Di ritorno dal Chiapas, all’incontro internazionale convocato dall’EZLNFinalmente, dopo tanti anni, grazie all’invito di Mimma Grillo, sono riuscita a
partecipare al quarto appuntamento degli Encuentros de Resistencia y Rebeldìa,
intitolato “Algunas Partes del Todo”, dell’EZLN, che ha avuto inizio domenica 3
agosto presso il Semillero (nome emblematico: lì si seminano idee, scambi di
esperienze, vecchi e nuovi incontri tra compagne/i) “Comandanta Ramona” del
Caracol IV Morelia, più o meno a tre ore da San Cristóbal, in Chiapas, e sono
veramente felice di averlo potuto fare. I partecipanti, tra messicani,
latinoamericani e internazionali, eravamo più di 700, provenienti da 37 paesi,
dal Messico al Cile, dall’Italia a Cipro, dal Canada all’Australia.
Il semillero non è altro che una grande spianata al cui centro i zapatisti
hanno innalzato una piramide in legno con in vetta il simbolo del dollaro e ai
lati le scritte “desprecio“, “explotación” (disprezzo, sfruttamento). Attorno ci
sono dei capannoni nei quali dormiremo con i nostri sacchi a pelo, un comedor,
un ristorantino per noi visitatori, diverse cucine a legna comunitarie dove le
bases de apoyo (i volontari provenienti dai vari caracoles) preparano la
colazione e il pranzo per le/i zapatisti. Inoltre, a poca distanza, bagni e
docce precari, un punto di salute, vari negozietti dove vendono pochi alimenti e
il collegamento WiFi a ore. Devo ammettere che, pur nella sua essenzialità
precarietà, la macchina organizzativa è quasi perfetta, accogliere più di 700
persone, farle mangiare, lavare, dormire non é una cosa semplice da fare e
l’’EZLN ci è riuscito.
Apre le due settimane di incontro un’emozionante parata militare: vari
battaglioni di milicianas e milicianos sfilano in ordine, portano il classico
passamontagna e un arco con frecce alle spalle (mi spiegano che ciò è stato
introdotto dalle donne zapatiste durante l’incontro internazionale delle donne
di alcuni anni fa). I civili – rappresentanti delle basi d’appoggio zapatiste,
uomini, donne, bambini e ragazzi provenienti dai 12 caracoles – .fanno quadrato
attorno alla piazza, in religioso silenzio. Sul palchetto del “templete” (un
grande capannone aperto ai lati col pavimento in cemento) sale la comandancia
composta da uomini e donne. Prende la parola il subcomandante Moisés, il quale,
con poche ed essenziali parole, inaugura l’incontro, dando il benvenuto ai
compagni e alle compagne del Messico e del Mondo e ricorda il genocidio in corso
a Gaza, mettendo l’accento sulla vicinanza tra i popoli in resistenza.
Il pomeriggio e i giorni successivi trascorrono tra le presentazioni da parte
dei numerosi collettivi messicani e stranieri presenti (alcune sono veramente
toccanti come quella delle Madres buscadoras che cercano, a rischio anche della
propria sopravvivenza i loro figli desaparecidos, vittime della violenza in
Messico), seguite da un dibattito in cui spesso interviene Moisés. Il programma
delle comparticipaciones del giorno viene affisso la stessa mattina: da piccoli
collettivi locali, a comunità indigene latinoamericane e non solo, passando per
organizzazioni e reti internazionali (sindacati, radio alternative, ecc.) si
elevano testimonianze di resistenza quotidiana contro il mostro capitalista e un
grido di unione e di solidarietà in tutto il mondo, pur nel rispetto delle
differenze, come suggerisce il titolo dell’incontro: sono solo alcune parti del
tutto che resistono alla Tormenta e che cercano di costruire “il Giorno dopo”.
Le serate sono animate da recital di poesia e musica da parte delle giovani e
dei giovani zapatisti dei vari caracoles nella loro lingua indígena Maya (non
sempre c’è la traduzione in spagnolo); a seguire musica dal vivo e balli fino a
tarda notte.
