Tag - Popoli originari

Condividono saperi verso una cartografia per la vita
Leader indigeni e specialisti provenienti da tre continenti si sono riuniti per condividere conoscenze e costruire un’agenda comune durante il Seminario internazionale sulle Pratiche di Mappatura Indigena tenutosi a Santa Cruz, in Bolivia. Dopo due giorni di dialoghi, le/i partecipanti hanno concordato sulla necessità di costruire reti di cooperazione per rafforzare l’unità dei popoli dell’America Latina, dell’Africa e dell’Asia. FOTO: CENDA “Se lavoriamo collettivamente, potremmo costruire una proposta di vita civilizzatrice, una cartografia per la vita”, ha sottolineato Paspantzhu Vitery, vicepresidente della Nazionalità Kichwa del Pastaza (Pakkiru). Le discussioni sulla cartografia hanno riguardato il suo utilizzo nella gestione e nella governance, nella pianificazione territoriale, nella lotta contro le attività estrattive o per segnalare e denunciare minacce. C’è stato anche spazio per condividere strumenti ed esperienze nella gestione delle tecnologie satellitari al fine di identificare attività illecite e contribuire alla prevenzione della loro diffusione. Da un punto di vista critico, l’incontro è servito a sottolineare come le mappe siano state storicamente utilizzate come strumenti di colonizzazione dei territori del sud del mondo. In contrapposizione a queste spinte egemoniche, le/i partecipanti hanno presentato strategie di appropriazione di questi strumenti da parte delle popolazioni indigene, elaborate a partire dai territori. “La mappa non è sempre stata nostra alleata, ma con il tempo siamo riusciti a utilizzare questi strumenti per esercitare i nostri diritti”, ha affermato Simón Crisóstomo Loncopán, presidente del Coordinamento di Comunità Mapuche Winkul Mapu di Curarrehue. “Le espressioni che condividiamo nascono dalla lotta per il riconoscimento di epistemologie che sono state rese invisibili dal nord del mondo”, ha aggiunto il leader mapuche. FOTO: CENDA Nell’ambito delle discussioni, il leader wampis Shapiom Noningo ha raccontato come il popolo Wampis abbia costruito la propria storia sulla base delle conoscenze, della saggezza e delle pratiche ancestrali. “I nostri nonni erano esperti nel costruire le proprie mappe […]. Erano cartografi empirici. Non scrivevano, ma ne conservavano la memoria, lo spazio del loro territorio, l’occupazione, i camminamenti, i confini di ogni villaggio”, ha sottolineato Noningo. FOTO: CENDA Il Seminario internazionale sulle pratiche di mappatura indigena è stato promosso dal Gruppo di Lavoro Internazionale sulle Questioni Indigene (IWGIA). L’evento è stato realizzato grazie a una collaborazione con l’Organizzazione di Sostegno Legale e Sociale (ORE), il Centro di Studi Giuridici e Ricerca Sociale (CEJIS), il Centro di Comunicazione e Sviluppo Andino (CENDA) e molte altre istituzioni della regione.   TRADUZIONE DI MATILDE MIRABELLA CON L’AUSILIO DI TRADUTTORE AUTOMATICO Redazione Italia
Si è si ripetuta a Cagliari la manifestazione Can’t stay silent, la corsa dell’indignazione per dire Stop al genocidio
Ieri, 19 settembre 2025, si è si ripetuta a Cagliari la manifestazione Can’t stay silent, “La corsa dell’indignazione”. «Con poco preavviso – diceva il comunicato stampa del 17 settembre – perché non c’è più tempo: Israele accelera la devastazione per “finire il lavoro”». La convocazione a scendere in piazza questa volta è stata diramata dal Comitato “Can’t stay silent”, dal Comitato sardo di solidarietà con la Palestina e dall’Associazione Amicizia Sardegna Palestina. Una manifestazione davvero imponente che ha visto circa 10 mila persone, tra cui molti/e giovani, famiglie con bambini/e, partecipare al corteo per dire ancora una volta “Stop al genocidio!” del popolo palestinese a Gaza e in Cisgiordania. Perché di questo si tratta: quello che sta accadendo nella Striscia di Gaza sotto gli occhi di tutte le nazioni e che la Commissione indipendente dell’Onu ha dichiarato essere  un genocidio in atto. Parola questa che gran parte degli intellettuali italiani non vuole usare, ma che descrive la realtà che sotto gli occhi di tutti: uccisioni di decine di migliaia di civili sotto i bombardamenti, procurata carestia sull’intera Striscia, morti per fame, a causa di mancanza di medicinali, sfollamento forzato di 450 mila persone da Gaza city. E non solo genocidio, ma ecocidio e archeocidio con la distruzione totale non solo delle abitazioni, di scuole, ospedali, moschee, ma anche delle vestigie del passato, della storia millenaria di Gaza. Le persone si sono radunate in Via Roma davanti al Palazzo del Consiglio Regionale, da cui è partito il corteo intorno alle 19:00 che ha percorso tutta la strada fino al congiungimento di Viale Trieste, da cui ha raggiunto il Corso Vittorio Emanuele fino a Piazza Yenne,  e salendo per Via Manno ha confluito in Piazza Costituzione.  Una manifestazione composta, ma partecipata con slogan ripetuti e anche cantati per la presenza nel corteo del gruppo musicale “La banda sbandati”: Free free Palestine!, Palestina libera!, Gaza libera!, Siamo tutti/e palestinesi! A ripetere gli slogan con tutta la voce in gola anche bambini e bambine. Non siamo ancora diventati ciechi per non vedere, né sordi per non ascoltare il dolore di famiglie martoriate, di bambini e bambine strappati alla vita, resi invalidi e orfani per sempre, né muti per non gridare “Stop al massacro!”. Piazza Costituzione, scalinate del Bastione di Saint Rémy – Foto di Pierpaolo Loi Arrivati in piazza Costituzione, sulle scalinate del Bastione di Saint Rémy, si sono succeduti gli interventi conclusivi. Ecco il testo del breve ma accorato intervento di Vania Erby, portavoce del Comitato Can’t stay silent: «Ringrazio anche oggi tutti voi per essere qui al fianco dei fratelli palestinesi. Abbiamo scelto le parole “non c’è più tempo” perché sotto i nostri occhi si sta consumando una tragedia che sta buttando l’intera umanità in un baratro senza fine. Non credo che il mondo potrà più essere lo stesso dopo queste atroci barbarie. Abbiamo capito che chi ci governa non ci vuole ascoltare, ma vuole continuare a perseguire logiche di guerra e di profitto.  Il mondo, quello che pulsa, quello che ancora ha un’anima, noi che siamo qui oggi non ci arrendiamo, non chiudiamo gli occhi e continueremo ad urlare che non possiamo accettare che un popolo venga sterminato. Noi non vogliamo rimanere impotenti. Cerchiamo di costruire pace intorno a noi, perché la pace come la guerra è contagiosa, ogni nostra azione conta anche nella quotidianità delle nostre vite. Giorno dopo giorno le piazze del mondo stanno prendendo coraggio e il messaggio che oggi dobbiamo mandare chiaro ai nostri governanti è che noi non ci faremo dividere e che continueremo a stare dalla parte di chi ingiustamente viene perseguitato. Rimaniamo uniti, rimaniamo umani ….continuiamo a credere che una Palestina libera potrà esistere. Palestina libera!». Il presidente dell’Associazione Amicizia Sardegna Palestina, dott. Fawzi Ismail, sempre in prima linea, ha ribadito ancora volta che il popolo palestinese non abbandonerà la sua terra. La grande folla che camminato per le strade di Cagliari testimonia – come succede in tante città italiane, europee e del Mondo intero – che i popoli non seguono i loro governi complici e chiedono di porre fine a questo immane crimine contro l’umanità, a questo ennesimo genocidio. E non a parole, come quando si propone il riconoscimento di uno Stato palestinese come un diritto concesso, mentre è il diritto primario di un popolo che vive nella propria terra. Infine, la richiesta alle alle istituzioni regionali di prendere posizione attraverso azioni concrete per porre fine al massacro, per es. chiudere il Porto di Cagliari al traffico di armi della fabbrica RWM di Domusnovas-Iglesias. Al microfono Fawzi Ismail – Foto di Pierpaolo Loi Non solo a Cagliari, ma anche in altre città della Sardegna, in queste ancora calde giornate di fine estate, tante persone si stanno mobilitando per testimoniare la loro solidarietà al popolo palestinese e la vicinanza alla Global Sumud Flotilla, finalmente in viaggio verso la Striscia di Gaza per rompere l’assedio e portare viveri e medicinale alla popolazione martoriata. Pierpaolo Loi
Cagliari: “La corsa dell’indignazione” per rompere il silenzio sul genocidio che si sta consumando a Gaza
