Il riflesso di Kafka
«Versioni», versions nel titolo originale, è termine quanto mai utile per
introdurci al tema di questo saggio narrativo di Maïa Hruska su Kafka (Dieci
versioni di Kafka, tr. Francesco Peri, pp. 192, euro 18,00 Mondadori). Dieci
versioni di altrettanti traduttori che nella prima metà del Novecento si sono
cimentati con lo scrittore ceco allora sconosciuto ai più.
Traduzioni da una lingua, il tedesco di Kafka, in un’altra. Nell’ordine:
l’inglese di Eugene Jolas, lo spagnolo di Borges, il rumeno di Paul Celan,
l’yiddish di Melech Ravith, l’italiano di Primo Levi, il francese di Alexandre
Vialatte, il polacco di Bruno Schulz, l’ebraico di Yitzhak Shenhar, il ceco di
Milena Jesenská, anonimi invece i primi traduttori russi. Accomunati, i più,
dall’esperienza diretta della Shoah, tutti dall’aver attraversato gli orrori del
secolo breve e le sue atrocità. Verrebbe da dire: compagni di un viaggio al
termine della notte. Un altro tempo e un altro mondo. Tutti, infine, pienamente
consapevoli di “cosa vuol dire trasferire una lingua in un altra“.
Un Kafka di copertina di Andy Warhol chiarisce meglio la portata
dell’operazione: non un Kafka a tutto tondo, à la Scholem per intenderci,
assimilato alla tradizione talmudica, o à la Cacciari, di un Kafka leibniziano.
No, con le parole dell’Autrice, un Kafka riflesso “nel riverbero dei suoi primi
traduttori” ciascuno dei quali lo ha interpretato a modo suo, proiettandoci
dentro un po’ di sé. Il che significa che ognuna di queste biografie ha
incrociato almeno in un punto quella di Kafka: un ritrovato pokoj – “[…]quel
luogo fisico o psichico nel quale aspiriamo a ritirarci per ritrovare la
profondità e la distanza critica, lontano dal chiasso del mondo” – nel caso di
Jolas, l’amore per la letteratura in quello di Borges, l’yiddish con Ravitch, la
morte con Violatte, e via di questo passo. Insomma, una forte attrazione non
dissimile da quelle che Goethe, che Kafka leggeva in modo assiduo, chiamava le
«affinità elettive». La stessa Autrice, di famiglia ceca e la cui nonna si
chiamava, guarda un po’, Ludmilla Kafka, ci confessa di esserne affetta.
Sarebbe stata questa risonanza personale a decidere della qualità delle
traduzioni. Che non possono essere per ciò stesso fedeli all’originale. Ne era
convinto il Borges traduttore il quale aborriva le traduzioni-calco che
farebbero sparire l’originale. Meglio la sfasatura, pensava, meglio lo scarto e
quel certo «non so che», altrimenti, a renderlo troppo perfetto, l’originale
smette di esistere. Eppoi, quel «non so che cosa» non è forse il cuore stesso
del reale?
Non ne era convinto l’editore di Vialatte, Gallimard, che affida la revisione e la
rettifica delle sue traduzioni kafkiane a un professore della Sorbona. Invece ne
era convinto Calvino che in veste di redattore dell’Einaudi giudicò troppo
letterale la traduzione de Il processo allora in circolazione. Solo Levi,
pensava, sarebbe stato capace di rendere con esattezza il tono kafkiano.
Di traduzione fedele e infedele aveva parlato Walter Benjamin (Il compito del
traduttore in Angelus Novus, Einaudi, 1982), lettore scrupoloso di Kafka e
presenza discreta del saggio. La contrapposizione tiene, questa la sua tesi,
“finché la traduzione pretende di servire al lettore”. Tutto lascia pensare che
nel loro vis-à-vis con Kafka i nostri traduttori avessero in mente non un
pubblico di lettori ma solo se stessi. Alcuni, si diceva, erano ebrei
sopravvissuti ai campi o costretti a un esilio forzato e come Kafka scrittori.
Sensibili al loro essere ebrei, chi meglio di Josef K. de Il processo o K. de Il
castello o Karl Rossmann di America avrebbe potuto descrivere la tragedia della
loro impotenza in tutti quei terribili anni?
Vladimir Jankélévitch ne La coscienza ebraica (La Giuntina, 1995) parla di “una
alterità costituzionale” propria dell’ebreo”, di “non essere mai assolutamente
presente ma di essere sempre assente”, “due volte assente da se stesso”.
L’inafferrabilità di Kafka – Kafka rimane per sempre inafferrabile, scrive la
Huskra – affligge anche i suoi traduttori che l’esilio ha precipitato “al tempo
stesso nell’estraneo e nel banale condannandoli a portare il viso di sempre, ma
indossando il nome di un altro”. Letteralmente una metamorfosi a rovescio. Che
la loro vita sia trascorsa anche in divergente accordo con quella di Kafka non
deve allora stupire.
Si prenda la lingua. Germanofoni come Kafka sono in particolare Celan e Milena
Jesenská, letterato yiddishofono è Ravitch e sappiamo quanto Kafka sentisse lo
yiddish una lingua al tempo stesso intima e lontana, del tedesco dei campi si
serve Levi per la sua traduzione de Il processo mentre per il ceco Kafka
scrivere in tedesco significava appropriarsi «di un possesso altrui che non si è
conquistato, ma rubato con un gesto (relativamente) distratto e che rimane
possesso altrui». Un tedesco impeccabile, di cancelleria, nella sua essenzialità
quasi un altro scrivere, il suo, per qualcuno addirittura un “linguaggio di
carta o artificiale”1. Pur tuttavia, necessario. Anche nell’intimità. Vuole che
Milena gli scriva in ceco ma lui risponde nel suo tedesco. Al pari dei suoi
traduttori, uno straniero nella propria lingua.
Ma il nostro saggio narrativo riserva qualche sorpresa in più. Chi sono questi
traduttori? Alcuni nomi ci sono noti perché di loro abbiamo letto qualcosa, ma
gli altri? Ad esempio, chi erano Eugene Jolas, Melech Ravitch, Alexandre
Vialatte? Dei noti e dei meno noti la Hruska riesce a tracciare un profilo che
nulla concede alla secchezza delle biografie di seconda copertina. La modalità
del suo procedere ricorda quella dei macchiaioli in pittura. Piccoli ma
significativi episodi di vita vissuta, piccoli dettagli a disegnare un destino
scritto da altri, subito stoicamente.
Ma questo è Eugene Jolas? È questo, Melech Ravitch? Alexandre Vialatte … Yitzhak
Shenhar? Siccome tutti questi destini alludono sapientemente a quello di Kafka
di cui sono di fatto un riverbero, la domanda riguarda anche il nostro. Ma
proprio questo è Kafka?2 Posseduto dal demone della scrittura, un po’
introverso, sensibile al comico, riservato in amore?
Sì, in questi piccoli frammenti, abbiamo qualche difficoltà a riconoscerlo. Nei
panni di conferenziere, ad esempio. Lui così schivo che “organizza nel municipio
del suo quartiere una serata dedicata alla lingua yiddish”, sale in cattedra e
riesce “a turbare il pubblico in sala” oppure, nel mentre sorseggia un caffè
“sotto i lampadari di cristallo del caffè Arco”, cercare furtivamente lo sguardo
della giovane Milena…
1 G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, Quodlibet, 1996,
p. 30
2. Ovvio il riferimento a R. Stach, Questo è Kafka?, Adelphi, 2016
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