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Brasile di Lula tra la Cop30, i territori indigeni e le promesse mancate. Intervista a Loretta Emiri
Cop30, le trame oscure del “green capitalism”, la colonizzazione dei crediti di carbonio, le false soluzioni tecnocratiche alla crisi climatica, la lotta per il riconoscimento dei territori indigeni amazzonici e le mancate promesse del governo Lula, ormai totalmente dipendente dal Congresso Nazionale in mano alla destra neoliberista. In questa intervista c’è tutta la passione di una ecologista e indigenista italiana che ha vissuto con gli indigeni amazzonici del Brasile e con loro ha respirato la loro lingua, la loro cultura, la loro spiritualità, la profonda connessione con la Natura, la difesa dei loro sistemi di medicina tradizionale, la lotta per la difesa dell’Amazzonia e dei territori indigeni dall’estrattivismo e dalla deforestazione. Nel 1977 Loretta Emiri si è stabilita nell’Amazzonia brasiliana dove, per 18 anni, ha sempre lavorato con o per gli indios. I primi quattro anni e mezzo li ha vissuti con gli indigeni Yanomami delle regioni del Catrimâni, Ajarani e Demini. Fra di loro ha svolto lavori di assistenza sanitaria e un progetto chiamato Piano di Coscientizzazione, del quale l’alfabetizzazione di adulti nella lingua materna faceva parte. In quell’epoca ha prodotto saggi e lavori didattici, fra i quali: Gramática pedagógica da língua yãnomamè (Grammatica pedagogica della lingua yãnomamè), Cartilha yãnomamè (Abbecedario yãnomamè), Leituras yãnomamè (Letture yãnomamè), Dicionário Yãnomamè-Português (Dizionario Yãnomamè-Portoghese). Nel 1989 è stato pubblicato A conquista da escrita – Encontros de educação indígena (La conquista della scrittura – Incontri di educazione indigena), che Loretta ha organizzato insieme alla linguista Ruth Monserrat, e che include il capitolo Yanomami di cui è autrice. Nel 1992 ha pubblicato la raccolta poetica Mulher entre três culturas – Ítalo-brasileira ‘educada’ pelos Yanomami (Donna fra tre culture – Italo-brasiliana ‘educata’ dagli Yanomami). Alcune sue poesie sono state incluse nel volume 3 della Saciedade dos poetas vivos. Nel 1997 ha pubblicato Parole italiane per immagini amazzoniche, opera che riunisce ventisette poesie; tredici sono in portoghese, lingua nella quale sono state generate, accompagnate da versioni in italiano. Nel 1994 ha pubblicato il libro etno-fotografico Yanomami para brasileiro ver. Nel 2022 ha pubblicato Educada pelos Yanomami (Educata dagli Yanomami), libro di poesie e foto scattate tra gli Yanomami. In italiano, Loretta ha pubblicato i libri di racconti Amazzonia portatile, A passo di tartaruga – Storie di una latinoamericana per scelta, Discriminati che ha ottenuto il Premio Speciale Migliore Opera a Tematica Sociale del 12º Concorso Letterario Città di Grottammare-2021; le presentazioni degli ultimi due libri sono entrate nel programma ufficiale del Salone Internazionale del libro di Torino, rispettivamente nel 2017 e 2019; invece per Amazzone in tempo reale  ha ottenuto il Premio Speciale della Giuria per la Saggistica del Premio Franz Kafka Italia 2013. Nel 2020 ha pubblicato Mosaico indigeno, che riunisce testi con taglio giornalistico sulla congiuntura indigena. Loretta è anche autrice del romanzo breve Quando le amazzoni diventano nonne, 2011, e di Romanzo indigenista, 2023. Se si riesce a sopravvivere a questa guerra non si muore più è stato divulgato in versione pdf nel gennaio del 2023. Suoi testi appaiono in blogs e riviste on-line, tra cui Sagarana, La macchina sognante, Fili d’aquilone, El ghibli, I giorni e le notti, AMAZZONIA ­– fratelli indios, Euterpe, Pressenza, La bottega del Barbieri, Sarapegbe, Atlante Residenze Creative, Cartesensibili. Nel maggio del 2018 è stata insignita del Premio alla Carriera “Novella Torregiani – Letteratura e Arti Figurative”, per la difesa dei diritti dei popoli indigeni brasiliani. Come è andata la Cop30 a Belem, in Brasile? Le conferenze climatiche sono sempre servite per stilare accordi tra capi di governo e esponenti del capitale globale. A ogni anno che passa, questa realtà è sempre più squallidamente evidente.   Tali accordi mascherano le disuguaglianze storiche e perpetuano le strutture coloniali. Ciò che cambia negli anni, sono le parole e le strategie usate per mantenere gli interessi autocratici e geopolitici determinati da coloro che detengono il potere economico. A Belem si è ripetuto il teatrino: nonostante la massiccia presenza di indigeni, comunità tradizionali, lavoratori, movimenti sociali, il processo ufficiale è stato dominato totalmente dai suddetti interessi economici. L’espressiva presenza delle minoranze e delle classi oppresse è servita, però, a mettere in evidenza, in modo eclatante, definitivo, proprio il distanziamento che c’è tra il potere costituito, asservito al capitalismo, e le popolazioni. La Cop30 in molti avevano previsto che sarebbe stata l’ennesima occasione persa, per via della prospettiva completamente eurocentrica che sembra aver preso in questi anni trattando fondamentalmente del tema del net-zero, della retorica sulla “neutralità carbonica” e delle false soluzioni tecnocratiche alla crisi climatica: quello che il presidente della Bolivia Luis Arce aveva definito “colonizzazione dei crediti di carbonio” e “capitalismo green”. Ha riscontrato anche lei questa tendenza? Rispondendo alla prima domanda, ho risposto parzialmente a questa. Ma il quesito posto merita un approfondimento a partire dalla definizione “green capitalism”. Dietro questo termine così moderno e accattivante si nasconde tutto il marciume del capitalismo selvaggio, dell’ipocrisia, del colonialismo tuttora vivo e vegeto. Ripeto: ciò che cambia sono le parole e le strategie. Vi faccio un esempio concreto parlandovi degli Yanomami, con i quali ho avuto il privilegio di vivere per oltre quattro anni nella loro patria/foresta, e di cui sono un’alleata storica. La gioielleria francese Cartier ha creato una fondazione attraverso la quale finanzia pubblicazioni e mostre che hanno a che vedere con gli Yanomami. Il territorio di questo popolo è sistematicamente violato dai cercatori d’oro; durante l’invasione organizzata nel 1987 dalle oligarchie locali, l’etnia ha rischiato l’estinzione; nel 1992 il suo territorio è stato ufficialmente omologato, ma ciò non ha fermato le invasioni; durante il governo Bolsonaro gli Yanomami hanno di nuovo rischiato di scomparire; nel marzo del 2024, il governo Lula ha ordinato la rimozione dalla Terra Indigena Yanomami dei cercatori d’oro, con la distruzione delle loro sofisticate armi e dei potenti macchinari di cui oggigiorno dispongono. Quest’ultima è stata senz’altro una iniziativa lodevole ma, storicamente, succede che i cercatori vengono allontanati per poi sempre tornare invadendo altre aree; i politici parlano di successi e conquiste, gli Yanomami continuano a denunciare le sistematiche nuove invasioni (che potrebbero essere evitate adottando provvedimenti più efficaci già identificati e ripetutamente suggeriti).  Come vogliamo definire la Cartier, potente gioielleria francese che finanzia iniziative relative gli Yanomami minacciati di estinzione proprio a causa dell’estrazione dell’oro nel loro territorio? È ipocrisia anche cercare di convincere l’opinione pubblica che l’estrazione legale dell’oro è differente da quella illegale, dato che gli habitat sono ugualmente distrutti, le popolazioni locali sono ugualmente sfruttate e si ammalano a causa dello stravolgimento dell’ambiente, mentre i capitalisti mondiali divengono più oscenamente obesi di quello che già sono.  