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Il Consiglio Comunale di Mamoiada approva una mozione per il riconoscimento dello Stato di Palestina
Il Consiglio Comunale di Mamoiada (NU) ha approvato ieri, 30 luglio 2025, una mozione per il riconoscimento dello Stato di Palestina e di solidarietà nei confronti di Francesca Albanese. Mozioni simili sono state approvate o presentate anche in altri comuni della Sardegna. Dopo l’approvazione della mozione, il sindaco di Mamoiada Luciano Barone ha appeso la bandiera della Palestina, donata dalla consigliera della minoranza Anna Mannu, sulla facciata del Comune. Il testo della Mozione COMUNE DI MAMOIADA  – IL CONSIGLIO COMUNALE  OGGETTO: riconoscimento dello stato di Palestina da parte dello Stato e delle istituzioni internazionali e solidarietà alla nostra connazionale e Relatrice ONU Francesca Albanese.  Premesso che * Il riconoscimento dello Stato d’Israele da parte dell’ONU (1949) e dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (1988), gli Accordi di Oslo (1993-95) sottoscritti dalle parti ed il nutrito pacchetto di risoluzioni ONU costituiscono il quadro di riferimento giuridico necessario per dar corso al riconoscimento dello Stato di Palestina; * lo Stato di Palestina è stato riconosciuto dalla risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazione Unite del 29 novembre 2012 come “Stato osservatore permanente non membro” presso l’organizzazione; * il Parlamento europeo ha riconosciuto in linea di principio lo Stato di Palestina con la risoluzione 2014/2964 (RSP) approvata in data 17/12/2014; * il 10 aprile 2024 l’Assemblea Generale dell’ONU ha adottato la risoluzione intitolata “Ammissione di nuovi membri alle Nazioni Unite” (documento A/ES-10/L.30/Rev.1) con 143 voti favorevoli, 9 contrari e 25 astensioni. La risoluzione stabilisce che lo Stato di Palestina è qualificato per l’adesione alle Nazioni Unite in conformità con l’articolo 4 della Carta delle Nazioni Unite e dovrebbe, pertanto, essere ammesso a far parte dell’Organizzazione come membro a tutti gli effetti; * il 18 aprile 2024 la proposta di risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU S/2024/312, necessaria per l’effettiva adesione della Palestina come stato membro, è stata accolta da 12 dei 15 paesi votanti, ma bloccata dall’unico voto contrario degli Stati Uniti; Considerato che * alla fine di maggio 2024 Spagna, Norvegia, Slovenia e Irlanda si sono unite al gruppo di Stati membri dell’ONU che riconoscono formalmente lo Stato di Palestina; * sono ormai 146 su 193 Stati membri delle Nazioni Unite, oltre il 75% degli Stati Membri, che hanno riconosciuto formalmente lo Stato di Palestina, entro i confini antecedenti la guerra del 1967 e con Gerusalemme capitale condivisa, quale passo fondamentale per una equa soluzione politica del conflitto che porti ad una pace duratura; Copia informatica per consultazione; * lo Stato di Palestina è attualmente membro della Lega araba, dell’Organizzazione della cooperazione islamica, del G77, del Comitato Olimpico Internazionale, dell’UNESCO e di varie altre organizzazioni internazionali; * il riconoscimento internazionale dello Stato di Palestina è un passo fondamentale per equiparare la sua condizione sul piano politico a quella di altri Stati, riconoscere le aspirazioni legittime ad avere uno Stato da parte dei palestinesi e ribadire le tutele previste dal Diritto Internazionale; * risulta ormai evidente quanto sia indispensabile che le Nazioni Unite e l’Unione Europea non si fermino alle dichiarazioni di condanna ed al richiamo alle parti di fermare la violenza ma che prendano posizioni vincolanti per eliminare le cause che provocano continui bombardamenti e morti di civili fra Israele e Palestina. La mediazione degli Enti Internazionali deve avere il fine dell’immediato cessate il fuoco, di far terminare l’occupazione militare israeliana e della colonizzazione dei Territori Palestinesi Occupati ed il rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale in tutto il territorio proteggendo bambini, civili, ospedali e le zone sotto sorveglianza UN come spesso disatteso in questi ultimi mesi da un’escalation militare che deve essere fermata. Ricordato che * la politica estera italiana fin dagli anni ’70 è sempre stata trasversalmente impegnata per la pace in Medio Oriente e per il riconoscimento dei diritti legittimi del popolo palestinese; * su iniziativa italiana l’Europa, con la Dichiarazione di Venezia del 1980, riconobbe il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese; * nel 2012 all’Assemblea delle Nazioni Unite l’Italia votò a favore dell’ammissione della Palestina quale Stato osservatore all’ONU; * nel dicembre 2014 il Parlamento italiano ha approvato una mozione che impegnava il governo a “sostenere l’obiettivo della costituzione di uno Stato palestinese” e a promuovere il riconoscimento della Palestina quale stato democratico e sovrano entro i confini del 1967, con Gerusalemme capitale condivisa”, sostenendo e promuovendo i negoziati diretti fra le parti; * nelle comunicazioni al Senato della Presidente del Consiglio in data 25 ottobre 2023 si sosteneva che “In tutti i contesti, e con tutti gli interlocutori, ho sottolineato l’importanza di contribuire alla de-escalation del conflitto e riprendere quanto prima un’iniziativa politica per la regione, non solo per risolvere l’attuale crisi ma per arrivare a una soluzione strutturale sulla base della prospettiva “due popoli, due Stati”; * tale posizione è stata ribadita del ministro degli Esteri italiano Tajani in occasione del suo incontro con Netanyahu; * la prospettiva “due popoli, due Stati” non può essere raggiunta senza il previo riconoscimento dello Stato di Palestina, laddove oggi l’unico Stato riconosciuto dal nostro Paese è lo Stato di Israele; Visto che * in occasione della 59a sessione del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, la Relatrice Speciale sulla situazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati dal 1967, Francesca Albanese, ha presentato il suo ultimo Rapporto “From economy of occupation to economy of genocide” (datato 30 giugno 2025); * il documento analizza l’evoluzione dell’occupazione israeliana in Palestina come progetto coloniale, alimentato e sostenuto da un ampio apparato economico-industriale che, secondo la Relatrice Speciale, ha raggiunto un nuovo stadio: quello dell’”economia del genocidio”. “Mentre i leader politici e i governi si sottraggono ai loro obblighi, troppe entità aziendali hanno tratto profitto dall’economia israeliana dell’occupazione illegale, dell’apartheid e ora del genocidio”, si legge nel Rapporto. * settori chiave come l’industria militare, il settore tecnologico, il sistema finanziario e quello accademico sono profondamente integrati nell’infrastruttura dell’occupazione. In particolare, il Rapporto documenta come imprese israeliane e multinazionali (tra cui Elbit Systems, Lockheed Martin, Google, Microsoft e Amazon) abbiano fornito strumenti, tecnologie e supporto logistico che hanno alimentato il massiccio utilizzo della forza contro la popolazione civile palestinese. Queste collaborazioni includono forniture di armamenti, sistemi di sorveglianza biometrica, analisi predittive tramite intelligenza artificiale e servizi cloud critici per le operazioni militari. Dato atto che sulla base del rapporto sopra citato la Relatrice ONU Francesca Albanese è stata oggetto di un vergognoso e feroce attacco, sia politico che mediatico, dopo che gli Stati Uniti hanno annunciato sanzioni pesanti contro la sua persona; Preso atto che sarebbe la prima volta nella storia dell’occidente di applicazione di sanzioni nei confronti di una persona fisica, autorevole rappresentante delle Nazioni Unite che ha avuto il coraggio di mettere a “nudo”, in un report dettagliato, tutte le complicità delle aziende occidentali con il genocidio in corso in Palestina; Necessario dare un segnale forte di solidarietà e sostegno ad una nostra connazionale, eccellenza del diritto internazionale, che ha dimostrato estremo coraggio nel denunciare non solo i crimini di Israele contro la popolazione inerme di Gaza e dei territori, ma anche le complicità politiche, economiche e commerciali a sostegno dell’occupazione israeliana; IL CONSIGLIO COMUNALE DI MAMOIADA * esprime, con un atto forte e ufficiale, la vicinanza della comunità mamoiadina alla Relatrice ONU Francesca Albanese e il profondo orgoglio per il suo encomiabile operato e stigmatizza gli attacchi politici e mediatici ricevuti in relazione al report “From economy of occupation to economy of genocide” (datato 30 giugno 2025); Chiede al governo Italiano * di riconoscere a tutti gli effetti lo Stato di Palestina come entità sovrana, nei confini precedenti all’occupazione del 1967 e con Gerusalemme capitale condivisa; * ad agire in sede ONU per un immediato riconoscimento dello Stato di Palestina come membro a pieno titolo delle Nazioni Unite, per permettere alla Palestina e a Israele di negoziare direttamente in condizioni di pari autorevolezza, legittimità e piena sovranità; * ad impiegare tutti gli strumenti politici, diplomatici e di Diritto Internazionale per fermare la colonizzazione e l’annessione dei Territori Occupati Palestinesi; * di esprimere la vicinanza dello Stato Italiano alla nostra connazionale e Relatrice ONU Francesca Albanese.  IMPEGNA IL SINDACO 1. a farsi interprete di tali istanze e ad attivarsi verso gli altri Sindaci ed Amministrazioni della Regione Sardegna per concordare un’azione comune di sensibilizzazione delle rappresentanze politiche parlamentari; 2. ad adoperarsi, affinché l’Amministrazione tutta, unita al Consiglio Comunale e alle altre istituzioni del paese, coltivino e promuovano sul territorio di Mamoiada, ed in particolare presso le giovani generazioni, i più alti valori di pace, democrazia, rispetto dei diritti umani e libertà dei popoli; 3. a dare massima diffusione del presente Ordine del Giorno alla cittadinanza e alle associazioni, e ad inoltrarlo:           a)  al Presidente del Parlamento Europeo           b)  al Presidente della Repubblica Italiana;           c)  al Presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica Italiana;           d)  al Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale della Repubblica italiana           e)  al Presidente del Senato della Repubblica italiana;            f)  al Presidente della Camera dei deputati della Repubblica italiana;           g)  ai Presidenti dei Gruppi Parlamentari;           h)  alla Presidente della Regione Sardegna           i)   alle Sindache, ai Sindaci, ai Presidenti delle Unioni dei Comuni e Comunità Montane nonché ai Commissari delle Province e Città                     metropolitani di Cagliari e Sassari. Redazione Sardigna
2025, Anno Internazionale della Preservazione dei Ghiacciai: salviamo i ghiacciai!
