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Regime forfettario, crescono le adesioni dei contribuenti
Nel nostro Paese l’economia «non osservata» — cioè la somma di quella sommersa (prevalentemente generata da sotto dichiarazione del valore aggiunto e dall’impiego di lavoro irregolare) e delle attività illegali (attività produttive relative a beni e servizi illegali, o che, pur riguardando beni e servizi legali, sono svolte senza autorizzazione o titolo) — vale 218 miliardi di euro, pari al 10% del Pil, secondo una rilevazione Istat 2023 citata dal governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta. Quasi la metà è radicata al Nord mentre un terzo al Sud. Tutte risorse sottratte al bilancio pubblico dall’evasione fiscale, «che riduce la capacità di spesa dello Stato e accresce gli oneri per i contribuenti onesti, con effetti negativi sull’equità e sull’efficienza del sistema tributario». A quanto sottolineato dal governatore mi viene di aggiungere che, se di “sistema tributario” volessimo parlare dovremmo ricordare che in Italia vige un regime fiscale agevolato, chiamato “forfettario”, destinato alle persone fisiche esercenti attività d’impresa, arti o professioni. È stato introdotto con la legge n. 190/2014 ed è entrato in vigore il 1° gennaio 2015. Il regime forfettario permette di pagare un’imposta sostitutiva del 15% o del 5% per i primi cinque anni di nuova attività, con notevoli semplificazioni amministrative. Per accedere al regime è necessario rispettare limiti precisi: fatturato sotto 85.000 euro e spese per collaboratori inferiori a 20.000 euro annui. I principali vantaggi del regime forfettario possono essere riassunti come segue. * La percentuale di tassazione è agevolata: si paga un’aliquota fiscale fissa del 15%, oppure del 5% per 5 anni in caso di avvio di una nuova attività. * Non si applica l’IVA sulla vendita di prodotti e servizi. Questo costituisce un vantaggio competitivo per le attività B2C aderenti al regime forfettario, in quanto potranno vendere a un prezzo più conveniente rispetto ai concorrenti. * Non è obbligatorio tenere registri contabili, come avviene invece per il regime ordinario. * Si può richiedere la riduzione INPS del 35% per artigiani e commercianti che aderiscono al regime forfettario. * Le spese vengono determinate su base forfettaria. Questo potrebbe essere conveniente per le attività che sostengono pochi costi, come i professionisti. * I costi per la tenuta della contabilità sono minori. Le attività possono così allocare le risorse risparmiate alle iniziative finalizzate alla crescita del business. * Si è esclusi dall’applicazione degli ISA (indici sintetici di affidabilità fiscale), alleggerendo così gli adempimenti amministrativi e tributari per i contribuenti. Dal 2019 al 2025 le adesioni al regime forfettario sono passate da 1,3 milioni di contribuenti a 2 milioni. Dal 40 al 60% delle partite IVA hanno aderito al forfettario. Nei servizi professionali – come consulenti, avvocati, commercialisti, psicologi, ingegneri e architetti – l’adesione supera il 70%, con una prevalenza tra i giovani professionisti che iniziano la carriera. Nel commercio al dettaglio e nelle attività artigianali, l’adozione del regime è più variabile: molto alta tra chi avvia piccoli negozi online o attività individuali di e-commerce, meno tra chi gestisce attività tradizionali con margini ridotti, dove i costi deducibili limitati del forfettario possono essere un freno. Nel settore creativo e digitale – copywriter, grafici, social media manager, sviluppatori – il forfettario è ormai la regola. Qui i costi di gestione sono bassi e la convenienza fiscale massima. Infine, tra gli operatori sanitari come fisioterapisti, logopedisti e nutrizionisti, il regime è scelto nella maggioranza dei casi, anche perché la soglia di reddito si adatta bene alle entrate medie della categoria. Tutto questo è stato presentato come azione di contrasto all’evasione fiscale, ed è vero: conviene non rischiare e mettersi in regola. Ebbene comunque là si voglia interpretare politicamente (penso al principio sancito dalla costituzione in merito alla progressività della tassazione, che evidentemente in questa zona di ricchezza è sospeso) sta di fatto che il tradizionale binomio di lavoro autonomo e lavoro dipendente è superato. Nel mondo delle partite IVA la linea del Piave è quella che le separa dalle Srl, che possono ammortizzare le spese dei beni strumentali e dedurre o “scaricare” tutte le spese inerenti all’attività svolta. Altra soglia è la possibilità di assumere dipendenti, che nel forfettario ha un limite che si è innalzato a € 35.000  nel 2025. E infine la tutela del patrimonio individuale, che nel forfettario non è separato da quello dell’azienda nella malaugurata ipotesi di un indebitamento e fallimento, a differenza delle Srl.   Michele Ambrogio
Ancora oltre 5,7 milioni in povertà assoluta, mentre la sanità pubblica continua la sua lenta agonia