Per non parlare di un altro fenomeno che sta sotto gli occhi di tutti, ma che nessuno affronta: professionisti (antropologi, fotografi, scrittori, e persino filosofi o pseudo-tali) che hanno raggiunto notorietà e fama internazionale, nelle loro attività sono finanziati da fondazioni simili a quella della Cartier; fondazioni create da colossi mondiali che, attraverso il “capitalismo green”, perpetuano il colonialismo. Dal gennaio del 2023, cioè da quando Lula è tornato al potere, sono impegnata in una battaglia persa: fomento la creazione di un Centro di Formazione Yanomami, che potrebbe essere facilmente creato nell’unica area del loro territorio raggiungibile attraverso la strada. Una delle finalità della proposta è quella di incentivare l’unione e la collaborazione tra i gruppi locali, storicamente nemici fra di loro, perché solo l’unione e l’organizzazione permetterà agli Yanomami di sopravvivere fisicamente e culturalmente. Un’altra finalità è quella di preparare professionalmente i giovani, affinché assumano funzioni e ruoli a tutt’oggi svolti o controllati dai bianchi, mettendoli in condizione di prendere decisioni autonomamente e dispensare gli “intermediari”, cioè le poche persone che decidono per loro. L’unione e la formazione sono strumenti di lotta che rafforzerebbero l’organizzazione e l’autonomia della società yanomami. Io penso e scrivo le stesse cose da oltre quarant’anni, ma coloro che potrebbero concretizzare la proposta della formazione rivolta a tutta il popolo, e non solo ad alcuni privilegiati individui o gruppi locali, continuano, imperterriti, a fare “orecchie da mercante”. Come si sta muovendo il governo di Lula di fronte ai temi dell’ambiente? Sta portando avanti i temi della deforestazione, della fine dell’estrattivismo e della consegna delle terre agli indigeni come aveva promesso? Naturalmente, in occasione della Cop30 Lula ha omologato alcune poche terre indigene, tanto per dare un contentino; ma ce ne sono oltre sessanta di cui il processo amministrativo è stato completato e alle quali manca solo la sua firma. Lula è potuto tornare al governo facendo accordi a dir poco “ambigui”, così che può decidere ben poco. Chi decide è il Congresso Nazionale, nel cui seno sono confluiti loschi figuri legati al governo anteriore e quindi all’estremissima destra. E il Congresso non dà tregua: mi riferisco al Progetto di Legge definito Della Devastazione; al Senato che in cinque minuti ha approvato una legge che beneficia termoelettriche a carbone; alla crescente offensiva dell’agribusiness contro i popoli indigeni, offensiva incentivata dall’indecente tesi del Marco Temporale, tesi che contraddice quanto stabilito dal STF (Supremo Tribunale Federale), e cioè che la data della promulgazione della Costituzione Federale non può essere utilizzata per definire l’occupazione tradizionale delle terre indigene. Dato che era già stato approvato nella Camera dei Deputati, il suddetto progetto di legge venne inviato a Lula che ne vietò la tesi e altri dispositivi; i veti presidenziali vennero poi rigettati dal Congresso, cosi il progetto è diventato la Legge Nº 14.701/2023. Lo scienziato Philip Fearnside, ricercatore dell’INPA (Istituto Nazionale di Ricerche dell’Amazzonia), reputa che la Cop30 sai stata caratterizzata da una generalizzata mancanza di coraggio politico per affrontare i temi centrali della crisi climatica. Nell’intervista concessa alla rivista Amazônia Real, egli afferma che la conferenza ha ignorato i combustibili fossili e non ha fatto passi in avanti per combattere la deforestazione; decisioni queste che, secondo lui, mettono a rischio immediato la sopravvivenza dei popoli indigeni e delle comunità tradizionali dell’Amazzonia. Inoltre, Fearnside afferma che il Brasile sbaglia anche nella transizione energetica, mantenendo contraddizioni come l’asfaltatura della strada BR-319 e nuovi progetti di estrazione del petrolio, mentre i provvedimenti emergenziali in atto non hanno la capacità di accompagnare la velocità con cui avviene il surriscaldamento della terra. Alla vigilia della Cop30 l’Ibama (Istituto Brasiliano dell’Ambiente e delle Risorse Naturali Rinnovabili, che è un’autarchia federale) ha autorizzato la Petrobras a realizzare ricerche per rendere viabile l’esplorazione del petrolio a cinquecento km. dalla Foce del Fiume Amazonas, nel cosiddetto Margine Equatoriale, in alto mare, a confine tra gli Stati di Amapá e Pará. Mentre, appena la Cop30 si è conclusa, il Congresso ha rigettato i veti che erano stati suggeriti e ha autorizzato nuovi interventi in punti critici della strada BR-319; notizia, questa, del 27 novembre 2025. Durante la Cop30 sono successe cose che, per un spettatore esterno sembrerebbero assurde. Le proteste degli indigeni alla Cop30 sono state represse duramente. Cosa è successo precisamente? Il fatto che la Cop30 sia stata realizzata in Brasile ha permesso che un grande numero di indigeni ed esponenti di popolazioni tradizionali si facessero presenti a Belem, che è la capitale simbolica dell’Amazzonia brasiliana. La loro massiccia presenza, la coloratissima diversità culturale che li caratterizza, le manifestazioni che hanno saputo organizzare, le loro accorate dichiarazioni, che sono frutto di oltre cinquecento anni di soprusi e sofferenze, hanno messo sotto i riflettori le contraddizioni dell’attuale governo. A stento Lula si barcamena tra ciò che potrebbe fare, ma non ha il coraggio sufficiente per fare, e ciò che fa, costretto dall’estremissima destra che controlla il Congresso Nazionale. Le forze dell’ordine hanno represso i manifestanti, proprio come accade in qualsiasi altro Paese che pensa di essere democratico: le popolazioni vengono represse quando osano mettere in discussione le scelte di Stato. Txulunh Natieli, che è una giovane leader del popolo Laklãnõ-Xokleng, ha riassunto brillantemente il risultato della Cop30 dicendo che la conferenza ha esposto le contraddizioni stesse del Brasile, la cui politica è molto esterna e poco interna. Invece Luene, del popolo Karipuna, ha affermato che il Brasile potrà guidare la transizione climatica soltanto se dichiarerà l’Amazzonia “zona libera dai combustibili fossili”. Il documento finale della conferenza invita alla cooperazione globale, ma evita di citare paroline quali “petrolio”, “carbone”, “gas”; dal documento è stata esclusa anche la locuzione “eliminazione graduale”. Gli accordi firmati durante la Cop30 rivelano la squallida farsa della sostenibilità, le lobby dei fossili, dell’oro, dell’agribusiness. Nonostante siano stati fatti alcuni pontuali passi in avanti, la conferenza è terminata lasciando grandemente frustrati leader indigeni, specialisti, osservatori, cioè tutti coloro che si rifiutano di essere servi di un sistema sociale piramidale. Cosa è successo tra Raoni e Lula e perché ha fatto così scalpore? Raoni è molto amato dagli indigeni e dai loro alleati, ma è molto conosciuto anche all’estero da quando il cantante Sting lo aiutò a far uscire la problematica indigena dall’ambito brasiliano per proiettarla a livello mondiale. È un adorabile vecchietto, dai più considerato e amato come “nonno”.  Durante tutta la vita, è stato coraggioso e coerente; il tema più ricorrente nei suoi discorsi riguarda il riconoscimento e l’ufficializzazione delle terre indigene. Come può sopravvivere un popolo senza un territorio dove vivere bene e perpetuarsi? Quando Lula è stato rieletto, il giorno della cerimonia ufficiale per l’inizio del suo nuovo mandato di presidente, ha voluto Raoni accanto a sé. Ha salito la rampa che lo ha condotto nel Palazzo del Planalto, sede del Potere Esecutivo Federale, tenendo a braccetto il vecchio leader indigeno. Durante la Cop30, senza usare mezzi termini, Raoni ha manifestato la sua profonda delusione di fronte al fatto che alle solite promesse non fanno mai seguito le scelte politiche che andrebbero fatte e, naturalmente, la sua presa di posizione ha avuto una grande ripercussione sia in Brasile che all’estero. Gli indigeni, come sempre, sono solo usati, strumentalizzati. Le foto scattate a Lula al fianco di Raoni sono l’espressione visiva delle promesse mancate contrapposte alla cruda realtà dei fatti. Quale è la situazione delle popolazioni indigene amazzoniche ora e cosa bisogna cambiare? In Brasile gli indigeni dovrebbero rifiutare di farsi cooptare dal governo federale, dal momento che molto poco riescono a fare: molti di loro si sono già “bruciati”, cioè hanno deluso il movimento indigeno organizzato perché difendono o tacciono su molte scelte ambigue fatte dal governo. In Italia, quello che andrebbe fatto sarebbe smettere di definire “di sinistra” persone e governi. La sinistra esiste ancora solo attraverso i movimenti e le organizzazioni popolari. Se Lula è stato un solido leader sindacale, fondatore del Partito dei Lavoratori, non significa che per arrivare ad essere eletto e rieletto presidente di un paese continentale come il Brasile non abbia dovuto modificare principi e posizioni, non abbia dovuto allearsi alle più disparate e ambigue forze politiche. Inoltre, come spiegare il fatto che all’interno del suo partito, apparentemente, sembra non esserci nessuno in condizione di sostituirlo? Corre voce che si candiderà per l’ennesima volta; e questa, almeno per me, non è democrazia, ma il perpetuarsi di una posizione di potere. Quello che andrebbe fatto sarebbe di analizzare con più equilibrio, più attenzione, meno retorica la situazione politica brasiliana ma, soprattutto, dovrebbe essere denunciato coraggiosamente, senza mezzi termini, il “capitalismo green”, che è fortemente praticato anche da multinazionali di origine italiana. Ciò che andrebbe fatto è denunciare e porre fine al colonialismo, che continua vivo e vegeto attraverso l’invenzione di nuovi termini e nuove strategie, che sono così efficaci da ingannare individui e intere popolazioni.  