Le Nazioni Unite hanno proclamato il 2025 come Anno Internazionale della Preservazione dei Ghiacciai per evidenziare la loro importanza e garantire che coloro che dipendono da essi, e coloro che sono colpiti dai processi criosferici (1), ricevano i servizi idrologici, meteorologici e climatici necessari. I ghiacciai sono cruciali per la regolazione del clima globale e la fornitura di acqua dolce, essenziale per miliardi di persone. Tuttavia, a causa dei cambiamenti climatici, causati principalmente dalle attività umane a partire dal XIX secolo, queste risorse vitali si stanno rapidamente sciogliendo. La risoluzione invita la comunità internazionale a trovare una soluzione ai conflitti attraverso il dialogo inclusivo e la negoziazione, al fine di garantire il rafforzamento della pace e della fiducia nelle relazioni tra gli stati membri delle Nazioni Unite come valore che promuove lo sviluppo sostenibile, la pace e la sicurezza, e i diritti umani. Contrariamente agli appelli alla comunità internazionale per risolvere i conflitti attraverso il dialogo inclusivo e la negoziazione, il Canada ha deciso di militarizzare l’Artico, citando la guerra in Ucraina come fattore principale. In realtà, gran parte del Circolo Polare Artico si trova in Russia, Canada e Groenlandia. L’anno scorso il governo canadese ha affermato che il NORAD (North American Aerospace Defense Command) e la NATO (North Atlantic Treaty Organization) garantiranno la sovranità canadese sull’Artico. Tuttavia, il NORAD, guidato dagli Stati Uniti e con sede a Colorado Springs, è al potere, mentre la NATO ha sede a Bruxelles. Questa decisione del governo federale conferisce un controllo sproporzionato sull’Artico canadese e minaccia la sovranità degli Inuit e l’equilibrio del già fragile ecosistema artico. La proposta di militarizzazione dell’Artico canadese minaccia di indebolire ulteriormente l’ecosistema già duramente colpito dai cambiamenti climatici e dallo scioglimento dei ghiacci. I drammatici cambiamenti nell’Artico, tra cui l’aumento degli incendi boschivi, il rinverdimento della tundra e l’aumento delle precipitazioni invernali, sono documentati nel “Rapporto sull’Artico 2024” dell’Amministrazione Nazionale Oceanica e Atmosferica degli Stati Uniti. Il rapporto rileva un crescente consenso scientifico sul fatto che lo scioglimento delle calotte glaciali della Groenlandia e dell’Antartide, tra gli altri fattori, potrebbe rallentare importanti correnti oceaniche a entrambi i poli, con conseguenze potenzialmente disastrose per un’Europa settentrionale molto più fredda e un maggiore innalzamento del livello del mare lungo la costa orientale degli Stati Uniti. Purtroppo, il piano dell’amministrazione Trump di smantellare i programmi di ricerca atmosferica della nazione potrebbe riportare le previsioni degli Stati Uniti al medioevo, avvertono gli scienziati specializzati in uragani, meteorologia e oceanografia. > “Non possiamo negoziare con il punto di fusione del ghiaccio, è una delle > conclusioni fondamentali del rapporto dell’International Cryosphere Climate > Initiative, che include scienziati del Gruppo Intergovernativo sui Cambiamenti > Climatici (IPCC) e della rete Global Cryosphere Watch dell’Organizzazione > Meteorologica Mondiale – OMM (World Meteorological Organization – WMO).” Questi nuovi risultati corroborano i recenti rapporti dell’OMM sullo Stato del Clima Globale e sullo Stato delle Risorse Idriche Globali che hanno anch’essi evidenziato l’allarmante scioglimento che sta colpendo la criosfera. Un ghiacciaio è principalmente un grande accumulo di ghiaccio e neve che ha origine sulla terraferma e scorre lentamente per effetto del suo stesso peso. I ghiacciai sono presenti in tutti i continenti. Esistono in molte regioni montuose e intorno ai bordi delle calotte glaciali della Groenlandia e dell’Antartide. Nel mondo ci sono più di 200.000 ghiacciai che coprono un’area di circa 700.000 km2 (RGI, 2023). I ghiacciai sono considerati importanti torri d’acqua, in quanto immagazzinano circa 158.000 km3 di acqua dolce (Farinotti et al., 2019). I ghiacciai sono una fonte di vita e forniscono acqua dolce a persone, animali e piante. L’Okjökull (pronuncia islandese: [ˈɔkˌjœːkʏtl̥], “ghiacciaio di Ok”) era un ghiacciaio nell’Islanda occidentale sulla cima del vulcano a scudo Ok.[2] Ok si trova a nord-est di Reykjavík. Il ghiacciaio è stato dichiarato morto nel 2014 dal glaciologo Oddur Sigurðsson a causa della sua perdita di spessore. La lapide è stata installata il 18 agosto 2019,[5] con un’iscrizione in islandese e inglese da Andri Snær Magnason, intitolata “Una lettera al futuro“. La versione inglese recita:   Ok è il primo ghiacciaio islandese a perdere il suo status di ghiacciaio. Nei prossimi 200 anni si prevede che tutti i nostri ghiacciai seguiranno lo stesso destino. Questo monumento è il riconoscimento del fatto che sappiamo cosa sta accadendo e cosa deve essere fatto. Solo voi sapete se lo abbiamo fatto.   L’impatto I ghiacciai e le calotte glaciali sono fondamentali per il sostentamento degli ecosistemi e dei mezzi di sussistenza umani. Forniscono un essenziale deflusso di acqua derivata dallo scioglimento dei ghiacciai durante le stagioni secche, fornendo supporto per l’acqua potabile, l’agricoltura, l’industria e la produzione di energia pulita, rendendo queste riserve ghiacciati vitali per le risorse idriche globali. I cambiamenti climatici e della criosfera, tuttavia, stanno sconvolgendo il ciclo dell’acqua, alterando la quantità e i tempi di scioglimento dei ghiacciai, causando un effetto a catena sulla disponibilità delle risorse idriche e contribuendo anche all’innalzamento del livello del mare. Con la continua riduzione dei ghiacciai e la diminuzione del manto nevoso, le comunità avranno meno acqua a disposizione, soprattutto nelle regioni con siccità stagionale. Si prevede una maggiore competizione per le risorse idriche, con regioni come la Cina, l’India e le Ande tra le più vulnerabili. I ghiacciai che hanno superato il loro “picco idrico” -lo stadio in cui il deflusso dell’acqua ottenuta dallo scioglimento dei ghiacciai raggiunge il massimo- forniranno gradualmente un contributo sempre minore alle riserve idriche a valle, intensificando le sfide per la sicurezza idrica. Nell’ultimo secolo, pur rappresentando solo lo 0,5% della superficie terrestre globale, i ghiacciai hanno contribuito all’innalzamento del livello del mare in misura maggiore rispetto alle calotte glaciali della Groenlandia e dell’Antartide. Tra il 2000 e il 2023, si stima che i ghiacciai abbiano perso una massa media di circa 273 miliardi di tonnellate all’anno, equivalenti a circa 0,75 mm all’anno di innalzamento globale del livello del mare (The GlaMBIE Team, 2025). Il continuo ritiro dei ghiacciai evidenzia il crescente impatto del riscaldamento globale e accresce la comparsa di nuovi rischi, intensificando quelli esistenti. Ad esempio, lo scioglimento dei ghiacciai sta aumentando il rischio di pericoli come le esondazioni dei laghi glaciali, le valanghe di ghiaccio e le colate detritiche glaciali, che rappresentano un pericolo per le comunità locali e a valle. Tuttavia, le valutazioni del rischio spesso non sono possibili a causa dell’assenza di dati (IPCC, 2019). Un’osservazione più approfondita della criosfera è fondamentale per prevedere efficacemente gli impatti dei pericoli ad essa correlati.   Fonti: https://www.igsoc.org/publications/annals-of-glaciology/2025-international-year-of-glaciers-preservation https://public.wmo.int/resources/campaigns/launch-of-website-international-year-of-glaciers-preservation-2025 (1) Criosfera: La criosfera è un termine generico che indica quelle porzioni della superficie terrestre in cui l’acqua è allo stato solido. Comprende il ghiaccio marino, il ghiaccio dei laghi e dei fiumi, la neve, i ghiacciai, le calotte glaciali, le distese di ghiaccio e il terreno ghiacciato (che comprende il permafrost).   Traduzione dall’inglese di Stella Maris Dante. Revisione di Maria Sartori. Rédaction Montréal