La percentuale del Fondo Sanitario Nazionale sul PIL al 31 dicembre 2024 è scesa dal 6,3% del 2022 al 6% del 2023, per attestarsi al 6,1% nel 2024-2025, pari a una riduzione in termini assoluti di € 4,7 miliardi nel 2023, € 3,4 miliardi nel 2024 e € 5 miliardi nel 2025. In altre parole, se è certo che nel triennio 2023-2025 il FSN è aumentato di € 11,1 miliardi, è altrettanto vero che con il taglio alla percentuale di PIL la sanità ha lasciato per strada € 13,1 miliardi. E’ quanto evidenzia ancora una volta la Fondazione GIMBE nel suo 8° Rapporto sul Servizio Sanitario Nazionale (https://www.salviamo-ssn.it/attivita/rapporto/8-rapporto-gimbe.it-IT.html). Dal punto di vista previsionale, il Documento Programmatico di Finanza Pubblica (DPFP) 2025 del 2 ottobre 2025 stima un rapporto spesa sanitaria/PIL stabile al 6,4% per gli anni 2025, 2027 e 2028, con un leggero aumento al 6,5% nel 2026, legato alla lieve revisione al ribasso delle stime di crescita economica, ma la Legge di Bilancio 2025 racconta un’altra storia: la quota di PIL destinata al FSN scenderà dal 6,1% del 2025-2026 al 5,9% nel 2027 e al 5,8% nel 2028. Questo divario tra previsione di spesa e finanziamento pubblico rischia di scaricarsi sui bilanci delle Regioni: € 7,5 miliardi per il 2025, € 9,2 miliardi nel 2026, € 10,3 miliardi nel 2027, € 13,4 miliardi nel 2028. “Eppure, sottolinea la Fondazione GIMBE, il finanziamento della sanità pubblica non è una variabile negoziabile, come ribadito dalla Corte Costituzionale con il netto cambio di passo dal “diritto finanziariamente condizionato” alla “spesa costituzionalmente necessaria” per finanziare i LEA: la Consulta ha riaffermato che la tutela della salute è un diritto incomprimibile che lo Stato deve garantire prioritariamente, recuperando le risorse necessarie da altri capitoli di spesa pubblica”. La Fondazione GIMBE evidenzia come il peso della cura sia sempre di più sulle spalle delle famiglie e pone l’accento sulle rinunce alle cure: complessivamente l’86,7% della spesa privata grava direttamente sui cittadini, mentre solo il 13,3% è intermediata. Quante alle rinunce alle cure, il fenomeno è esploso nel 2024 quando ha coinvolto 1 italiano su 10 (oltre 5,8 milioni di persone), ossia il 9,9% della popolazione, con marcate differenze regionali: dal 5,3% della Provincia autonoma di Bolzano al 17,7% della Sardegna. Anche la Relazione annuale sui livelli e la qualità dei servizi erogati dalle pubbliche amministrazioni centrali e locali alle imprese e ai cittadini, predisposta dal CNEL (https://www.cnel.it/)  e inviata al Parlamento e al governo ai sensi della legge 936/1986, certifica i gravi problemi che attraversa il nostro SSN, ove continuano a sussistere significative discrepanze su base regionale e anche tra i territori subregionali, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. Sono divari che investono la scarsa offerta di servizi e la fragilità infrastrutturale in diverse aree del Paese. Ma è un dato su tutti che evidenzia la grave china su cui sembra scivolare il SSN e riguarda la spesa sanitaria privata che ormai ha raggiunto il 25%. “Si registra ormai da molti anni, si legge nella Relazione del CNEL, una crescente propensione delle famiglie italiane a spendere privatamente per la sanità. La spesa privata ha raggiunto il livello di 42,6 miliardi annui, pari a circa il 25% del totale della spesa sanitaria nazionale”. Per non parlare della rinuncia a curarsi di tanti italiani: nel 2024 quasi il 10% dei residenti, annota il CNEL,  ha rinunciato a visite o esami specialistici. E le principali motivazioni sono state la lunghezza delle liste di attesa (6,8%, +2,3 rispetto al 2023) e la difficoltà di pagare le prestazioni sanitarie (5,3%, +1,1 rispetto al 2023). Quest’ultimo dato è particolarmente significativo, in quanto nel 2024 il 23,9% degli individui (+4 rispetto al 2023) si è fatto carico dell’intero costo dell’ultima prestazione specialistica, senza alcun rimborso da assicurazioni. E il quadro è destinato a peggiorare, complice una povertà assoluta che non accenna a diminuire: l’ISTAT proprio in questi giorni ha confermato che sono oltre 5,7 milioni le persone in povertà assoluta in Italia (dato 2024). L’ISTAT stima che le famiglie in povertà assoluta siano poco più di 2,2 milioni (l’8,4% sul totale delle famiglie residenti). Una povertà assoluta che si conferma più alta tra le famiglie ampie, raggiungendo il 21,2% tra quelle con cinque e più componenti e l’11,2% tra quelle con quattro, per scendere all’8,6% tra le famiglie di tre componenti. Una povertà che va di pari passo con il livello di istruzione: tra chi possiede solo la licenza elementare o nessun titolo, la povertà raggiunge il 14,4%, in peggioramento rispetto al 13,3% del 2023. Tra chi ha la licenza media, il tasso è del 12,8% (era il 12,3 nel 2023), mentre tra i diplomati e i laureati scende al 4,2%, in miglioramento rispetto al 3,6% dell’anno precedente. E l’occupazione non basta sempre a proteggere dalla povertà: nel 2024 il 7,9% degli occupati vive in povertà assoluta, tra i lavoratori dipendenti la quota sale all’8,7%, mentre tra i lavoratori autonomi si ferma al 5,2%. Tra chi non lavora, la percentuale sale al 9,1%, ma le differenze interne sono ampie: la povertà colpisce il 5,8% dei pensionati o di chi non cerca occupazione, mentre raggiunge il 21,3 tra i disoccupati in cerca di lavoro, in aumento rispetto al 20,7% del 2023. Una povertà assoluta che continua a colpire soprattutto i minori: nel 2024, la povertà assoluta coinvolge oltre 1 milione 283mila minori (il 13,8% dei minori residenti), variando dal 12,1% del Centro al 16,4% del Mezzogiorno, e salendo al 14,9% per i bambini da 7 a 13 anni. E in povertà assoluta versano oltre 1,8 milioni di stranieri, più di uno su tre (l’incidenza è pari al 35,6%), una quota quasi cinque volte superiore a quella degli italiani (7,4%). Ciononostante, i due terzi delle famiglie povere (67%) sono