Questo referendum s’ha da votare
Correva l’anno 1997 quando Tiziano Treu, ministro del Lavoro e della Previdenza
sociale dell’allora governo di Romano Prodi, propose “un pacchetto” di norme che
introducevano per la prima volta i contratti co.co.co. e gli interinali gestiti
da società di intermediazione.
Per la verità, già nel 1995, con Dini al comando, si era cominciato a parlare
della necessità di disciplinare la flessibilità del lavoro e il lavoro a tempo
determinato con stravaganti modulazioni di job sharing, fino a quel momento non
esistenti in Italia. Ma, insomma, Prodi con la legge n. 196 del 24 giugno 1997,
approvata da tutte le forze della sinistra (nessuna esclusa, e con poche
lodevoli eccezioni personali), dà piena autorizzazione al progetto di legge Treu
e con ciò accelera il processo di precarizzazione generalizzata del mercato del
lavoro, introducendo anche nuove tipologie contrattuali, oltre all’interinale,
che faranno da lancio per l’odierno. scandaloso stage a prezzi stracciati.
Con le ricostruzioni degli esordi ci fermiamo qui, limitandoci ad aggiungere
che, prima ancora di queste date basilari, avvisaglie si erano avute sin dagli
anni Ottanta. Ciò che è certo è che il completamento del disegno avviene con
l’introduzione del Jobs Act di Matteo Renzi, legge delega 183, anno 2014.
Seguiranno, l’anno successivo, senza più bisogno di passare dalle due camere,
alcuni Decreti legislativi di attuazione. E nell’ultimo decennio (con la sola
timida eccezione del c.d. decreto dignità) è stato un susseguirsi costante di
norme contro i lavoratori.
L’aspetto più eclatante del Jobs Act fu, notoriamente, l’abolizione
dell’articolo 18 che significava per le imprese oltre i 15 dipendenti poter
procedere liberamente a licenziamenti individuali, con riduzione delle garanzie
per i lavoratori licenziati e abbassamento delle indennità previste in caso di
licenziamento illegittimo, laddove la difficile dimostrazione di quello che in
pochi casi residuali consentiva di richiedere la reintegrazione, veniva
addossata al lavoratore o alla lavoratrice.
Tutto ciò che è accaduto su questo terreno in questi trent’anni ha completamente
investito le nostre esistenze e adesso travolge le generazioni più giovani, con
ancor maggior violenza poiché, nel frattempo, i processi di accumulazione si
sono complessificati.
Ne abbiamo molto scritto. Abbiamo fatto parte, ciascuno di noi a modo proprio,
delle varie evoluzioni del movimento dei precari e delle precarie che ha avuto
nella città di Milano il suo centro nevralgico, con l’avvio delle prime lotte
sul tema, dai Chainworker a San Precario, agli Stati Generali della Precarietà e
alle varie MayDay.
Senza scivolare nella memorialistica, ricordiamo che in quei primi anni Duemila
si riconosceva che solo poche strutture politiche o sindacali e alcuni
giuslavoristi si erano accorti del pericolo in corso, mentre il resto delle
discipline accademiche (soprattutto economiche) latitava, faticava a intendere
o, peggio, appoggiava il “sabotaggio” del lavoro in corso a opera delle
oligarchie imprenditoriali e finanziarie. Cosicché, i movimenti, le lotte, le
forme di rappresentazione che sono state ideate in quel tempo precario sono
state manifestazioni e linguaggi sorti esclusivamente dal basso. San Precario è
una sorta di epifania dell’intelletto generale.
È inutile negare che il sindacato confederale non fu, allora, un alleato. Ci
furono alcune organizzazioni sindacali di base, come la Cub, presenti sin dagli
esordi. Ma con i confederali ci fu incomprensione. Una comprensibile
incomprensione, all’interno di una visione divergente del lavoro e della sua
precarizzazione
Oggi, il fatto che Maurizio Landini e la Cgil abbiano indetto quattro referendum
sulla tematica del lavoro al fine benemerito di contrastare l’attuale dilagante
precarietà, che si traduce in forme di sempre più pericolosa coazione verso il
lavoro povero, fa capire quanto sia profondo il vulnus inflitto dal capitale al
lavoro vivo, per usare un vocabolario evocativo, e quanto abbia pesato e pesi
quell’antica incomprensione.