Il Marocco espelle giornalisti e un attivista che sostengono il Sahara occidentale
Le autorità di occupazione marocchine hanno espulso l’8 luglio 2025 due giornalisti e un attivista per i diritti umani che si trovavano nel Sahara Occidentale per osservare e raccontare la situazione del popolo Saharawi; le persone coinvolte lavoravano in coordinamento con Equipe Media. Questo atto – definito illegale – sottolinea la continua repressione marocchina della libertà di stampa e dei difensori dei diritti umani nel territorio occupato. Gli espulsi sono la giornalista asturiana Leonor Suárez, Óscar Allende (direttore del media digitale El Faradio) e Raúl Conde, membro dell’organizzazione Cantabria per il Sahara. I tre sono stati intercettati e trattenuti durante un controllo della polizia a El Aaiún, capitale del Sahara Occidentale occupato. Dopo l’arresto, le autorità marocchine li hanno dichiarati “personae non gratae” (persona non gradita) senza fornire alcuna giustificazione formale. Sono stati quindi costretti a lasciare il territorio con la loro auto e scortati da quattro veicoli della polizia segreta marocchina fino alla città di Agadir, in Marocco. Gli espulsi hanno denunciato che «questa detenzione ed espulsione è la prova delle vessazioni subite non solo dagli attivisti saharawi, ma anche da coloro che cercano di sostenerli». Hanno aggiunto che «queste azioni riflettono il fatto che il Marocco non rispetta i diritti umani più elementari ed è preoccupante che continui a essere un partner preferenziale di Paesi democratici come la Spagna». Le tre persone espulse oggi portano a 330 il numero totale di osservatori e attivisti espulsi dal Sahara occidentale dalle autorità marocchine negli ultimi anni. Traduzione dallo spagnolo di Stella Dante. Revisione di Mariasole Cailotto. Equipe Media
Sahara Occidentale: arriva khaima.net per dare voce agli attivisti
“Khaima”, cioè tenda in lingua araba, vuol dire “luogo del cuore” nella cultura saharawi, simbolo di ciò che accoglie ma anche di resistenza: per questo un gruppo di giornalisti e attivisti ha scelto questa parola per il nuovo portale di approfondimento Khaima.net. Con l’agenzia Dire ne parla uno dei suoi membri e fondatori, Mohamad Dihani, rifugiato saharawi in Italia. “Intendiamo portare la voce del popolo saharawi in Italia” spiega. “L’idea è partita da giornalisti e attivisti che si trovano nelle regioni occupate dal Marocco e coinvolgerà anche attivisti che, come me, vivono all’estero con lo status di rifugiati”. Nel 1976 il popolo saharawi proclamò la nascita di una Repubblica democratica araba in un territorio ricco di fosfati e risorse naturali, a poche ore dalla fine del mandato spagnolo – di eredità coloniale – del territorio collocato tra il sud del Marocco e il nord della Mauritania, che passava sotto il controllo del Marocco. Rabat da allora ne rivendica la piena sovranità. Fino al 1991 si era però combattuta una guerra, che si era conclusa con un cessate il fuoco e una risoluzione delle Nazioni Unite che aveva stabilito la tenuta di un referendum tra le popolazioni locali per scegliere tra l’annessione della regione al Marocco oppure la nascita dello Stato indipendente. Come avverte Dihani, però, “i saharawi ancora aspettano di vedere riconosciuto il proprio diritto all’autodeterminazione”, mentre il cessate il fuoco che aveva retto per tre decenni, “tre anni fa è stato rotto”. Oggi, continua il reporter-attivista, “vediamo che il diritto internazionale viene violato in tutto il mondo e quindi anche nel Sahara occidentale: rileviamo violazioni sistematiche contro gli attivisti, con arresti e aggressioni sono continue”. Khaima.net riporta di quattro attivisti aggrediti dalla polizia marocchina a maggio, citando un comunicato dell’Isiacom, l’Organizzazione saharawi contro l’occupazione marocchina. Parte della popolazione saharawi vive nel sud dell’Algeria, dove fanno base anche i vertici del governo dell’autoproclamata Repubblica democratica araba guidata dal Fronte Polisario. Secondo Dihani, le violenze colpirebbero “anche i rifugiati laggiù”. L’attivista inoltre denuncia che quando questi rifugiati tentano di “tornare nelle parti liberate, vengono bombardati da droni marocchini”. A livello politico, Dihani avverte che la risoluzione Onu del 1991 “viene ancora bloccata alle Nazioni Unite da Francia e Spagna, che sostengono le rivendicazioni del Marocco”. E così, essendo decaduto il cessate il fuoco, “è tornata la guerra” denuncia il giornalista: “Le due parti si colpiscono a vicenda, come accade in tante zone dell’Africa e del Medio Oriente”. Quest’ultima regione secondo il co-fondatore di Khaima.net “sta oscurando mediaticamente tanti conflitti, come quello in Sudan, dato che il mondo è concentrato sul genocidio in corso a Gaza, che invece viene protetto da quei governi che dovrebbero fermarlo e che appoggiano anche il governo che lo sta commettendo”. Dihani sottolinea: “Riteniamo che tutto ciò danneggi la fiducia per i governi democratici e le istituzioni internazionali (come Onu e Ue)”. Il giornalista continua: “Noi africani abbiamo sempre creduto nella democrazia ma oggi vediamo violate tutte le leggi, locali e internazionali, pur di opprimere le voci di chi vorrebbe denunciare”. Secondo Dihani, Israele non sarebbe un pericolo solo per i palestinesi, ma per gli stessi saharawi per via della “collaborazione molto stretta e sorprendente” che si sarebbe instaurata a partire dal 2021 tra Tel Aviv e Rabat, dopo la firma dei cosiddetti Accordi di Abramo. Questa si espliciterebbe, denuncia Dihani, attraverso “la costruzione di basi militari israeliane in Marocco, vendita di armi – tra cui i droni usati anche contro i civili – e programmi di spionaggio” impiegati “contro attivisti saharawi, tramite società israeliane” che avrebbero permesso di “rafforzare l’occupazione”. Relazioni che, sempre stando al giornalista-attivista, “portano molti cittadini africani a riferirsi al Marocco ormai come all’Israele del Nord Africa”. Agenzia DIRE
Riflessioni sul Capodanno Andino