Tantissime persone di ogni età, famiglie con bambini, ragazzi/e e anziani, pure novantenni hanno partecipato alla “corsa dell’indignazione”  per manifestare la solidarietà al popolo martoriato della Palestina e ai partecipanti alla missione della Global Sumud Flotilla. Una manifestazione popolare convocata dal basso, dal “Movimento spontaneo per la Palestina”,  come scritto nel comunicato stampa. “Can’t stay silence”: non posso restare zitto di fronte al massacro quotidiano di persone inermi, affamate, senza più una casa, profughi nella propria terra. Gente, tanta gente (almeno 6000 persone)  – convocata attraverso il passaparola, la condivisione nelle chat – ha aderito portando solo simboli della Palestina e la bandiera della pace. Un popolo, quello sardo, che si è mosso per gridare contro il genocidio del popolo palestinese nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania. La manifestazione è iniziata alle ore 19:00 con il raduno davanti al Palazzo del Consiglio Regionale in via Roma e si è conclusa alla  gradinata del Bastione di Saint Rémy intorno alle 22:00. Alle 19:45 circa è partito il corteo con in testa  i runner con le magliette bianche con la scritta “Can’t stay silence” e il simbolo della Palestina. In apertura del corteo gli unici striscioni presenti nella manifestazione, quelli del “Movimento spontaneo per la Palestina”. Testa del corteo “Can’t stay silence” (Foto di Pierpaolo Loi) Il corteo ha percorso rumoroso la via Roma per confluire in piazza del Carmine. È stato chiesto un minuto di silenzio per ricordare le vittime palestinesi di questa immane carneficina quotidiana, come ha sottolineato la portavoce del “Movimento spontaneo…” Vania Erby: “Osserviamo insieme un minuto di silenzio per i nostri fratelli palestinesi vittime del genocidio. Ci possiamo abituare al male, alle atrocità che vediamo in questi giorni? Ci si abitua a tutto…Forse Ci si abitua all’idea che un popolo possa essere privato della Terra…. Ci si abitua all’idea che possa essere privato di ogni libertà’, dignità…dei sui figli…del suo futuro. Ci si abitua…Forse A chiamare difesa ciò che è sopraffazione, a chiamare terrorismo ciò che è resistenza. Noi No, non vogliamo abituarci a tutto questo. Vogliamo continuare a sentire forte questo dolore, vogliamo sentirlo per trasformarlo in resistenza. Vogliamo continuare a parlare, perché il silenzio uccide, il silenzio è una seconda condanna, il silenzio è comodo, è complice, ma è anche criminale…”. Da piazza del Carmine il corteo, ancora più rumoroso, ha proseguito fino al Corso Vittorio Emanuele, passando in mezzo ai turisti seduti ai tavolini. Al passaggio dei manifestanti sull’ingresso di un locale è stata esposta la bandiera della Palestina. Percorsa la via Manno si è proseguito per via Garibaldi per poi concludere alla alla scalinata del Bastione con l’unico slogan gridato all’unisono:”Palestina libera!”. Infine, un breve, ma intenso, discorso della portavoce del “Movimento spontaneo”, di cui riportiamo alcuni passaggi: “Siamo qui come individui, come popolo, perché come sardi, per nascita o per adozione, sappiamo quanto le radici e il senso di appartenenza ad una terra possano rappresentare e il significato che questo può avere oggi per il popolo palestinese. In queste ore si susseguono notizie e immagini sempre più agghiaccianti delle atrocità che il governo israeliano e il suo esercito sta compiendo a Gaza e in Cisgiordania, una violenza senza eguali nella storia dell’umanità, una violenza a cielo aperto che il governo israeliano sta tentando in tutti i modi di nascondere oscurando quanto proviene da Gaza e con lo sterminio stesso dei giornalisti palestinesi… Il 31 agosto è partita da Barcellona una flotta civile di 50 imbarcazioni con delegazioni provenienti da 44 paesi. Una spedizione di donne e uomini che come noi oggi chiedono pacificamente ai governi di non rimanere inermi di fronte ai crimini che il governo israeliano sta perpetrando a Gaza e al genocidio in atto; una delegazione internazionale che sta provando a fare quello che i governi non hanno avuto il coraggio di fare… Una flotta perfettamente legale, pacifica che sta cercando di rompere l’assedio in cui vive il popolo palestinese che ogni giorno viene sempre più affamato, bombardato, sterminato e privato di ogni diritto e libertà, esseri umani cui stanno strappando anche le radici. Per la flotta è stato scelto un nome denso di significato: Global Sumud Flotilla. Sumud è una parola araba che indica la capacità di resistere, la forza di sopportare tutto davanti alle avversità. Quando sono i palestinesi ad usare questa parola possiamo subito intuire quale forza possa assumere e cosa rappresenti per il popolo palestinese. L’odio sistematico con cui il governo israeliano sta cancellando un popolo, a Jabaria si distruggono anche le tombe, non credo si possa più definire guerra e credo si sia oltre il genocidio, l’obiettivo che si sta cercando di perseguire é di annientare un popolo dalle sue radici, la sua cultura radicata da millenni nella terra di Palestina. Siamo qui oggi, per opporci a tutto questo, ma siamo qui anche per ricordare a noi stessi che é ancora possibile restare umani e non voltarsi dall’altra parte come fanno i governi del pianeta, per poter avere il coraggio di dire ai nostri figli che lo sterminio del popolo gazawi non è stato fatto nel nostro nome…” Cagliari, Bastione di Saint Rémy (Foto di Pierpaolo Loi) Alla fine del suo intervento, Vania ha offerto il microfono al dott. Fawzi Ismail, presidente dell’Associazione “Amicizia Sardegna Palestina” per un saluto alla folla. Egli ha espresso tutta la sua commozione e ha ringraziato per questa straordinaria manifestazione di solidarietà con il popolo palestinese. Ha sottolineato, inoltre, che il suo popolo non abbandonerà mai la sua terra, un popolo che ha dignità è un popolo resistente. Alla conclusione, il canto di “Bella ciao” ha vibrato ancora una volta nelle voci e nei cuori delle persone presenti alla manifestazione nella città di Cagliari. Pierpaolo Loi
Di ritorno dal Chiapas, all’incontro internazionale convocato dall’EZLN
Finalmente, dopo tanti anni, grazie all’invito di Mimma Grillo, sono riuscita a partecipare al quarto appuntamento degli Encuentros de Resistencia y Rebeldìa, intitolato “Algunas Partes del Todo”, dell’EZLN, che ha avuto inizio domenica 3 agosto presso il Semillero (nome emblematico: lì si seminano idee, scambi di esperienze, vecchi e nuovi incontri tra compagne/i) “Comandanta Ramona” del Caracol IV Morelia, più o meno a tre ore da San Cristóbal, in Chiapas, e sono veramente felice di averlo potuto fare. I partecipanti, tra messicani, latinoamericani e internazionali, eravamo più di 700, provenienti da 37 paesi, dal Messico al Cile, dall’Italia a Cipro, dal Canada all’Australia. Il semillero non è altro  che una grande spianata al cui centro i zapatisti hanno innalzato una piramide in legno con in vetta il simbolo del dollaro e ai lati le scritte “desprecio“, “explotación” (disprezzo, sfruttamento). Attorno ci sono dei capannoni nei quali dormiremo con i nostri sacchi a pelo, un comedor, un ristorantino per noi visitatori, diverse cucine a legna comunitarie dove le bases de apoyo (i volontari provenienti dai vari caracoles) preparano la colazione e il pranzo per le/i zapatisti. Inoltre, a poca distanza, bagni e docce precari, un punto di salute, vari negozietti dove vendono pochi alimenti e il collegamento WiFi a ore. Devo ammettere che, pur nella sua essenzialità precarietà, la macchina organizzativa è quasi perfetta, accogliere  più di 700 persone, farle mangiare, lavare, dormire non é una cosa semplice da fare e l’’EZLN ci è riuscito. Apre le due settimane di incontro un’emozionante parata militare: vari battaglioni di milicianas e milicianos sfilano in ordine, portano il classico passamontagna e un arco con frecce alle spalle (mi spiegano che ciò è stato introdotto dalle donne zapatiste durante l’incontro internazionale delle donne di alcuni anni fa). I civili –  rappresentanti delle basi d’appoggio zapatiste, uomini, donne, bambini e ragazzi provenienti dai 12 caracoles – .fanno quadrato attorno alla piazza, in religioso silenzio. Sul palchetto del “templete” (un grande capannone aperto ai lati col pavimento in cemento) sale la comandancia composta da uomini e donne. Prende la parola il subcomandante Moisés, il quale, con poche ed essenziali parole, inaugura l’incontro, dando il benvenuto ai compagni e alle compagne del