luce, la relazione tra spazio terreno e visione celeste. Tutto concorre a mostrare come Giotto abbia saputo trasformare la pittura in un racconto coerente dell’umano e del divino, pur dentro la cornice della committenza di Enrico Scrovegni, a cui Frugoni restituisce voce e intenzione. Figlio dell’usuraio Rinaldo condannato da Dante all’inferno, con la cappella non cerca l’espiazione ma l’affermazione pubblica. Nella scena del “Giudizio universale” — riprodotta anche sulla copertina del saggio — il cavaliere inginocchiato ai piedi della Vergine offre il modellino della cappella: non un gesto penitente, ma un atto politico e di memoria. Enrico non chiede perdono, chiede di essere ricordato, e si fa ritrarre tra gli eletti, mentre la Vergine, simbolo di carità, accoglie il suo dono. Giotto, Annunciazione (Haltadefinazione.com) Proprio la Vergine annunciata, sull’arco trionfale, è per Frugoni la figura teologica centrale del ciclo. L'”Annunciazione”, interpretata come un momento di incarnazione reale nello spazio e nella luce, trasforma la cappella in un teatro sacro. Ogni 25 marzo, il giorno dell’Annunciazione, un raggio di sole attraversa la finestra e illumina la mano di Maria e il modellino dell’edificio nel “Giudizio universale”: l’arte diventa così liturgia cosmica, un segno tangibile dell’intercessione divina. Ma l’interpretazione che Frugoni dà dell’opera di Giotto è anche una riflessione sull’ambiguità del denaro e del peccato. Nella “Cacciata dei mercanti dal Tempio”, Giotto elimina cambiavalute e monete, una censura evidente voluta dal committente per allontanare da sé l’ombra dell’usura. Nel “Tradimento di Giuda”, invece, Frugoni respinge ogni lettura allegorica: Giuda non è il doppio di Scrovegni, ma l’immagine del male assoluto, posseduto dal demonio. Giotto, Incontro di Gioacchino e Anna (Haltadefinizione.com) Il ciclo comincia però da un altro bacio, di segno opposto: quello tra Gioacchino e Anna alla Porta Aurea, dove la tenerezza diventa teologia. Come scrive Frugoni, “il gesto affettuoso di due anziani sposi diventa il segno dell’Immacolata Concezione, un miracolo che avviene attraverso la dolcezza e non attraverso la carne. È l’inizio di una storia di salvezza che troverà il suo rovescio nel bacio di Giuda: là l’amore che genera, qui il tradimento che distrugge”. Due gesti uguali e contrari, che tengono insieme l’intero ciclo: la nascita e la fine, la promessa e la caduta, l’umano che si apre e quello che si chiude. Giotto, Compianto del Cristo morto (Haltadefinizione.com) Il “Compianto del Cristo morto” rappresenta per Frugoni forse il punto più alto dell’invenzione giottesca. Nella diagonale che taglia la scena — la montagna brulla, l’albero secco, la curva del corpo della Vergine — Giotto inventa una nuova grammatica del dolore: le donne sedute a terra, le mani che stringono il corpo di Cristo, gli angeli che gridano in tutte le posture del dolore e Giovanni che si slancia in avanti con le braccia indietro traducono in gesto e colore una compassione tutta umana. A questo punto, leggendo Frugoni — che ripercorre la cappella scena per scena, quadro per quadro — viene naturale pensare che l’intero ciclo funzioni come una narrazione per immagini continua, non lontana, per struttura, da quella del fumetto. Ogni riquadro procede dal precedente, riprende un gesto, un’emozione, un movimento: il tempo scorre visivamente, senza bisogno di parole. Forse è un po’ eretico pensarci, ma è anche il motivo per cui Giotto mi è sempre piaciuto: mi pare di leggerlo e guardarlo insieme, o forse un miscuglio dei due, come accade nei fumetti. Del resto, penso, Giotto non aggiungeva i balloon solo perché la gente non sapeva leggere! e, a ben vedere, non ce n’era alcun bisogno: ogni scena è così perfettamente composta, priva di superfluo e colma del necessario, che le didascalie sarebbero state ridondanti. E se è vero che Scrovegni e la Chiesa con quella opera volevano affermare il proprio potere e la propria grandezza, resta commovente pensare che la pittura di Giotto fosse comprensibile a chiunque, dotto o analfabeta. La sua chiarezza non esclude, ma include: è una lingua universale, altamente democratica, capace di parlare a tutti, ieri come oggi. La cappella, vista nella sua interezza, è insieme teologia e racconto sequenziale: un Vangelo per immagini in cui lo spazio è tempo e la pittura è scrittura. Frugoni sottolinea anche come in ogni pannello si rifletta la doppia natura di Giotto, architetto e pittore insieme, capace di costruire la profondità come spazio narrativo. La profondità, osserva, non è un espediente prospettico, ma una struttura mentale che tiene insieme architettura reale e finzione pittorica. Nell’“Incontro di Gioacchino e Anna” la città murata non è semplice sfondo: la porta, disegnata in obliquo, crea un passaggio simbolico tra attesa e compimento, nella “Presentazione di Maria al Tempio”, la lunga scalinata che la bambina percorre da sola costruisce lo spazio in verticale e, insieme, il senso spirituale della salita: l’ascesa verso il divino. Nell'”Annunciazione”, l’arco che separa Maria e l’angelo riproduce quello reale della cappella e fa entrare la luce nella scena con la stessa direzione dell’illuminazione naturale. Nel “Compianto” –  come abbiamo visto sopra – la diagonale del monte è insieme elemento architettonico e costruzione emotiva che conduce lo sguardo al corpo di Cristo. In questi esempi Frugoni mostra come Giotto pensi la pittura come un organismo spaziale coerente, dove ogni