Ciò che gli indigeni fanno, da oltre cinquecento anni, è resistere per esistere.   Bibliografia Amazônia Real https://amazoniareal.com.br/repercussao-da-cop30-oscila…/ Apib Oficial https://apiboficial.org/2025/10/13/as-vesperas-da-cop-povos-indigenas-cobram-demarcacao-de-terras-67-so-dependem-de-uma-assinatura-de-lula/? Mídia Ninja https://www.facebook.com/MidiaNINJA Loretta Emiri, “Amazzonia – Il piromane ha nome e cognome” https://www.pressenza.com/it/2019/09/amazzonia-il-piromane-ha-nome-e-cognome/ Centro de Formação Yanomami no Ajarani – Dossier https://drive.google.com/file/d/1O_A3dR4u28VLB_iyrj3Xpxk–xRyYkC0/view?usp=share_link Durante la privilegiata, come lei stessa sostiene, convivenza con gli Yanomami, ha raccolto oggetti della cultura materiale di questo popolo. Di particolare rilievo è il nucleo dedicato all’arte plumaria, collane ed orecchini. Per lunghi anni ha accarezzato il sogno di sistemare i materiali in luogo pubblico. Il sogno si è concretizzato all’inizio del 2001, quando il Museo Civico-Archeologico-Etnologico di Modena ha accolto i 176 pezzi della Collezione Emiri di Cultura Materiale Yanomami. Nel maggio del 2019, una parte della collezione è stata esposta al pubblico e ufficialmente inaugurata. Durante tutto il 2023 e 2024 si è dedicata, sistematicamente, al fomento della creazione del Centro di Formazione Yanomami, da strutturarsi nell’area indigena Ajarani, producendo e divulgando vari testi riuniti nel Dossier “Moyãmi Thèpè Yãno – A Casa dos Esclarecidos – Centro de Formação Yanomami – Dossiê”, Loretta Emiri, CPI/RR, 01-24. Lorenzo Poli
Parliamo di piramidi
Abbiamo bisogno di mettere in discussione le piramidi non solo del sistema capitalista ma anche le “nostre” piramidi, quelle create all’interno di organizzazioni che resistono al sistema. “Non è una questione da poco – scrive Raúl Zibechi -, perché ci impone di guardarci allo specchio e scoprire i sistemi oppressivi che creiamo quando cerchiamo di cambiare il mondo…”. Verso lo straordinario Semillero zapatista di fine anno: “Di piramidi, storie, amori e, naturalmente, di cuori infranti” (tra gli invitati Raúl Zibechi) Foto di Massimo Tennenini Pochi giorni fa, l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) ha annunciato il Semillero “Di piramidi, storie, amori e, naturalmente, di cuori infranti”, che si terrà dal 26 al 30 dicembre presso il Centro Indigeno di Formazione Integrale (Cideci) di San Cristóbal de las Casas, Chiapas. L’annuncio chiarisce che il workshop affronterà il tema delle piramidi non solo all’interno del sistema capitalista, ma anche nei “movimenti di resistenza, nella sinistra e nel progressismo, nei diritti umani, nella lotta femminista e nelle arti” (Convocazione al Semillero 26-30 dicembre 2025). Trovo questo nuovo appello estremamente importante, come quelli precedenti, perché un dibattito rigoroso e approfondito è quasi inesistente all’interno dei movimenti sociali, una situazione che contrasta nettamente con l’impegno dell’EZLN a riflettere mentre si resiste e a creare nuovi mondi che non siano più capitalisti. Rigore non è sinonimo di accademico o di incomprensibile per le persone comuni e organizzate che resistono. Questo è un punto centrale: la riflessione e l’analisi non servono per ottenere attestati o promozioni, ma per rafforzare la resistenza, per renderla più perspicace e responsabile. Un aspetto degno di nota dell’appello all’azione non è solo quello di mettere in discussione le piramidi al vertice (anche se non usano questo termine), ma anche le “nostre” piramidi, quelle create all’interno di organizzazioni che resistono al sistema. Si parla molto delle prime; nulla delle seconde. Solo lo zapatismo ha la volontà e il coraggio di metterle in discussione. Nel pensiero critico e nei movimenti rivoluzionari, errori e orrori vengono solitamente attribuiti a singoli individui (come Stalin in Unione Sovietica), ma strutture come le piramidi, che ispirano partiti e sindacati, ma spesso anche coloro che combattono contro il sistema, non vengono messe in discussione. Se parliamo solo delle piramidi del capitalismo (lo Stato, la polizia, la giustizia, ecc.), tralasciamo le nostre deviazioni ed errori, il che sarebbe fin troppo comodo e poco utile. La verità è che tutte le rivoluzioni hanno costruito piramidi che, come diceva Immanuel Wallerstein, erano adatte a rovesciare le classi dominanti, ma che presto si sono trasformate in ostacoli alla creazione di nuovi mondi. “L’errore fondamentale delle forze anti-sistema nell’era precedente era credere che quanto più unificata era la struttura, tanto più efficace era” (Dopo il liberalismo). Da tempo sappiamo che nuove classi dirigenti post-rivoluzionarie sono state ricostruite dall’alto delle piramidi, impedendo la costruzione di mondi non capitalistici e instaurando regimi autoritari che hanno rafforzato gli stati nazionali. Un merito importante dell’EZLN risiede nell’aver fondato questi dibattiti sulla propria esperienza, su quanto accaduto nell’arco di due decenni in spazi autonomi come le Giunte di Buon Governo, un punto che avevano già sollevato chiaramente e apertamente ad agosto durante l’incontro “Alcune parti del tutto”, nel vivaio di Morelia. All’epoca, scrissi che l’autocritica pubblica dal basso era “un fenomeno assolutamente nuovo tra i movimenti che lottano per cambiare il mondo” e che in questo modo gli zapatisti ci mostrano “cammini che nessun movimento ha mai percorso prima, in nessuna parte del mondo, in tutta la storia” (L’autocritica zapatista). Oggi non basta riaffermare questa percezione; dobbiamo anche riconoscere che gli zapatisti pongono una nuova sfida: affrontare le piramidi che creiamo alla base. Non è una questione da poco, perché ci impone di guardarci allo specchio e scoprire i sistemi oppressivi che creiamo quando cerchiamo di cambiare il mondo. La sfida è tanto importante quanto complessa. Non credo si tratti di puntare il dito contro chi costruisce le piramidi, ma piuttosto di ragionare e spiegare i problemi che esse comportano, sulla base di oltre un secolo di esperienza storica dalla Rivoluzione russa e un secolo e mezzo dalla Comune di Parigi. Fu dopo la loro sconfitta che il movimento rivoluzionario iniziò a costruire apparati politici centralizzati e gerarchici: i partiti politici. Fino ad allora, la lotta era sostenuta da una galassia di organizzazioni meno gerarchiche, un po’ caotiche, certo, ma non per questo meno combattive. Siamo arrivati a un punto in cui solo gli apparati burocratici e gerarchici sono considerati vere organizzazioni, ovvero istituzioni che si modellano sulle piramidi statali e le riproducono simmetricamente. Ora ci rendiamo conto che questi apparati sono completamente inutili in questi tempi di caos sistemico e servono solo come scale per coloro la cui unica ambizione è quella di raggiungere l’apice del potere statale. Il dibattito a cui ci chiama lo zapatismo promette di essere illuminante in mezzo all’oscurità. Propongono di nuotare controcorrente rispetto al pensiero compiacente della sinistra e del mondo accademico, intrappolato nella logica del capitalismo. Questo è esattamente ciò di cui abbiamo bisogno per scrollarci di dosso il nostro letargo, impegnarci nell’autocritica e liberarci da vecchie idee/prigioni per poter continuare a camminare attraverso la tempesta. -------------------------------------------------------------------------------- di Raúl Zibechi  articolo originale https://comune-info.net/parliamo-di-piramidi Pubblicato anche su La Jornada Ettore Macchieraldo
Brasile: leader guarani ucciso in un attacco alla sua comunità