Messico e del Mondo e ricorda il genocidio in corso a Gaza, mettendo l’accento sulla vicinanza tra i popoli in resistenza. Il pomeriggio e i giorni successivi trascorrono tra le presentazioni da parte dei numerosi collettivi messicani e stranieri presenti (alcune sono veramente toccanti come quella delle Madres buscadoras che cercano, a rischio anche della propria sopravvivenza i loro figli desaparecidos, vittime della violenza in Messico), seguite da un dibattito in cui spesso interviene Moisés. Il programma delle comparticipaciones del giorno viene affisso la stessa mattina: da piccoli collettivi locali, a comunità indigene latinoamericane e non solo, passando per organizzazioni e reti internazionali (sindacati, radio alternative, ecc.) si elevano testimonianze di resistenza quotidiana contro il mostro capitalista e un grido di unione e di solidarietà in tutto il mondo, pur nel rispetto delle differenze, come suggerisce il titolo dell’incontro: sono solo alcune parti del tutto che resistono alla Tormenta e che cercano di costruire “il Giorno dopo”. Le serate sono animate da recital di poesia e musica da parte delle giovani e dei giovani zapatisti dei vari caracoles nella loro lingua indígena Maya (non sempre c’è la traduzione in spagnolo); a seguire musica dal vivo e balli fino a tarda notte. I zapatisti hanno scelto la forma del teatro per raccontare la loro storia: durante i primi giorni, i giovani e le giovani zapatistas mettono in scena uno spettacolo che dura ore sulla storia del Messico e sulla loro storia di resistenza e ribellione dal 1984 fino a oggi. Mettono a nudo il momento di passaggio, di transizione che stanno vivendo, dopo esserci resi conto che il governo delle Juntas de Buen Gobierno (Giunte di buon governo) e dei Marez (Municipios Autonomos Rebeldes Zapatistas) spesso (ahimé!) riproduceva alcune dinamiche simili a quelle della tanto criticata “piramide” della società capitalista, puntano adesso su una nuova forma di organizzazione caratterizzata dall’orizzontalità, dal governo popolare e da “El Comùn”. Sono queste le parole d’ordine dello spettacolo e dell’incontro:  abbattere la piramide e costruire “El Común”. Lo spettacolo serve, pertanto, per fare una esemplare autocritica di come sia avanzata la società zapatista dal 1 gennaio 1994 fino al momento; attraverso esempi concreti quali un furto di soldi da parte di due compas e un caso di violenza di genere, i zapatisti si chiedono e ci chiedono como uscire dalle trappole del sistema piramidale: burocrazia, problemi di comunicazione, difficoltà a decidere tutti insieme, corruzione. Il grande nemico dichiarano, è il capitalismo, e per combatterlo l’unica soluzione è “El Común”, ossia costruire governi democratici autogestiti in cui tutti decidono insieme senza delegare nessuna commissione in cui pochi/e decidono per tutti/e. La base, il popolo, deve organizzarsi per costruire “il Giorno Dopo”. Un primo passo è stato lo smantellamento delle JBG (Juntas de Buen Gobierno) e dei MAREZ, che da circa un anno sono stati sostituiti da GAL, CGAZ, ACGAZ. Questi tre livelli, Governi Autonomi Locali (comunità), Collettivi dei Governi Autonomi (regione) e le Assemblee dei Collettivi dei Governi Autonomi (Zona), sono assemblee plenarie che prevedono la partecipazione di tutti i membri. Soltanto il primo livello, il GAL, ha potere decisionale, gli altri due fungono solo da coordinamento per riportare la decisione delle comunità di base. Quindi, è il popolo che effettivamente si autogoverna. Il loro senso della storia è molte forte: alle giovani e ai giovani è deputato il compito di onorare i morti delle lotte passate e di credere nella possibilità di costruire “El día después“, continuando le loro sfide al sistema, anche se ancora non sanno bene come. Tuttavia l’obiettivo è chiaro: la lotta non è solo per loro zapatisti, ma è per tutte/i. Per questo è importante il colloquio con le comunità non zapatiste, con il CNI (Comitato nazionale indigeno); i zapatisti ribadiscono, inoltre, di non avere formule magiche, ognuno deve agire nel proprio contesto e con i mezzi che possiede, ma sono imprescindibili il dialogo e la non esclusione, e soprattutto il portare avanti azioni concrete, non mere e vuote ideologie (non si dichiarono né marxisti, né maoisti, né anarchici, eec., anche se riconoscono ciò che di buono contiene ognuno di questi pensieri).   I zapatiste ribadiscono il loro rifiuto della  “Cuarta T” (la “quarta trasformazione”, il progetto politico portato avanti dall’ex presidente López Obrador) e del programma “Sembrando vida” (dare una parcella di terra agli indigeni per ripopolare le zone rurali e frenare la deforestazione dilagante) che, pur partendo da nobili presupposti, ha finito col riproporre una logica di privatizzazione della terra, di adeguamento al mercato internazionale creando disunione tra le comunità indigene.  La piramide deve essere distrutta e l’opera teatrale finisce proprio così: la grande piramide viene prima bruciata, poi abbattuta e fatta a pezzi con sassi e machete dalla basi d’appoggio, con l’invito a tutte/i ad unirsi al rituale, per ricordare di non farsi ingannare da governi che si presentano come progressisti, ma che in fondo, trovandosi comunque verso la cima della piramide, non sono altro che marionette i cui fili sono tirati dai grandi oligarchi che controllano il mondo. Costruire “El Comùn” significa eliminare ogni forma di proprietà, a partire da quella della terra, che non è più dell’organizzazione, ma è di chi a turno la lavora, che sia zapatista o no. Il prodotto viene diviso quindi in parti uguali tra chi ha curato il raccolto, senza pagamento di alcun tipo. Non è mancata la visita al nuovo ospedale, che sorgerà vicino caracol di Dolores Hidalgo, grazie anche alla campagna di raccolta fondi “Un Quirofano en la Selva Lacandona” organizzata da decine di collettivi e organizzazioni europee all’interno della rete Europa Zapatista. Siamo andati quasi tutti, in un pullman, a vedere l’avvio dei lavori del questo nuovo ospedale; ci hanno fatto da guida gli architetti e i mastri che dirigono il “cantiere”, nessuno di loro è diplomato né laureato, perché i “professionisti” costavano tanto e, non avendo i soldi per pagarli, hanno fatto appello alle maestranze locali che stanno offrendo gratuitamente i loro servizi. Bisogna dire che la partecipazione alla costruzione di persone non zapatiste è un passaggio fondamentale. Dopo aver girato le comunità non zapatiste della regione per spiegare il progetto, queste ultime hanno deciso di partecipare alla costruzione, chi inviando mano d’opera, chi cooperando economicamente, chi fornendo vitto e alloggio a lavoratori e lavoratrici. Dopo la visita siamo rientrati al caracol, dove ci hanno accolti, rifocillati con abbondante cibo e con musica e balli fino a tarda notte, nonostante la pioggia torrenziale (la stessa generosità abbiamo potuto constatare io e Ignazio al caracol di Patria Nueva, dove siamo andati in privato, dopo aver avuto l’autorizzazione dal “comité de interzona” di Morelia). L’indomani siamo ripartiti per Morelia, tre ore di viaggio attraversando paesaggi mozzafiato che, almeno a me, facevano dimenticare le tante curve della strada. Vorrei aggiungere, non per vantarmene ma solo per condividere un’ulteriore e personale testimonianza della mia partecipazione all’incontro, che io e Ignazio avevamo portato delle olive e mandorle del nostro terreno e abbiamo deciso offrirle ai compas dei caracoles 8 e 9, con la cui cucina comunitaria abbiamo collaborato per una settimana: al mattino, alle 5,30, andavamo a preparare la colazione e poi verso le 12 il pranzo. Francisco, il cuoco di turno del caracol di Dolores Hidalgo, parlava a stento lo spagnolo, la lingua Castilla come dicono loro, ma era molto socievole, mentre le donne e altri uomini che erano in cucina, rimescolavano, silenziosi, chili di riso e fagioli in enormi pentoloni di rame su dei fuochi a legna. Ci hanno ringraziati dell’aiuto e hanno insistito affinché mangiassimo con loro quello che ci era cucinato insieme. Insomma, per concludere, la resistenza e ribellione di questa piccola parte del mondo non è la panacea a tutti i mali del cosmo ma è sicuramente una luce che continua a illuminare la strada contro il capitalismo e l’omologazione. Solidarietà, organizzazione e disciplina, coraggio, ma anche errori, contraddizioni, aspetti per me non del tutto chiari ho visto a Morelia, ma una cosa mi è chiara: quella dell’EZLN è una storia umana, più che politica, da continuare a far  conoscere.     Redazione Palermo