gesto e ogni architettura concorrono alla narrazione: “l’architettura non fa da cornice, ma da pensiero visivo”. Giotto, Invidia (Haltadefinizione.com) Nel registro inferiore  delle “Virtù e dei Vizi”, Frugoni nota un’assenza eloquente: al posto dell’”Avarizia” compare l’”Invidia”. Non un errore, ma una scelta precisa. Enrico Scrovegni, accusato di vivere di interessi e guadagni illeciti, non vuole che il peccato dell’usura compaia fra i muri che portano il suo nome. Il ciclo parla di lui e del suo tentativo di purificare la memoria familiare. La Cappella Scrovegni non è solo un capolavoro di pittura, ma anche parte della storia di Padova. Frugoni ricostruisce la vicenda ottocentesca della sua salvezza: dopo secoli di abbandono, i Gradenigo volevano demolirla, ma fu salvata dall’intervento del Comune e dei cittadini, fino all’acquisto pubblico del 1880 con un atto di civiltà grazie al quale il capolavoro di Giotto è giunto intatto fino a noi. Chi arriva oggi a Padova resta colpito dal contrasto tra l’esterno anonimo — un edificio tra gli alberi, dentro un giardino pubblico — e la vertigine dell’interno. Si entra dopo la prenotazione obbligatoria, in piccoli gruppi, per un tempo contingentato di contemplazione. Eppure, in quel breve tempo, la misura dello spazio cambia: il blu profondo del soffitto, i volti, i gesti, tutto sembra nuovo e al tempo stesso noto. Forse perché Giotto ci appartiene da sempre. Il suo nome evoca i pastelli dell’infanzia e le immagini del catechismo: un’educazione visiva comune che ci accompagna da bambini. Davanti alla cappella, anche chi è distratto o lontano dalla fede riconosce qualcosa di sé. Le storie di Maria e di Cristo, di Gioacchino e Anna, non parlano solo di teologia ma di nascita, paura, tenerezza, dolore. E forse è anche per questo che la cappella attira centinaia di migliaia di visitatori ogni anno, credenti e non. Di fronte a quella luce e a quella misura, si diventa quasi comprensivi verso l’overturismo: si capisce che tutti, in qualche modo, vogliono partecipare a questa esperienza, sentire per un momento che la bellezza può ancora essere condivisa. Ed è giusto sia così. Leggere Frugoni passo passo, mentre si osservano gli affreschi, è la via più naturale per comprenderli a fondo anche nei particolari miniti e per così dire, fuori quadro. La studiosa restituisce la limpidezza di Giotto: nessuna ridondanza, nessuna enfasi, ma un linguaggio esatto in cui ogni figura e ogni colore sono necessari e insostituibili. Il confronto tra il testo e le immagini diventa un piacere raro, oggi reso possibile anche online grazie alla ricostruzione in altissima definizione nel sito Haltadefinizione – Scrovegni 360° (dove si può esplorare ogni dettaglio del ciclo giottesco). Seguire la guida di Frugoni insieme alla visione delle pitture è un’esperienza incomparabile per chiarezza, rigore e misura: una lezione di metodo e di sguardo che, come gli affreschi stessi, non conosce ridondanza né orpello, ma soltanto necessità. Giotto, Soffitto Cappella Scrovegni, Padova (Haltadefinizione.com) Insomma per dirla tutta quando ho visto la cappella Scrovegni ho constatato che il “blu” era davvero quella roba là: un po’ come quando ho visto le piramidi ed erano proprio a forma di piramide. Effetti collaterali del sussidiario delle elementari. Non ci sono cose al mondo che corrispondano così tanto alle parole del primo libro di lettura. L'articolo Giotto / Nel blu dipinto di blu proviene da Pulp Magazine.
Giordano Bruno Guerri / La fabbrica dei santi: Maria Goretti
Non credo che oggi in Italia – salvo rare eccezioni di segno oscurantista – nelle agenzie educative la figura di Maria Goretti venga ancora proposta come modello ideale per le ragazze. Lo era invece per le donne della mia generazione, che però non ne volevano sapere, al punto da ridicolizzarla. “Santamariagoretti”, scritto tutto attaccato, era diventato un sostantivo ironico, usato per schernire chi pensava che la verginità fosse di per sé un titolo di merito e che le decisioni sul proprio corpo potessero appartenere ad altri. Eppure leggendo Povera santa, povero assassino di Giordano Bruno Guerri, un po’ mi ritrovo a fare i conti con quel sarcasmo. Perché Maria Goretti non era l’icona stucchevole che ci volevano imporre, ma una bambina di undici anni, vissuta nella miseria più cupa, segnata da una solitudine estrema, e infine uccisa nel 1902 da un ragazzo che voleva violentarla. Il libro di Guerri, uscito negli anni Ottanta e riproposto in un’edizione aggiornata da La nave di Teseo, è costruito come un atto d’accusa contro la Chiesa cattolica. La tesi è radicale: la Chiesa dovrebbe chiedere perdono a Maria Goretti. Non per non averla canonizzata – anzi, lo ha fatto piuttosto rapidamente – ma per aver piegato la sua morte a esigenze morali e politiche trasformando la sua vicenda in un modello di castità e di sottomissione femminile. Per la Chiesa Maria è santa perché ha opposto resistenza alla violenza “in difesa della purezza”, e perché sul letto di morte ha perdonato l’assassino. A ciò si aggiungono due miracoli, richiesti dal diritto canonico: guarigioni modeste, un decorso rapido di malattia e un incidente di lavoro risolto senza conseguenze, che persino all’epoca apparivano fragili. Guerri ha buon gioco a smontarli, sottolineando come anche l’elemento “soprannaturale” sia stato costruito per necessità istituzionali. Il cuore del libro è quindi l’analisi dei meccanismi della santità: canonizzazioni come atti terreni, legati a strategie di