Proprio mentre alla COP30 si discute delle terre indigene, nel sud del Brasile il 16 novembre scorso, nell’oscurità della domenica mattina, alcuni aggressori si sono scagliati contro una comunità indigena Guarani Kaiowá aprendo il fuoco. Ucciso un leader e ferite quattro persone. A colpi di pistola, 20 aggressori hanno preso di mira la comunità guarani di Pyelito Kue, che aveva recentemente rioccupato una parte della propria terra ancestrale. Gli uomini armati hanno aperto il fuoco e bruciato le case e gli effetti personali della comunità, e altri quattro Guarani sono rimasti feriti, e sparato alla testa a Vicente Fernandes Vilhalva, 36 anni, uccidendolo. L’attacco mortale – il quarto contro la comunità di Pyelito Kue nelle ultime due settimane – è solo l’ultimo episodio di una violenta aggressione che gli allevatori conducono da decenni contro i Guarani Kaiowá. Uno dei leader di Pyelito Kue ha detto a Repórter Brasil, in forma anonima: “Eravamo circondati. I sicari non sono venuti per parlare, hanno solo iniziato a sparare. Noi non abbiamo armi, non abbiamo possibilità di difenderci. Ci siamo ritirati e ci siamo recati al villaggio, ma hanno continuato a sparare… Hanno bruciato tutto nell’area che stiamo rivendicando: le nostre capanne, le pentole, le sedie…” “Noi, popolo Guarani Kaiowá, condanniamo gli attacchi che sono avvenuti nella Tekoha Pyelito Kue e che hanno causato la morte di un leader. La nostra lotta è per la vita, per la terra e per ‘Tekoha Guasu’ (il nostro intero territorio ancestrale)… Non accettiamo più di essere trattati come invasori nella nostra stessa terra” ha affermato in una dichiarazione l’organizzazione dei Guarani Kaiowá, Aty Guasu. La comunità guarani kaiowá di Pyelito Kue e altre comunità guarani kaiowá della regione furono sfrattati con violenza dalle loro terre, nello stato brasiliano di Mato Grosso do Sul, decenni fa. Da allora, quasi tutta la loro terra è stata occupata da agroindustrie e allevamenti di bestiame. Alla loro resistenza e ai tentativi di rivendicare la propria terra sono seguiti attacchi violenti, e spesso mortali. Le famiglie guarani di Pyelito Kue sono state costrette a vivere per oltre dieci anni in un’area affollata di 97 ettari, con poco spazio per coltivare orti. A causa della fame, a inizio novembre hanno deciso di rivendicare un’altra parte della loro terra nel Territorio Indigeno Iguatemipeguá I. Questo lembo di terra, in cui è stato ucciso Vicente, è occupato dalla Fazenda Cachoeira, gestita da Agropecuária Santa Cruz e Agropecuária Guaxuma, compagnie che esportano carne, che è un enorme allevamento di bestiame (uno dei 44 che si sovrappongono al Territorio Indigeno Iguatemipeguá I) esteso au 41˙714 ettari che comprendono molte tekoha (terre ancestrali guarani), tra cui quella di Pyelito Kue. La FUNAI, l’Agenzia brasiliana agli Affari Indigeni, aveva delimitato l’area nel 2013: uno dei primi passi verso la demarcazione. Tuttavia, il processo è in stallo da allora, in violazione della legge brasiliana e internazionale, e i Guarani sono costretti a subire attacchi violenti e uccisioni da parte di allevatori e polizia che agiscono nell’impunità, con il sostegno di politici locali. L’accordo ufficiale preso tra i pubblici ministeri, la FUNAI e i Guarani nel 2007, e le recenti promesse di demarcazione territoriale del Presidente Lula, non sono stati rispettati. Secondo alcuni testimoni, in quest’ultimo attacco sono coinvolti la Polizia Militare brasiliana e membri del Dipartimento per le Operazioni di Frontiera (Departamento de Operações de Fronteira). “La Costituzione riconosce i nostri diritti, e lo Stato brasiliano ha il dovere di proteggere i nostri popoli – si legge nella dichiarazione di Aty Guasu – Chiediamo il sostegno della società civile, delle organizzazioni per i diritti umani, dell’Ufficio del Pubblico Ministero Federale, della FUNAI, del Ufficio del Difensore Pubblico Federale per monitorare il caso e garantire la sicurezza delle famiglie guarani kaiowá di fronte al clima di odio e alle minacce che si stanno intensificando”. “Una settimana fa, a Belém, il Presidente Lula ha riconosciuto che le terre indigene sono cruciali per combattere i cambiamenti climatici. Ha detto che ‘forse’ non è stata riconosciuta adeguatamente una parte sufficiente delle loro terre – ha dichiarato oggi la Direttrice generale di Survival International, Caroline Pearce – La morte di Vicente è la cruda realtà di questo mancato riconoscimento: popoli indigeni sfrattati, espropriati, privati della loro terra, dei loro diritti, dei loro mezzi di sussistenza – e della loro stessa vita. È una vergogna che i Guarani Kaiowá di Pyelito Kue e di altre comunità vengano uccisi solo perché vivono nelle loro case, sulla loro terra ancestrale. Il governo del Brasile deve completare il riconoscimento territoriale, proteggere i loro territori e perseguire coloro che li sfrattano e continuano a terrorizzarli.” In risposta a precedenti attacchi avvenuti contro la comunità di Pyelito Kue nel 2011 e 2016, la Commissione Inter-Americana per i Diritti Umani ha chiesto l’adozione di misure precauzionali. Di recente anche i Guarani della comunità di Guyra Rocha – casa del defunto Ambrosio Vilhalva, protagonista del film Birdwatchers – sono stati presi di mira da sicari al soldo degli allevatori e polizia locale: diverse persone sono rimaste ferite da proiettili di gomma e lacrimogeni, e le loro case sono state distrutte. Il corpo di Vicente Fernandes Vilhalva circondato dai compagni Guarani Kaiowá   Survival
Nel Decennio ONU delle Lingue Indigene (2022–2032) parte la campagna italiana “Teniamo viva la lingua Apsáalooke (Crow)”
San Benedetto del Tronto (AP), 15 novembre 2025 — Le lingue indigene sono fra i patrimoni culturali più fragili e strategici del pianeta. L’ONU ha proclamato il Decennio Internazionale delle Lingue Indigene 2022–2032 per mobilitare governi, istituzioni e società civile nella loro tutela, rivitalizzazione e promozione. È in questo quadro che nasce “Teniamo viva la lingua Apsáalooke (Crow)”, campagna di raccolta fondi e sensibilizzazione promossa dalla associazione italiana Omnibus Omnes OdV in favore di  NACANL (Native American Church of Apsáalooke Nation Lands).   Perché la lingua Apsáalooke (Crow) L’Apsáalooke (Crow) è una lingua siouan parlata in Montana dalla Crow Nation. Gli studi più diffusi stimano circa 4.200 parlanti complessivi, ma con un forte calo generazionale: la quota di parlanti fluenti sarebbe scesa, in alcune rilevazioni, dall’85% di circa 60 anni fa a ~30%, con particolare rarefazione tra i più giovani. Questo rende urgente un’azione concreta di trasmissione dagli anziani ai giovani, coerente con gli obiettivi del Decennio ONU.     La campagna: cosa finanzia La raccolta fondi sostiene un pacchetto di attività sul territorio della Crow Nation, in coordinamento con scuole e attori locali, fra cui il Crow Language Consortium (CLC): * Laboratori intergenerazionali anziani–giovani; * Micro-borse di studio per giovani tutor; * Materiali didattici e strumenti digitali (audio, glossari, app); * Rete educativa con scuole della riserva e iniziative CLC (Crow Language Con-sortium). La campagna prevede rendicontazione pubblica (totale raccolto, trasferimenti, costi tecnici, attività finanziate) e un report congiunto NACANL–Omnibus.   Perché proprio i Crow Omnibus Omnes OdV intrattiene da anni rapporti diretti con la Crow Nation; l’intesa operativa è formalizzata con NACANL (fondatore Cedric Black Eagle, fratello adottivo della Presidente di Omnibus Raffaella Milandri). L’azione congiunta consente di allineare sensibilità culturale e trasparenza amministrativa, affiancando gli Anziani e i formatori locali nella trasmissione della lingua. Raffaella Milandri, Presidente Omnibus Omnes OdV, rilascia la dichiarazione: “Le lingue indigene sono memoria viva e progetto di futuro. Se le parole degli Anziani arrivano nelle mani dei giovani—tra quaderni, app e classi—una lingua torna quotidiana. È questo il senso della nostra campagna insieme a NACANL: dare strumenti a chi la lingua la custodisce e la insegna.”     Come donare Italia: ricevuta per erogazione liberale, benefici fiscali secondo normativa  emessa da Omnibus Omnes OdV. Per info scrivere via email a info@omnibusomnes.org. USA / Internazionale (donazione diretta a NACANL). Per info scrivere via email a info@omnibusomnes.org. Trasparenza: tutte le donazioni sono tracciate e rendicontate sulla pagina della campagna.   Schede organizzazioni (boilerplate) NACANL – Native American Church of Apsáalooke Nation Lands.       Ente non profit costituito da membri iscritti della Crow Tribe of Montana. Opera per reintrodurre tra i giovani lingua e cultura Apsáalooke—sistema di clan, pratiche cerimoniali, educazione comunitaria—collaborando con Anziani, scuole della riserva e il college tribale. Consiglio NACANL: Tilton Old Bull (Presidente), Gary Big Hair (Vice Presidente), Sylvan Covers Up (Segretario), Cyle Old Elk (Tesoriere), Cedric Black Eagle (Fondatore) Omnibus Omnes OdV (Italia).          Organizzazione di volontariato con sede a San Benedetto del Tronto. Promuove progetti di consapevolezza sociale e tutela dei patrimoni culturali, con particolare attenzione a lingue a rischio e produzioni educative a sostegno delle comunità. Consiglio Omnibus: Raffaella Milandri (Presidente), Myriam Blasini (Vice Presidente e Segretario), Alberto Richiedei (Tesoriere), Barbara Andrenacci e Giampietro De Angelis (Consiglieri).   