I zapatisti hanno scelto la forma del teatro per raccontare la loro storia:
durante i primi giorni, i giovani e le giovani zapatistas mettono in scena uno
spettacolo che dura ore sulla storia del Messico e sulla loro storia di
resistenza e ribellione dal 1984 fino a oggi. Mettono a nudo il momento di
passaggio, di transizione che stanno vivendo, dopo esserci resi conto che il
governo delle Juntas de Buen Gobierno (Giunte di buon governo) e dei Marez
(Municipios Autonomos Rebeldes Zapatistas) spesso (ahimé!) riproduceva alcune
dinamiche simili a quelle della tanto criticata “piramide” della società
capitalista, puntano adesso su una nuova forma di organizzazione caratterizzata
dall’orizzontalità, dal governo popolare e da “El Comùn”. Sono queste le parole
d’ordine dello spettacolo e dell’incontro: abbattere la piramide e costruire
“El Común”.
Lo spettacolo serve, pertanto, per fare una esemplare autocritica di come sia
avanzata la società zapatista dal 1 gennaio 1994 fino al momento; attraverso
esempi concreti quali un furto di soldi da parte di due compas e un caso di
violenza di genere, i zapatisti si chiedono e ci chiedono como uscire dalle
trappole del sistema piramidale: burocrazia, problemi di comunicazione,
difficoltà a decidere tutti insieme, corruzione. Il grande nemico dichiarano, è
il capitalismo, e per combatterlo l’unica soluzione è “El Común”, ossia
costruire governi democratici autogestiti in cui tutti decidono insieme senza
delegare nessuna commissione in cui pochi/e decidono per tutti/e.
La base, il popolo, deve organizzarsi per costruire “il Giorno Dopo”. Un primo
passo è stato lo smantellamento delle JBG (Juntas de Buen Gobierno) e dei MAREZ,
che da circa un anno sono stati sostituiti da GAL, CGAZ, ACGAZ.
Questi tre livelli, Governi Autonomi Locali (comunità), Collettivi dei Governi
Autonomi (regione) e le Assemblee dei Collettivi dei Governi Autonomi (Zona),
sono assemblee plenarie che prevedono la partecipazione di tutti i membri.
Soltanto il primo livello, il GAL, ha potere decisionale, gli altri due fungono
solo da coordinamento per riportare la decisione delle comunità di base. Quindi,
è il popolo che effettivamente si autogoverna.
Il loro senso della storia è molte forte: alle giovani e ai giovani è deputato
il compito di onorare i morti delle lotte passate e di credere nella possibilità
di costruire “El día después“, continuando le loro sfide al sistema, anche se
ancora non sanno bene come. Tuttavia l’obiettivo è chiaro: la lotta non è solo
per loro zapatisti, ma è per tutte/i. Per questo è importante il colloquio con
le comunità non zapatiste, con il CNI (Comitato nazionale indigeno); i zapatisti
ribadiscono, inoltre, di non avere formule magiche, ognuno deve agire nel
proprio contesto e con i mezzi che possiede, ma sono imprescindibili il dialogo
e la non esclusione, e soprattutto il portare avanti azioni concrete, non mere e
vuote ideologie (non si dichiarono né marxisti, né maoisti, né anarchici, eec.,
anche se riconoscono ciò che di buono contiene ognuno di questi pensieri).
I zapatiste ribadiscono il loro rifiuto della “Cuarta T” (la “quarta
trasformazione”, il progetto politico portato avanti dall’ex presidente López
Obrador) e del programma “Sembrando vida” (dare una parcella di terra agli
indigeni per ripopolare le zone rurali e frenare la deforestazione dilagante)
che, pur partendo da nobili presupposti, ha finito col riproporre una logica di
privatizzazione della terra, di adeguamento al mercato internazionale creando
disunione tra le comunità indigene.