potere. La proclamazione di Maria nel 1950, davanti a mezzo milione di fedeli accorsi in piazza San Pietro, fu voluta da Pio XII come risposta alla modernità, alla secolarizzazione e alla “americanizzazione” dei costumi dopo la guerra. Già il fascismo aveva incoraggiato il culto per dare una santa “locale” alle Paludi Pontine e glorificarne la bonifica: Maria diventava così il simbolo di una terra redenta, prima dal peccato, poi dal regime. Guerri colpisce per la ricostruzione storica delle Paludi Pontine tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, quando i Goretti vi si trasferirono. Non si tratta solo di uno sfondo, ma di un contesto che secondo l’autore determina i destini. Le famiglie contadine vivevano in condizioni che oggi sembrano inimmaginabili: baracche di fango e canne, acqua malsana, malaria che mieteva vittime a ogni stagione. La mortalità infantile era altissima e quasi nessuno superava i quarant’anni. La povertà era assoluta: salari da fame, debiti perpetui con i proprietari terrieri, lavoro senza diritti. Le donne, oltre al lavoro nei campi, portavano il peso della cura dei figli e degli anziani, spesso senza alcun sostegno. I bambini, come Maria, diventavano subito piccoli adulti, incaricati di mansioni sproporzionate alla loro età. Non c’era spazio per lo studio né per la fantasia: la sopravvivenza assorbiva ogni energia. Guerri insiste anche sull’isolamento culturale: niente scuole, pochissime chiese, nessuna presenza istituzionale stabile. L’unico sapere diffuso era quello delle superstizioni popolari, intrecciato a una religiosità rudimentale. In questo scenario, la possibilità per una bambina di undici anni di avere la “consapevolezza teologica” richiesta dalla Chiesa per la santità appare davvero impensabile. Maria apparteneva fino in fondo a quel mondo, ne condivideva la fatica e la disperazione. In questo ambiente si colloca anche la sua solitudine personale: il padre morto presto, la madre assorbita dai campi, fratelli troppo piccoli o occupati altrove. Bambina tra adulti, trascorreva le giornate a prendersi cura di chi era più piccolo di lei, senza spazi di gioco né protezione. Doveva curarsi anche del suo futuro assassino che già la molestava e angariava con richieste e dispetti continui. La sua infanzia fu negata e la sua morte atroce. Dopo l’aggressione, sopravvisse ventiquattro ore: tra dolori lancinanti, fu sottoposta a un’operazione chirurgica senza anestesia benché i medici sapessero che non avrebbe avuto alcun esito positivo. È in questo contesto di sofferenza estrema che la tradizione cattolica colloca le sue parole di perdono per il suo assassino, decisive per la canonizzazione. Per Guerri quella bambina, vissuta in condizioni così aberranti e quasi priva di istruzione religiosa, non poteva avere alcuna consapevolezza teologica. Il suo rifiuto e il suo perdono, così come sono stati tramandati, sarebbero dunque solo costruzioni postume. Qui forse emerge il limite del suo sguardo: l’anticlericalismo materialista e razionalista, pur prezioso per smontare la retorica della Chiesa, rischia di non cogliere la capacità di decisione che rimane presente anche in condizioni estreme. Nel caso di Maria, questa capacità si tradusse in un gesto di grande dignità: dire no all’aggressione, non volere che quell’uomo “le alzasse la gonna”, non accettare di essere violata come già aveva cercato di fare più volte. Guerri dedica anche al giovane assassino, Alessandro Serenelli, un capitolo importante, mostrando come la sua parabola sia stata determinante per la canonizzazione. Il suo pentimento, la richiesta di perdono alla madre di Maria e la scelta finale di ritirarsi in convento furono interpretati dalla Chiesa come prova della santità della bambina, al punto che Serenelli divenne, in modo grottesco, una sorta di causa efficiente della sua santità: senza di lui non ci sarebbe stata né la morte violenta né la santificazione. Anche qui però mi pare si noti il limite dello sguardo di Guerri. Così come nega a Maria una soggettività, riducendola a mero frutto delle condizioni di vita delle Paludi Pontine, allo stesso modo giustifica Serenelli, considerandolo quasi non responsabile perché anch’egli solo prodotto della miseria e dell’ignoranza. Uno sguardo che, pur criticando la Chiesa, finisce per appiattire le differenze e cancellare la responsabilità personale. Alla sua prima uscita, il libro suscitò scandalo: il Vaticano accusò Guerri di anticlericalismo e falsificazione. L’autore rispose pubblicando le contestazioni ufficiali della Commissione e le sue confutazioni, punto per punto. Le edizioni successive si arricchirono di aggiornamenti: prima sul rapporto tra Chiesa e fascismo, poi sulla “politica dei santi” da Giovanni Paolo II a Benedetto XVI, fino a papa Francesco sotto il cui pontificato le spoglie di Maria Goretti hanno compiuto una sorta di tour religioso negli Stati Uniti! Povera santa, povero assassino è ormai un classico della controstoria cattolica, che ha saputo resistere alle polemiche e continua a parlare al presente. Per me, leggere Povera santa, povero assassino significa anche ripensare alla memoria generazionale. Quando da ragazze dicevamo “sei una Maria Goretti” per ridere di un modello soffocante, ci ribellavamo a un’icona imposta ma così facendo cancellavamo la bambina vera, che non può che suscitare profonda tenerezza e rispetto. Oggi non posso che dirle: scusa. 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Michel Foucault / Non innamoratevi del potere!