“CIÒ CHE ACCADE NELLA NOTTE DEL SOLSTIZIO D’INVERNO AUSTRALE RIGUARDA IL SIGNIFICATO DELLA MATRICE CULTURALE ANDINO-AMAZZONICA IN CUI TUTTO CIÒ CHE ESISTE NEL ‘PACHA’ (UNIVERSO) HA VITA. SIAMO TUTTI PARTE DI ESSO, SIAMO TUTTI SOGGETTI E TUTTO È IN RELAZIONE CON TUTTO”. La messa in scena dell’Inti Raymi (Festa del Sole) di Cusco si svolge ogni 24 giugno dalla metà degli anni ’40 del secolo scorso. A quanto pare, i promotori del festival hanno combinato la ricorrenza del solstizio d’inverno australe con la festa cattolica di San Giovanni Battista. Lo segnalo perché nel 1621 Ramos Gavilán (1), tra gli altri cronisti, afferma che “Questa festa di Intirayme si celebrava quasi contemporaneamente a quella del Corpus Christi”. Tuttavia, negli ultimi decenni, a Puno e anche in Bolivia, ogni 21 giugno, data del solstizio d’inverno nell’emisfero sud, è diventato consuetudine celebrare il “Capodanno Andino”. Esaminiamo la sua coerenza ontologica per determinare se questo nuovo significato gli corrisponde o se si tratta di una folclorizzazione del rituale. Il tempo nel senso andino della vita è ciclico, come sottolineato da diversi studiosi; Estermann (2006), nel suo lavoro sulla “Filosofia andina”, si riferisce ad esso come a un presente permanente perché avviene in un “tempo-spazio” espresso con un unico termine “Pacha”. Nella lingua, sia quechua che aymara, la semplificazione di “futuro” è espressa anche come “presente progressivo” e si posiziona grammaticalmente dietro i nostri occhi, perché il futuro “non si vede” ed è dal passato, che si posiziona davanti ai nostri occhi, che dobbiamo imparare. Questo orizzonte di senso configura una razionalità diversa da quella del tempo lineare della cultura egemonica (occidentale-moderna). Allo stesso modo, sulla base di questa razionalità andina, molti pensatori ritengono che la cultura andina, come tante altre culture indigene, sia una cultura della vita. La vita, nel caso andino, ha due momenti: uno fertile e l’altro sterile, che per analogia si possono identificare con il ciclo agricolo nella sua stagione estiva (piovosa e rigogliosa) e nella sua stagione invernale (secca e fredda). La morte è solo un intervallo di transito tra questi due momenti. Come si può vedere, la differenziazione tra le due vite, nell’orizzonte di senso andino, è funzionale al loro ciclo produttivo. Un’altra differenza ontologica da considerare è la nostra posizione in quanto soggetto sociale. Nell’orizzonte andino, il soggetto è collettivo. Siamo nella misura in cui facciamo parte o apparteniamo a una comunità, ayllu, villaggio, nazione. La nascita che dà origine a questa appartenenza è il momento in cui si forma la coppia che permetterà la continuità della vita e la sostenibilità del collettivo. La parità (2) è il nucleo di base della relazione e configura i principi etici della reciprocità, della corrispondenza, della complementarietà. La relazione è sacra, è curata religiosamente attraverso questi principi. Per l’antropocentrismo, ontologicamente situato nella cultura dominante (“occidentale moderna”), l’essere, l’individuo, l’io, l’ego, è il nucleo centrale. Pertanto, la nascita di un nuovo individuo è estremamente importante. Diversi pensatori critici hanno dimostrato l’incongruenza di questa configurazione della cultura. La più evidente è che essendo l’essere umano parte di una specie gregaria, la cui caratteristica biologica è che l’individuo da solo non può esistere, il suo orizzonte di senso si riduce all’essere umano come centro dell’esistenza, aggravato dalla modernità, perché il centro è maschile. Questo comporta come conseguenza, per la sopravvivenza della specie, la cosificazione della donna. Vediamo chiaramente che la “nascita” ha significati diversi a seconda del “nostro luogo di enunciazione” e la riflessione ruota attorno alla questione se continuare a considerare il 21 giugno, giorno del solstizio d’inverno, freddo, secco, “sterile”, come il “capodanno andino” perché il “sole sta nascendo”  o se dobbiamo rivendicare il solstizio d’estate, caldo, piovoso e fertile, come ”capodanno andino“. Nella traduzione in quest’ultima data i chiwchis/coros (infanti in quechua/aymara) avendo raggiunto lo stadio di adolescenti maschili o femminili diventano, una volta formata la coppia (chacha/warmi), runa/jaqi (parte del soggetto collettivo: comunità, ayllu, popolo, nazione). Probabilmente, con l’imposizione del cristianesimo, i rituali del solstizio d’estate nel mondo andino (21 dicembre, nel nostro emisfero) sono stati sostituiti dalla “nascita del figlio di Dio” (Pasqua, Natale) e la colonizzazione ha imposto il calendario gregoriano, quello che ci governa oggi. Ho lavorato per diversi anni con le comunità contadine della zona aymara. Uno dei compiti degli awki e degli achachila (autorità naturali) era quello di salire sulla collina verso la mezzanotte del 20 giugno per l’incontro con il jawira (fiume di stelle) che, in quella data, mostra tutto il suo splendore e si possono apprezzare le costellazioni. Durante l’alba del 21, conversando con le stelle, chiedevano ciò che dovevano sapere per la loro annata agricola (se sarebbe stata un’annata precoce o tardiva, piovosa o secca, quando avrebbero dovuto seminare le patate, la quinoa, se ci sarebbero state grandinate e quando, ecc.). Queste rispondevano attraverso il loro linguaggio del colore (rossastro, bluastro), della luminosità (intensa, tremolante, opaca) e del momento della notte o dell’alba. Aspettavano il sorgere del sole perché era l’ultima stella ad apparire ed era loro dovere salutarlo e anche ascoltarlo. Con ogni probabilità – non l’ho percepito in quel momento – il rituale era eseguito dalle autorità prima di salire sulla collina, affinché l’incontro e la conversazione con le stelle onorassero e rafforzassero la loro relazione. Ciò che accade tra la notte del 20 giugno e il primo mattino del 21 sarebbe coerente con il senso della loro matrice culturale (andino-amazzonica) in cui tutto ciò che esiste nel “Pacha” (universo) ha vita. Ne facciamo tutti parte, siamo tutti soggetti e tutto è in relazione con tutto (3).   NOTE: (1) Ramos Gavilán, Alonso. HISTORIA DEL SANTUARIO DE NUESTRA SEÑORA DE COPACABANA. Lima, Perú: Ignacio PRADO PASTOR. Editore, 1988. 618 [147-157] Pp. In: https://www.casadelcorregidor.pe/d-interes/_biblio_Ramos-Gavilan.php (2) Si parla anche di “dualità” perché è l’insieme di due unità necessarie per stabilire una relazione. (3) Pino J. Ana M. e Riquelme M. Ivar R. “Coexistencia en ‘sociedades paralelas’. Una búsqueda para su diálogo con-vivencial”. In: Pluralidades. Revista para el diálogo intercultural. Vol. 4. Puno, Perù, 2015. Pp. 25-55. (https://www.pluralidades.casadelcorregidor.pe/pluralidades_4/Pino-Riquel…) -------------------------------------------------------------------------------- L’autrice:  Ana María Pino Jordán è ingegnere zootecnico dell’ “Universidad Nacional Agraria La Molina” in Perù, con oltre 25 anni di esperienza di lavoro con i contadini. Attualmente è promotrice culturale, intellettuale, accademica ed editorialista. Ha conseguito un diploma in Interculturalismo presso l’ “Instituto Ética y Desarrollo de la Universidad Antonio Ruiz de Montoya”. Membro del “Consiglio di Ricerca del Instituto de Estudios de las Culturas Andinas (IDECA)”. Promotrice della “Biblioteca Casa del Corregidor” e membro del “Gruppo Pluralidades (Puno)”, che pubblica l’omonima rivista. Email: promotora@casadelcorregidor.pe -------------------------------------------------------------------------------- Traduzione dallo spagnolo di Stella Maris Dante. Revisione di Thomas Schmid. SERVINDI
L’oro bianco che divora la vita