Note per i redattori * L’International Decade of Indigenous Languages 2022–2032 è promossa da ONU/UNESCO per favorire preservazione e rivitalizzazione delle lingue indigene. * Per la lingua Apsáalooke (Crow), fonti recenti indicano ≈4.200 parlanti e un calo netto della trasmissione generazionale (fluenti ~30% rispetto a ~85% di alcune decadi fa). (minneapolisfed.org) * Informazioni su Crow Language Consortium (CLC) e materiali didattici: v. presentazione ufficiale. (Crow Language Consortium)   “Una lingua si salva usandola”, afferma Raffaella Milandri, Presidente di Omnibus Omnes OdV. “Mettere Anziani e ragazzi nella stessa stanza—con quaderni, penne e buone guide—significa ridare futuro all’Apsáalooke.”   Trasparenza Rendicontazione pubblica: totale raccolto, trasferimenti, costi tecnici e attività finanziate. Report congiunto di chiusura NACANL–Omnibus. COME DONARE Italia (ricevuta per erogazione liberale): * Bonifico: IBAN IT 65 M 02008 24404 000103706117 – BIC/SWIFT UNCRITM1Y39 Causale: “Donation – Crow Language – NACANL” * PayPal (Omnibus Omnes OdV): info@omnibusomnes.org https://www.paypal.com/ncp/payment/LXV5SSG9N7BML (Per la ricevuta: indicare nome, email, Codice Fiscale.) USA / Internazionale (donazione diretta a NACANL): * PayPal (NACANL): blackeagleenterprise@gmail.com Titolo campagna: Teniamo viva la lingua Apsáalooke (Crow) – Perché una lingua a rischio diventi futuro. Contatti stampa / Info: Omnibus Omnes OdV – info@omnibusomnes.org Partner: NACANL – Native American Church of Apsáalooke Nation Lands           blackeagleenterprise@gmail.com   Media kit e contatti * Immagini ufficiali (IT/EN), banner social e schede progetto disponibili su richiesta. * Ufficio stampa / Info: Omnibus Omnes OdV – Via Nazario Sauro, 50 – 63074 San Benedetto del Tronto (AP) Email: info@omnibusomnes.org   English abstract (for international outlets) Save the Apsáalooke (Crow) Language – Elders to Youth. Within the UN International Decade of Indigenous Languages (2022–2032), NACANL and Italy’s Omnibus Omnes OdV launch a community-based campaign to support Crow language revitalization: elder–youth labs, micro-scholarships for youth tutors, learning materials and digital tools, in coordination with local schools and the Crow Language Consortium. Minimum goal: $10,000. Transparent reporting and a joint close-out report are provided.   Redazione Italia
I coloni che uccidono i contadini palestinesi
Sulle colline della Cisgiordania occupata, ogni giorno si consuma una strana e dolorosa ironia: gli stessi coloni israeliani che si appropriano della terra palestinese, bruciano i nostri ulivi e sparano ai nostri contadini, ora imitano proprio quello stile di vita che stanno distruggendo. Come contadino palestinese, ogni ottobre, quando passa il Giorno della Croce (Youm Al-Salib), cadono le prime gocce di pioggia e il colore delle olive comincia a cambiare, so che la stagione è arrivata. L’aria si fa pesante per l’umidità e la promessa di nuovo olio. Prendo i miei attrezzi, raduno la mia famiglia e scendo nei campi. Sono rituali antichi, tramandati da mia madre, che conosceva a memoria i segni della terra: quando potare, quando raccogliere, quando riposare. La terra profuma di timo e terra bagnata; gli uccelli cantano come se benedicessero la stagione. Per un attimo sembra prevalere la pace, finché il mio sguardo non cade sulla cima della collina e vedo i coloni accampati sul crinale, con i fucili in spalla, che giocano a fare i contadini negandoci il diritto di coltivare la nostra terra. È come uccidere la vittima e poi partecipare al suo corteo funebre. Occupazione e appropriazione culturale Occupano le cime delle montagne che sovrastano i nostri villaggi, dove un tempo i pastori pascolavano le loro greggi e gli agricoltori coltivavano i terrazzamenti scavati dai loro antenati. Hanno deturpato il paesaggio autoctono della nostra terra natale. Odiano noi, il popolo di questa terra, disprezzano la nostra lingua, la nostra musica e la nostra cultura, eppure imitano le nostre tradizioni rurali come se fossero le loro. Negli ultimi anni, gli avamposti illegali dei coloni sono proliferati in tutta la Cisgiordania. Da queste colline, i coloni molestano i pastori, rubano i raccolti di olive e cacciano le famiglie dalle loro terre ancestrali. Secondo B’Tselem e ARIJ, la violenza dei coloni ha raggiunto livelli record: migliaia di attacchi ogni anno contro agricoltori, case e frutteti palestinesi. L’OCHA delle Nazioni Unite ha documentato un aumento di oltre il 45% degli attacchi rispetto allo scorso anno. Decine di famiglie sono state costrette ad abbandonare le loro terre. L’obiettivo è chiaro: cancellare la popolazione indigena, rubando non solo la terra, ma anche lo stile di vita, il folklore e la cucina. Eppure, su quelle stesse colline, i coloni celebrano matrimoni sotto gli ulivi, raccolgono le olive a mano, cucinano la shakshuka – pomodori fritti in olio d’oliva con uova – su fuochi a legna, preparano il tè in teiere di latta annerite e suonano lo shibabeh, il flauto che risuona nei villaggi palestinesi da Jenin a Hebron. Indossano camicie di cotone grezzo, costruiscono piccoli giardini – hakura – e si comportano come se avessero ereditato un legame con la terra che hanno solo rubato. Lo chiamano “ritorno alla natura”, ma è una messinscena, un tentativo disperato di fabbricare un senso di appartenenza dove non esiste. La loro imitazione non è ammirazione, è appropriazione nata da un complesso di illegittimità. Nel profondo, sanno di essere stranieri qui. Sentono il vuoto dello sradicamento e cercano di colmarlo con simboli presi in prestito e tradizioni rubate. È una tragedia di contraddizioni: distruggono l’ulivo ma desiderano la sua ombra; cacciano il contadino ma invidiano la sua semplicità; occupano la terra ma imitano la vita di coloro che hanno espropriato. Il loro desiderio di apparire autoctoni mette a nudo la loro alienazione. La terra come identità Per noi palestinesi, la terra non è uno stile di vita o una fuga nel fine settimana: è storia, memoria e identità. Ogni ulivo porta con sé le storie di generazioni. Ogni appezzamento porta un nome arabo o siriaco legato alla memoria delle persone che hanno vissuto qui per millenni. Ogni sorgente ha un nome, ogni terrazza una storia. Ogni pietra è stata sollevata da mani che amavano questo suolo e ne conoscevano i segreti. Quando vedo i coloni nuotare nelle nostre sorgenti, costruire tavoli da picnic vicino ai nostri pozzi o organizzare matrimoni con musica folk palestinese, provo più che rabbia. È un dolore misto a incredulità, un senso di violazione della terra e del suo significato. Distruggono le radici e poi fingono di essere radicati. Uccidono i contadini e poi cantano le loro canzoni. Possono copiare i gesti di appartenenza, ma non possono ereditarne l’anima. Possono cucinare la shakshuka, ma non potranno mai assaporarla come noi, condita con il lavoro, la pazienza e la nostalgia. Possono cantare le nostre canzoni, ma le loro voci non trasmetteranno mai l’amore e il dolore che le hanno plasmate. La nostra essenza è fatta dell’argilla di questo paese. La terra ricorda La loro imitazione rivela una profonda verità: lo stile di vita palestinese è l’espressione autentica di questa terra. I coloni vogliono apparire come nativi, mimetizzarsi nel paesaggio e cancellare i segni visibili dell’occupazione. Ma per quanto possano imitare, la loro presenza rimane un’intrusione violenta. Non possono cancellare la verità con l’olio d’oliva o coprire l’ingiustizia con una melodia popolare. Non si può diventare indigeni rubando la terra o imitando la sua gente. L’appartenenza nasce dalla giustizia, non dall’imitazione. Finché i coloni continueranno a uccidere i contadini, a rubare i raccolti di olive e a cacciare le famiglie dalle loro case, i loro tentativi di mettere radici rimarranno vani. Possono occupare le colline, ma non possono occupare la verità. Quando mi trovo tra i miei ulivi al tramonto, sento il loro silenzio parlare. Ricordano le generazioni che li hanno curati, le mani che li hanno innaffiati, le canzoni cantate alla loro ombra e i passi che hanno tracciato i terrazzamenti. Hanno visto conquistatori andare e venire, eppure rimangono lì, saldi, radicati nella giustizia, nella memoria e nell’appartenenza. I coloni possono imitare la nostra vita, ma non possono imitare il nostro amore per questa terra: l’amore non può essere finto e le radici non possono essere trapiantate con la forza. Possono prendere in prestito le nostre canzoni, il nostro cibo e le nostre usanze, ma non possono ereditare i secoli di cura, sudore e devozione che hanno plasmato questa terra e la sua gente. Questa terra riconoscerà sempre i propri figli: quelli la cui pelle porta la sua polvere, la cui lingua è nata dalle sue colline, le cui canzoni si levano con il suo vento. La nostra pelle ha il colore del suo suolo, i nostri cuori battono al suo ritmo. Nessuna imitazione, violenza o occupazione potrà mai cambiare questa verità. Gli ulivi sopravviveranno a tutti loro, e così faremo anche noi. di Fareed Taamallah Traduzione di Nazarena Lanza Versione originale in inglese su Middle East Monitor: The settlers who kill Palestinian farmers and imitate their lives Redazione Piemonte Orientale