Nella contingenza che ci è data di vivere, ormai già da troppi anni il problema del “fascismo” è certamente quello più persistente. E non si tratta del fascismo di Mussolini e Hitler (anche se talvolta esso sembra ripresentarsi in forme tragicamente farsesche) ma si tratta – scriveva Michel Foucault (1926-1984) – di quel fascismo quotidiano (o “microfascismo”) che ci abita facendoci desiderare e amare il potere, “questa cosa che ci domina e ci sfrutta”. Lo scriveva nella Prefazione all’edizione nordamericana del 1977 de L’Anti-Edipo (1972) di Gilles Deleuze e Félix Guattari, un libro che, secondo il filosofo francese, inaugurava un modo nuovo di fare critica filosofica, sociale e politica, liberando il pensiero anche dai vecchi ma ancora venerati maestri come Marx e Freud. Questo testo profondamente storico-filosofico e brillantemente militante apre l’antologia di brevi testi foucaultiani, magistralmente curata da Deborah Borca – traduttrice, tra l’altro, del quarto volume della sua Storia della Sessualità (Le confessioni della carne) – nella nuova collana Idee di Feltrinelli. Un libro piccolo e potentissimo che appare come un manuale sin dal titolo e che, attraverso la scelta di testi che vanno dal 1973 al 1981, mostra un Foucault impegnato nella titanica e, a suo stesso dire, frammentaria impresa di impostare una critica della ragione occidentale: come si produce un soggetto di conoscenza? Come finiamo con l’accettare che una verità debba essere considerata vera? Attraverso quali pratiche discorsive di esclusione e gerarchizzazione dei saperi si costituisce qualcosa come un sapere scientifico? Nell’introduzione al volume, Borca si chiede da dove iniziare a leggere Foucault e che uso farne, come liberarlo dall’addomesticamento, come fare in modo che ci aiuti a lavorare su noi stessi. In questi saggi ritroviamo le caratteristiche fondamentali del pensiero foucaultiano come l’idea secondo la quale non vi sia alcuna nobile origine nella natura umana della quale, invece, andrebbero evidenziate la meschinità e la “piccolezza meticolosa e inconfessabile” che ha portato all’invenzione stessa di una sua nobile origine. Tutto avviene nei processi e muta, sotto i colpi di pratiche sociali e discorsi storicamente contingenti, nelle loro crisi e interruzioni. La conoscenza – lungi dal coincidere con il suo oggetto (il mondo) – è il frutto di un conflitto tra gli istinti umani; il soggetto stesso è un prodotto storico e instabile, “quel che nel XIX e XX secolo verrà chiamato l’Uomo” e del quale Foucault aveva già preconizzato la morte nel suo Le parole e le cose (1966). Come sempre, Foucault apre davanti a chi lo legge (ancora oggi) le porte del suo laboratorio di ricerca: le ipotesi storiche e filosofiche ardite, gli avanzamenti ma, soprattutto, i ripensamenti, i cambi di rotta, l’autocritica come gesto di rottura di un pensiero che non smette di rigenerarsi ed eccitarsi per nuove idee e nuovi possibili sguardi. Non a caso, rivolgendosi al suo uditorio del corso del 1976 “Bisogna difendere la società” – anche questo hanno di interessante le trascrizioni dei corsi: l’aspetto performativo, quasi scenico del suo linguaggio – parla del suo lavoro di ricerca come di un lavoro dall’andamento “ripetitivo e discontinuo” che “potrebbe corrispondere a qualcosa come una pigrizia febbrile” e che colpisce “gli amanti delle biblioteche, dei documenti, dei riferimenti, delle scritture polverose”. Non una passione da topo di biblioteca però, quanto l’eccitazione per una ricerca che scava, scova e scopre genealogie, ovvero l’“accoppiamento della conoscenza erudita e delle memorie locali”. Saperi alti e saperi bassi, saperi istituzionalizzati e saperi soggettivi, potremmo dire. Forse vivere una vita non fascista significa proprio mettere in discussione paradigmi e idee comuni che abbiamo a lungo dato per scontato o considerato non criticabili: la giustizia penale o l’istituzionalizzazione della Psichiatria, la definizione di ciò che è anormale o la sessualità. Insomma, mettere le mani e il pensiero nella “friabilità generale dei suoli”, rivolgere lo studio ai “saperi assoggettati” o dal basso o locali: non il discorso della Psichiatria, appunto, ma quello del soggetto psichiatrizzato, non il discorso della Medicina, ma quello del malato. Questa sarebbe stata, secondo Foucault, la forza del pensiero filosofico sviluppatosi a cavallo tra anni Sessanta e Settanta del Novecento, di un’“insurrezione dei saperi” che, per tornare al Prefazione che apre il volume, sarebbe ben presente nell’Anti-Edipo che Foucault definisce proprio una “Introduzione alla vita non fascista” da perseguire attraverso una sorta di decalogo che chiude il testo, consegnandolo davvero al tempo a venire (e anche al nostro!): liberare la politica da ciò che è totalizzante, non gerarchizzare pensieri, azioni e desideri, liberarsi dal fardello della mancanza, preferire il molteplice e il positivo, il nomade al sedentario, “non immaginare che si debba essere tristi per essere militanti, anche se quello che si combatte è abominevole”, non innamorarsi del potere! L'articolo Michel Foucault / Non innamoratevi del potere! proviene da Pulp Magazine.