famiglie di soli italiani (oltre 1 milione e 490mila, con un’incidenza pari al 6,2%) e solo il restante 33% è rappresentato da famiglie con stranieri (733mila), che nell’82% dei casi (600mila) sono famiglie composte esclusivamente da stranieri. L’ISTAT sottolinea come a far scivolare tante famiglie verso la povertà sia l’affitto della casa: Il numero delle famiglie in affitto assolutamente povere supera di poco il milione, l’incidenza si attesta al 22,1% contro il 4,7% registrato tra quelle che vivono in abitazioni di proprietà (quasi 916mila famiglie). Per le famiglie in affitto, l’incidenza più elevata si registra nel Mezzogiorno (24,8%, coinvolgendo 346mila famiglie), seguito dal Nord e dal Centro (rispettivamente 21,9% e 18,7%). Domani, 17 ottobre, si celebra la Giornata Mondiale contro la Povertà, un’occasione per ricordare che la povertà non è solo mancanza di reddito, ma anche esclusione, solitudine e negazione dei diritti fondamentali. In occasione della Giornata Mondiale di lotta alla povertà, istituita dall’ONU nel 1992, vengono promosse in tutta Italia numerose iniziative; tra esse molte sono nell’ambito della Notte dei Senza Dimora. La prima edizione della “Notte” fu promossa da Terre di Mezzo nel 1999 e anche quest’anno accoglie adesioni e nuove iniziative, sempre con l’obiettivo di sensibilizzare la cittadinanza sulla condizioni in cui le persone senza dimora si trovano a vivere. fio.PSD raccoglie e pubblica gli eventi promuovendoli tramite il proprio sito web e con i propri strumenti della comunicazione: https://www.fiopsd.org/notte-dei-senza-dimora-2025/. Qui il Report dell’ISTAT: https://www.istat.it/wp-content/uploads/2025/10/La-poverta-in-italia-_-Anno-2024.pdf Giovanni Caprio
Gli italiani hanno sempre meno fiducia nei partiti politici
Le uniche istituzioni che ottengono costantemente livelli di fiducia più che sufficienti da parte dei cittadini sono i vigili del fuoco, le forze dell’ordine e il Presidente della Repubblica. Per il resto, la fiducia nelle istituzioni della democrazia è sotto la sufficienza. A certificarlo è l’ISTAT con il report sulla “Fiducia nelle istituzioni del Paese – Anno 2024”. La graduatoria dei livelli di fiducia vede infatti al primo posto i vigili del fuoco con il 67,5% di persone di 14 anni e più che assegnano punteggi tra 8 e 10 e il 20,3% che dà un punteggio tra 6 e 7. Un giudizio sotto la sufficienza viene espresso dal 9,4% dei cittadini, di cui appena l’1,7% attribuisce un punteggio pari a zero. Anche le forze dell’ordine godono di discreti livelli di fiducia, con la più elevata percentuale di persone di 14 anni e più che accordano punteggi compresi tra 6 e 7 (32,8%) e un’elevata quota di cittadini che esprime livelli di fiducia tra 8 e 10 (40,1%). Il calo dell’ultimo anno ha riguardato proprio la quota dei più fiduciosi (i punteggi tra 8 e 10 erano pari al 42,6% nel 2023). All’ultimo posto della graduatoria si collocano i partiti politici, nonostante la ripresa degli ultimi anni (fino al 23,2% nel 2023): oltre una persona di 14 anni e più su cinque è completamente sfiduciata, ossia assegna un voto pari a zero, almeno una su due invece assegna un voto da 1 a 5. A godere, invece, di più fiducia è la figura istituzionale del Presidente della Repubblica, che riceve nel 45,2% dei casi punteggi tra 8 e 10, nel 23% dei casi la sufficienza piena (voti tra 6 e 7) e appena nel 7,6% dei casi completa sfiducia (punteggio pari a 0) da parte dei cittadini, confermandosi terza istituzione per livelli di fiducia accordati dalle persone di 14 anni e più. Il sistema giudiziario si attesta, invece, più o meno a metà della graduatoria per la fiducia accordata dai cittadini, con il 44% di persone di 14 anni e più che esprimono livelli di fiducia pari o superiori a 6 (di cui il 15,3% compreso tra 8 e 10) e il 41,4% circa che assegna punteggi compresi tra 1 e 5. Si posizionano poi a pari merito sia il Parlamento Italiano che il Parlamento Europeo: rispettivamente il 40,8% e il 40,2% di cittadini assegnano livelli di fiducia superiori o pari a 6 mentre il 13% di essi è completamente sfiduciato (punteggio pari a 0). Sono le istituzioni locali a riscuotere maggiore fiducia, probabilmente a causa della vicinanza al cittadino. A riscuotere più consensi in termini di fiducia sono le amministrazioni comunali rispetto a quelle regionali, con una quota di punteggi compresi tra 6 e 10 pari al 50,0% per le prime (di cui nel 18,5% dei casi con punteggi tra 8 e 10) e al 40,9% per le seconde (13,3% con punteggi tra 8 e 10). Più diminuisce la vicinanza territoriale tra cittadini e istituzione di governo, più si riduce il livello di fiducia: verso il governo nazionale la percentuale di cittadini che danno un voto almeno sufficiente è pari al 37,3% (i voti compresi tra 8 e 10 sono il 13% circa). La fiducia nelle istituzioni locali è, in particolare, più elevata nel Nord del Paese, ove la percentuale di persone che attribuiscono alla propria amministrazione comunale punteggi tra 6 e 10 è pari al 53,2% al Nord. Al Sud si ferma al 43,5%. I livelli di fiducia nel governo comunale sono inoltre più elevati nei Comuni di piccole dimensioni (il 56,3% di punteggi tra 6 e 10 si registrano in Comuni fino a 10mila abitanti rispetto al 38% ottenuto nei Comuni metropolitani) e in alcune realtà regionali (come in Veneto e nel Trentino Alto-Adige, dove quasi il 57% dei cittadini dà un voto di fiducia compreso tra 6 e 10). Stessa situazione si riscontra