> La corsa al litio, chiave per la transizione energetica, sta devastando > ecosistemi unici e violando i diritti delle popolazioni indigene in Cile, > Argentina e Bolivia. Per estrarre una tonnellata di litio sono necessari due > milioni di litri d’acqua, in aree in cui questa risorsa è sia sacra che > scarsa. Il litio viene venduto come energia pulita, ma il vero costo viene > pagato dalle comunità indigene e dalla biodiversità. È tempo di chiedere una > transizione giusta, in cui il futuro non sia costruito su nuove ingiustizie. Nel cuore del cosiddetto “triangolo del litio”, formato da Argentina, Bolivia e Cile, si trova oltre il 60% delle riserve mondiali di questa risorsa, fondamentale per le batterie delle auto elettriche, dei telefoni cellulari e dei sistemi di accumulo dell’energia rinnovabile. Il litio è stato definito l’oro bianco del XXI secolo, una promessa energetica che, lungi dall’essere pulita e giusta, sta portando a una nuova forma di estrattivismo predatorio. Per produrre una sola tonnellata di litio sono necessari due milioni di litri d’acqua. Si tratta di una cifra spropositata in regioni dove l’acqua è già scarsa e dove le alte paludi andine, le saline e i fragili ecosistemi dipendono da un equilibrio idrico estremamente sensibile. Ma ben più drammatico è il prezzo umano: ancora una volta, i popoli indigeni sono le vittime invisibili del progresso altrui. In Cile, le comunità degli Atacameño hanno alzato la voce contro la devastazione delle loro saline ancestrali e la riduzione delle loro fonti di acqua dolce, fondamentali per la vita, l’agricoltura e la loro visione del mondo. In Argentina, i popoli Kolla, Atacama e Likan Antai, tra gli altri, denunciano che i loro territori vengono occupati o venduti senza una consultazione preventiva, libera e informata, violando i diritti sanciti da convenzioni internazionali come la Convenzione 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL). Sotto la pressione delle multinazionali e il discorso della transizione energetica verde, i governi vendono il litio come un futuro rinnovabile. Ma dietro questa facciata, si perpetua il modello coloniale di saccheggio, dove il profitto va lontano e il danno rimane in patria. Le promesse di sviluppo locale si dissolvono in contratti opachi, territori inquinati e corsi d‘acqua secchi. È ironico che una cosiddetta energia “pulita” nasca da una ferita aperta nella terra. La biodiversità delle saline – fenicotteri andini, microrganismi unici, specie endemiche – sta scomparendo. Il silenzio del deserto è rotto da macchinari, strade e trivellazioni, mentre le voci di coloro che si sono presi cura di questi ecosistemi per secoli vengono ignorate o soppresse. A cosa serve una batteria pulita se è costruita sull’ingiustizia? Chi definisce che cosa è progresso? E quante volte ancora i popoli indigeni dovranno pagare il prezzo per il futuro di altri? La transizione energetica non può essere costruita su nuove ingiustizie. Sostituire i combustibili fossili con batterie al litio non è un progresso se si limita a spostarne la vittima: dal pianeta al deserto, dal clima all’acqua, dal petrolio ai popoli indigeni. Le multinazionali, in combutta con i governi nazionali e provinciali, sono sbarcate nel nord dell’Argentina, del Cile e della Bolivia con la promessa di lavoro e sviluppo. Ma in molti casi i posti di lavoro sono precari, i salari irrisori mentre i contratti firmati ignorano completamente le comunità locali. I veri custodi del territorio non partecipano alle decisioni che lo riguardano. La Convenzione 169 dell’OIL, ratificata da questi Paesi, richiede la consultazione preventiva, libera e informata delle popolazioni indigene prima che vengano avviati progetti sulle loro terre. Ma questo obbligo legale viene sistematicamente ignorato. La giustizia, quando interviene, di solito arriva tardi e con timore. PROPOSTE E PERCORSI ALTERNATIVI 1. Consultazione e consenso vincolante: qualsiasi progetto estrattivo deve essere consultato in modo reale e rispettoso con le comunità indigene, garantendo che la loro decisione sia vincolante. Non si tratta di “ informare” le comunità, ma di rispettare la loro autodeterminazione. 2. Controllo comunitario delle risorse: le comunità dovrebbero possedere e gestire le risorse nei loro territori. Invece di essere emarginate, dovrebbero essere al centro del modello produttivo, con benefici diretti e sostenibili. 3. Tecnologie alternative: è urgente investire in batterie senza litio basate sul sodio, sul grafene o su altre alternative meno distruttive. Alcune esistono già, ma le pressioni del mercato ne frenano lo sviluppo. 4. Miniere urbane: il recupero dei metalli dai dispositivi elettronici usati – il cosiddetto “urban mining” – può ridurre significativamente la necessità di sfruttare nuovi territori. 5. Responsabilità internazionale delle imprese: le imprese che estraggono litio nel Sud Globale devono essere soggette a rigorosi norme internazionali in materia di diritti umani e ambiente, sotto il controllo di organismi indipendenti. 6. Corridoi bioculturali protetti: escludere le aree sacre, gli ecosistemi fragili e i territori indigeni da qualsiasi sfruttamento. Trasformarli in corridoi di conservazione con il sostegno internazionale. Nelle comunità Kolla, Atacama, Diaguita e Likan Antai, le nonne insegnano ai bambini a parlare con l’acqua, a prendersi cura della terra come se fosse parte del corpo. Si tratta di popoli che non hanno “risorse”, ma relazioni sacre con il loro ambiente. Vedere il litio come una “risorsa” da estrarre e vendere è una visione estranea, imposta e violenta. Come è già successo per il petrolio, il coltan e l’oro, la corsa al litio rischia di lasciare una scia di distruzione e di oblio. Ma siamo ancora in tempo per evitare che la storia si ripeta. Questo “oro bianco”, che abbaglia le grandi potenze e le multinazionali, non deve continuare a macchiare le mani di chi non è mai stato ascoltato. Non ci può essere transizione ecologica senza giustizia climatica, sociale e culturale. E questa giustizia inizia con l’ascolto, il rispetto e la protezione di coloro che da millenni vivono in armonia con la Terra. Traduzione dallo spagnolo di Stella Maris Dante. Revisione di Thomas Schmid. Pedro Pozas Terrados
Enzo Bianchi in Monferrato: ricordi indimenticabili e promemoria per il presente
Sabato 1° giugno scorso il fondatore della comunità monastica di Bose e dal 2014 Consultore del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani si è recato a Cella Monte per ricevere la cittadinanza onoraria nel comune monferrino. Il sindaco, Maurizio Deevasis, gli ha consegnato l’attestato dopo aver letto le motivazioni del conferimento, che la giunta comunale ha deliberato all’unanimità nella riunione dell’aprile scorso in cui, come ricordato dalla consigliera Viviana Imarisio, è stata approvata anche la proposta, presentata dal gruppo Cella Monte Borgo da Vivere, per l’adesione della municipalità all’intesa promossa da Fondazione Fratelli Tutti e ANCI / Associazione Nazionale Comuni Italiani e che impegna l’amministrazione della cittadina a pianificare e attuare iniziative, attività e interventi insieme agli attori locali, inoltre a nome della municipalità sottoscrivere la Dichiarazione sulla Fraternità Umana redatta da numerosi premi Nobel per la pace e partecipare al World Meeting on Human Fraternity.   Il riconoscimento è stato consegnato a Enzo Bianchi in un luogo emblematico, l’EcoMuseo della Pietra da Cantoni, anche sede del Proverbiarium – museo dei detti e motti monferrini, il cui infernòt è rappresentativo di tutte le numerose caratteristiche cantine che contraddistinguono il Monferrato come un’area compresa nel sito seriale UNESCO Paesaggi vitivinicoli del Piemonte. Il centro infatti è allestito in un edificio monumentale molto suggestivo, anticamente una dimora signorile e dalla seconda metà del XVII secolo la canonica della chiesa parrocchiale, nell’occasione evocativo dello ‘spirito’ e della spiritualità che animano le tradizioni del territorio rurale dove Enzo Bianchi è nato e ha vissuto fino a quando si è trasferito a Torino, per studiare all’università, e poi stabilito nei luoghi dove lo ha portato la sua vocazione religiosa. Enzo Bianchi ha ringraziato i suoi nuovi concittadini per averlo incluso nella loro comunità evidenziando che, diversamente da altri ricevuti, oltre alle proprie opere, “quel che ho fatto”, il loro riconoscimento ne considera la sua esperienza umana e per lui rappresenta una “anamnesi” della propria vita. Proprio mentre il monaco ricordava persone, cose e atmosfera del prprio