Palestina Libera sulla vetta della Sardegna
Una lunga fila colorata di persone (circa 500 persone) con tantissime bandiere palestinesi, sono salite ieri fino ai 1834 m. di Punta La Marmora del Gennargentu, la cima più alta della Sardegna . Forse qualcuno non è riuscito ad arrivare fino in vetta, ma non importa. Importante invece era la motivazione comune: la solidarietà col popolo Palestinese, contro il genocidio in atto e la viltà dell’Europa che sta a guardare, Italia in primis. C’erano bambine e bambini, giovani, genitori e nonni; c’era anche Mattia Moro, giovane consigliere comunale di Mamoiada con la piccola figlia saltellante; c’era chi era arrivato il giorno prima da Londra, anticipando il volo per non perdersi questa bellissima giornata, favorita anche da un cielo limpido e ben ventilato; e poi tanti membri di varie associazioni e cittadini comuni. E c’eravamo anche noi, che viviamo in provincia di Genova. Foto di Chiara De Poli Come la Sumud Flotilla anche nel Gennargentu una piccola flotta è salpata verso la vetta. Ci auguriamo che, come ieri le bandiere palestinesi hanno sventolato su Punta La Marmora, così vada a buon fine la navigazione delle parecchie imbarcazioni della Flotilla per arrivare a Gaza. Grazie agli amici di “Sardegna per la Palestina” per aver organizzato l’iniziativa! Chiara De Poli e Antonio Lupo – Sanitari per Gaza Liguria Redazione Sardigna
Tatawelo con la Global Sumud Flotilla: i nostri piccoli chicchi tostati diventino compagni di cammino
Il mare accoglierà presto la Global SumudFlotilla, un viaggio che non è solo rotta e destinazione, ma promessa di resistenza e speranza. All’apertura dell’ultimo Alcune parti del Tutto,Incontro delleResistenze e delle Ribellioni in agosto nei territori Zapatisti l’EZLN si è manifestato con le bandiere della Palestina condannando il genocidio al grido tutte e tutti siamo bambine e bambini palestinesi. Con questo spirito il nostro caffè attraverserà le onde insieme alle e agli attivisti della Global Sumud Flotilla. Proprio il nostro caffè, appena giunto dalla cooperativa zapatista di Yachil Xojobal, perché, come ci hanno detto al telefono, “questo caffè sostenga le attiviste e gli attivisti e giunga forte il nostro respiro di popolo in resistenza” “i nostri piccoli chicchi tostati diventino compagni di cammino, calore che riscalda mani e pensieri, forza da condividere attorno a una tazza fumante”. Vele e cuori che si aprono verso Gaza, per tracciare rotte di giustizia e umanità perché “otro mundo es posible”. Il successo e la sicurezza della Global Sumud Flotilla dipendono dal sostegno e dalla mobilitazione della società civile. Solo attraverso la diffusione, la solidarietà e la pressione internazionale sarà possibile rompere il silenzio e garantire protezione a questa missione. Invitiamo perciò tutti a fare la propria parte: condividere, informare e sostenere attivamente questa iniziativa per la libertà e la dignità del popolo di Gaza. SOSTIENI E DIFFONDI MA ATTENZIONE ALLE FAKE NEWS In queste ore stanno circolando video e informazioni false o decontestualizzate riguardo alle partenze della Global Sumud Flotilla.Il web e i social sono un terreno vasto e in continuo movimento: non possiamo né riusciamo a seguire, limitare o smentire ogni singola informazione distorta o falsa. Per noi è però importante ricordare a tutti che gli aggiornamenti ufficiali sulle partenze e soprattutto sul viaggio della missione verranno comunicati ESCLUSIVAMENTE da queste pagine https://globalsumudflotilla.org/ https://linktr.ee/GlobalMovementtoGazaItalia https://linktr.ee/CALLtoACTIONIitalia https://chuffed.org/project/140650-missione-internazionale-salpiamo-per-gaza instagram.com/globalmovementtogazaitalia Global Sumud Flotilla: una traversata di resistenza e speranza verso Gaza Nell’estate del 2025 il Mediterraneo diventa teatro di una storia che non parla solo di mare e imbarcazioni, ma di coraggio, solidarietà e dignità. È la Global Sumud Flotilla, la più grande flottiglia civile mai organizzata per sfidare il blocco che da anni imprigiona Gaza. A muovere le vele e i cuori di questa impresa sono reti e movimenti provenienti da ogni angolo del mondo: la Freedom FlotillaCoalition, il Global Movement to Gaza, la Maghreb SumudFlotilla, SumudNusantara. Insieme, hanno scelto il mare come lingua universale della resistenza. Sumud: la fermezza che non si piega La parola araba sumud significa resilienza, fermezza, radici profonde. È l’essenza di un popolo che non rinuncia alla propria umanità nonostante l’assedio, ed è il filo che unisce chi partecipa a questa navigazione collettiva. Onde di partenze, rotte di speranza Le navi non partiranno tutte insieme, ma come onde che si rincorrono: * la prima ondata tra il 30 e il 31 agosto, dai porti di Genova, Barcellona, Valencia; * la seconda dal 4 settembre, con nuove imbarcazioni in partenza dalla Tunisia, dalla Sicilia e da altri approdi mediterranei. Un mare che separa diventa così un ponte. Voci e volti da tutto il mondo Sono almeno 45 i Paesi rappresentati: attivisti, medici, giornalisti, religiosi, artisti, marinai. Una moltitudine di storie che si intrecciano in un’unica rotta. Accanto a loro, sostegno e testimonianza arrivano da figure note in tutto il mondo come Greta Thunberg, Susan Sarandon, Liam Cunningham, Zerocalcare, Alessandro Barbero, Fiorella Mannoia. Un coro che si leva contro il silenzio. Più che una missione umanitaria La Flotilla non porta solo beni materiali, ma anche un messaggio potente: * Rompere l’assedio illegale di Gaza e aprire un corridoio umanitario guidato dai popoli, laddove i governi hanno fallito * denunciare la complicità del mondo di fronte a un popolo in carestia * portare cibo e medicine a chi non ha più nulla; * affermare la dignità, libertà e rispetto della vita contro pratiche di disumanizzazione come diritti che nessun muro e governo può cancellare. Zapatisti per la Palestina (Foto Associazione Tatawelo) Preparativi di resistenza nonviolenta Più di 15.000 adesioni hanno dato vita a un esercito civile fatto di corpi, idee e vele. Ogni volontario ha ricevuto formazione su nonviolenza, sicurezza, primo soccorso, perché questa non è una sfida armata, ma un atto di resistenza civile, limpido e trasparente come il mare che attraversa. Un atto storico La Global Sumud Flotilla è la più vasta mobilitazione civile per mare mai tentata a sostegno di Gaza. Decine di imbarcazioni, un mosaico di popoli, lingue e culture, tutti convergenti verso lo stesso punto. È una dichiarazione al mondo: la solidarietà non è solo parola o simbolo, ma azione concreta, capace di abbattere muri invisibili e di aprire rotte di giustizia. Conclusione La Global Sumud Flotilla non è soltanto un viaggio. È un abbraccio collettivo che attraversa i confini marini, è un canto che afferma la dignità umana come valore universale, è la dimostrazione che la voce dei popoli può ancora alzarsi contro regimi di silenzio e di morte. È il mare che si fa strada. È la speranza che diventa vela, quando il mondo resta in silenzio noi salpiamo. I referenti  Assocazione Tatawelo   Redazione Italia
La Local March sul Cammino dei Briganti