La piramide deve essere distrutta e l’opera teatrale finisce proprio così: la
grande piramide viene prima bruciata, poi abbattuta e fatta a pezzi con sassi e
machete dalla basi d’appoggio, con l’invito a tutte/i ad unirsi al rituale, per
ricordare di non farsi ingannare da governi che si presentano come progressisti,
ma che in fondo, trovandosi comunque verso la cima della piramide, non sono
altro che marionette i cui fili sono tirati dai grandi oligarchi che controllano
il mondo.
Costruire “El Comùn” significa eliminare ogni forma di proprietà, a partire da
quella della terra, che non è più dell’organizzazione, ma è di chi a turno la
lavora, che sia zapatista o no. Il prodotto viene diviso quindi in parti uguali
tra chi ha curato il raccolto, senza pagamento di alcun tipo.
Non è mancata la visita al nuovo ospedale, che sorgerà vicino caracol di Dolores
Hidalgo, grazie anche alla campagna di raccolta fondi “Un Quirofano en la Selva
Lacandona” organizzata da decine di collettivi e organizzazioni europee
all’interno della rete Europa Zapatista. Siamo andati quasi tutti, in un
pullman, a vedere l’avvio dei lavori del questo nuovo ospedale; ci hanno fatto
da guida gli architetti e i mastri che dirigono il “cantiere”, nessuno di loro è
diplomato né laureato, perché i “professionisti” costavano tanto e, non avendo i
soldi per pagarli, hanno fatto appello alle maestranze locali che stanno
offrendo gratuitamente i loro servizi.
Bisogna dire che la partecipazione alla costruzione di persone non zapatiste è
un passaggio fondamentale. Dopo aver girato le comunità non zapatiste della
regione per spiegare il progetto, queste ultime hanno deciso di partecipare alla
costruzione, chi inviando mano d’opera, chi cooperando economicamente, chi
fornendo vitto e alloggio a lavoratori e lavoratrici.
Dopo la visita siamo rientrati al caracol, dove ci hanno accolti, rifocillati
con abbondante cibo e con musica e balli fino a tarda notte, nonostante la
pioggia torrenziale (la stessa generosità abbiamo potuto constatare io e Ignazio
al caracol di Patria Nueva, dove siamo andati in privato, dopo aver avuto
l’autorizzazione dal “comité de interzona” di Morelia). L’indomani siamo
ripartiti per Morelia, tre ore di viaggio attraversando paesaggi mozzafiato che,
almeno a me, facevano dimenticare le tante curve della strada.
Vorrei aggiungere, non per vantarmene ma solo per condividere un’ulteriore e
personale testimonianza della mia partecipazione all’incontro, che io e Ignazio
avevamo portato delle olive e mandorle del nostro terreno e abbiamo deciso
offrirle ai compas dei caracoles 8 e 9, con la cui cucina comunitaria abbiamo
collaborato per una settimana: al mattino, alle 5,30, andavamo a preparare la
colazione e poi verso le 12 il pranzo. Francisco, il cuoco di turno del caracol
di Dolores Hidalgo, parlava a stento lo spagnolo, la lingua Castilla come dicono
loro, ma era molto socievole, mentre le donne e altri uomini che erano in
cucina, rimescolavano, silenziosi, chili di riso e fagioli in enormi pentoloni
di rame su dei fuochi a legna. Ci hanno ringraziati dell’aiuto e hanno insistito
affinché mangiassimo con loro quello che ci era cucinato insieme.
Insomma, per concludere, la resistenza e ribellione di questa piccola parte del
mondo non è la panacea a tutti i mali del cosmo ma è sicuramente una luce che
continua a illuminare la strada contro il capitalismo e l’omologazione.
Solidarietà, organizzazione e disciplina, coraggio, ma anche errori,
contraddizioni, aspetti per me non del tutto chiari ho visto a Morelia, ma una
cosa mi è chiara: quella dell’EZLN è una storia umana, più che politica, da
continuare a far conoscere.
Redazione Palermo