Docenza e decency in un disegno di legge sui concorsi da professore universitarioL’ASN (Abilitazione Scientifica Nazionale), nata per rimediare ai guasti del
reclutamento localistico, ha fallito ed è ora di abolirla. Questo è quanto
sostiene la relazione di accompagnamento di un disegno di legge in discussione
al Senato che innova radicalmente la disciplina del reclutamento dei professori
universitari, riuscendo nell’impossibile missione di peggiorare ulteriormente la
situazione attuale, in termini di localismo, nepotismo e malcostume concorsuale.
Una riforma fatta nel nome di una (malintesa) nozione di autonomia
universitaria. Abolita l’ASN resterà solo da autocertificare il superamento di
soglie numeriche di pubblicazioni, senza alcuna valutazione circa la qualità
delle stesse. Si sceglie insomma di accontentarsi del profilo quantitativo,
quello che ha mostrato maggiori effetti negativi, incoraggiando una produzione
scientifica orientata unicamente ai numeri delle pubblicazioni, oltre che delle
citazioni. In questo quadro, chi potrà offrire il “bollino” che attesta il
possesso della quantità richiesta di scritti e citazioni? E chi potrà
individuare gli indicatori e le soglie? Il Ministro? Oppure qualche organismo
simil-tecnico da esso nominato?
Originariamente pubblicato su www.lacostituzione.info
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1. Mentre infuriano conflitti, guerre commerciali e incombono importanti riforme
costituzionali, appare più che mai difficile che qualcuno possa interessarsi al
futuro dell’Università in Italia. Ed è così che, nel disinteresse della politica
e nel silenzio un po’ sospetto dell’accademia (salvo poche meritorie eccezioni),
è in discussione al Senato un disegno di legge (AS 1518) che innova radicalmente
la disciplina del reclutamento dei professori universitari, riuscendo
nell’impossibile missione di peggiorare ulteriormente la situazione attuale, in
termini di localismo, nepotismo e opacità suscettibili di prodursi nelle
procedure concorsuali, già note alle cronache per frequenti episodi di
malcostume. Oltre ai vizi e virtù dell’accademia, il tema rileva perché le
modalità del reclutamento incidono profondamente sulla qualità dei reclutati,
producendo così importanti effetti sulle libertà di ricerca e di insegnamento
garantite dall’art. 33, comma 1, Cost., così come su ciò che l’art. 9
pretenderebbe, cioè che la Repubblica promuova cultura e ricerca scientifica e
tecnica. Considerando la crucialità della ricerca e dell’istruzione, superiore e
non, per il futuro di una nazione, occorre(rebbe) quindi riflettere bene se tale
disegno di legge sia conforme a tali principi, oltre che all’interesse generale
a mantenere un buon livello scientifico della docenza nel sistema universitario.
2. A seguito della riforma cosiddetta Gelmini del 2010, la legge prevede oggi un
sistema mirante a creare una sorta di “patente” nazionale per accedere alla
cattedra, l’Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN), tramite cui si accede ai
concorsi da professore ordinario e associato banditi dalle singole Università.
Poiché le Università garantiscono l’accesso a titoli di studio con valore
legale, nel rispetto della loro autonomia (normativa, organizzativa, gestionale,
finanziaria), la legge dovrebbe assicurare che vi sia un livello di insegnamento
il più possibile uniforme e condizioni trasparenti ed anch’esse uniformi di
accesso alla docenza. Anche per questo motivo, oltre che per meglio garantire le
fondamentali libertà di ricerca e di insegnamento già richiamate, lo stato
giuridico della docenza universitaria è disciplinato tradizionalmente dalla
legge, come quello di magistrati e corpo diplomatico, e sottratto al regime
privatistico. L’esistenza di una procedura nazionale di abilitazione
all’insegnamento universitario è intesa quindi a produrre un unico processo
trasparente, sotto i riflettori della comunità scientifica, in modo da evitare
quel malcostume che le procedure dei concorsi locali precedentemente vigenti
avevano visto proliferare. La legge “Gelmini”, sebbene con molti difetti (tra
cui quello di non ancorare in alcun modo il numero degli abilitati prodotto ogni
triennio al reale fabbisogno di docenti del sistema universitario), aveva quindi
prodotto almeno parzialmente un effetto positivo in termini di trasparenza e
controllabilità del processo di reclutamento. Con essa si sono inoltre
introdotti “indicatori” di produttività e di qualità della ricerca finalizzati a
rendere controllabili – ed evitabili – le peggiori distorsioni e i peggiori
abusi. Ciò ha prodotto alcuni rilevanti effetti secondari: intanto un importante
contenzioso sulle procedure di abilitazione, facendo venire allo scoperto e
ripianare (finalmente) molti casi altrimenti rimasti sconosciuti di abusi e di
illegalità varie nei concorsi universitari. Tale sistema ha però anche un’altra
faccia meno commendevole, poiché ha introdotto un effetto di appiattimento su
criteri quantitativi nella produzione scientifica, poiché per ottenere l’ASN è
necessario raggiungere le “mediane”, definite poi “valori soglia”, cioè superare
soglie numeriche minime di articoli, libri etc., fissate rigidamente settore per
settore. Il criterio quantitativo, che prescinde dalla qualità delle
pubblicazioni, ha indotto così una sorta di inflazione nel mondo dell’editoria
scientifica, che ha contribuito ad abbassare il livello complessivo della
produzione scientifica di noi tutti.