Si è chiusa ieri, 27 agosto 2025, la terza Local March for Gaza, quella sul Cammino dei Briganti. Eravamo in Abruzzo, sulle vie percorse da chi resistette ai “piemontesi”. Un bellissimo itinerario nella Marsica, il territorio più a ovest della regione. Un nome, Cammino dei Briganti, che ricorda una ferita dimenticata, ma ancora aperta, della nostra storia nazionale: la conquista sabauda, o, se stiamo a come abbiamo imparato la storia, l’unificazione d’Italia. Ne abbiamo parlato una sera a cena, noi piemontesi di aree marginali o figli dell’emigrazione, e gli abruzzesi. Abbiamo scoperto un pezzo di storia che viene sempre raccontata dalla parte dei vincitori, che tralascia i soprusi, le ingiustizie e omette verità accertate. Per questo la Local March for Gaza sul Cammino dei Briganti collega bene resistenze di oggi e di ieri. La storia è costellata di ingiustizie, di conquiste e di ferite non cicatrizzate, spesso dimenticate e anche di genocidi. “I dati sul calo demografico al Sud, con la calata delle truppe sabaude, non sono frutto di errori, non indicano folle di emigrati in fuga, ma “decessi anomali”, sino a circa 550mila.” scrisse Pino Aprile nel suo libro “Terroni”. In un solo anno, dal 1860-61, sostiene in quel libro, riportando dati verificabili, ci furono più di mezzo milione di morti. E la guerra durò almeno dieci anni. E continuava: ”perché Augias e Mieli chiedono di rispettare, per gli ebrei, il Giorno della Memoria; di raccontare lo sterminio degli armeni; non chiedono ai nativi americani, indios, indiani, di dimenticare il genocidio di cui furono vittime per mano europea; né si sognano di dire ai pronipoti dei neri fatti schiavi e deportati in altri continenti, di sorvolare sul perché non sono in Africa; e non suggeriscono ai Paesi e popoli già ridotti a colonia di lasciar perdere con la ricostruzione di quel che loro accadde? Perché solo agli eredi di una nazione che esisteva negli stessi confini da più di sette secoli, e di cui nemmeno il nome si può più pronunciare perché trasformato in insulto, perché solo a loro si chiede di dimenticare, non devono manco sapere come si chiamavano, ridotti a scomparire sotto un mero riferimento cardinale, “meridionali”, che li rapporta, svalutandoli, ai vincitori, del Nord?” E perché, ci chiediamo oggi, fino ad ora si è dovuto omettere di chiamare “genocidio” quello che gli israeliani stanno attuando, non da oggi e neanche solo dall’ottobre di due anni fa, contro i palestinesi? Qualcuno ci dirà che siamo delle ‘anime belle’ che i conflitti sono sempre esistiti, e con essi, i delitti, i furti, le occupazioni insomma, il colonialismo e l’imperialismo. Ho provato a spiegarlo già mesi fa a una commemorazione della Liberazione in QUESTO intervento, la storia ha delle sue fasi, che rendono cose che chiamiamo con lo stesso nome molto diverse le une dalle altre. E’ anche il caso delle guerre; dalla prima guerra mondiale, ovvero da quando la tecnologia e l’uso che ne fa il capitalismo è divenuta predominante, le guerre hanno progressivamente causato sempre più vittime civili. +972 e The Guardian hanno recentemente rivelato, usando come fonte dei dati della stessa intelligence israeliana, che a maggio 2025, su 45mila morti a Gaza, 8.900 erano combattenti, ovvero l’83% delle vittime totali erano civili. Dovevamo proprio aspettare che il consigliere del Papa al meeting di Rimini sancisse che è in corso un genocidio? O potevamo arrivarci da soli? La Local March sul Cammino dei Briganti è stata la condivisione del bisogno di verità che ognuno di noi ha, verità solo apparentemente contro deduttive. Uno dei camminatori, nel video sulla Local March sul Cammino di Oropa, dice che “camminare è un atto paradossale”. E’ vero, cambia la prospettiva su quello che succede, modifica la visuale sulle notizie e sulle informazioni che, in eccesso e non verificate, ci sommergono. Camminare è un procedere che rivela verità. Nel caso della Local March sul Cammino dei Briganti, passo dopo passo, costruisce anche solidarietà. In quattro giorni di cammino, in cui hanno partecipato almeno 200 persone, percorrendo 55 km, passando in 9 paesi, sono stati anche raccolti 1.050 € per la Global Sumud Flottilia. E’ un bel risultato tangibile. Ah, dimenticavo, uscendo dal paese di Scanzano Luca Gianotti, guida e attento organizzatore della Local March for Gaza sul Cammino dei Briganti, ci ha spiegato che le ultime casette basse del paese facevano parte della ricostruzione del dopo terremoto del 1915. Fu una tragedia che decimò gli abitanti, avvenne d’inverno, con la neve e i soccorsi arrivarono con estremo ritardo a causa del conflitto in corso. Da poco, infatti, eravamo scesi in guerra a fianco della Francia, della Russia e dell’Inghilterra nella Prima Guerra Mondiale. Ebbene, nonostante fossero già stati decimati dal terremoto, i pochi uomini marsicani rimasti dovettero comunque andare in guerra: il Re non ebbe pietà e li chiamò alle armi. Così fece totalmente sparire una generazione di uomini in quella parte di Abruzzo. Un’altra ferita dimenticata dalla narrazione ufficiale, ma aperta e sanguinante. Ettore Macchieraldo
Cile, fallisce la consultazione di Boric al popolo mapuche: “Il territorio non è in vendita”
La Commissione Presidenziale per la Pace e la Comprensione è un’iniziativa dell’amministrazione di Gabriel Boric, formata da membri del sistema politico dello Stato cileno nel 2023, “con l’obiettivo di guidare un processo di dialogo e accordi per canalizzare istituzionalmente le richieste di restituzione delle terre e di riparazione da parte del popolo mapuche e raccomandare misure praticabili per una pace duratura e la comprensione reciproca tra gli attori delle regioni di Biobío, La Araucanía, Los Ríos e Los Lagos”. Il rapporto finale della commissione è stato consegnato a Boric il 6 maggio 2025, a La Moneda. E il 13 agosto è iniziata una consultazione con alcune comunità mapuche in merito alla proposta del documento governativo. Finora gli obiettivi della commissione stanno fallendo clamorosamente contro la dignità di un intero popolo. Il werken (una delle autorità tradizionali del popolo mapuche che svolge funzioni di consigliere e portavoce, N.d.t.) della comunità di Pepiukelen de Pargua, Francisco Vera Millaquen, in merito alla consultazione ha sottolineato che “il nuovo sistema di gestione della terra che ci viene proposto è un modo molto elegante per definire la spoliazione dei nostri territori, dal Biobío al sud, da parte dello Stato cileno. Ricordiamoci che nel 1825, dopo 14 anni di guerra, su richiesta delle autorità cilene, fu firmato il Trattato di pace di Tapihue, in cui fummo riconosciuti come Stato sovrano e libero. Oltre ad essere un patto di pace tra le due nazioni, costituiva un accordo di collaborazione reciproca”, aggiungendo che “tuttavia, lo stesso esercito cileno, anni dopo, invase le nostre terre con il sangue e il fuoco”. Vera Millaquen ha ricordato che “nel 2003, sotto il governo di Lagos Escobar, le autorità cilene hanno redatto un documento intitolato “Rapporto sulla Verità Storica e Nuovo Accordo”). In esso si riconosce la perdita del territorio mapuche per responsabilità dello Stato cileno in modo assolutamente arbitrario e illegale. Inoltre, indica che un totale di 10 milioni di ettari sono stati sottratti al nostro popolo. Quel territorio non è mai stato restituito. Infatti, dal 1993, con vari mezzi, sono stati restituiti solo circa 700 mila ettari e ora il rapporto dell’ultima commissione dice che saranno restituiti circa 300 mila ettari in più. Cioè, solo il 10% di tutto il territorio mapuche riconosciuto dalle stesse istituzioni cilene”, e l’autorità mapuche ha aggiunto che ”fortunatamente l’attuale proposta del governo viene respinta dalla stragrande maggioranza della popolazione indigena e persino da enti internazionali. In sintesi, ci troviamo di fronte a un processo illegale che ha preso in considerazione solo una parte del nostro popolo. Non bisogna dimenticare che praticamente il 50% della nazione mapuche vive a Santiago e Valparaíso, e queste regioni non sono state prese in considerazione per la consultazione”. Da parte sua, Sergio Santos Millalen, werken del gruppo mapuche Pikvun Mapu, ha riferito che, alla luce delle procedure derivanti dalla relazione della Commissione Presidenziale per la Pace e la Comprensione, “il Ministero dello Sviluppo Sociale e della Famiglia, con la Risoluzione n. 244 del 27 giugno 2025, ha negato la partecipazione alla consultazione di tutto il popolo mapuche, coinvolgendo solo metà della nostra gente. Ciò viola la convenzione 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro firmata dallo Stato cileno” e ha comunicato che “abbiamo presentato ricorso di tutela contro tale misura unilaterale alla Corte d’Appello di Santiago. A tal proposito, la Corte Suprema deve ancora pronunciarsi. Per il resto, noi Mapuche delle regioni di Santiago, Valparaíso e O’Higgins ci autoconvocheremo per respingere la presente consultazione, perché mira esclusivamente a creare un catasto dei terreni, senza una visione del territorio. Non accetteremo i risultati di questa commissione presidenziale. Anzi, la affronteremo sul piano politico, storico e giuridico”. Sergio Santos ha affermato con veemenza che “Il territorio non è in vendita; il territorio ancestrale va difeso”». > “La consultazione mira a imporre una legge di punto finale (estinzione > dell’azione penale, N.d.t.) alla legittima restituzione territoriale dei > Mapuche” Le comunità di Purén de La Araucanía hanno sottolineato che “attraverso la