per il governo regionale, con differenze di circa 10 punti percentuali tra Nord e Sud nella quota di cittadini di 14 anni e più che assegnano voti di fiducia compresi tra 6 e 10 (rispettivamente il 45,6% contro il 35,9%). I punteggi più alti si registrano in Veneto, con il 57% dei cittadini che attribuisce un voto di fiducia tra 6 e 10, i più bassi in Molise, Sardegna e Sicilia, dove i punteggi compresi tra 6 e 10 variano tra il 28% e il 31%. Infine, i livelli di fiducia dei cittadini verso il governo nazionale sono simili nelle diverse aree del Paese. Minori differenze territoriali si riscontrano anche nei livelli di fiducia verso il Parlamento Italiano, che variano dal 39,5% del Nord al 42,7% del Centro. Nel caso del Parlamento Europeo i livelli di fiducia, simili a quelli espressi nei confronti di quello italiano con circa quattro cittadini su 10 che esprimono un voto da 6 a 10, risultano piuttosto omogenei sul territorio. L’unica istituzione verso la quale i livelli di fiducia sono relativamente più elevati nel Mezzogiorno è il sistema giudiziario, dove i punteggi almeno sufficienti riguardano il 46,7% dei cittadini rispetto al 41,5% di quelli del Nord e al 45,4% del Centro. Qui il Report dell’ISTAT: https://www.istat.it/wp-content/uploads/2025/10/Stat-Today_Fiducia-nelle-istituzioni-del-Paese_Anno-2024-.pdf Giovanni Caprio
Caregiver: manca ancora una legge nazionale che riconosca questo ruolo
Il caregiver (letteralmente prestatore di cura) è una persona che presta cura e assistenza a soggetti non autosufficienti a causa di malattie o di gravi disabilità (https://www.caregiversummeet.it/wp-content/uploads/2024/06/caregiver-normativa.pdf). Fornendo sia supporto emotivo che pratico, il caregiver diventa un importante punto di sostegno nella vita di queste persone. Convenzionalmente, il ruolo di caregiver viene diviso in due categorie: il “caregiver informale”, solitamente un amico o un familiare, che nel caso di un adulto può essere il coniuge o il figlio, ed il “caregiver formale”, o la “assistente familiare”, come definita nel Ccnl di categoria e nelle norme di legge, comunemente definito badante per persone non autosufficienti o con gravi disabilità, ovvero un professionista che presta assistenza dietro retribuzione e che talvolta si sceglie di far convivere con il paziente per diverse necessità. Secondo i dati ISTAT, in Italia circa il 13,5% della popolazione è un caregiver familiare, ovvero più di 7 milioni di persone, di cui il 58% sono donne. Per poter assolvere ai compiti di cura, spesso i caregiver sono costretti a ridurre drasticamente l’attività lavorativa o, in casi estremi, abbandonare il lavoro. I compiti del caregiver sono numerosi e richiedono competenze diverse, anche mediche, con una disponibilità continua, inclusi orari notturni e festivi. Senza il loro contributo, il peso della cura ricadrebbe sul sistema sanitario e sulla collettività. Fondamentale ricordare che l’assistenza fornita coinvolge non solo la sfera economica, ma anche quella fisica e l’investimento di risorse soprattutto emotive. Comune a tutti i caregiver è lo stress psicologico, senso di incomprensione e isolamento. Il caregiver svolge questo ruolo a titolo personale, volontario e non retribuito, ridimensionando la propria attività professionale, trascurando la propria salute, e ritrovandosi socialmente isolato. I caregiver esprimono preoccupazione per il futuro dei loro cari, nel caso in cui non potessero più occuparsene. Oggi in Italia, il 24,0% della popolazione ha più di 65 anni di età. Nel 2050 le persone di 65 anni e più potrebbero rappresentare il 34,5% del totale secondo lo scenario mediano. Una significativa crescita è attesa anche per la popolazione di 85 anni e più, quella all’interno della quale si concentrerà una più importante quota di individui fragili, dal 3,8% nel 2023 al 7,2% nel 2050 con margini di confidenza tra il 6,4 e l’8%. Con amore e abnegazione assistono una persona cara che ne ha bisogno, ma per i caregiver dedicarsi a questa attività di cura ha un impatto non trascurabile sulla salute. Circa 4 su 10 (41%) riferiscono infatti di aver sviluppato malattie croniche di cui non soffrivano in precedenza (di questi, ben il 66% riferisce di aver sviluppato 2 o più patologie): in cima vi sono quelle psichiatriche, seguite da quelle scheletro-muscolari, cardiovascolari e gastro-intestinali. In particolare, le donne più giovani hanno una prevalenza maggiore di queste patologie rispetto alle coetanee. In più, l’assistenza a una persona cara comporta, sempre in misura maggiore per le donne, una rinuncia a visite mediche e ricoveri. Questa la fotografia scattata di recente all’Istituto Superiore di Sanità in occasione del convegno “Promuovere la salute delle persone caregiver familiari in ottica di genere: prospettive future”, promosso dal Centro di riferimento per la medicina di genere. Il quadro emerge da una survey nell’ambito del progetto “L’impatto del genere sullo stress psicologico e lo stato di salute nelle persone caregiver familiari“, a cui hanno risposto 2033 persone, 83% donne. “È di fondamentale importanza, ha sottolineato  Elena Ortona, direttrice del Centro di riferimento per la medicina di genere dell’Iss, mettere l’accento sulle differenze di sesso e genere nello stato di salute dei caregiver e delle caregiver familiari. Le donne, in particolare, si fanno carico in maniera preponderante del lavoro di assistenza e cura all’interno