Le commissioni ASN, nominate per ogni settore disciplinare, innestano però oggi
un giudizio fondato sulla loro specifica competenza disciplinare sul
pre-requisito quantitativo, motivando (più o meno scrupolosamente) promozioni e
bocciature, alla luce di un esame nel merito delle pubblicazioni allegate da
ciascun candidato.
Il sistema attuale prevede poi, a valle dell’ASN, le procedure concorsuali
presso le università, per reclutare professori ordinari e associati. Descrivere
tali procedure è complicato a causa delle troppe sottoprocedure che la legge
prevede, e delle varianti che ogni regolamento di ateneo ha introdotto
disciplinandole, giacché un errore della Gelmini fu quello di “delegificare”
tali procedure – che sono “i veri concorsi” -, ove si opera la scelta su chi
premiare tra gli abilitati ASN, cioè chi promuovere alla II fascia di associato
o a quella di professore ordinario. Su tale insieme di fattori si è fondato sin
qui l’imperfetto sistema che ora si vuole modificare.
3. Cosa ha quindi progettato il legislatore? Innanzitutto, dati i due step
attuali nella selezione nazionale di accesso alla ASN e poi “alla cattedra” si
elimina il primo. A livello nazionale resterà solo da autocertificare il
superamento di soglie numeriche di pubblicazioni, senza alcuna valutazione circa
la qualità delle stesse. Si sceglie insomma di accontentarsi del profilo
quantitativo, quello che ha mostrato maggiori effetti negativi per quanto
concerne il futuro dell’Università e della ricerca, incoraggiando un
appiattimento complessivo della produzione scientifica orientato unicamente ai
numeri delle pubblicazioni, oltre che delle citazioni (che attestano la capacità
di inserirsi nel flusso che spesso privilegia la ricerca mainstream e meno
innovativa e coraggiosa per quanto riguarda i settori bibliometrici).
Il ricco contenzioso sorto sull’ASN, specchio di una cattiva scrittura delle
norme della legge Gelmini oltre che dei vecchi vizi dell’accademia, viene
addotto nella relazione di accompagnamento al ddl come prova del fallimento del
sistema ASN, che per il Governo, autore del ddl, dimostrerebbe la necessità di
abolirlo, anziché rappresentare la spia di un problema da affrontare.
Si sceglie così paradossalmente di passare ad un sistema di concorsi puramente
locali, preceduti da un sistema di autocertificazione del possesso di indicatori
meramente quantitativi. L’apoteosi dell’irrazionalità di questa scelta del DDL è
nel tentativo, operato nella relazione di accompagnamento, di giustificarla alla
luce del principio costituzionale dell’autonomia universitaria posto dal comma 6
dell’art. 33 Cost., che sancisce invece il potere di darsi ordinamenti autonomi
al fine di garantire libertà di ricerca ed insegnamento. E non invece di
assoggettare lo stato giuridico della docenza ad un frammentata ed eterogenea
serie di procedure disciplinate da regolamenti di ateneo, che nulla garantiscono
in termini di pubblicità e trasparenza, se non per la presenza di commissioni
composte da cinque professori ordinari. I quattro componenti esterni di tali
commissioni saranno sorteggiati tra tutti coloro che a) rispettino i criteri
quantitativi (ritorna il publish or perish a prescindere dalla qualità, che
affliggerà così tutte le generazioni, e non solo i candidati, con conseguente
abbattimento di foreste evitabile…), b) siano “disponibili”, c) non siano
valutati negativamente dall’ateneo di appartenenza (art. 6, c. 7, legge
Gelmini). Si immagina che saranno gli atenei, secondo i loro regolamenti, a
svolgere i sorteggi (come?) e ad individuare i “disponibili” (come?), posto che
non è detto che tutti coloro che sono in possesso dei criteri quantitativi lo
saranno.