passato in Monferrato, la campana della chiesa di Cella Monte ha suonato la melodia dell’ode che recita È l’ora che pia la squilla fedel, le note c’invia dell’Ave del Ciel: Ave Maria! È l’ora più bella che suona nel cuor…   RICORDI DELL’INFANZIA IN MONFERRATO Nell’occasione, Enzo Bianchi ha rammentato che per 10 anni ha trascorso le vacanze pasquali ed estive a Cella Monte, dove arrivava “viaggiando in treno e landò” e soggiornava in casa della famiglia di Cecilia Coppo, una donna generosa che, siccome lui era orfano della madre, lo aveva accudito durante l’infanzia e l’adolescenza. Ricordando di esser cresciuto correndo “correndo tra le vigne e scavallando le colline” monferrine, ha precisato di essere nato a Castel Boglione, un borgo rurale del Monferrato astigiano che, per indicare da quante famiglie fosse abitato, ha specificato che era “un paese con 250 focolai”. Con i concittadini monferrini, Enzo Bianchi ha condiviso dei ‘segreti’ di alcune gustose ricette della cucina tipica del loro territorio e della convivialità. In particolare, ha raccontato di aver capito il valore del cibo e della cura dai propri nonni, un panettiere e una cuoca. Inoltre, facendo ritorno in Monferrato, Enzo Bianchi ha ricordato che, sebbene nessuno dei suoi parenti fosse un contadino, quando suo padre, che di mestiere faceva lo stagnino, gli chiese quale regalo avrebbe gradito ricevere per la promozione all’esame scolastico lui, 11enne, senza esitazioni aveva risposto “un orto” e da allora non ha mai smesso di coltivare un pezzo di terra e prendersi cura delle piante vi crescono.   DUE MONFERRINI TESTONI E ANTICONFORMISTI A fare gli onori di casa di Cella Monte era la giornalista monferrina Silvana Mossano, che ha sollecitato il neo-cittadino a pronunciarsi sulle caratteristiche identitarie che lo qualificano come indigeno monferrino. Enzo Bianchi ha risposto di sentirsi monferrino soprattutto per quell’aspetto tipico del temperamento dei monferrini, l’ostinatezza, per cui nel 2018 l’Associazione Astesani lo ha insignito del premio Testa d’Aj, un riconoscimento assegnato “a persone che nella vita hanno dimostrato, con tenacia, passione e un tocco di ironia, di saper andare controcorrente”. “Obbedire alla propria coscienza” con fermezza e perseveranza inoltre lo accumuna a Francesco I, Jorge Mario Bergoglio, nato in Argentina da genitori emigrati dal Monferrato. «Siamo dei testoni», ha detto di sé stesso e del pontefice, con cui Enzo Bianchi si è confrontato in merito a tante questioni, tra cui anche la posizione del monaco anticonformista nel clero e nella chiesa. Entrambi intransigenti, insieme hanno ostinatamente cercato di saldare relazioni fluide tra i cattolici e gli altri cristiani e tra cristiani e non cristiani per abbattere le barriere ideologiche e, superando le divergenze e debellando i fanatismi che fomentano conflitti religiosi, perseguire la conversione dei rispettivi fedeli alla cultura della pace.   LA PACE FRANCESCANA E IL PAPA YANKEE Enzo Bianchi ha riferito che un progetto a cui lui e Francesco I avevano dedicato costante impegno per tanti anni, cioè di concordare con i cristiani di ogni culto la celebrazione della Pasqua insieme, nella stessa data dei rispettivi calendari liturgici, è fallito a causa dei dissidi tra cattolici, ortodossi e maroniti, la cui recente esacerbazione è un effetto collaterale della guerra in Ucraina e dell’assedio di Gaza. Ricordando che per convincere i governanti di ogni nazione a smettere di combattersi a vicenda Francesco I ha agito con determinazione e audacia ammirate dai cattolici a lui fedeli e anche da molti non cattolici e non cristiani e da tanti atei, Enzo Bianchi ha spiegato che in cronache degli eventi e biografie del papa tanto compianto da tutti non è riportato che, invece, pur di dialogare con ogni leader del mondo il pontefice abbia sopportato umiliazioni che mai nessun suo predecesore ha subito o avrebbe tollerato. Però, ha assicurato Enzo Bianchi, sebbene il suo dirompente pontificato per Francesco I si sia concluso amaramente perché lui era afflitto da molte delusioni, soprattutto quella non aver visto la pace che aveva agognato e implorato, sul profondo e indelebile solco da lui tracciato il suo successore si muove senza titubanze: «Leone XIV è un americano, quindi una figura molto ‘forte’ nello scenario politico internazionale. Ha esordito riaffermando le idee francescane che la pace veramente tale sia ‘disarmata’ e venga perseguita in modo ‘disarmante, umile e perseverante’. Poi qualche giorno fa ha pronunciato una frase straordinaria, “Prima di essere credenti, siamo chiamati a essere umani”, che non ho mai sentito proferire da un papa».   L’ORRENDA SEDUZIONE DELLA GUERRA, IN PASSATO E NEL PRESENTE «Terribili. Le carneficine che avvengono sotto i nostri occhi sono terribili – ha osservato Enzo Bianchi – Terribili sono anche i fanatismi che le aizzano e la propaganda dell’industria bellica che la fomenta». Come in molte occasioni precedentemente e poi alla XX edizione del FESTIVAL FILOSOFI SULL’OGLIO a cui ha partecipato il giovedì successivo, 5 giugno, anche in Monferrato Enzo Bianchi ha focalizzato l’attenzione sull’orrenda “seduzione della guerra” che attrae sempre più nazioni. A una domanda della giornalista monferrina in merito ad alcune questioni etiche poste dal processo Eternit, Enzo Bianchi ha risposto accentuando il ruolo di media e opinion-leader nelle vicende che, come quella della morte di tanti lavoratori e cittadini del Monferrato, devono essere raccontate senza strumentalizzarne i risvolti drammatici per fare scalpore perché è necessario che vengano documentate. I cronisti hanno la responsabilità di scrivere la storia mentre si compie, ha osservato Enzo Bianchi, perciò devono descrivere la realtà con onestà, senza mentire e senza mistificare i fatti, e dare voce ai protagonisti degli avvenimenti con rispetto della sofferenza delle persone e, soprattutto della dignità delle vittime di violenze, abusi e ingiustizie.   ESPERIENZE PERSONALI NELLE VICENDE STORICHE Rammentando che gli europei oggi non aborriscono la guerra, che fino a poco tempo fa scongiuravano perché erano memori dell’atrocità delle due guerre mondiali e dei crimini di guerra e contro l’umanità del XX secolo, ha affermato: «La pace è la liberazione da ogni forma di violenza. Bisogna far nascere germogli di pace anche nelle macerie». Dal 1981 fino al 2016, gli anni in cui vi era insediata la congregazione da lui fondata, Enzo Bianchi ha dimorato spesso a Gerusalemme, la città emblematica sia delle avversioni e conflittualità, anche violente, sia della convivenza pacifica tra popoli di differenti origini etniche e religioni, in particolare dei culti ebraici, cristiani e musulmani. Sollecitato da monsignor Francesco Mancinelli, rettore del Santuario al Sacro Monte di Crea, Enzo Bianchi ha ripercorso alcune vicende che hanno scandito in passato la storia e nel presente le dinamiche delle complesse e complicate interazioni tra le chiese cristiane e ortodossa.   * BIOGRAFIA DI ENZO BIANCHI  Maddalena Brunasti
Filippine, proteste contro il progetto di una diga sul fiume Kaliwa