delle famiglie, specialmente quando si tratta di familiari non autosufficienti. Questo impegno costante e spesso gravoso ha un impatto diretto e profondo sulla loro salute. La ricerca evidenzia che le donne che svolgono il ruolo di caregiver sono maggiormente esposte a problemi di salute fisica e psicologica; di conseguenza, le disuguaglianze di genere possono generare a loro volta disuguaglianze di salute. Alla luce di ciò è fondamentale che le politiche socio-sanitarie, nel programmare interventi di sostegno rivolti ai caregiver e alle caregiver familiari, considerino le differenze di sesso e genere basate sulle evidenze scientifiche. L’integrazione di questa prospettiva è essenziale per attuare efficaci misure di prevenzione, volte a ridurre le patologie associate allo stress e a garantire un sostegno più equo e mirato”. A livello nazionale, seppur con ritardo e qualche incertezza, si sta lavorando per arrivare a una legge che riconosca pienamente il valore sociale ed economico dell’impegno quotidiano dei caregiver. Qualcosa si muove – e da tempo – nei territori, a partire dall’Emilia-Romagna che con la legge regionale denominata “Norme per il riconoscimento ed il sostegno del caregiver familiare (persona che presta volontariamente cura ed assistenza)” del 2014 ha riconosciuto, prima fra le regioni italiane, la figura del caregiver in quanto componente informale della rete di assistenza alla persona e risorsa del sistema integrato dei servizi sociali, socio-sanitari e sanitari, tutelandone i bisogni. Una legge modificata ed aggiornata lo scorso anno: https://demetra.regione.emilia-romagna.it/al/articolo?urn=er:assemblealegislativa:legge:2014;2. Nel 2024, con la legge regionale n. 5 anche la Regione Lazio è intervenuta a sostegno dei caregiver familiari, prevedendo una dotazione di 15 milioni di euro nel triennio 2024-2026, di cui i primi 5 milioni sono già stati assegnati ai distretti socio-sanitari per attivare i servizi nel corso del 2025. Tra le misure previste vi sono interventi di sollievo, che consentono al caregiver di prendersi una pausa con la garanzia di un’assistenza alternativa al domicilio o in struttura, oppure l’introduzione di un portafoglio personale fino a 1.000 euro annui da spendere per il benessere psicofisico del caregiver stesso, attraverso: palestra, corsi di aggiornamento, attività formative. Particolare attenzione è stata riservata ai giovani caregiver, spesso studenti che si trovano a sostenere un genitore in difficoltà, per i quali sono previsti crediti formativi scolastici e universitari, oltre a forme di premialità nei bandi pubblici. Ad oggi sono 12 le Regioni italiane che hanno approvato una normativa sul sostegno ai caregiver familiari, ma senza un quadro normativo nazionale restano interventi incompleti e parzialmente efficaci. In Parlamento sono depositate numerose proposte di legge sul riconoscimento del ruolo dei caregiver, quindi è forse arrivato il momento di approvare finalmente una legge organica nazionale. Da segnalare, infine, la Caregiver SumMeet, un progetto ideato da Cencora PharmaLex in sinergia con numerose Associazioni di pazienti. Si tratta di un format rivolto a tutti gli attori di sistema, finalizzato all’individuazione di soluzioni condivise che consentano la migliore definizione del ruolo del caregiver in tutte le sue rappresentazioni e forme. Una vera e propria Call to Action per sensibilizzare le istituzioni competenti sui bisogni del caregiver e sollecitare un concreto intervento normativo. Durante  l’evento istituzionale “Caregiver SumMeet” del 2024 fu presentata la prima Carta dei diritti del caregiver, aggiornata a luglio 2025. Qui la legge della regione Lazio sul caregiver familiare: https://www.consiglio.regione.lazio.it/consiglio-regionale/?vw=leggiregionalidettaglio&id=9483&sv=vigente.  Qui la Carta dei Diritti del Caregiver – aggiornamenti 2025: https://www.caregiversummeet.it/wp-content/uploads/2025/07/CARTA-DIRITTI-2025.pdf.  Giovanni Caprio
Il flop del bonus sociale per l’energia
La narrazione della maggioranza di Governo sulla crescita del Paese e l’entusiasmo con cui vengono accolti gli ultimi dati ISTAT sull’aumento dell’occupazione (comunque dimezzata rispetto al trimestre precedente e aumentata solo in settori a basso valore aggiunto dove si determina non di rado “lavoro povero”), stridono alquanto con la realtà dei fatti e con la dura vita d’ogni giorno. Rispetto al 2019 i prodotti alimentari costano oggi, in Italia, quasi un terzo in più. A dircelo è quella stessa ISTAT che certifica l’aumento dell’occupazione, che nella Nota sull’andamento dell’economia pubblicata in questi giorni, scrive: “In conseguenza della forte impennata registrata tra la fine del 2021 e i primi mesi del 2023 e al successivo perdurare di una significativa, seppure più moderata, tendenza alla crescita (fenomeni che hanno riguardato l’intera Europa), i prezzi al consumo (indice armonizzato) dei beni alimentari (cibo e bevande non alcoliche), risultano in Italia avere raggiunto a luglio 2025 (ultimo dato disponibile) un livello più elevato del 30,1% rispetto a quello medio del 2019. Nel confronto europeo, tuttavia, tale dinamica appare sensibilmente più contenuta sia rispetto alla media UE27 (+39,2%) sia, tra gli altri principali paesi, rispetto a Germania (+40,3%) e Spagna (+38,2%); nello stesso periodo l’aumento in Francia è stato invece relativamente minore (+27,5%)”. E non può affatto consolare il