4. La malintesa nozione di autonomia universitaria che emerge dal ddl 1518 come
potestà degli atenei di “regolarsi da sé” circa le procedure di reclutamento
cozza ovviamente non tanto con la lettura dell’art. 97, comma 3, Cost., che
impone il principio del concorso pubblico, derogabile solo nei casi stabiliti
dalla legge, ma soprattutto con la libertà di ricerca e insegnamento, assistita
dalla garanzia dello stato giuridico uniforme, che è attualmente ancora la
scelta di fondo del legislatore per quanto riguarda la docenza universitaria.
L’autonomia universitaria insomma è funzionale alla libertà di ricerca e di
insegnamento, e tale rapporto non può quindi essere invertito, sulla scorta di
una malintesa nozione di autonomia, lasciando all’arbitrio delle singole
università la disciplina dei concorsi. Se la frammentazione dello stato
giuridico pubblicistico, che già attualmente è stato minato dalla legge Gelmini,
rimettendone settori importanti alla disciplina dei regolamenti di ateneo
(procedimenti disciplinari, scatti stipendiali, concorsi Rtd, procedure di
chiamata), venisse estesa anche a tutto ciò che riguarda il reclutamento,
eliminando anche il gradino di scrematura iniziale rappresentato dall’ASN, si
finirebbe col far venir meno anche quell’ultimo argine al localismo e alla
perdita di unitarietà del sistema universitario. Per non parlare del rischio che
i tanto vituperati atenei telematici possano disciplinare (è questo il timore
delle associazioni scientifiche riunite nella CASAG) “chissà come” le procedure
concorsuali al loro interno. Sia permesso segnalare che i casi che hanno dato
luogo negli ultimi anni al contenzioso sul reclutamento e ad alcuni scandali e
procedimenti penali, sono partiti da grandi ed anche blasonati atenei statali.
5. Ma vi è di più, perché lo spirito del tempo aleggia nelle aule parlamentari e
sembra imporsi pressoché in qualsiasi testo all’esame delle Camere. Chi potrà
offrire un “bollino” per accedere alle procedure concorsuali presso gli Atenei,
attestando il possesso della quantità richiesta di scritti? E chi potrà
individuare gli indicatori che nella produzione scientifica di candidati e
commissari dovranno essere rispettati? La risposta a queste e altre domande che
si pongono i costituzionalisti più che mai in questa legislatura, ma anche
precedentemente, è sempre la stessa: basta guardare in alto, seguendo le
dinamiche di verticalizzazione della forma di governo che portano sempre in su,
verso il Governo e, nel caso dell’Università, ci riconducono sempre alla figura
del Ministro, o nella migliore delle ipotesi a qualche organismo simil-tecnico
da esso nominato.
Quanto tutto ciò si presti alla garanzia delle libertà di ricerca e di
insegnamento, come volevano i costituenti, che addirittura assimilarono in
termini di inamovibilità i professori universitari ai magistrati, è dubbio. A
ciò si aggiungono alcuni difetti di scrittura del testo all’esame che mettono in
discussione in primis la stessa applicabilità e ragionevolezza di un
reclutamento come quello previsto dal ddl 1518, che dovrebbe rispondere poi
anche ai canoni dell’art. 97 Cost., garantendo legalità, buon andamento ed
imparzialità delle procedure concorsuali negli atenei.
Più in generale si può dire che il ddl mostri quanto il Governo tenga al futuro
dell’Università, come a quello di tanti giovani studiosi. Occorrerebbe invece
una riflessione su ciò che è diventata l’università-azienda a valle di quindici
anni di applicazione della riforma, e sul suo impatto sulla libertà accademica.
Si dovrebbe poi ragionare sul rapporto dell’Università con le tecnologie nella
ricerca e nella didattica, a fronte di una montante banalizzazione del problema
nel dibattito sulle telematiche. Come sarebbe urgente interrogarsi su cosa offra
il sistema universitario per garantire il diritto allo studio di un numero in
progressivo aumento di studenti lavoratori, che incontrano crescenti difficoltà
a spostarsi sul territorio nazionale. C’è ancora qualcuno a cui possa
interessare tutto ciò oggi?