In Perù, alle api vengono riconosciuti diritti propri
> Le api senza pungiglione autoctone del Perù sono i primi insetti al mondo a > godere di una protezione speciale come soggetti giuridici. Gli indigeni Asháninka le chiamano «Shinkenka» o, in spagnolo, «Angelitos» (angioletti). Appartengono al genere Melipona e sono la prima specie di insetti al mondo a non essere considerata un oggetto, ma ad avere un diritto «personale» all’esistenza, alla rigenerazione e alla protezione. Nell’ottobre 2025, la provincia peruviana di Satipo ha dichiarato le api amazzoniche senza pungiglione soggetti giuridici. L’ape senza pungiglione è un importante impollinatore locale e fa parte dell’ecosistema tropicale da milioni di anni. Il suo miele ha proprietà antibatteriche, antivirali e antinfiammatorie ed è utilizzato nella medicina tradizionale. La legge, che si applica nella biosfera UNESCO di Avireri-Vraem, ha lo scopo di proteggere la popolazione di api, che negli ultimi anni ha subito un forte calo. L’aumento delle temperature dovuto alla crisi climatica, la deforestazione, la coltivazione di droghe, i pesticidi e le specie invasive minacciano la loro sopravvivenza. LE API MELLIFERE CHE PUNGONO SONO ARRIVATE SOLO CON LA COLONIZZAZIONE Le Meliponini non possono pungere, ma possono mordere. Ne esistono circa 600 specie in tutto il mondo, di cui almeno 175 vivono in Perù. Le api mellifere pungenti conosciute in Europa sono arrivate in Sudamerica solo con gli europei. Alla fine degli anni ’50 è stato introdotto un incrocio tra specie di api africane ed europee, che da allora si è rapidamente diffuso e rappresenta una minaccia per le api autoctone. La nuova legge è essenzialmente un successo della biochimica Rosa Vásquez Espinoza, che insieme ad altri scienziati e alle comunità indigene degli Asháninka ha promosso la protezione delle api e, di conseguenza, anche la protezione della regione amazzonica. La maggior parte delle piante importanti per l’agricoltura viene impollinata dalle api selvatiche. TUTTE LE PARTI COINVOLTE PIANIFICANO INSIEME MISURE DI PROTEZIONE L’organizzazione Amazon Research International di Espinoza è stata sostenuta, tra gli altri, dall’organizzazione statunitense Earth Law Center e dalla biologa marina Callie Veelenturf, secondo quanto riportato dal media statunitense «Inside Climate News». Veelenturf è diventata famosa quando ha ottenuto diritti specifici per una specie di tartaruga marina a Panama. Rosa Vásquez Espinoza durante un workshop in una comunità Asháninka. Espinoza, premiata dall’UNESCO per il suo impegno, con l’aiuto di abitanti indigeni, ricercatori e funzionari governativi locali ha mappato in una spedizione dove si trovano le api minacciate e cosa si può fare per preservarle. Le popolazioni si sono fortemente ridotte, ha dichiarato a «Inside Climate News». Mentre prima bastava mezz’ora per trovare un alveare, oggi a volte non se ne trova nemmeno uno in un’intera giornata. LE SPECIE DI API AUTOCTONE SPESSO SOCCOMBONO ALLE MISURE DI PROTEZIONE In un workshop, rappresentanti del governo, ricercatori e indigeni hanno discusso misure pratiche per scongiurare le minacce alle api selvatiche, promuovere la biodiversità e preservare le conoscenze indigene. Ad esempio, le colonie di api possono essere insediate in modo mirato in aree disboscate per ripristinare la biodiversità. Espinoza e i suoi colleghi promuovono l’allevamento di api senza pungiglione come fonte di reddito in una zona prevalentemente dipendente dall’agricoltura di sussistenza e come misura di protezione. Donne come l’apicoltrice Asháninka Micaela Huaman Fernandez insegnano ad altri come allevare api senza pungiglione e come estrarre il miele in modo delicato. Huaman vende il miele come ingrediente di prodotti medicinali tradizionali. Il progetto è esemplare di un movimento internazionale in crescita che attribuisce diritti giuridici alla natura. Gli attivisti criticano il fatto che la protezione delle api spesso riguarda solo la loro funzione di impollinazione o esclusivamente l’ape mellifera Apis mellifera. Le api autoctone, il loro diritto all’esistenza e il loro ruolo nella società e nell’ecosistema vengono spesso trascurati. Gli attivisti vorrebbero che la legge sulla protezione delle api senza pungiglione fosse applicata in tutto il Perù. Le possibilità che ciò avvenga non sono male: in questo Paese sudamericano, il fiume Marañón e il famoso lago Titicaca sono già riconosciuti come soggetti giuridici. -------------------------------------------------------------------------------- Traduzione dal tedesco di Thomas Schmid con l’ausilio di traduttore automatico. INFOsperber
L’India sconosciuta, incontro a Castronno (Varese)
Lunedì 10 novembre 2025, ore 21 Materia Spazio Libero, Via Confalonieri 5, Castronno (Varese) Un viaggio a due voci dentro un’India che nessuna agenzia di viaggio oserà mai proporvi e che anche per molti indiani resta abbastanza off limits. E’ la regione del Jharkhand che ci verrà raccontata attraverso le esperienze della giovane dottoranda Morgana Capasso e della giornalista Daniela Bezzi, che di questo ‘cuore nero dell’India’ si è a lungo occupata. Che cosa renda questa regione così poco battuta e ancor meno ‘attrattiva’ in termini turistici è presto detto: il 41% delle risorse minerarie dell’intero subcontinente indiano (in particolare ferro e carbone) giace nel sottosuolo di queste foreste antichissime, che per l’appunto danno il nome alla regione. Jharkhand significa infatti ‘terra di foreste’, abitate da tempo immemorabile da popolazioni adivasi (ovvero indigene), custodi di tradizioni, devozioni, saperi ancestrali di mirabile saggezza e bellezza. Basti pensare alle decorazioni murarie che in due periodi particolari dell’anno si rinnovano sulle facciate delle umili case di paglia e fango dei villaggi: un campionario di motivi e simboli, in evidente comunione con la natura circostante, che trasfigurano il paesaggio in uno straordinario teatro d’arte. Ma anche per questi villaggi la modernità avanza a grandi passi e soprattutto impattante è l’avanzata dell’estrattivismo che sempre più rapidamente sta mangiando intere fette di territorio con immense miniere a cielo aperto. Una forma di colonialismo interno, come infatti lo definiscono i movimenti ambientalisti indiani da anni attivi sul terreno, che nel concreto si traduce in continui espropri di terre, migrazioni forzate e durissima repressione per chi osa opporsi. E un modello economico che considera la terra esclusivamente come una risorsa da depredare, fa notare Morgana Capasso, che precisamente su questa dimensione del problema ha impostato il suo dottorato di ricerca, dopo la tesi magistrale non a caso intitolata Jal, Jangal, Jamin (ovvero acqua, foreste e terra), considerati gli elementi principali per la numerosa popolazione adivasi.   “Un modello che deve molto al sistema fondiario britannico, fondato sull’idea di massimizzazione del profitto e di messa a valore dei terreni. Concetti totalmente estranei alle comunità locali, e alla loro ben diversa concezione del rapporto con la natura, che si basa su criteri di cura, reciprocità e continuo dialogo con l’ambiente” aggiunge Morgana.     Redazione Varese
Native American Heritage Month 2025: “Rompere il silenzio mediatico: voci, libri, radio”