fatto che la crescita dei prezzi al consumo dei beni alimentari risulti in Italia inferiore alla media della Ue27, soprattutto perché nel nostro Paese c’è un’aggravante: mentre i prezzi salivano, gli stipendi e le pensioni rimanevano fermi, aumentando le disuguaglianze – anche in campo alimentare – e alimentando sempre più il fenomeno del lavoro povero (come ha rilevato la Caritas, il 23,5% degli italiani si trova in condizioni di povertà pur lavorando). Mentre uno “strabico” Governo spande ottimismo a reti unificate, gli italiani restano pessimisti. Scrive sempre quell’ISTAT che certifica l’aumento dell’occupazione: “Tra i consumatori aumentano le attese di rialzo dell’inflazione… Ad agosto tra i consumatori aumenta, per il secondo mese consecutivo, la quota di coloro che si attendono un rialzo dell’inflazione nei successivi 12 mesi rispetto ai 12 mesi passati (45,6% rispetto al 42,6% in luglio) e diminuisce il numero di coloro che si attendono una stabilità (14,5% rispetto al 17% di luglio), a fronte di una quota invariata di coloro che si aspettano una riduzione (39,1% in entrambi i mesi)”. In un apposito focus l’ISTAT si occupa poi della cosiddetta povertà energetica, evidenziando come l’agevolazione (il bonus energia) raggiunga meno della metà dei nuclei che ne avrebbero davvero bisogno. Come si ricorderà, già a partire dal 2008 era stato introdotto dal Governo italiano un sistema di sussidi (c.d. bonus sociali), in forma di sconto in bolletta, rivolti alle famiglie a basso reddito per sostenere le spese di elettricità e gas. A partire dal 2021 tali misure sono state poi rafforzate. Si sono succeduti infatti numerosi interventi di aggiornamento legislativo (ad esempio, per l’accesso al bonus non è più necessario presentare domanda ma è sufficiente aver ottenuto una attestazione ISEE) e sono state stanziate ulteriori risorse finanziarie che hanno permesso di elevare, in alcuni periodi, l’offerta di sussidi in termini di soglie di accesso e importi. I risultati della simulazione fatta dall’ISTAT mostrano che nel 2021 quasi 1 famiglia su 10 (circa 2,5 milioni) ha beneficiato del bonus per l’elettricità e, per una parte delle famiglie, anche del bonus gas, nella forma di uno sconto sulla bolletta energetica. Le famiglie appartengono tutte al I e al II quinto della distribuzione del reddito (i quinti più poveri). Nei due anni successivi le modifiche ai requisiti hanno consentito di ampliare la platea dei beneficiari. In particolare, l’innalzamento della soglia ISEE a 12.000 euro entrato in vigore nel II trimestre del 2022, ha permesso ai bonus energetici di raggiungere 3,7 milioni di famiglie, il 5,8% delle quali nel III quinto di reddito; mentre nel 2023 il numero di famiglie raggiunte dal bonus supera i 4,5 milioni, grazie all’estensione della soglia ISEE a 15.000 euro. In quest’anno è massima anche la quota di famiglie beneficiarie appartenenti al III quinto (11,1%). Nel 2024 però la soglia ISEE è stata riportata a 9.530 euro, con una conseguente riduzione significativa della percentuale di famiglie beneficiarie (da quasi 4,5 milioni a 2,7). Scrive l’ISTAT: “Nel 2024, più della metà delle famiglie in condizioni di povertà energetica non sono state raggiunte dai sussidi e si osserva la percentuale più alta di famiglie che ricevono il bonus ma rimangono in condizioni di povertà (52,6%). In sintesi, i risultati mostrano che i sussidi energetici sono stati efficaci nel compensare l’impatto dell’aumento dei prezzi dell’energia per le famiglie in condizioni di povertà energetica in particolare nel 2022, anno di picco dei prezzi energetici. L’analisi, tuttavia, evidenzia anche la presenza di una percentuale significativa di famiglie in condizioni di povertà energetica che non rientra tra quelle beneficiarie della misura di welfare o perché non hanno presentato un’attestazione ISEE o perché prive dei requisiti ISEE necessari per l’accesso ai bonus”. Sarebbe forse il caso di leggere e commentare tutti i dati dell’ISTAT, prima di lasciarsi andare a facili ottimismi. Per Federconsumatori sono necessari alcuni provvedimenti urgenti per arginare i rincari e sostenere il potere di acquisto delle famiglie, dando nuova spinta anche al mercato interno: la rimodulazione dell’Iva sui generi di largo consumo (che consentirebbe un risparmio di oltre 516 euro annui a famiglia); la creazione di un Fondo di contrasto alla povertà energetica e una determinata azione di contrasto alla povertà alimentare; lo stanziamento di risorse adeguate per la sanità pubblica e per il diritto allo studio; una riforma fiscale equa, davvero tesa a sostenere i bassi redditi e i redditi medi, e non a incrementare le disuguaglianze. Qui la Nota dell’ISTAT: https://www.istat.it/wp-content/uploads/2025/09/Nota-congiunturale-settembre-2025_rev-2.pdf.  Giovanni Caprio
Stereotipi di genere e tolleranza verso forme di violenza ancora radicati tra i giovani