Dagli anni Settanta a oggi: eredità rivoluzionaria e nuove sfide
“Linea del tempo” costituisce di fatto l’ultimo capitolo de I Settanta sovversivi. La globalizzazione delle lotte (DeriveApprodi, pp. 312, Euro 22.00), undici pagine in cui Hardt compone il suo spartito musicale per l’inedito theatrum mundi che guerre di liberazione, rivoluzioni, colpi di stato cruenti, rivolte di vecchi e nuovi soggetti avrebbero allestito nel ventennio ’60-’70 del secolo scorso. Al ritmo di taluni suoi temi, veri e propri leitmotiv dello spartito, avrebbero ballato i movimenti nel loro assalto al cielo. Uno spartito, dunque, con un suo ordine e un suo senso senza i quali disordine e insensatezza offrirebbero una musica diversa, à la Bregović per intenderci, con l’impazzimento di trombe, clarinetti, tamburi, violini e fisarmonica. Hardt ne è consapevole e infatti per evitare l’anarchia del motu proprio suggerisce di partire dal riconoscimento del “valore della teorizzazione avanzata collettivamente nei movimenti (p. 14 ). Un chiaro ribaltamento dell’assioma deleuziano secondo cui sarebbero i filosofi a inventare i concetti. Qui invece sono i movimenti rivoluzionari a produrli con le loro lotte[1]. Il tutto all’insegna della Rivoluzione, la sola a proporsi di rifare il mondo dalle fondamenta, come recita il titolo della Prima parte del Saggio. Una tesi, questa, mutuata direttamente da molti dei protagonisti di quel ventennio[2] ed estesa dall’Autore all’universo mondo. Succinto il catalogo dei suoi concetti chiave: autonomia, molteplicità, democrazia, liberazione (pp. 14-17). La Rivoluzione ne sarebbe stata attraversata da cima a fondo e poco vale che sia stata sconfitta in malo modo un po’ ovunque ché essa va valutata “non in base alla sua vittoria finale, ma alla forza delle sue innovazioni principali” (p. 92), per l’appunto l’idea di un controllo in proprio delle lotte, l’intersezionalità delle stesse, la democrazia diretta al posto di quella  rappresentativa, la trasformazione radicale della società e degli stessi soggetti che la promuovono. Come descrizione del sovvertimento di quegli anni funziona ma il punto dirimente è un altro e riguarda la tesi secondo cui “gli anni Settanta sono stati l’inizio della nostra epoca”, che noi, oggi, si condivida “gli stessi sogni e gli stessi problemi”, che le lotte di allora “hanno costituito lo stadio larvale di qualcosa che sta oggi raggiungendo la maturità” ( p. 272/273). La rivoluzione, dunque, come un punto di non ritorno, un evento destinato a ripetersi nel continuum della linea del tempo. Volgendo lo sguardo a quel passato, sarebbe dunque possibile ritrovare un agire rivoluzionario orientato, rintracciabile oggi nel modo di pensare dei contemporanei che noi siamo e di cui evidentemente dovremmo avvertire l’urgenza . Un ritorno alla Denkungsart kantiana[3]  e alla sua idea di Rivoluzione come fenomeno della storia umana “che non si dimentica più”[4]? Parrebbe di sì. Non a caso ne porta traccia anche la storia della nostra Repubblica sorta, è bene ricordarlo, da una rivoluzione che la parola «resistenza» ha di fatto nascosto. Essa rivive kantianamente nelle giornate del 30 giugno-1 luglio nella piazza De Ferrari di Genova con i «ragazzi dalle magliette a strisce» e poi negli anni Settanta con una nuova generazione in rivolta – quella di cui si occupa Hardt – senza memoria per ragioni anagrafiche ma perfettamente consapevole del proprio legame con quanto accaduto tra il ’43 e il ’45 al punto di mitizzarne il momento insurrezionale del 25 aprile. Di rivoluzione in rivoluzione, dunque, dove importante a un certo punto non è più la rivoluzione in sé ma il pensiero della rivoluzione. Da cui Hardt non riesce a liberarsi.  Pur essendo consapevole che con la fine degli anni Settanta si è chiuso il cattivo infinito delle rivoluzioni[5] e che per la nuova intrapresa urgerebbe un linguaggio affatto nuovo, dal vecchio non riesce a districarsi. Lunga ad esempio è la storia del fascinoso concetto di democrazia diretta non inventata, si badi, ma solo innovata dalla prassi rivoluzionaria operaia[6]. E lo stesso vale per i concetti di autonomia, molteplicità e liberazione generati, secondo l’ardita tesi di Hardt, dalle lotte dei movimenti del trascorso ventennio ’60-’70. Anche se a tutt’oggi evidentemente nulla hanno perso del loro valore descrittivo, restano pur tuttavia “concetti secondari di per sé esangui”[7]. Cito Deleuze, il filosofo di riferimento del saggio. Il concetto, dice Deleuze, è un’altra cosa, esattamente conoscenza del nuovo. Guai confonderlo “con lo stato delle cose nel quale si incarna” e guai riferirlo “al vissuto per compensazione” (Ivi p. 22/23). Con un siffatto dispositivo teorico non si pensa il nuovo oltre la rivoluzione, il nuovo delle lotte s’intende, ché questo e solo questo è l’oggetto del saggio che evidentemente riprende alcuni temi affrontati a suo tempo in Assemblea (Negri, Hardt, Ponte alle Grazie, 2018)  che, è bene ricordarlo, aveva riposto la rivoluzione  tra le anticaglie del moderno per sostituirlo con il concetto di potere costituente utile per