RICHIESTA DI ANNULLAMENTO IMMEDIATO DEL PROGETTO La coalizione Stop Kaliwa denuncia con forza l’approvazione di ulteriori 3,1 miliardi di Pesos filippini per il progetto di una diga sul fiume Kaliwa (30 km a est della capitale Manila, N.d.R), aumentando il suo costo totale a 15,3 miliardi di pesos. Questa decisione, promossa dal Consiglio dell’Autorità nazionale per l’economia e lo sviluppo (NEDA), sotto il presidente Ferdinand Marcos Jr, ignora palesemente le questioni gravi e irrisolte che riguardano il progetto. Il Sistema Idrico e Fognario Metropolitano di Manila ha ripetutamente violato i requisiti essenziali del suo certificato di conformità ambientale. Il progetto continua senza soddisfare le condizioni intese a salvaguardare l’ambiente, le popolazioni indigene e le comunità locali; un tradimento della fiducia pubblica e della tutela ambientale. > “Mi chiedo perché sono stati aumentati i fondi se la Commissione Nazionale per > i Popoli Indigeni ha già violato molte leggi in materia di consulta previa > delle popolazioni locali (FPIC). Non dovrebbe aumentare i fondi, ma fermare la > diga di Kaliwa”, ha affermato Marcelino Tena, un leader tribale. Il presidente > Marcos ha detto che il cambiamento climatico dovrebbe essere protetto, ma ora > è lui ad aumentarlo.” Il processo di consenso libero, preventivo e informato (FPIC), una salvaguardia vitale per i diritti degli indigeni, è stato gravemente violato. Il consenso è stato ottenuto attraverso processi manipolati pieni di irregolarità, ignorando le vere preoccupazioni e l’opposizione delle comunità Dumagat-Remontado. “Contrariamente a quanto dice Marcos, è stata aggiunta un’area dove la terra ancestrale dei nostri nativi Dumagat sarà distrutta”, ha denunciato Ma. Clara Dullas, presidente di K-GAT, un’organizzazione femminile nella Sierra Madre. Nonostante le evidenti violazioni legali ed etiche, non è stato pubblicato alcuno studio ambientale aggiornato che rifletta il grave impatto ecologico e sociale del progetto. Non sono state condotte vere e proprie consultazioni pubbliche. Le comunità locali rimangono disinformate o deliberatamente escluse. Diamo anche l’allarme per l’esborso anomalo della cosiddetta “tassa di disturbo” di 160 milioni di pesos. Il processo manca di trasparenza, scavalca la consultazione delle comunità e alimenta la divisione tra i popoli indigeni, una chiara tattica per indebolire la legittima resistenza. > “Questa mossa del presidente è deludente. Il Sistema Idrico e Fognario > Metropolitano di Manila e la Cina stanno festeggiando, mentre noi stiamo dando > la vita per proteggere la nostra terra e la nostra tribù “, ha affermato Ramcy > Astoveza. “Spero che quest’anno, prima di negoziare con la nostra terra, > parlino prima con noi.” Anche l’irresponsabilità finanziaria del governo è sotto esame. Il progetto è sintomatico di un modello di costi delle dighe gonfiati e di un debito estero insostenibile. > Conrad Vargas di PICOPI cita studi globali: “Ciò che dice lo studio della > Commissione mondiale sulle dighe è corretto. Il costo sta aumentando di quasi > il 200% rispetto all’originale.” Avverte: “Ogni filippino sopporterà l’onere > di pagare questo debito. Mettiamo in discussione la legittimità di queste > decisioni alla Corte Suprema.” Il Presidente Marcos Jr. non si è presentato durante la marcia di Alay Lakad (processione religiosa che si svolge durante la Settimana Santa, N.d.R.)  di 9 giorni nel 2023, dove le comunità indigene e non indigene hanno camminato per la giustizia e hanno chiesto la sua attenzione. Oggi lo esortano di nuovo ad ascoltare le persone che ha promesso di servire. > “Chiediamo al presidente Marcos Jr. di annullare immediatamente il progetto > della diga di Kaliwa, interrompere tutte le attività di costruzione e avviare > un dialogo autentico con le comunità colpite. Le nostre foreste, i fiumi, le > culture e vite non sono in vendita. Chiediamo soluzioni sostenibili e > incentrate sulle comunità per le esigenze idriche di Metro Manila, non > progetti distruttivi che violano i diritti umani e il dominio ancestrale”. Fermiamo subito la diga di Kaliwa! Proteggiamo le nostre foreste, difendiamo i diritti degli indigeni! ——— STOP Kaliwa Dam Network (SKDN) è una coalizione di varie organizzazioni locali e nazionali, istituzioni e gruppi indigeni che si oppongono e si battono attivamente contro la costruzione del controverso New Centennial Water Source-Kaliwa Dam nella catena montuosa della Sierra Madre meridionale nelle Filippine. Traduzione dall’inglese di Filomena Santoro. Revisione di Thomas Schmid. Pressenza Philippines
La febbre del litio: un documentario sulle ombre della transizione energetica in Sudamerica
L’Osservatorio Latinoamericano dei Conflitti Ambientali (OLCA), in collaborazione con il giornale digitale Resumen.cl e con il sostegno di Global Greengrants Fund (GGF), ha presentato un forte reportage audiovisivo “La febbre del litio: le ombre della transizione energetica”. Questo documentario d’inchiesta, girato nel dicembre 2024 e con un’ampia post-produzione completata nell’aprile 2025, approfondisce le complesse dinamiche che riguardano l’estrazione del litio, un minerale cruciale per la promessa di un futuro energetico all’insegna delle fonti rinnovabili. Il documentario, realizzato con la partecipazione dei rappresentanti delle comunità indigene direttamente interessate dall’estrazione del litio, la cui uscita è prevista a luglio, intende indurre a una profonda riflessione per comprendere se la transizione energetica rappresenta una vera soluzione alla crisi climatica o sia piuttosto una nuova forma di sfruttamento della natura. Attraverso un viaggio visivo nella bellezza mozzafiato del deserto cileno, delle sue oasi alle alte zone umide andine fino ai delicati ecosistemi delle saline, il reportage contrappone la ricchezza naturale e culturale alla crescente espansione dell’attività mineraria. Mediante l’uso di immagini satellitari rivelatrici, il documentario mostra come la domanda globale di litio, soprannominato “l’oro bianco” della nuova era, abbia innescato un’intensa “corsa all’estrazione” nel cosiddetto Triangolo del litio, un’area che comprende Cile, Argentina e Bolivia, una zona che ospita circa il 60% delle riserve mondiali di litio. Il reportage esplora i costi ambientali e sociali di questa corsa, esaminando il caso del Cile, primo produttore mondiale di rame e secondo di litio, come esempio dell’impatto ambientale dell’attività di estrazione mineraria. «L’estrazione del litio attraverso lo sfruttamento delle saline, fragili ecosistemi acquatici e sede di una biodiversità unica nel nord del Cile, sta generando un intenso ‘water mining’», spiega il team di registi. Il documentario rivela come circa 2 milioni di litri d’acqua vengano fatti evaporare per produrre una singola tonnellata di litio, un processo che sta consumando la salina di Atacama e portando alla diminuzione dell’acqua e della vegetazione nell’area più arida del pianeta. Inoltre, il documentario dedica particolare attenzione alla salina di Maricunga, situata nel Parco Nazionale Nevado Tres Cruces, territorio ancestrale del popolo nativo Colla, e che sta emergendo come il prossimo ecosistema minacciato dall’espansione dell’estrazione del litio in Cile. Attraverso le testimonianze delle comunità locali e l’analisi di esperti come Eduardo Gudynas, il film mostra come la perdita delle terre, il deterioramento ambientale e la contaminazione delle acque siano alcune delle gravi conseguenze che queste popolazioni devono affrontare. “La febbre del litio: le ombre della transizione energetica” affronta anche il quadro giuridico cileno, regolato da norme emanate durante la dittatura di Pinochet, e il modo in cui aziende come SQM (Sociedad Química y Minera, il più grande produttore di litio al mondo), il cui proprietario ha legami di famiglia con il regime militare, hanno beneficiato dallo sfruttamento di queste risorse. Infine, analizza anche il ruolo delle compagnie internazionali e la crescente importanza geopolitica del controllo delle materie prime per la tecnologia e l’industria militare. Il documentario termina con una riflessione critica sul ruolo del grande capitale nella transizione energetica, evidenziando come, in molti casi, un modello di sfruttamento insostenibile venga perpetuato grazie ad un discorso di sostenibilità: è proprio in questo contesto che si pone la necessità di una trasformazione radicale del modello economico e produttivo, dando priorità alla giustizia sociale e ambientale. Il team del documentario sta attualmente diffondendo il trailer e la locandina del documentario, anticipando la sua uscita nel luglio 2025. “La febbre del litio: le ombre della transizione energetica” dovrebbe generare un dibattito cruciale sul futuro dell’energia e sul costo reale della tanto attesa transizione verde. Traduzione dallo spagnolo di Maria Sartori. Revisione di Mariasole Cailotto. Redacción Chile