Il 36% dei giovanissimi considera accettabile che un ragazzo controlli abitualmente il cellulare o i social network della propria ragazza, l’11,1% che in una relazione di coppia sia “normale che ci scappi uno schiaffo ogni tanto” e il 7,3% che “un ragazzo schiaffeggi la sua fidanzata perché ha flirtato con un altro ragazzo” (dati 2023). Il 15,6% pensa che la violenza sia provocata dal modo di vestire delle ragazze, il 13,7% è d’accordo che “di fronte a una proposta sessuale le ragazze spesso dicono no, ma in realtà intendono sì”. Sono ancora troppo forti gli stereotipi tra i giovani: dalla maggiore importanza della bellezza in una ragazza rispetto ad un ragazzo (56,4%), alle maggiori capacità dei ragazzi negli studi tecnologici, scientifici e ingegneristici (21,2%), fino alla minore capacità degli uomini di occuparsi delle faccende domestiche (24,9%). E’ quanto merge dal recente focus dell’ISTAT “Stereotipi sui ruoli di genere: il punto di vista di ragazze e ragazzi”, messo a punto nell’ambito dell’Accordo con il Dipartimento per le Pari Opportunità presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.  Dal Report dell’ISTAT emerge come il rapporto di coppia sia immaginato soprattutto come un sostegno: Infatti, quando si chiede ai giovani di 14-19 anni quali siano gli aspetti più importanti in un rapporto sentimentale, la maggior parte (il 48,1%) segnala “il sostenersi a vicenda nei momenti difficili”, seguono la sincerità, la fedeltà, il capirsi, mentre appaiono residuali, intorno al 10%, l’attrazione fisica, l’avere gli stessi interessi e la bellezza fisica. Solo la bellezza fisica supera il 14% per i maschi. La visione dei ragazzi e delle ragazze non è particolarmente diversa, sebbene le ragazze apprezzino di più il sostenersi reciprocamente, la sincerità e la fedeltà. Tra le affermazioni proposte ai giovani sulla coppia vi è anche “la gelosia è un modo per dimostrare amore”, un’idea ancora importante per i ragazzi e le ragazze, che riguarda poco meno di un terzo dei giovanissimi (29,1%), raggiunge il massimo per i ragazzi di 14-16 anni (41,3%) ed è minima (15,4%) per le ragazze di 17 anni e più. Altro stereotipo è quello per cui la donna trova realizzazione solo nella cura della casa e della famiglia, l’idea tradizionale che le responsabilità domestiche, come cucinare, pulire o prendersi cura dei figli, siano compiti esclusivamente femminili. “Questo stereotipo, si sottolinea nel focus, trova consenso presso il 24,9% degli intervistati (30,4% dei maschi e 19,2% delle femmine), a testimonianza di quanto possa essere lungo il cammino che sfata questo pregiudizio presso le donne stesse. Al crescere dell’età diventa progressivamente meno condivisa l’idea che gli uomini siano meno adatti alle faccende domestiche (27,6%, 25,8% e 21,8% l’accordo nelle tre classi di età considerate, 11-13, 14-16, 17 anni e più). Se si ha una madre laureata il grado di accordo è minore (22,5%)”. Così come avere successo nel lavoro è più importante per l’uomo che per la donna: uno stereotipo che sottintende che la realizzazione personale di una donna debba passare principalmente attraverso la famiglia, la maternità o la cura degli altri, piuttosto che attraverso l’ambizione professionale o la carriera. “Secondo questa visione, si legge nel report, il lavoro per la donna non è una priorità, ma qualcosa di secondario, utile solo per occupare il tempo, contribuire parzialmente al bilancio familiare o sentirsi realizzata in modo marginale. È questo, come si vedrà, lo stereotipo più connesso all’accettabilità della violenza contro le donne. Questo stereotipo, che è il meno diffuso (14,6%), è il più divisivo tra i ragazzi e le ragazze: è d’accordo il 22,0% dei maschi e il 6,7% delle femmine”. Ma a colpire particolarmente sono i dati dell’ISTAT sul pregiudizio che la “donna è responsabile della violenza sessuale subita”: pregiudizio diffuso anche tra i giovani di 14 anni e più. Il 15,6% dei ragazzi e ragazze di 14-19 anni è molto o abbastanza d’accordo con l’idea che “le ragazze possono provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire” (23,5% per i maschi contro il 7,2% delle femmine). Persistono anche stereotipi rispetto al consenso, con il 13,7% dei giovanissimi d’accordo sul fatto che “di fronte a una proposta sessuale le ragazze spesso dicono no, ma in realtà intendono sì”, idea condivisa da circa un ragazzo su cinque (19,5%), contro il 7,6% delle coetanee femmine. “Una ragazza che subisce una violenza sessuale quando è ubriaca o sotto l’effetto di droghe è almeno in parte responsabile” è un’affermazione che raccoglie il consenso del 12,1% dei 14-19enni, dato che raggiunge il 18,9% tra i maschi e scende al 4,9% delle femmine “Questi stereotipi – sottolinea l’ISTAT –  minano la credibilità delle vittime, portano a minimizzare o ignorare le loro esperienze, instillando l’idea che solo certi tipi di persone possano essere vittime di violenza sessuale; colpevolizzano le vittime e non permettono di evidenziare la colpa dell’aggressore. Inoltre, la colpevolizzazione della vittima alimenta il suo senso di vergogna e di isolamento e le rende ancora più difficile intraprendere il percorso della denuncia. Basti pensare ai rischi di essere vittimizzate due volte (la cosiddetta vittimizzazione secondaria) che spesso si verifica al momento della denuncia e nelle aule dei tribunali”. Qui il Report https://www.istat.it/wp-content/uploads/2025/07/Stereotipi-di-genere-1.pdf.      Giovanni Caprio
Crollo del potere d’acquisto con salari reali giù del 10,5% in 5 anni. I dati del Rapporto ISTAT 2025