comprendere le “forme contemporanee di resistenza e rivolta” e per valutare il “loro potenziale di trasformazione sociale” [8]. Il ciclo delle rivolte sociali sviluppatosi nelle piazze di mezzo mondo a partire dal 2011 ne sarebbe il migliore esempio. Per evitare di confonderlo con la rivoluzione che ha sempre concluso il suo travagliato viatico con la nascita di una nuova forma di Stato, il potere costituente è stato pensato “come processo permanente di trasformazione” (p. 64) e associato direttamente alla rivolta, per l’occasione sganciata dalla classica sequenza di rivolta, insurrezione, presa del potere nella quale ha sempre recitato la parte della cenerentola. Fino a ieri era abilitata a funzionare al massimo come innesco del processo rivoluzionario, ora è finalizzata a non “prendere il potere così com’è, ma [..] a tenere aperto un processo di costruzione di contropoteri” (p. 181).  Ma anche, alla bisogna, dialogante col potere costituito e vogliosa di legittimazione (p. 270). Nonostante l’ottimismo profuso nel saggio per il futuro prossimo a venire, il bilancio resta negativo. Parliamo ovviamente del ciclo di rivolte sociali proposto come esempio di produttività della rivolta nelle nuove condizioni di riaffermato dominio capitalistico. Quanto all’oggi, ovunque nel mondo governi esplicitamente fascistoidi e antidemocratici rifiutano negoziazione e riforme. Nessuno, ha ragione Hardt, ascolta le proteste e “il comando e la violenza diventano le strategie primarie del potere” p. 270). È dunque lo stato delle cose che ci induce a sollevare più di un dubbio circa la produttività della rivolta costituente. Ad esempio, dubbio sul fatto che essa abbisogni, come accade alla rivoluzione, del lavoro sotterraneo della talpa, vale a dire di strutture organizzative dotate di capacità strategiche che dovrebbero starle dietro, oppure che debba essere produttiva di sempre nuove istituzioni partecipative preferibilmente stabili e che non possa essere spontanea. Già, la spontaneità della rivolta. È l’accusa che da sempre le è stata rinfacciata per screditarla. Possiamo veramente pensare che le moltitudini che la promuovono siano oggi afflitte da ignoranza, che accreditarla come suo attributo positivo sia “una posizione ideologica” (Assemblea, cit., p. 47)? Ecco, forse è proprio  questo concetto di rivolta, che I Settanta sovversivi  consegnano al lettore, che andrebbe  rivisto e approfondito[9]. NOTE [1] p. 264: “Nel Social Movements Lab, Sandro Mezzadra ed io abbiamo sviluppato un metodo efficace per iniziare lo studio di ogni movimento esplorando le sue connessioni genealogiche, trasversali e internazionali”. [2] Così P. Virno, oggi apprezzato filosofo del linguaggio, ieri militante dell’autonomia: Negli anni del nostro scontento. Diario della controrivoluzione, DeriveApprodi, Roma 2022, p. 291: “Sarebbe una sciocchezza, per giunta assai meschina, raffigurare gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso come una collezione di violenze subite, un cocktail di soprusi e persecuzioni, una disperata resistenza all’offensiva di padroni arrembanti. È vero il contrario. Furono gli anni in cui ebbe luogo il primo e unico tentativo di rivoluzione comunista in seno al capitalismo maturo”. [3] «Denkungsart» è per Kant un aspetto del carattere intelligibile degli esseri umani, per l’esattezza il loro modo di pensare, da distinguere dal loro carattere empirico o modo di sentire (Sinnesart). Vedi I. Kant, Critica della ragion pura, Bompiani, Milano 2004, p. 809 (A551/B567) [4] I. Kant, Il conflitto delle facoltà in tre sezioni in Stato di diritto e società civile, Editori Riuniti, Roma 1982, p. 324 [5] Sul piano internazionale il pensiero corre alla rivoluzione khomeinista ma anche quanto è accaduto in Italia merita una qualche considerazione. Così L. Caminiti in Il fattore A ne Gli autonomi, DeriveApprodi, Roma 2007, p. 26: “Tutto l’immaginario della rivoluzione è precipitato qui: non v’è stata parola che non sia stata detta, non v’è stato gesto che non sia stato compiuto. Non v’è stata teoria che non sia stata teorizzata. Non v’è stata lotta nel mondo di cui non ci si sia fatti carico e non sia stati fratelli almeno per un giorno. Tutti i sogni e tutti gli incubi delle rivoluzioni si sono fatti carne qui”. [6] A. Negri, Democrazia diretta in Scienze politiche I, Feltrinelli Editore, Milano 1970, p. 101: “Nella prassi rivoluzionaria, dalla Comune del 1871 all’insorgenza europea del movimento dei consigli, con e dopo la rivoluzione sovietica del 1917, la democrazia diretta diviene una parola d’ordine assolutamente diffusa: i soviet russi, i Räte tedeschi, i consigli italiani, gli shop stewards inglesi sono nomi diversi di una sostanza unitaria.” [7] Deleuze-Guattari, Che cos‘è la filosofia? Einaudi editore, Torino 1996, p. 23 [8] M. Hardt-A.Negri, Assemblea, Adriano Salani Editore, Milano 2018, p. 62 [9] Sul tema G. Cavallini, R. Di Pauli, M. Sersante, Che cos‘è la rivolta? In Machina Rivista 4 aprile 2025 L'articolo Dagli anni Settanta a oggi: eredità rivoluzionaria e nuove sfide proviene da Pulp Magazine.