San Benedetto del Tronto, 5 novembre 2025 — Novembre, negli Stati Uniti, è il Native American Heritage Month: uno spazio pubblico dedicato alla storia, alla letteratura e ai contributi dei Popoli Nativi. Per la prima volta dal 1990, nel 2025 la Casa Bianca non ha proclamato il Native American Heritage Month: un cambio di cornice che merita attenzione pubblica. Questo comunicato è diffuso da Mauna Kea Edizioni, casa editrice indipendente con direzione editoriale di Raffaella Milandri, perché da anni lavoriamo su questi temi con un catalogo dedicato e un impegno costante a decolonizzare lo sguardo. In un anno in cui l’Heritage Month non è stato proclamato dalla Casa Bianca, chiediamo esplicitamente l’attenzione dei media italiani: non solo per dare voce al nostro lavoro, ma per aprire una conversazione pubblica sul silenziamento della letteratura nativa, sulla sua presenza nei nostri palinsesti e nelle nostre pagine culturali, e su come — anche qui, a casa — si possano costruire spazi di ascolto, racconto e relazione autentica con le comunità indigene. Premessa — un cambio di cornice istituzionale Per la prima volta dal 1990, nel 2025 la Casa Bianca non ha emesso una Presidential Proclamation per il Native American Heritage Month. Al suo posto, il 4 novembre 2025 è stato pubblicato un Presidential Message (una nota testuale nella sezione Briefings & Statements, non numerata e non inviata al Federal Register, a differenza delle proclamazioni formali). Cosa contiene il Presidential Message   Il Presidential Message del 4 novembre 2025 si apre in modo cerimoniale: “In questo National Native American Heritage Month, celebriamo i contributi duraturi dei Nativi Americani alla grandezza della nostra Nazione”. Subito dopo richiama i principi fondativi — libertà, eguaglianza, rule of law — e li aggancia all’orizzonte di America 250, il percorso che porta al 250° dell’Indipendenza nel 2026. Poi entra nel merito politico: rivendica l’impegno ad avanzare il pieno riconoscimento federale della Lumbee Tribe (richiamando il memorandum del 23 gennaio 2025 agli Interni) e spinge sull’idea di “educational freedom” per gli studenti nativi, ribadendo che abbiano diritto alle scuole del BIE (l’agenzia federale per l’istruzione nelle comunità native) e possano usare fondi pubblici per scegliere anche scuole private, religiose o ‘charter’ (pubbliche ma a gestione privata. La differenza chiave, però, è formale: non è una proclamazione. Non è un atto firmato e numerato, non finisce nel Federal Register; è un messaggio pubblicato sul sito della Casa Bianca. In altre parole, non “proclama” ufficialmente novembre, ma ne commenta il senso in termini politico-cerimoniali. Il tutto arriva in un anno in cui la cornice istituzionale si è già ritratta: a fine gennaio la DIA ha messo in pausa le “special observances” interne. Tradotto: nel 2025 non c’è il proclama, c’è un messaggio che celebra in generale, sottolinea Lumbee e scuola, ma non ha il peso formale degli anni 1990–2024. Ed è esattamente qui che si inserisce il nostro invito: se l’istituzione arretra, alziamo noi il volume dal basso. In questo contesto, Mauna Kea Edizioni ha voce in capitolo, contando in pochi anni circa 30 titoli dedicati alle culture indigene nordamericane, con autori come Lance Henson, Jim Yellowhawk, Francesco Spagna, Raffaella Milandri, e le prime edizioni italiane di Luther Standing Bear, Mourning Dove, Zitkala-Ša e altri fondamentali autori nativi americani pressoché sconosciuti in Italia e ignorati dai media. È da poco uscito il volume di Nativi Americani. Guida a miti, leggende e preghiere (Mauna Kea Edizioni), un volume rigoroso e accessibile che intreccia fonti accademiche e testimonianze orali, offrendo al lettore italiano una mappa chiara per decolonizzare lo sguardo su figure, canti, ritualità e linguaggi. Raffaella Milandri inoltre nella sua trasmissione “Nativi Americani ieri e oggi” su Radio Talpa trasmetterà venerdì 7 novembre una puntata speciale dedicata al Native American Heritage Month: un viaggio tra storia viva (dai Navajo Code Talkers a Ira Hayes), musica contemporanea indigena (da Frank Waln a Supaman fino a The Halluci Nation) e soprattutto pratiche concrete per celebrare — anche quando la cornice istituzionale si fa timida — “qui a casa”, sui media, nelle scuole, nelle biblioteche, nelle radio. “Se l’istituzione arretra, avanzano le relazioni”, dichiara Raffaella Milandri. Il silenziamento mediatico: un tema editoriale necessario Il nodo del silenziamento mediatico della cultura, storia e letteratura nativa è un canone ancora eurocentrico, con scarsa attenzione ai protocolli culturali e ai diritti dei Nativi.   “Noi celebriamo qui in Italia”: 5 gesti concreti   1. Adotta una parola: sui media, una parola al giorno sui Nativi: il nome di un popolo o tribù, un saluto in lingua del territorio come Mitakuye Oyasin che in Lakota significa “Siamo tutti connessi/parenti”. 2. La vetrina che orienta: in programmi di libri, in biblioteca e libreria, un percorso che intrecci storie orali, poesia contemporanea, trattati e graphic novel di autori nativi. 3. Apri il microfono: radio e podcast con interventi brevi sui Nativi. 4. Porta la storia sui giornali: racconta i trattati come accordi tra Nazioni; cita una poesia o un testo, ad esempio, di John Trudell. 5. Sostieni il vivente: supporta progetti per le lingue indigene (corsi, “language nests”), archivi orali, editoria: condividi, dona, partecipa. “Non servono palchi solenni: servono ascolto, relazione e scelte quotidiane.” National American Indian Heritage Month: storia, significato e il caso 2025 Che cos’è Il National American Indian Heritage Month (spesso chiamato Native American Heritage Month) è l’osservanza nazionale con cui, ogni novembre, negli Stati Uniti si riconoscono storia, culture, lingue e contributi dei popoli nativi d’America e dell’Alaska. Come mese nazionale nasce nel 1990, quando il Congresso approva una risoluzione congiunta e il presidente George H. W. Bush proclama per la prima volta novembre come “National American Indian Heritage Month”. Radici storiche (1916–1975) Le origini sono più antiche del 1990. New York, nel 1916, fu il primo Stato a istituire un’“American Indian Day” (secondo sabato di maggio), mentre altri Stati seguirono negli anni successivi con proprie date. Queste iniziative derivavano da campagne avviate nel primo Novecento da leader nativi come Arthur C. Parker (Seneca) e Red Fox James (Blackfeet). Dalla settimana al mese (1976–1990) Durante il bicentenario USA, il Congresso autorizza il Presidente Ford a proclamare la “Native American Awareness Week” (10–16 ottobre 1976). La cornice settimanale diventa più ricorrente negli anni Ottanta e, con la Pub. L. 99-471 (1986), il Congresso chiede formalmente di designare la settimana 23–30 novembre 1986 come “American Indian Week” (la Casa Bianca di Ronald Reagan emette la proclamazione). Il passaggio definitivo arriva nel 1990, quando H.J. Res. 577 / Pub. L. 101-343 designa il mese di novembre; il 14 novembre 1990 Bush firma la Proclamation 6230 che inaugura l’osservanza mensile. Dopo il 1990: denominazioni e una “giornata” nazionale Dagli anni Novanta in poi, la proclamazione presidenziale è divenuta annuale, con varianti nel nome ufficiale (“National American Indian Heritage Month”, “Native American Heritage Month”, talvolta “American Indian and Alaska Native”). Nel 2009, il Congresso istituisce anche una giornata nazionale: la “Native American Heritage Day” (il venerdì dopo il Thanksgiving), con la Pub. L. 111-33. Cosa si celebra (e perché importa) Il mese è occasione per: * programmi educativi su sovranità, trattati, lingue e patrimoni culturali; * restituzioni storiche su contributi spesso rimossi (es. code talkers navajo e di altre Nazioni, intellettuali e artisti nativi); * iniziative di collaborazione tra enti federali, Stati e governi tribali. A livello federale, il Department of the Interior/BIA coordina risorse e materiali divulgativi, mentre Stati, contee e città emettono proprie proclamazioni e attività. Il 2025: assenza della proclamazione federale, ma proclamazioni statali attive Nel 2025 non è stata pubblicata una proclamazione presidenziale per il Native American Heritage Month 2025 bensì il Presidential Message di cui abbiamo parlato prima; testate specializzate hanno evidenziato l’assenza del proclama di quest’anno, mentre il Presidente ha emesso altri proclami (ad es. Columbus Day 2025). In parallelo, diversi governatori hanno comunque proclamato novembre 2025 come mese del patrimonio nativo (es. Michigan). Cornice politico-istituzionale Nel 2025 il tema è divenuto più sensibile anche perché un memorandum della Defense Intelligence Agency (28 gennaio 2025) ha sospeso undici ricorrenze (tra cui il National American Indian Heritage Month), e successiva guidance del Pentagono ha limitato l’uso di risorse ufficiali per i cosiddetti “identity months”. Si tratta di direttive interne al DoD, Department of Defense (non leggi nazionali), ma con impatto simbolico e pratico nelle Forze Armate: le strutture militari non possono utilizzare risorse ufficiali — cioè tempo di servizio, fondi, materiali, canali comunicativi — per i “cultural/identity months”, i mesi identitari. Ricordiamo anche che a  fine febbraio 2025 è partita una sorta di “digital content refresh”: una pulizia dei siti e dei social ufficiali per archiviare o rimuovere contenuti considerati DEI — Diversity, Equity, Inclusion, cioè iniziative pensate per valorizzare diversità, equità e inclusione. Fonti chiave * U.S. Senate – Art & History: timeline storica dell’osservanza. (senate.gov) * Congress.gov: Pub. L. 99-471 (1986); Pub. L. 111-33 (2009). (Congress.gov) * The American Presidency Project: Proclamation 6230 (1990); Proclamation 10853 (2024). (presidency.ucsb.edu) * BIA / DOI: pagina istituzionale NNAHM con cronologia e risorse. (bia.gov) * Esempio 2025: Proclamazione del Michigan (1 novembre 2025). (michigan.gov) * apnews.com * them.us * washingtonpost.com   Comunicato stampa di Mauna Kea Edizioni – Gruppo Editoriale Mauna Tel   +390735757457 Via Nazario Sauro 50 63074 San Benedetto del Tronto (AP) Redazione Italia