Anche il Rapporto Istat 2025 sulla situazione del Paese certifica il crollo del potere d’acquisto degli italiani e l’avanzare del lavoro povero. Pur a fronte di un aumento dell’occupazione (a fine 2024 gli occupati hanno raggiunto i 23,9 milioni,+3,6 per cento in media di anno rispetto al 2019),  l’Italia resta il Paese con il tasso di occupazione tra i 15 e i 64 anni più basso d’Europa, soprattutto a causa dei livelli inferiori di partecipazione e occupazione delle componenti giovanile e femminile. Rispetto al 2019, nel 2024 il tasso di occupazione per la popolazione tra i 15 e i 64 anni è salito di 3,2 punti percentuali, fino al 62,2 per cento, pure restando 15 punti inferiore rispetto alla Germania, quasi 7 rispetto alla Francia e 4 in meno della Spagna. La crescita è stata maggiore dai 45 anni in su e tra i laureati (dal 79 all’82,2 per cento), con un ampliamento del differenziale con i meno istruiti (per i quali il tasso cresce di un punto, al 45,1 per cento). “Sono sempre ampi, scrive l’ISTAT, i divari di genere e territoriali: il primo stabile a 17,8 punti, quello tra Nord e Mezzogiorno in riduzione da 23,1 a 20,4 punti”. L’occupazione a tempo pieno e indeterminato riguarda il 63 per cento dei lavoratori, in aumento di 2,1 punti percentuali rispetto al 2023 e di 4,8 punti rispetto al 2019, ma oltre un terzo dei giovani occupati e quasi un quarto delle donne sperimentano almeno una forma di vulnerabilità lavorativa. Nel 2024 l’82,9 per cento degli occupati lavora a tempo pieno, ma il part-time riguarda il 30 per cento delle donne e, spesso, non è una scelta. L’aumento delle retribuzioni nominali nel biennio 2021-2022 non ha tenuto il passo con l’inflazione, e solo nei successivi due anni ha iniziato a recuperare anche in termini reali: rispetto a gennaio 2019, la perdita di potere di acquisto per dipendente a fine 2022 era superiore al 15 per cento e a marzo 2025 è pari al 10,0 per cento. Per le retribuzioni lorde di fatto per dipendente stimate dalla Contabilità nazionale, che includono gli effetti degli accordi decentrati e dei cambiamenti nella composizione dell’occupazione, dal 2019 al 2024 la perdita di potere di acquisto è stata più contenuta e pari al 4,4 per cento in Italia, al 2,6 per cento in Francia e all’1,3 per cento in Germania, mentre in Spagna si registra un guadagno del 3,9 per cento. E basse retribuzioni significa anche aumento della povertà: la povertà assoluta coinvolge nel 2023 l’8,4 per cento delle famiglie residenti (2,2 milioni di famiglie e 5,7 milioni di persone), in particolare famiglie con figli, giovani, stranieri e residenti nel Mezzogiorno. Rispetto al 2014, l’incidenza è aumentata di oltre 2 punti percentuali a livello familiare e di 2,8 punti a livello individuale. Le famiglie con minori restano le più esposte alla povertà assoluta: nel 2023 l’incidenza raggiunge il 12,4 per cento (13,8 per cento a livello individuale), con un incremento di oltre 4 punti rispetto al 2014. I minori in povertà assoluta sono circa 1,3 milioni. Il Rapporto 2025 dell’ISTAT, tra le tante altre cose, non manca di considerare la necessità di investire di più a diversi livelli per la salvaguardia dell’ambiente: dalla gestione delle fragilità del territorio, alla riduzione dell’impatto ambientale delle attività produttive, all’importanza della transizione energetica, che si intreccia con la riduzione della dipendenza dall’estero per l’energia. “L’Italia, si legge nel Rapporto, presenta elementi di fragilità sul piano ambientale e l’impatto sulle attività economiche dell’aumento di frequenza degli eventi estremi, attenuabili solo attraverso l’attività di prevenzione, risulta particolarmente significativo: tra il 1980 e il 2023 l’Agenzia Europea per l’Ambiente stima per l’Italia 134 miliardi di euro di perdite dovute a cause ambientali, collocandola al secondo posto nella UE27 dopo la Germania con 180 miliardi e prima della Francia con 130. Un’analisi realizzata tramite l’integrazione delle basi dati territoriali con il Registro delle unità produttive ha consentito di stimare che nel 2022 il 18,2 per cento del valore aggiunto di industria e servizi era prodotto in unità locali ubicate in territori esposti a rischi naturali di frane e sismicità elevata”. Anche sul fronte dell’istruzione le preoccupazioni non mancano. Nonostante i miglioramenti riscontrati di anno in anno, il livello di istruzione della popolazione italiana –  certifica l’ISTAT – resta inferiore alla media europea. Solo due terzi degli adulti hanno almeno un diploma di scuola superiore e appena uno su cinque possiede un titolo universitario. A pesare sono il basso livello di istruzione delle coorti più anziane e la scarsa diffusione dei percorsi professionalizzanti terziari brevi, come quelli degli Istituti Tecnici Superiori. L’abbandono scolastico precoce resta una criticità, in particolare tra i giovani stranieri e nel Mezzogiorno. “La condizione socio-economica delle famiglie, si sottolinea nel Rapporto, continua a incidere profondamente sui percorsi scolastici, con divari ampi legati al titolo di studio dei genitori, sui quali tornerò più avanti. Sul fronte delle competenze digitali, sempre più importanti nella vita quotidiana, l’Italia nonostante i progressi mostra ancora un ritardo. Meno della metà della popolazione adulta possiede abilità digitali di base (45,8 per cento, +0,1 dal 2021), un valore inferiore alla media europea (55,5 per cento) e distante dagli obiettivi del decennio digitale (80 per cento nel 2030). Persistono forti differenze territoriali tra il Mezzogiorno e il resto del Paese e si rileva un divario generazionale molto ampio tra adulti e giovani, in larghissima parte associato ai livelli di istruzione”. Qui per approfondire e scaricare il Rapporto: https://www.istat.it/produzione-editoriale/rapporto-annuale-2025-la-situazione-del-paese-il-volume/.  Giovanni Caprio