L’insostenibile leggerezza del Salone del libro
Le parole tra noi leggere era il titolo e il tema del Salone del libro di quest’anno. Ma ovviamente la leggerezza non era sempre sostenibile, e non solo in termini ambientali. Seppure forse per la prima volta ci fosse uno stand, peraltro meraviglioso, dove si sono concentrati gli incontri a tema ambientale. Lo stand era “Il bosco degli scrittori”, di Aboca, pieno di verde e profumi, che solo ad entrarci ti sentivi meglio, a dimostrazione di quanto abbiamo bisogno, del verde e della natura. Gli eventi, che fossero presentazioni, dialoghi, panel, tavole rotonde o altro, erano come sempre tantissimi, e per la nota legge di Murphy ce n’erano almeno tre che mi interessavano tantissimo alla stessa ora. Quindi al Salone bisogna scegliere. Alle volte è il Salone stesso che ti fa scegliere, quando per esempio non hai prenotato e stai in coda per ascoltare Paul Murray dalla sua viva voce irlandese e poi ti mandano via perché tutti i prenotati si sono presentati. Of course. Alle volte si sceglie in base a dove si è, a dove c’è meno gente, a dove regna il silenzio. Al Salone, si sa, il silenzio è d’oro o meglio del tutto assente. Così come sono assenti dei punti dove ricaricare i telefoni o gli iPad, onestamente una cosa un po’ disdicevole. Di tutti i disagi del Salone, ovvero le code ai bagni, il guardaroba che alle 11 è già pieno, il caffè che costa 2 euro (come neppure al più caro degli autogrill), l’aria viziata, questo del non poter caricare i device lo trovo il più fastidioso e il più ovviabile. Ma basta lamenti. Vi racconto chi ho visto e sentito. JAN BROKKEN L’Olanda era il paese ospite di questa edizione. E Jan Brokken era l’ospite degli ospiti. Ha fatto diversi eventi, alcuni affollati come non mai, altri più di nicchia. Io sono andata a quello della serie “Lo scrittore invisibile”, in cui gli scrittori affrontano il tema della traduzione. Era quindi presente anche la traduttrice Claudia Cozzi, che con il suo lavoro prezioso e – per l’appunto – invisibile ha permesso a tutti i lettori italiani di godere delle opere di Brokken. Il quale sembra uscito da un quadro fiammingo, e in un francese molto pulito e vagamente esitante racconta che ha cominciato a scrivere a sette anni in un pomeriggio piovoso in cui, non sapendo cosa fare, suo padre gli ha dato un quadernetto blu; che usa sempre dei quaderni per appunti con la copertina blu; che deve la sua abilità di scrittore a un incontro fortuito con Gabriel Garcìa Marquez, da cui ha appreso tutti i segreti dei romanzi; e che da quando abita vicino alla casa in cui ha vissuto Anna Frank è ancora più consapevole di quanto le assenze, le persone che sono state sottratte alla vita con violenza e ingiustizia e perversione, le assenze sono tanto vive e percepibili quanto le presenze. Diventato famoso, almeno in Italia, per Anime baltiche, Brokken conosce molto bene i luoghi dello sterminio, non li dimentica e non ce li fa dimenticare. La scoperta dell’Olanda, sempre pubblicato da Iperborea, era nella cinquina dei finalisti al Premio Strega Europeo (che poi ha vinto Paul Murray con Il giorno dell’ape). IIDA TURPEINEN A proposito di finalisti allo Strega Europeo, a Torino c’erano tutti. Tra questi sono andata a sentire Iida Turpeinen, che insieme a Dente ci svela il triste destino de L’ultima sirena, (romanzo pubblicato da Neri Pozza) ovvero la ritina di Steller, animale marino dichiarato estinto solo 27 anni dopo la sua scoperta, oggetto delle attenzioni di collezionisti senza scrupoli e proto-ambientalisti, in qualche modo simbolo del nostro rapporto con la natura. Quando la domanda delle domande, posta da Dente, è se sia possibile scoprire qualcosa senza fare danni. Iida Turpeinen, con il suo inglese vibrante e solo leggermente straniero, risponde che pensa sia possibile. Anche perché a relazione tra uomo e natura nel corso del tempo è cambiata, e quindi è un fatto culturale, non scientifico o storico; come è cambiata nel passato, così può cambiare di nuovo. Può darsi che tra cento o mille anni qualcuno dirà di noi, che cretini, sapevano tutto del cambiamento climatico e non hanno fatto nulla; però intanto noi possiamo cambiare il nostro modo di essere con la natura. MARCO ALBINO FERRARI CON GIOVANNI COSTANTINI Marco Albino Ferrari e Giovanni Costantini La prima volta, al “Bosco degli scrittori” ci capito quasi per caso e ci trovo anche degli amici. C’è Marco Albino Ferrari (Il canto del Principe, Ponte alle Grazie) con il direttore d’orchestra e violoncellista Giovanni Costantini, e la storia che raccontano insieme è davvero meravigliosa. Un anno prima della tempesta Vaja, un’altra tempesta di vento abbatté l’Avez del Prinzep, l’abete del principe, un abete bianco secolare dell’altopiano di Lavarone. Una volta passato lo stupore e il dolore, una volta accertato che non c’erano morti e feriti, restava cosa fare con il legno. Ci voleva qualcosa che onorasse la vita ultracentenaria di questo abete che spiccava metri sopra gli altri e che richiamava i turisti ad ammirarlo in silenzio. In un’assemblea che raccoglieva tutti gli abitanti dei paesi sparsi per l’altopiano, qualcuno propose di fare degli strumenti ad arco. Era l’idea di Giovanni Costantini: di