Il vasto schieramento reazionario in favore dell’astensione segnala la
consapevolezza del potere di non rappresentare la maggioranza; raccolgono
l’astensionismo crescente e la sfiducia nelle istituzioni per usarli contro le
moltitudini. Sanno che giocando una partita leale (diciamo con una
partecipazione al voto “normale” del 60%) perderebbero la partita; e giocano
barando, come sempre hanno fatto, incuranti di ogni contraddizione come pure
fanno di continuo. Per questo ha un senso raccogliere la sfida.
Bisogna perciò valorizzare il fatto che la Cgil abbia riconosciuto che la
condizione precaria è oggi regola nei rapporti di lavoro, a prescindere dalle
innumerevoli tipologie contrattuali: l’impermanenza del lavoro vale per tutte e
tutti. Appoggiamo, dunque, con convinzione, la necessità di recarsi alle urne a
votare a favore dei quattro quesiti referendari sui quali ci si dovrà esprimere
l’8 e il 9 giugno prossimi.
I temi riguardano:
Quesito 1: Reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo;
Quesito 2: Maggiore tutela nei licenziamenti delle piccole imprese;
Quesito 3: limiti ai contratti a termine e ritorno all’obbligo di causale;
Quesito 4: responsabilità negli appalti e sicurezza sul lavoro.
Siamo di fronte a una battaglia importante. Soprattutto i giovani dovrebbero
sentire la necessità di esprimersi su tali argomenti ma in generale chi pensa
che questi referendum riguardino solo una componente della società italiana e
ritiene di non doversi impegnare sull’argomento sbaglia grossolanamente. Sono in
gioco principi di giustizia economica e sociale e chi invita a non votare o
scommette sulla possibilità di non raggiungere il quorum è nemico dei lavoratori
e delle lavoratrici. I motivi sono semplici.
La generalizzazione della condizione precaria, infatti, peggiora la situazione
economica e sociale del lavoro, con effetti negativi sull’intero sistema
economico. La precarietà è la prima causa dei bassi salari e del lavoro povero
che oramai è dirompente in Italia. Ridurla è un primo passo per far aumentare i
salari.
È scandaloso che ci siano giovane/i con titolo di master e laurea magistrale con
contratti di stage retribuiti con paghe inferiori agli 800 euro al mese per
40-45 ore di lavoro alla settimana.
È scandaloso che più dell’80% dei nuovi ingressi nel mercato del lavoro siano
costituiti da contratti di stage, apprendistato, interinali, part time o a tempo
determinato.
È scandaloso che dal 2021 a oggi in media i salari (compresi quelli dei
lavoratori più stabili) abbiano perso quasi il 7% del loro potere d’acquisto.
È scandaloso che la precarietà del lavoro sia la prima causa degli incidenti sul
lavoro, mettendo a repentaglio giovani e anziani lavoratori.
È scandaloso che le donne subiscano, grazie alla condizione precaria, una
discriminazione ancor maggiore in termini di salario e di possibilità di
carriera di quella che già vivono nella vita quotidiana.
È scandaloso il crescente sfruttamento del lavoro migrante a causa del difficile
accesso a un diritto di cittadinanza che dovrebbe essere naturale in un paese
civile e non razzista quale è oggi l’Italia (a proposito del referendum numero 5
che propone la riduzione del tempo necessario per diventare cittadino italiano,
cui dedicheremo un articolo apposito). Lo vediamo ogni giorno, per le vie, nelle
aule scolastiche, nei luoghi di lavoro, al cinema, ai concerti: siamo una
società irreversibilmente meticcia. Il potere vuole dividere i segmenti etnici
per dominarli tutti. Meticciato e solidarietà sono valori, non razzismo e
guerra.
Tutti e tutte noi siamo coinvolte e coinvolti. Oggi il lavoro è sempre più vita.
Sempre più il lavoro è senza fine. Superare il quorum significa modificare i
rapporti di forza, se non quelli reali certamente quelli percepiti. Anche la
speranza aiuta la ripresa della lotta di classe e di emancipazione.
La vittoria referendaria è perciò propedeutica ad altre battaglie dirimenti, in
grado di creare i presupposti per una riforma della contrattazione collettiva
che sia adeguata alle esigenze del lavoro e dell’esistenza contemporanee;
funzionale all’imposizione di un salario minimo orario e all’introduzione di una
nuova politica di welfare che abbia come perno il reddito di base incondizionato
e il libero accesso ai beni comuni.
> Questo referendum s’ha da votare – di Andrea Fumagalli e Cristina Morini
Redazione Italia