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Emilia-Romagna, infrastrutture, energia e il prezzo della militarizzazione. Seconda parte
La Regione Emilia-Romagna nel 2020 aveva lanciato il Patto per il Lavoro e per il Clima, presentato come un modello di sviluppo sostenibile per coniugare crescita economica e decarbonizzazione. Una retorica green, però, che si è scontrata con la realtà dei fatti: gli investimenti concreti della giunta Bonaccini prima e De Pascale poi hanno puntato su grandi opere logistiche e infrastrutturali, le quali sono andate a costituire un ecosistema ideale per  un’economia sempre più militarizzata, in piena contraddizione con gli obiettivi climatici dichiarati. Ma quali sono i progetti e le infrastrutture, frutto di precise scelte politiche da parte dell’amministrazione regionale e quelle locali, che hanno fatto sì che fosse così conveniente per le industrie meccaniche pensare di inserirsi all’interno del mercato della difesa? L’allargamento del porto di Ravenna, il rigassificatore, l’inserimento di Piacenza nel retroporto di Genova e la creazione di Zone Logistiche Semplificate rivelano un approccio preciso, descritto dalla Rete Emergenza Climatica e Ambientale dell’Emilia-Romagna (RECA ER) come “protezionista nei confronti dell’industria non sostenibile, senza obiettivi concreti di breve e medio periodo, che lascia libertà di scelta ai privati negli obiettivi e nelle strategie[1]”. Questi progetti non solo consumano suolo e aggravano l’inquinamento, ma dimostrano come la Regione, nonostante il linguaggio ufficiale, stia di fatto creando un ambiente che si sposa perfettamente con la corsa europea al riarmo, trasformandosi in un hub strategico per la logistica, ideale anche per il transito di materiale bellico, e l’energia fossile. Il Patto per il Lavoro e per il Clima, in questo contesto, appare più come un’operazione di facciata che come un reale cambio di rotta. Le Zone Logistiche Semplificate: il collegamento tra il porto di Genova e quello di Ravenna Inizialmente pensate come spazi destinati all’esportazione, le Zone Logistiche sSmplificate (ZLS) sono diventate veri e propri laboratori di sperimentazione politica, amministrativa e normativa, che hanno comportato, nei territori in cui sono state istituite (compresa l’Emilia-Romagna) industrializzazione rapida e sfruttamento del lavoro. Le ZLS sono innanzitutto spazi di deregolamentazione economica, ma anche nodi logistici fondamentali per garantire efficienza e prontezza nell’approvvigionamento di materiali, funzionando in modo efficace anche nel supporto alle aziende che decidono di riconvertire la propria produzione in senso militare: flussi di componenti meccanici, elettronici e materiali dual-use transitano in deroga a vincoli ambientali e fiscali. Studiosi come Aiwa Ong[2], Saskia Sassen[3] e Sandro Mezzadra[4] hanno offerto letture differenti, ma convergenti nel riconoscere come le zone producano forme di sovranità frammentata o “graduata”, contribuendo alla ridefinizione del ruolo dell’attore statale, o regionale in questo caso, moderno, che non scompare ma si riconfigura, oscillando tra il ruolo di facilitatore del capitale globale e quello di garante residuale della legittimità politica. Il caso dell’Emilia-Romagna è paradigmatico: una delle regioni più colpite dalla crisi climatica, con eventi estremi continui e un’enorme perdita di suolo, nel 2024 ha approvato la creazione della Zona Logistica Semplificata (ZLS), che destinerà mille ettari di terreno all’espansione della logistica. Questo progetto prevede incentivi fiscali e semplificazioni burocratiche per attrarre investimenti, soprattutto stranieri: l’obiettivo è sviluppare il settore logistico aggirando i vincoli sul consumo di suolo. La ZLS dell’Emilia-Romagna parte dal porto di Ravenna e si estende fino a Piacenza, città inclusa sempre nel 2024 nell’altra Zona Logistica Semplificata presente in Emilia-Romagna, ovvero quella del retroporto di