Aprire il cammino, un’esperienza in Chiapas
Lunedì 12 maggio alla Casa della Cooperazione, a Palermo, per iniziativa del CISS, del laboratorio Ballarò e della redazione cittadina di Pressenza, si è svolto un incontro con l’autore del libro Ta Spol Be (Aprendo il cammino), l’antropologo messicano Oscar Garcia Gonzales. Il volume, autofinanziato, raccoglie testimonianze, racconti, pagine di diario, poesie e un registro etnografico legati a un progetto di educazione popolare con il popolo Tsotsil in Chiapas tra il 1998 e il 2003. Nel 1992 era stato cancellato dalla Costituzione federale messicana l’articolo 97 che tutelava le proprietà collettive delle terre dei villaggi. Il passaggio successivo fu l’accordo commerciale Nafta che rovinò i contadini. Essi reagirono con il levantamiento, la ribellione iniziata il primo gennaio 1994 e guidata dall’esercito zapatista, cui lo Stato rispose con una “guerra a bassa intensità” e con la strage di Acteal del dicembre ’97, che uccise una cinquantina di persone, fra le quali molte donne e bambini, e provocò l’esodo di migliaia di sfollati rifugiatisi anche nel municipio autonomo di San Pedro Polho. La vicenda indignò l’opinione pubblica mondiale. Si recarono a Polho, tra gli altri, José Saramago, Susan Sontag, Manu Chao. Molti giovani studenti e docenti dell’Università del Mexico decisero di avviare lì un progetto educativo, ma l’istituzione non li appoggiò; anche per questa ragione essi crearono una Università Autonoma Messicana e organizzarono comunque la partenza. L’obiettivo era di insegnare ai bambini a leggere e scrivere in spagnolo. A staffetta i volontari si alternarono per cinque anni, fino a quando gli zapatisti non chiesero a tutti i volontari di lasciare le comunità, per misurarsi con la propria autonomia. Da principio, i giovani maestri sarebbero dovuti rimanere solo sei mesi, ma si resero subito conto che tutta l’iniziativa andava rimodulata, poiché i bambini parlavano solo la lingua Tsotsil: da quella bisogna muovere per insegnar loro a usare la penna, da quella e dal loro vissuto esperienziale. Perciò i docenti si fecero discenti: appresero la lingua e gli usi locali, studiarono le consuetudini i giochi gli arnesi che sarebbero divenuti esempi per le narrazioni quotidiane. La didattica si avvalse di un sistema di letto-scrittura per passare dallo Tsotsil al castigliano, sistema messo a punto da una pedagogista lì sul posto. Si lavorava non per materie e discipline, ma per progetti di ricerca su temi scelti dai bambini. Le famiglie erano coinvolte poiché vedevano l’apprendimento dello spagnolo come uno strumento di autonomia. Ad ascoltare questo racconto tornano in mente le esperienze di Mario Lodi con i figli degli emigrati meridionali a Mirafiori e la maieutica reciproca di Danilo Dolci. C’erano maestri e formatori di maestri di ogni nazionalità, che si riunivano di frequente per discutere e confrontarsi sull’approccio corretto, poiché, come sottolinea Garcia Gonzales, “apprendere una lingua significa apprendere una cultura, che è come un’insalata: più ingredienti ci sono meglio è”. Una delle lingue parlate in Chiapas, ad esempio, ci ricorda un medico italiano e formatore di “promotori di salute” che lì ha vissuto diversi anni, è la lingua Tojolabal, nella quale non esiste complemento oggetto, sostituito da una sorta di complemento di termine (cosa molto simile a quanto accade nel siciliano): l’altro, l’altra non è mai reificato, ridotto a strumento di cui servirsi e impadronirsi; ci si rivolge a lui, a lei, con un gesto di apertura e accoglienza, a riprova di quella orizzontalità che caratterizza la mentalità dei contadini degli Altos, delle montagne, e che permea tutta la politica zapatista. L’educazione, del resto, è uno dei sette principi chiave della rivoluzione zapatista, ma i bimbi coinvolti in questo progetto non erano affatto scolarizzati: o scappavano da tutte le parti, anche dalla finestra, o all’opposto avevano paura di giocare perché a scuola dovevano “stare buoni”. Dunque, si è trattato anche e prima di tutto di costruire relazioni comunicative e affettive sincere e chiare. Nella testimonianza di Garcia Gonzales, i suoi sentimenti dominanti all’inizio erano di paura ed entusiasmo insieme: era un giovane studente di psicologia sociale che si buttava a capofitto in un’avventura non solo umana ma anche politica, e non priva di rischio per la vita; alla fine, invece, dopo diversi anni nella selva, andarsene significò dapprima sbandamento e poi la decisione di diventare antropologo. Adesso è insegnante in un liceo messicano e, soprattutto, portavoce di un popolo che lotta e non si arrende. Come ci rammenta Mimma Grillo, organizzatrice di questo incontro, il clima odierno in Messico è di repressione: ci sono più di centomila desaparesidos e c’è da fronteggiare non solo l’esercito e i paramilitari ma ora anche i narcos, diffusi dappertutto con la complicità dei governi federale e locali. È nata un’associazione di donne, Las buscadoras, donne che vanno in cerca dei parenti scomparsi, un po’ come erano state le Madri di Plaza De Majo in Argentina. Nel frattempo l’autogoverno zapatista sta attuando una riforma dei Comuni che ne eviti la verticalizzazione e la burocratizzazione e ne ripristini la orizzontalità. Garcia Gonzales rimarca come oggi sia difficile in Mexico realizzare autonomia; ma si può lavorare sulla consapevolezza. L’impegno politico deve riguardare l’intero pianeta, che è unico per tutti e tutte, e la solidarietà. Como se lleva? Come si fa? “È come studiare in una scuola in costruzione”, dice. Tra luglio e agosto si terrà una nuova convocatoria con la comandancia per analizzare “la tormenta” che ci avvolge tutti in questi tempi bui. Si dovrà progettare il futuro, poiché la tormenta non dura per sempre e occorre pensare a costruire il giorno dopo, come avverte Marcos. Dai rappresentanti del Laboratorio Ballarò e della redazione di Pressenza, Franzitta e Casano, viene avvertita l’analogia con la Palestina, ma soprattutto con il Rojava: il Chiapas e il Kurdistan esprimono soggettività rivoluzionarie che realizzano pratiche di cura del bene comune, modelli comunitari esemplari per tutta la sinistra mondiale. Si tratta di società senza Stato e, almeno al proprio interno, disarmate, in cammino (proprio come suona il titolo del libro che stiamo esplorando) verso il superamento dello Stato-nazione e dell’esercito che ne è la prima incarnazione, verso il superamento del patriarcato, del modernismo capitalistico ed in intima consonanza con la natura. Si tratta, non a caso, di due percorsi estranei al “pensiero unico” occidentale, che davvero ci indicano la strada.   Daniela Musumeci