Nelle foreste del mondo vivono e resistono almeno 196 popoli o gruppi indigeni incontattati
  Il Rapporto “Popoli indigeni incontattati: frontiere di resistenza” di Survival International (https://www.survival.it/), un’Organizzazione che  lotta per i diritti dei popoli indigeni incontattati dal 1969, collaborando strettamente con le comunità indigene e conducendo campagne internazionali per i diritti e l’autodeterminazione di tutti i popoli incontattati, ovunque si trovino nel mondo, certifica che esistono prove attendibili dell’esistenza nel mondo di almeno 196 popoli o gruppi indigeni incontattati, ovvero popoli indigeni che evitano il contatto con altri, e che non hanno relazioni stabili con essi, pur essendo consapevoli del mondo esterno. Secondo la definizione delle Nazioni Unite, sono “popoli indigeni, o loro sottogruppi, che non mantengono contatti regolari con la popolazione maggioritaria e tendono a evitare qualsiasi tipo di contatto con gli esterni”. Rimanere incontattati è una scelta attiva e continua, presa in risposta alle circostanze. “Nel 2000, si legge nel Rapporto, avevamo stimato che ci fossero almeno 70 popoli incontattati nel mondo. Abbiamo continuato a rivedere al rialzo questo numero fino a raggiungere la stima attuale di 196: il calcolo più aggiornato e dettagliato del numero di popoli incontattati esistenti al mondo”. La stragrande maggioranza, oltre il 95%, di questi 196 popoli incontattati vive in Amazzonia, in Bolivia, Brasile, Colombia, Ecuador, Perù e Venezuela. Quasi due terzi si trovano in Brasile. Ma vi sono popoli incontattati anche nella foresta secca del Chaco in Bolivia e Paraguay, nelle isole Andamane e Nicobare dell’India, in Indonesia e in Papua Occidentale. Oltre a questi 196 popoli, i ricercatori di Survival International hanno raccolto informazioni sulla potenziale esistenza di altri popoli e gruppi incontattati in Suriname e nella Guyana francese per quel che concerne il Sud America, e di altri popoli in Asia, tra cui in Malesia e Tailandia. Survival ha inoltre ricevuto molte segnalazioni sull’esistenza di comunità indigene senza contatti permanenti con l’esterno in alcune aree del Papua Nuova Guinea. L’Amazzonia brasiliana ospita 124 popoli e gruppi indigeni incontattati che abitano una vasta area di foresta pluviale. Insieme ai loro immediati vicini indigeni, con cui molti condividono il territorio, 88 di questi gruppi incontattati vivono e si prendono cura di 75 milioni di ettari di foresta riconosciuti (in varia misura) come terra indigena. La più alta concentrazione di popoli incontattati al mondo si trova invece nell’area Yavari-Tapiche, al confine tra Brasile e Perù; comprende la Valle Javari sul lato brasiliano, e le confinanti riserve indigene e parchi nazionali sul lato peruviano. In questa area di 162 km² vivono circa 26 popoli e gruppi incontattati. Attualmente esistono prove attendibili sull’esistenza di almeno 28 popoli incontattati in Perù, 18 in Colombia, 13 in Bolivia, 4 in Venezuela, 3 in Ecuador e uno in Paraguay. In quanto popoli cacciatori-raccoglitori nomadi, molti popoli incontattati del Sud America si spostano travalicando i confini nazionali; è il caso per esempio dei Mashco Piro, dei Matis o dei Matsés che si muovono tra Perù e Brasile, dei Tagaeri e dei Taromenane tra Ecuador e Perù, e degli Ayoreo tra Bolivia e Paraguay. Da quel che si sa, gli Ayoreo incontattati sono gli unici indigeni incontattati del Sud America a vivere al di fuori della foresta amazzonica, nel Chaco paraguaiano e boliviano. Le invasioni territoriali e le violazioni dei diritti che i popoli incontattati oggi subiscono sono parte di un processo ininterrotto, spesso secolare, di colonizzazione e tentata colonizzazione che in passato potrebbe averli messi in contatto con raccoglitori di gomma, taglialegna, prospettori petroliferi, allevatori di bestiame, missionari, forze militari e altri accaparratori di terre. “Nelle Americhe, si sottolinea nel Rapporto, i popoli indigeni – sia contattati sia incontattati – sono sopravvissuti a secoli di brutale colonizzazione europea: dall’invasione originaria del continente fino all’attuale ‘apertura’ dell’Amazzonia. Si stima che il 90% della popolazione indigena delle Americhe sia stata sterminata nei circa 100 anni che seguirono l’invasione europea. In Amazzonia – dove oggi vive il 95% di tutti i popoli e gruppi incontattati – alcuni si difesero dall’impatto iniziale dell’invasione europea e cercarono di aumentare le loro possibilità di sopravvivenza evitando il contatto: rifugiandosi nelle profondità della foresta, risalendo alle sorgenti dei fiumi amazzonici o adottando uno stile di vita nomade, più adatto a sfuggire agli invasori”. La lotta per l’autonomia e la sopravvivenza è comune a tutti i popoli incontattati. Le vere minacce per il futuro dei popoli incontattati sono la violenza genocida, l’invasione delle loro terre e il furto delle loro risorse naturali, nonché i diffusi atteggiamenti razzisti. Pur essendo incredibilmente resilienti, hanno bisogno che noi sosteniamo la loro lotta, il diritto alla loro terra e il diritto di decidere se – e in che misura – entrare in contatto con altri. Rispettare questi diritti è nostra responsabilità. La scelta, invece, spetta soltanto a loro. “Chi prevedeva che non ci sarebbero più stati popoli incontattati nel XXI secolo, o affermava che la loro sopravvivenza fosse “impraticabile”, è già stato pienamente smentito, si legge nel Rapporto. Anche se non partecipano alle tavole rotonde con i governi, non si rivolgono alle Nazioni Unite né tengono conferenze stampa per i media internazionali, i popoli incontattati sono in prima linea nella lotta per la loro sopravvivenza e comunicano chiaramente di voler rimanere incontattati e che gli altri si tengano lontani dai loro territori”. Qui per approfondire: https://www.popoliincontattati.org/.   Giovanni Caprio
La rinascita della mitologia africana passa dai social
Dalla cosmologia del Bakongo, alle pratiche divinatorie dei Nandi, due giovani artisti afrodiscendenti riportano alla luce la mitologia africana condividendola attraverso i social e un podcast di successo. Un patrimonio dimenticato torna ad avere voce. La mitologia africana, un patrimonio culturale tanto dimenticato quanto prezioso, può essere raccontata sui social? Se lo sono chiesti due giovani artisti e architetti di origine africana che oggi vivono nel Regno Unito, la ghanese Adwoa Botchey e il nigeriano Solomon Adebiyi. Storie, miti affascinanti, divinità, cosmologie e figure mitologiche africane – sottolineano i due artisti in un approfondimento sul media Okay Africa – meritano di essere conosciuti e raccontati anche per far fronte a un sostanziale vuoto nei media occidentali e nelle scuole circa questo vastissimo patrimonio storico culturale. Il primo passo per i due artisti è stato quello di studiare e approfondire loro stessi quanto possibile il vasto panorama di miti, storie e approfondimenti in merito, indagando tradizioni culturali vastissime quanto lo è il continente africano, dalla cosmologia del popolo Bakongo nella Repubblica Democratica del Congo alle pratiche divinatorie dei Nandi in Kenya, solo per citarne un paio. Il mezzo comunicativo dei social media prima e del podcast in un secondo momento è sembrata la soluzione più immediata ed efficace per raggiungere un vasto pubblico e rendere accessibile a tutti informazioni e approfondimenti così preziosi. Condividendo sui social dipinti, video attraverso la pagina social Adeche Atelier, Botchey e Adebiyi hanno raggiunto mezzo milione di follower tra TikTok, YouTube e Instagram. Per approfondire ancora di più gli argomenti, i due artisti hanno lanciato nel 2020 il podcast “Afro Mythos”, una piattaforma che ospita esperti e divulgatori che fanno luce su storie poco conosciute sulla mitologia africana. Nel 2025 il progetto si è evoluto con l’apertura del loro canale YouTube con una trasmissione a puntate dedicata ai temi di spiritualità e mitologia, intitolata: “African Spirituality, Mythology and Religion”. Africa Rivista