Genova, e comprende 28 Comuni e 25 aree produttive; le imprese che si insediano nelle “aree libere” godono di incentivi fiscali[5]. La creazione, dunque, di spazi in cui le regole fiscali e di organizzazione del lavoro sono differenti rispetto al resto del territorio regionale fa emergere il tema della trasformazione radicale del ruolo svolto dal potere politico ed economico e dunque quello della democraticità della gestione del territorio. Questa riconfigurazione del territorio, però, riguarda anche un’altra infrastruttura che nel tempo ha assunto sempre più importanza all’interno degli equilibri economici e geopolitici del Nord Italia: il porto di Ravenna. Il progetto enorme di allargamento e potenziamento del porto di Ravenna rappresenta un salto in avanti infrastrutturale che si colloca esattamente lungo questa scia, con l’obiettivo di consolidare il ruolo del porto come un hub logistico strategico per il Mediterraneo. Oltre a servire l’espansione del traffico commerciale, l’ammodernamento del porto di Ravenna risponde anche alla necessità di garantire un’infrastruttura portuale in grado di accogliere flussi di materiali sensibili, inclusi armamenti o componentistica strategica. In un contesto in cui le linee tra logistica civile e militare si fanno sempre più sfumate, Ravenna si propone come snodo marittimo duale per l’economia di guerra europea, come dimostra l’avvenimento di pochi mesi fa, in cui il Tribunale di Ravenna ha ordinato il sequestro in porto di un carico di 14 tonnellate di componenti di armi dirette a Israele provenienti da una ditta di Lecco e destinate alla IMI System, principale produttore di armi e munizioni per l’esercito israeliano[6]. A promuovere e sostenere l’iniziativa di allargamento del porto di Ravenna, con un forte impegno istituzionale, sono stati in particolare l’ex presidente della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini e l’ex sindaco di Ravenna, ora non a caso presidente della regione, Michele De Pascale. Bonaccini e De Pascale hanno fatto del potenziamento del porto una priorità politica, puntando a rafforzare la competitività dell’Emilia-Romagna nel contesto europeo e globale, con dichiarazioni chiare sull’importanza di questi interventi per il futuro del sistema logistico regionale. Il progetto ha visto lo scavo dei fondali e la costruzione di nuove banchine; proprio per garantire la sicurezza anche digitale durante il transito di materiale dual-use, sono state potenziate le misure di sicurezza contro i cyberattacchi, con Itway e Radiflow, aziende strettamente intrecciate con lo Stato e l’esercito israeliani, a fornire protezione digitale. Il rigassificatore di Ravenna e il gasdotto adriatico Se la logistica è il sistema circolatorio di questa trasformazione, l’energia ne è il carburante. Il rigassificatore rientra nella nuova strategia dell’Unione Europea di riduzione della dipendenza dal gas russo, che include anche la sicurezza degli approvvigionamenti per industrie critiche, come ad esempio quella aerospaziale; la sua localizzazione a Ravenna lo rende funzionale al polo logistico regionale. Il rigassificatore di Ravenna, sostenuto da Stefano Bonaccini, ex presidente di regione, e Michele De Pascale, ex sindaco di Ravenna e attuale presidente della regione, non si configura soltanto come un impianto per la riconversione del gas naturale liquefatto, ma anche come un tassello strategico di un nuovo paradigma economico che risponde a logiche emergenziali, in un’Europa tornata a ragionare in termini di guerra e sicurezza, sacrificando tutti gli obbiettivi di transizione ecologica[7]. In un’economia di guerra che si struttura anche attorno alla sicurezza energetica, il rigassificatore diventa parte integrante della logistica militare invisibile, assicurando continuità operativa agli impianti industriali riconvertiti e riconvertibili in senso bellico e proteggendo i flussi energetici dai rischi geopolitici legati alla dipendenza da attori non