consultazione il governo intende legittimare le decisioni della Commissione per la Pace e la Comprensione, che rappresenta una narrazione di negazionismo e colonialismo nei confronti del popolo mapuche e dei suoi diritti”, e hanno avvertito che “questo sistema cerca di imporre una legge di punto finale alla legittima restituzione territoriale del nostro popolo”. La nuova politica faciliterà l’ingresso della terra mapuche nel mercato della vendita, dell’affitto, del trasferimento e del comodato, consentendo l’installazione e la realizzazione di progetti immobiliari, minerari, stradali, centrali elettriche, dighe, forestali e piani estrattivi senza alcuna protezione per la nostra gente”. I Mapuche di Purén hanno enfatizzato che l’iniziativa governativa in corso “non farà altro che aumentare il conflitto e la militarizzazione nel nostro territorio”. D’altra parte, il 13 agosto, gli apo ülmen, i machi e i rappresentanti della provincia di Osorno hanno deciso di respingere la consultazione, sostenendo che essa è “dannosa, in malafede e priva della volontà politica di dare una soluzione reale alla nostra storica rivendicazione. Pretendiamo che il governo ritiri la consultazione; il governo non offre garanzie che i nostri diritti saranno tutelati in Parlamento, dove sarà discusso il disegno di legge risultante dalla consultazione indigena, il che viola i diritti tutelati dagli strumenti del diritto internazionale”, e hanno spiegato che “lo Stato, attraverso questa consultazione, ci offre compensazioni in cambio del nostro diritto territoriale, quando il territorio è un bene intransigibile e un elemento inalienabile di ogni mapuche. Lo Stato non ha l’autorità morale per parlare di Pace e Comprensione in circostanze in cui continuano le perquisizioni alle autorità spirituali in diversi territori, mentre ci sono prigionieri politici e le regioni si trovano in stato di Emergenza”. Allo stesso modo, le comunità indigene di Puerto Varas, Llanquihue e Frutillar hanno ripudiato il nuovo sistema di gestione delle terre e denunciato “la totale mancanza di legittimità dell’intero processo. Fin dall’inizio, lo Stato cileno non è stato in grado di convocare le autorità mapuche pertinenti, né le comunità che hanno fatto parte dell’organizzazione politica del nostro territorio. La misura mette in pericolo il nostro diritto ancestrale alla terra e riduce la nostra lotta storica a semplici atti amministrativi e logiche di mercato”. Allo stesso modo, hanno affermato che “i meccanismi di indennizzo proposti dallo Stato cileno sono pensati solo per avvantaggiare i latifondisti, trattandoli come “vittime di conflitti”. Ma noi siamo consapevoli che essi sono stati gli unici favoriti da quando sono arrivati nel nostro territorio per derubarci e spogliarci con l’inganno e la violenza”. Ancora una volta, l’amministrazione attuale dello Stato cileno, con un atteggiamento razzista, vede le comunità indigene come contadini poveri, braccianti agricoli, folklore e massa corruttibile e colonizzabile, quando invece si tratta di un popolo diverso da quello cileno, con una propria cultura, organizzazione, modo di produrre e vivere, cosmovisione, legame speciale e specifico con la natura.   Traduzione dallo spagnolo di Stella Maris Dante. Revisione di Thomas Schmid. Andrés Figueroa Cornejo
Humberto Millaguir, vita di un mapuche in resistenza
Riprendiamo dal blog “La bottega del Barbieri” questa intervista di David Lifodi allo storico dirigente mapuche, in esilio in Belgio dal 1976 al 2007 dopo aver subìto le torture della dittatura pinochettista e, successivamente, in prima fila per proteggere il lago Neltume (nel sud del Cile) dalla voracità di Enel. Oggi Humberto rappresenta la memoria viva del popolo mapuche che ha resistito a secoli di colonialismo. Humberto Florencio Manquel Millaguir, già portavoce del popolo indigeno mapuche del Parlamento di Koz Koz e difensore del lago Neltume (sud del Cile) minacciato, nel 2014, dall’ennesimo mega-progetto Enel e costretto all’esilio in Belgio, dal 1976 al 2007, dopo aver vissuto sulla propria pelle le torture del regime militare di Augusto Pinochet, è arrivato in Italia pochi giorni fa grazie all’associazione Ecomapuche con il supporto di una delle sue fondatrici, Violeta Valenzuela. Autore del volume Memorias de Humberto Manquel Millanguir: Kiñe Yaful Rakizuam – Un Pensamiento de Resistencia, Humberto è testimone diretto di otto decadi di storia cilena e mapuche. Dal furto delle terre ancestrali compiuto dallo Stato cileno fino alla sua partecipazione alla Riforma agraria a cui dette impulso Salvador Allende, nel suo libro il dirigente mapuche affronta le tematiche relative alla violenza coloniale e alla repressione politica in Cile che ha sperimentato, suo malgrado, in prima persona, sia in qualità di esponente del campesinado mapuche sia in qualità di militante socialista. Humberto Florencio Manquel Millaguir, nato nel 1940, rappresenta la memoria viva del popolo mapuche in Cile, che ha resistito a secoli di colonialismo, offrendo una prospettiva unica sulla lotta per la giustizia, la dignità e la ricostruzione del Wallmapu (il nome, in mapudungun, la lingua mapuche, indica il territorio storico abitato dal popolo mapuche). Oggi Humberto presiede l’Unión de ex prisioneros politicos (UNEXPP) ed ha partecipato alle lotte ambientaliste nel suo territorio, segnate drammaticamente dall’omicidio di alcuni dirigenti ambientalisti, tra cui Macarena Valdes, uccisa nel 2016, e dalla sparizione di Julia Del Carmen Chuñil Catricura. Di lei non si hanno più notizie dall’8 novembre 2024. In tutto il Cile si susseguono le manifestazioni per reclamare verità e giustizia per Julia del Carmen Chuñil Catricura, dirigente mapuche di 73 anni ed una vita trascorsa come lottatrice sociale in difesa della sua comunità, quella di Putraguel, ubicata nella comuna di Máfil, regione di Los Ríos, desaparecida dall’8 novembre 2024. Questo è solo l’ultimo caso della repressione dello Stato cileno contro il popolo mapuche. Qual è la tua opinione sul governo di Gabriel Boric, che inizialmente aveva generato grandi speranze per la sua provenienza dal movimento studentesco? Questo dimostra che in Cile c’è uno stato di dittatura presente e permanente dove ancora spariscono le persone, soprattutto lottatori ambientalisti come Julia. A prevalere sono i grandi interessi economici dei latifondisti che avevano messo gli occhi sulle terre che la donna stava proteggendo (circa 800 ettari) soprattutto dalle mire di Juan Carlos Morstadt Anwandter. Il suo nome è conosciuto perché proviene da una famiglia di colonizzatori che arrivarono in Cile dalla Germania. La sua storia è quella di tante famiglie di origine tedesca che si stabilirono nel sud del Cile (il taglio e il commercio illegale del legname delle terre mapuche, di cui è responsabile, da anni, Morstadt Andwanter, era culminato, nel 2018, nella distruzione di un ponte che Julia attraversava quotidianamente insieme ai comuneros e lei era cosciente che la sua vita fosse in pericolo, N.d.A). Per Julia, nonostante la solidarietà e l’attivismo dei movimenti sociali, il governo per ora si è dimostrato sordo a qualsiasi richiesta di chiarimento. Quanto alla magistratura, una delle figlie della donna è stata incitata a confessare l’omicidio della madre, anche a seguito del montaggio giudiziario della polizia, che avrebbe trovato del sangue nella casa stessa di Julia (Humberto Manquel Millaguir si riferisce al caso di Jeannette, la figlia di Julia Chuñil sottoposta ad un interrogatorio senza la presenza di un avvocato e invitata a confessare l’assassinio di sua madre. Si tratta di un’ulteriore forma di violenza istituzionale perché un agente dei carabineros le ha chiesto esplicitamente di confessare il delitto, violando così i diritti fondamentali dell’imputata, N.d.A). In Cile il popolo mapuche resta indifeso nonostante la campagna elettorale di Gabriel Boric fosse stata caratterizzata da ottime promesse. Siamo stati ingenui nel credere che con il nuovo governo, guidato da un lottatore studentesco, la situazione sarebbe migliorata, ma oggi, in qualità di presidente, ha assunto una serie di altri impegni con le multinazionali eludendo il programma che aveva presentato finendo per non metterlo in pratica. Il popolo mapuche si trova in uno stato d’assedio e, dall’Araucanía al Bío Bío, sono presenti i militari. Invece nella regione di Los Ríos il governatore