solito questi strumenti si fanno con l’abete rosso, ma si possono fare anche con quello bianco. E gli strumenti musicali vivono e suonano e regalano gioia per centinaia di anni. Il violoncello di abete bianco, nato dal Prinzep, risuona tra le panche di legno grezzo. E ovviamente nei cuori. CARLA MADEIRA Ed ecco un’altra finalista dello Strega Europeo (ve l’avevo detto che c’erano tutti), l’autrice brasiliana più amata nel suo paese, ma anche in Europa e qui da noi. Al Salone la presenta Chiara Valerio. Ed è una conversazione densa, solida, senza preliminari e senza giri di parole. Del resto in Preludio (Fazi editore) ci sono due figli, due gemelli, che vengono chiamati Caim e Abel dal padre, per fare dispetto alla madre. C’è Vedina che, in quella che sembra una giornata come le altre, fa qualcosa che non pensava di poter fare. C’è l’ambiguità della famiglia e dell’amore, quello che viene tolto e quello che viene dato. E a differenza che nella vita, in cui non riusciamo a trovare il tempo e l’energia per chiederci che cosa ci sia dietro la cattiveria o dietro la disperazione, nei romanzi il tempo per quel che viene prima dell’atto, il tempo per il preludio esiste. Sia Carla Madeira che Chiara Valerio hanno studiato matematica, e concludono sottolineando come tanto i simboli quanto le parole sono modi per esprimere la nostra soggettività, e diventano soggettivi nel momento in cui li si usano. Una bella riflessione da portarsi a casa. JACQUES ATTALI L’avevo cominciato prima del Salone, il saggio Conoscenza o barbarie, Storia e futuro dell’educazione (Fazi editore). Jacques Attali era insieme a Enrico Galiano, e chi meglio di loro due poteva conversare sull’educazione. A partire da quello che serve e servirà davvero, cioè “imparare a imparare”. È probabile che nel futuro non si vivrà facendo un solo mestiere, ma se ne cambieranno molti; anche ora ci sono persone che cambiano mestiere più volte nella vita, ma tra non molto lo dovranno fare tutti. E imparare a imparare presuppone la pazienza, la tenacia. Bisogna resistere al fallimento, che è un inevitabile passaggio nel processo di apprendimento, e bisogna avere la pazienza e la tenacia di continuare, di insistere. Le tecnologie che usiamo non contemplano la pazienza, per questo va insegnata… con pazienza. E poi bisogna avere amore per se stessi, e fiducia nelle proprie possibilità. Perché secondo Attali non ci sono limiti a quello che possiamo studiare. Il nostro mondo è fatto di contraddizioni estreme, l’oscurantismo tecnologico e una enorme massa di conoscenze condivise. Non sarà facile trovare un equilibrio tra queste contraddizioni, ma non è neppure impossibile. Saranno lo spirito critico, che si coltiva soprattutto con la lettura, e la grinta, la forza di voler superare i nostri limiti, a traghettarci nel futuro. GUIDO SARACCO E CLAUDIA PASQUERO Ritorno al “Bosco degli scrittori”, a rinfrescarmi e respirare un’aria che non sia quella viziata del Lingotto. Ora ci sono due professori, e il tema è “Sopravvivere al clima”. Claudia Pasquero (suo un contributo del volume Come sta la terra? Il Castoro) parte da un esempio: nessuno si è preoccupato dei danni della caccia alle balene quando non c’era più bisogno dell’olio di balena, finché un ricercatore aveva quasi per caso intercettato il suono che questi cetacei emettevano sott’acqua, un suono che era un canto e un linguaggio; improvvisamente le balene ci sono diventate vicine, amiche, abbiamo sentito il bisogno di proteggerle. La stessa narrazione deve essere trovata per tutti i problemi legati al cambiamento climatico, commenta Guido Saracco (autore con Maurizio Ferraris di Tecnosofia, Laterza). Se ci mettiamo in relazione con il mondo naturale in un modo diverso da come abbiamo fatto finora, certamente potremo trovare delle soluzioni che neppure immaginavamo. JEAN GIONO Per qualche ragione ignota, Il canto del mondo di Jean Giono non era mai stato pubblicato in Italia. Ci ha pensato ora l’editore Settecolori, che non potendo ovviamente invitare l’autore ha chiamato il traduttore Leopoldo Carra e il giornalista Carlo Grande, che conosce molto bene non solo l’opera di Giono ma anche quella Provenza aspra, montuosa e per niente turistica che il grande scrittore francese racconta. Carlo Grande ha anche incontrato, tempo fa, a Manosque, la moglie e la figlia di Giono. Il canto del mondo è un manifesto ecologista ante litteram, un romanzo sinestesico, un racconto che celebra il sacro presente nella natura. Molti di noi conoscono Jean Giono come l’autore di L’uomo che piantava gli alberi, spesso considerato un libro per ragazzi e utilizzato nelle scuole per comunicare la forza della natura, la tenacia dell’uomo e la possibilità della rinascita. Il canto del mondo è anch’esso un romanzo che ci indica la strada: ci si può salvare solo vivendo in armonia con la natura, obbedendo e rispettando le sue leggi. Il libro uscirà presto in edizione numerata. Posso concludere con la stessa frase che avevo scritto dopo un altro Salone del libro: la cultura, la lettura, i libri sono molto di più e molto di meno di quello che si pensa. Sono esattamente il valore che gli diamo noi. L'articolo L’insostenibile leggerezza del Salone del libro proviene da Pulp Magazine.