allineati agli interessi NATO. Reso operativo in tempi record grazie a procedure straordinarie, fuori dai normali iter di valutazione ambientale, l’impianto è stato classificato “opera di interesse nazionale”, a testimonianza di una virata decisa verso un’economia dove energia, industria e Stato si preparano per un’eventuale “resilienza”, in uno scenario geopolitico che l’Unione Europea ha contribuito a rendere instabile. Dopo lo scoppio della guerra in Ucraina e a causa della nuova strategia europea di azzeramento delle forniture energetiche dalla Russia, l’Italia ha rimodulato le sue priorità, abbracciando una strategia di presunta indipendenza energetica attraverso il GNL importato da Paesi allineati agli interessi euro-atlantici, come Stati Uniti e Qatar. Il gasdotto adriatico gestito da SNAM Sulmona–Minerbio completa il disegno di una nuova infrastruttura energetica nazionale che, dietro la facciata della transizione e della resilienza, risponde a una logica pienamente integrata nell’economia di guerra. Il gasdotto, che attraversa l’Appennino abruzzese per connettere il Centro Italia con l’Emilia-Romagna, costituisce l’asse portante della cosiddetta dorsale adriatica: un corridoio energetico strategico che consente al gas rigassificato sulla costa adriatica di alimentare i poli industriali del Nord, oltre che di interfacciarsi con la rete europea. È grazie a questa infrastruttura, come chiarisce anche la stessa SNAM[8], che il gas proveniente dagli alleati NATO può fluire stabilmente verso i distretti produttivi riconvertiti in ottica dual-use, garantendo la continuità operativa delle industrie che sempre più si avviano alla riconversione in senso militare. Come il rigassificatore, anche il gasdotto è stato imposto ai territori con una procedura straordinaria e commissariale, eludendo il confronto democratico e ambientale in nome dell’interesse nazionale. In questa convergenza tra energia, industria e sicurezza, la dorsale Sulmona–Minerbio non è semplicemente un’infrastruttura civile, ma una linea logistica invisibile al servizio anche di una riconversione bellica del Paese, che trasforma l’Italia, ma soprattutto l’Emilia-Romagna, in un hub energetico-militare dell’Europa. Emilia-Romagna avamposto militare? Davanti a questa accelerazione, una domanda si impone: l’Emilia-Romagna sta diventando un avamposto dell’industria militare europea? I progetti infrastrutturali, gli incentivi pubblici e le partnership industriali suggeriscono dei passi in questa direzione, ma a quale prezzo? In questo scenario, la transizione ecologica sembra sempre più sacrificata sull’altare della difesa e della competitività militare e l’Emilia-Romagna, invece di rappresentare un modello di sostenibilità e giustizia climatica, va sempre più consolidandosi come avamposto industriale dell’economia di guerra europea. Link alla prima parte dell’articolo [1] Si veda il Patto per il Clima e per il Lavoro della Rete Emergenza Climatica e Ambientale dell’Emilia-Romagna, nell’intento della rete “un manifesto per aprire e allargare alla società civile la discussione che lega i temi del clima e del lavoro”. [2] Ong A. (2006), Neoliberalism as Exception. Mutations in Citizenship and Sovereignty, Duke University Press, Durhan-London. [3] Sassen S. (2014), Expulsions. Brutality and Complexity in the Global Economy, Belknap Press, Cambridge-London. [4] Sandro Mezzadra, Brett Neilson (2021), Operazioni del capitale. Il capitalismo contemporaneo tra sfruttamento ed estrazione, manifestolibri, Roma. [5] https://altreconomia.it/limpatto-delle-zone-logistiche-semplificate-sui-territori-il-caso-dellemilia-romagna/. [6] https://ilmanifesto.it/pezzi-di-armi-italiane-a-israele-il-carico-bloccato-a-febbraio-non-e-un-caso-isolato [7] https://ilmanifesto.it/ravenna-il-rigassificatore-divide-il-centrosinistra. [8] https://www.snam.it/it/noi-snam/chi-siamo/le-nostre-infrastrutture/la-rete-di-trasporto/la-linea-adriatica.html. Emiliano Palpacelli