è riuscito ad impedire la pressione di militari e dei parlamentari vicini al potere economico sui mapuche. Il popolo mapuche è definito come “i palestinesi dell’America latina”. Sono molti i prigionieri politici mapuche, a partire da Facundo Jones Huala, come del resto è alto il numero di prigionieri politici palestinesi. Sia i mapuche sia i palestinesi sono costretti a fare i conti con il furto delle terre e delle risorse naturali, ma non si sono mai arresi. Puoi raccontarci quali sono gli effetti della repressione, della impunità poliziesca e della campagna di terrore scatenata contro i mapuche? Il territorio mapuche non si colloca solo in Cile, ma originariamente si estendeva dall’Oceano Pacifico all’Atlantico, dal Río Choapa (nord del Cile) fino a Bahía Blanca, in Argentina. Facundo è un lottatore contro l’installazione di una centrale idroelettrica di provenienza neozelandese o norvegese. Noi mapuche rimaniamo vulnerabili sui diritti, sull’accesso all’acqua e sulla tutela dei luoghi culturali. Facundo ha condotto una lunga lotta ed è stato condannato con l’accusa di aver appiccato un incendio. In Cile gli era stata concessa la libertà condizionale che garantiva la possibilità di spostamento. Arrestato in Argentina, ha scontato parte della condanna il Cile e successivamente in Argentina (il riferimento è alla vicenda del leader della Resistencia Ancestral Mapuche, condannato al carcere in Cile con accuse pretestuose di incendio e porto illegale di armi. Fermato e arrestato in Argentina, Facundo è conosciuto per aver rivendicato come terre ancestrali della sua famiglia paterna degli appezzamenti che fanno parte delle proprietà di Benetton nella provincia di Chubut – Argentina, N.d.A). Noi mapuche siamo vulnerabili come i palestinesi, che sono soggetti alla repressione e alla fame di cui è responsabile Israele nei confronti di malati, anziani e bambini. In Cile i prigionieri politici mapuche sono vittime di una repressione quotidiana e di montaggi giudiziari da parte della polizia. Provano ad incolpare i mapuche in ogni modo, solo per il fatto di essere mapuche. La polizia si inventa conversazioni che non ci sono mai state, intercettano le persone e attribuiscono colpe ai mapuche che vogliono arrestare a prescindere. Costringere i mapuche a lasciare tutto in sospeso e demoralizzare le persone fa parte di una guerra psicologica condotta nei contro i fratelli (peñi in mapudungun, N.d.A). La repressione è pervasiva ed è caratterizzata dallo stato d’assedio, dal controllo delle comunità e dalle torture per estorcere informazioni. Da quando non c’è più Pinochet, quello cileno è uno stato dittatoriale mascherato da democrazia. La Costituzione, che risale all’epoca della dittatura, non tutela né i cileni né i mapuche. Faccio riferimento alla gente povera di fronte al grande capitale, a chi dispone di denaro e ai padroni del Cile. La destra rimane sempre molto forte e si oppone anche a modifiche minime promosse dal governo su salari e pensioni. Il tuo libro si intitola Memorias de Humberto Florencio Manquel Millanguir, Kiñe Yaful Rakizuam: Un Pensamiento de Resistencia, ma alla resistenza si contrappone la nuova Ley Antiterrorista che approfondisce la figura del nemico interno e rafforza il potere di aprire delle cause contro i mapuche e le organizzazioni popolari. I familiari delle vittime del pinochettismo rifiutano l’idea, che sta facendosi strada, di avere un occhio di riguardo verso i condannati per crimini di lesa umanità e i movimenti sociali hanno presentato un rapporto sui passi indietro compiuti dal Cile in materia di diritti umani e ambientali. Che giudizio dai sulla presenza, nel paese, di molti seguaci del pinochettismo a partire da José Antonio Kast? La politica in Cile non è mai cambiata, frutto dell’aggressività della destra e dei settori fascisti che, ogni giorno, assumono più forza nel paese. Non abbiamo imparato niente dall’epoca del pinochettismo. La destra vorrebbe ancora la dittatura militare e la repressione come ai tempi di Pinochet. Parlando alla platea dell’ultradestra, Johannes “Kaiser”, candidato di origine tedesca alle presidenziali del prossimo 16 novembre 2025, ha sostenuto che, in caso di colpo di stato, lo appoggerebbe ritenendolo una modalità per restituire la tranquillità al paese. Evelyn Mathei (candidata per il centrodestra alle presidenziali ed esponente del partito filopinochettista Unión Demócrata Independient, N.d.A), figlia di un generale a capo dell’Aviazione e membro della giunta militare di Augusto Pinochet, insiste nel sostenere che suo padre non ha mai violato i diritti umani. Quanto a Josè Antonio Kast (sconfitto da Boric in occasione delle presidenziali del 2021 e, a sua volta, nuovamente candidato per alcuni settori di estrema destra, N.d.A), è figlio di un emigrante tedesco giunto in Cile dopo la seconda guerra mondiale e ufficiale delle forze di repressione naziste. Jeanette Jara, candidata progressista alle prossime presidenziali e appartenente al Partito Comunista, può rappresentare davvero una speranza di cambiamento o è tangibile il rischio di trasformarsi in una nuova delusione come già accaduto con Boric? Già Ministra del Lavoro, Jeanette Jara è stata l’unica ad aver fatto le primarie. Per me è la miglior candidata che si può avere in Cile. Nel tempo che ci separa dalle presidenziali può elevare gli antichi valori comunisti nel paese ed ha un buon programma, ma dovrà fare i conti con le menzogne, messe in giro soprattutto per far colpo sulle persone che non hanno la possibilità di informarsi. Nel 1964, quando Salvador Allende si candidò alle presidenziali, fu diffusa la voce che in caso di una sua vittoria i bambini cileni sarebbero stati inviati a Cuba dove avrebbero finito per essere mangiati (le elezioni si conclusero con la vittoria di Eduardo Frei, N.d.A). Inoltre, spesso nelle comunas, compresa quella di Panguipulli, si fa propaganda offrendo cibo e bibite e questo basta per garantirsi il voto. Io ho fiducia in Jeanette Jara e, ogni caso, questa per me è l’unica opzione di voto. Mi auguro che non si riveli una delusione. Se riesce ad arrivare al potere con la maggioranza alla Camera e al Senato potrà dare adito al suo programma elettorale. Nel caso in cui non riesca ad ottenere la maggioranza, la destra non farà passare i suoi progetti. La classe lavoratrice, i movimenti sociali e le comunità indigene sono i soggetti dimenticati dal progressismo. I mapuche, gli zapatisti e il movimento Sem terra hanno un altro modo di intendere le relazioni e credono nell’idea di cambiare il mondo senza prendere il potere. Quali sono i piani di resistenza dei mapuche contro uno Stato escludente e razzista? In questo momento lo Stato oppressore e un capitalismo altrettanto oppressore tentano di ridurre, ogni volta di più, il margine delle proteste e, di conseguenza, noi mapuche ne facciamo le spese. Tuttavia, nonostante l’occupazione militare dei territori e la repressione tramite l’applicazione della Ley Antiterrorista, noi mapuche non abbiamo mai abbassato la guardia. Abbiamo resistito per più di cinquecento anni alla colonizzazione straniera e stiamo continuando a resistere. La Comision de paz y entendimeniento promossa dal presidente Boric ha in seno una maggioranza di colonizzatori e le sue decisioni continuano a ledere i diritti dei mapuche: è come se una volpe fosse stata messa in un pollaio. Sappiamo già chi sarà il vincitore. La Commissione non propone soluzioni per il popolo mapuche, che però continua a lottare per i propri diritti. Infine, desidero esprimere il mio ringraziamento per la solidarietà alla causa mapuche sia dall’Italia sia da altri paesi europei. Grazie a tutte le persone conosciute in occasione della lotta promossa per difendere il lago Neltume (sud del Cile), minacciato dalla centrale idroelettrica di Enel (il riferimento di Humberto Florencio Manquel Millanguir è alla lotta condotta dalle comunità indigene mapuche di Panguipulli per evitare che il paesaggio del lago Neltume e Choshuenco e del fiume Fuy fosse modificato da un mega-progetto idroelettrico di Enel-Endesa che avrebbe messo a repentaglio un ecosistema nativo ancora intatto, N.d.A). Grazie ad Humberto Florencio Manquel Millanguir per la sua disponibilità a rilasciare questa intervista e a Violeta Valenzuela per il supporto. La Bottega del Barbieri
Le materie prime del pianeta: I Paesi che comandano e i popoli che aspettano
> “Una mappa senza bandiere, ma con proprietari” IL MONDO SI SCRIVE CON LE MATERIE PRIME Il potere non sta nei discorsi, ma nel sottosuolo. Non nelle bandiere, ma nei giacimenti. Ogni modello economico, ogni potenza militare, ogni sogno di sviluppo dipende oggi da minerali, cereali, metalli ed energia. Senza litio non ci sono batterie. Senza grano non c’è pane. Senza uranio non ci sono centrali nucleari. Dietro ogni città illuminata e ogni cellulare acceso, c’è un sistema di estrazione che impoverisce molti per arricchire pochi. Il XXI secolo non sarà digitale se non sarà materiale. E tutto comincia in una miniera, un fiume o un campo. 20 MATERIE PRIME, UNA DISPUTA GLOBALE Il pianeta funziona grazie a più di 100 materie prime essenziali. Ma ce ne sono 20 che lo sostengono: litio, rame, ferro, oro, argento, alluminio, petrolio, gas naturale, carbone, terre rare, coltan, nichel, manganese, uranio, acqua dolce, fosfato, grafite e cereali chiave come grano, mais e soia. A queste si aggiungono silicio e idrogeno verde. Tutte fondamentali per energia, trasporto, difesa, alimenti, fertilizzanti o infrastrutture. E tutte concentrate in pochi territori. Le dispute geopolitiche di oggi non si spiegano più solo con le ideologie. Si spiegano con questa lista. E questa lista non è neutra. È una mappa di potere. Chi controlla queste risorse, controlla il XXI secolo. Non si tratta di diplomazia, ma di dominio. Non di cooperazione, ma di appropriazione. Le guerre non si combattono più con le bandiere, ma con contratti, sanzioni e trattati che mascherano il saccheggio come investimento. L’Africa non è povera: è ricca di litio, coltan e oro. L’America Latina non è instabile: è ambita per il suo rame, acqua e alimenti. E il Medio Oriente non è mai stato solo petrolio: ora è anche gas e rotte strategiche. Il mondo non gira per valori. Gira per materie prime. 10 PAESI CHE DETENGONO OLTRE IL 90 PER CENTO DELLE MATERIE PRIME Cina, Russia, Stati Uniti, Brasile, Australia, Canada, India, Sudafrica, Venezuela e Arabia Saudita concentrano oltre il 90% della produzione o del controllo di queste materie chiave. * Cina: Terre rare (90%), litio raffinato (70%), batterie elettriche (80%), grafite (75%), rame raffinato (60%), magneti di terre rare (80%) * Russia: Gas naturale (17%), petrolio (12%), grano (20%), uranio (8%), nichel (9%), alluminio (6%), fertilizzanti (15%). * Stati Uniti: Contratti futures agricoli ed energetici (90% controllo globale), produzione interna marginale ma controllo dei prezzi di petrolio, gas, oro, mais, grano e rame. * Brasile: Niobio (63%), ferro (8%), bauxite (13%), soia esportata in America Latina (50%) * Australia: Litio (46%), ferro (38%), carbone metallurgico (30%), oro (20%) * Canada: Uranio (7%), oro (4%), litio (3%), potassa (10%), investimenti minerari globali (20% tramite borsa di Toronto) * India: Ferro (8%), bauxite (5%), carbone termico (9%), grano (3° produttore mondiale) * Sudafrica: Manganese (39%), platino (70%), cromo (45%), oro (10%) * Arabia Saudita: Petrolio (17%) riserve provate globali (2° dopo Venezuela), gas liquefatto (10%) * Venezuela: Petrolio (18,2% delle riserve provate), ferro (3%), oro (5%), bauxite (15% potenziale regionale) Chi domina queste risorse, detta le regole del commercio mondiale. AFRICA, IL CONTINENTE CHE DÀ TUTTO E RICEVE NIENTE L’Africa possiede più del 30% dei minerali strategici del pianeta. Ma continua a esportare senza valore aggiunto e sotto controllo straniero. * Niger: 5% dell’uranio mondiale, sfruttato per lo più dalla società francese Orano. Nel 2023, oltre l’80% delle esportazioni verso l’Europa, mentre la popolazione subiva blackout. * Repubblica Democratica del Congo: leader mondiale in cobalto e coltan, sfruttato da Glencore (Svizzera) e China Molybdenum. Il 72% del cobalto esportato nel 2022 è stato raffinato in Cina. * Botswana: oltre il 20% dei diamanti mondiali, controllati da De Beers (Regno Unito). * Angola: esporta petrolio per oltre 25 miliardi di USD l’anno, operato quasi interamente da TotalEnergies (Francia), Chevron (USA) e Sinopec (Cina). * Sudafrica e Gabon: 40% del manganese mondiale, ma meno del 5% trasformato localmente. Nel 2023, l’Africa ha esportato oltre 150 miliardi di USD in materie prime. Ma il 75% di quella ricchezza è stato fatturato fuori dal continente. La mappa delle risorse non coincide con la mappa dello sviluppo. AMERICA LATINA, LA BANCA SENZA CASSAFORTE L’America Latina concentra litio, rame, ferro, bauxite, petrolio, oro e cereali. Ma non controlla né i prezzi né le catene produttive. * Cile: principale esportatore mondiale di rame (5,6 Mt) e secondo di litio (40.000 t LCE), ma senza partecipazione nella produzione globale di batterie. * Argentina: seconde maggiori riserve di litio, esportazioni 2023 oltre 900 milioni USD. Il 95% estratto da Livent (USA), Allkem (Australia) e Ganfeng (Cina). * Brasile: leader in ferro (400 Mt/anno), niobio (90% del mercato), bauxite e soia (152 Mt), ma Vale e Bunge dominano il business. * Venezuela: ferro (Cerro Bolívar), petrolio, bauxite e oro, ma sanzioni e corruzione frenano la sovranità produttiva. * Perù: secondo in argento, terzo in rame e oro, con miniere controllate da Freeport, Newmont e Glencore. L’America Latina produce per il mondo. Ma il mondo decide quanto paga. CANADA E AUSTRALIA, IL RETROBOTTEGA DELL’ESTRATTIVISMO * Canada: meno del 3% del litio mondiale, ma controllo di giacimenti in USA, Argentina, Namibia e Cile. Maggior finanziatore mondiale di junior mining. Aziende come Allkem, Lithium Americas e Nemaska operano da Toronto. Produzione interna: 500 t di litio/anno, ma oltre 10.000 t controllate in operazioni estere. Esportazioni 2023: 21 miliardi USD in minerali, solo il 35% trasformato localmente. * Australia: maggior produttore globale di litio (86.000 t LCE nel 2023) e secondo esportatore di ferro (900 Mt). Pilbara Minerals e Mineral Resources tra i giganti. Ma il 75% del litio venduto in Cina senza valore aggiunto. Entrambi fanno estrazione con bandiera altrui. Sono le banche di materie prime dell’Occidente. CINA, IL POTERE CHE TRASFORMA CIÒ CHE NON HA La Cina importa materie prime ed esporta egemonia tecnologica. Raffina il 70% del litio globale, il 60% del rame e quasi tutta la grafite. Controlla il 90% delle terre rare e produce l’80% dei magneti per auto elettriche e turbine eoliche. È presente in oltre 120 progetti minerari in Africa, Asia e Sudamerica. Investimenti 2023: 10,2 miliardi USD in acquisizione di asset minerari all’estero. Il suo potere non è avere miniere, ma avere fonderie. STATI UNITI, IL POTERE CHE FISSA I PREZZI COMEX e NYMEX fissano i prezzi globali di oro, rame, argento, gas e petrolio. CBOT domina il commercio di grano, mais e soia. Le maggiori aziende di trading agricolo (Cargill, ADM, Bunge) e di metalli (Goldman Sachs, Glencore, Trafigura) operano da Wall Street o Chicago. Controllano i futures, impongono il dollaro e hanno l’ultima parola in ogni disputa finanziaria. Gli USA non scavano: fissano i prezzi e muovono i conflitti. RUSSIA, ENERGIA, ALIMENTI E SOPRAVVIVENZA 17% del gas mondiale, 12% del petrolio, 20% del grano, 8% dell’uranio, 9% del nichel. Produzione: 70 Mt di cereali strategici. Nornickel: tra le prime compagnie mondiali di nichel. Rosatom è leader nell’export di tecnologia nucleare. La Russia usa l’energia come leva geopolitica. QUANTO RESTA DI QUESTE MATERIE? * Litio: 30 anni di riserve globali * Rame ad alta legge: 40 anni * Coltan: 20 anni * Uranio accessibile: 50 anni * Ferro: 60 anni * Nichel: 70 anni * Manganese: 30 anni * Terre rare: 25 anni * Oro puro: 20 anni * Acqua dolce: 70% già impegnata I POPOLI ASPETTANO ANCORA * Jujuy (Argentina): le comunità indigene resistono all’espansione del litio senza consultazione. * Calama (Cile): i lavoratori del rame chiedono reinvestimento. * Niger: i bambini studiano al buio mentre il loro uranio illumina Parigi. * Bolivia: il litio come promessa, ma senza industrializzazione. * RDC: miniere di cobalto in crescita e sfruttamento minorile. EPILOGO Il modello deve cambiare. Servono sovranità industriale, aziende nazionali forti, alleanze regionali e giustizia ambientale. Bisogna smettere di chiedere permesso per usare ciò che è nostro. Bisogna ridisegnare la mappa, e questa volta con giustizia. Perché non si tratta solo di minerali. Si tratta di popoli. E questa volta, nessuno deve restare fuori dal contratto. Mauricio Herrera Kahn