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Il patriarcato precede la colonizzazione
STUDIARE LA MASCOLINITÀ È COMPRENDERE IL POTERE. STUDIARE GLI STUPRI DI GUERRA È RICONOSCERE LA VIOLENZA COME ULTIMA RISORSA DISPONIBILE PER COLORO CHE NON POSSONO “PROVARE” IL LORO POTERE IN ALTRI MODI. STUDIARE IL PATRIARCATO È RIPENSARE LA STORIA E METTERE IN DISCUSSIONE L’AFFERMAZIONE CHE IL PATRIARCATO SIA UN’INVENZIONE DELLA COLONIZZAZIONE: IL PRIMO HA SECOLI DI STORIA, ANCHE SE LA COLONIZZAZIONE, NON C’È DUBBIO, L’HA INTENSIFICATO E RICONFIGURATO. APPUNTI DI UNA CONVERSAZIONE CON L’ANTROPOLOGA FEMMINISTA ARGENTINA RITA SEGATO Messico, Chiapas (Selva Lacandona). Foto di Massimo Tennenini -------------------------------------------------------------------------------- Invitata dal Coordinamento di Scienze Umane dell’UNAM e dal Programma Universitario di Studi sulla Democrazia, Giustizia e Società (PUEDJS), l’antropologa e scrittrice Rita Segato ha tenuto una conversazione pubblica nella quale ha condiviso alcune delle chiavi del suo recente pensiero. L’incontro, realizzato nel quadro dell’ottantesimo anniversario del Consiglio Tecnico delle Scienze Umane, ha visto la partecipazione di Miguel Armando López Leyva, coordinatore delle Scienze Umanistiche; John M. Ackerman, direttore del PUEDJS; Amneris Chaparro, titolare del Centro di Ricerche e Studi di Genere, e Leticia Flores Farfán, coordinatrice del Corso di Laurea in Studi di Genere. Il potere della parola “Nominare è tracciare la rotta della storia”, ha detto Rita Segato all’inizio della sua conversazione all’UNAM. Con umorismo e critica, la pensatrice femminista, nota a livello internazionale per i suoi studi su genere, violenza e colonialità, ha aperto uno spazio di riflessione collettiva che è stato, nelle sue parole, un esercizio di pensiero vivo. “Le discipline umanistiche sono le più potenti che ci siano, anche se ci fanno credere il contrario. Creando vocabolario, scegliendo quali esperienze nominare e quali no, le scienze umane disegnano il percorso della storia. Sono più importanti della politica“. Una vita tra le lingue Anche se è argentina, Segato ha costruito la sua carriera accademica in Brasile, che ha segnato profondamente la circolazione della sua opera. “Nessuno legge in portoghese. Ci sono pochissimi lettori. È come se ci fosse una riserva di mercato teorica: se uno si chiama John Smith, lo traducono; se si chiama Juan Pérez, no”. In questo senso, ha apprezzato profondamente che la sua parola abbia trovato risonanza in tanti paesi dell’America Latina e, in particolare, in Messico. Da Tilcara, nella valle di Humahuaca, dove vive con il suo compagno, Segato ha difeso uno sguardo critico e decolonizzatore della teoria e della pratica accademica. Per questo, quando è stata invitata all’UNAM, ha proposto che il formato fosse quello di una conversazione aperta: “Quando converso penso meglio, penso cose che prima non avevo pensato”. È importante sottolineare che la sessione si è tenuta nell’ambito del “Seminario permanente (Re)pensando la democrazia nel XXI secolo” del PUEDJS. Frontiera delle civiltà “Il Messico non è il confine tra il Messico e gli Stati Uniti. È il confine tra un’intera civiltà e il nord”, ha detto con enfasi. Nella sua visione, il Messico ha una posizione geopolitica e simbolica unica nel continente: “È il paese più importante dell’America Latina, e lo dico sempre. Ha un ruolo chiave nella disputa civile che stiamo vivendo”. Questa affermazione non è solo geografica: è politica. Per Segato, la storia dei popoli dell’America Latina è attraversata da molteplici forme di colonialismo e il Messico, con la sua ricchezza culturale, storica e demografica, è un attore centrale nella disputa per il senso dell’umano. Mascolinità, il suo tema di studio Anche se ampiamente nota come femminista, Segato ha chiarito che il suo oggetto di studio non è la femminilità, ma la mascolinità come forma strutturale del potere; “comprenderla è capire il potere, il patriarcato è la struttura fondante di tutte le forme di espropriazione, di valore, di prestigio”. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI RAUL ZIBECHI: > Demolire il mandato di mascolinità -------------------------------------------------------------------------------- Da questa prospettiva, ha messo in discussione le teorie che affermano che il patriarcato è stato un’invenzione della colonizzazione: “Non può essere sostenuto né dai dati antropologici né dalla storia. Il patriarcato precede la colonizzazione, anche se questa l’ha intensificato e riconfigurato”. Attraverso esempi etnografici, ha spiegato come le “case degli uomini” -spazi di formazione maschile nelle diverse culture tribali – esistevano nei cinque continenti, molto prima del contatto coloniale. Dallo stupro alla guerra Uno dei concetti più profondi e trasformativi di Segato è quello del mandato di mascolinità, che ha spiegato come si è evoluto dalla sua idea iniziale del “mandato di stupro”, che descrive l’esigenza di dimostrare la mascolinità attraverso la violenza sessuale. “Abbiamo intervistato molti giovani condannati per stupro in Brasile. Tutti ripetevano una narrazione: dovevano provare qualcosa, dimostrare qualcosa agli altri. Quel qualcosa è la mascolinità”. Secondo Segato, la violenza è spesso l’ultima risorsa disponibile per coloro che non possono “provare” il loro potere in altri modi. “Sempre meno uomini hanno accesso ad un patrimonio, ad un posto nell’economia. Allora non resta che la violenza”. Con acutezza, umorismo e impegno, Rita Segato ha lasciato una lezione profonda: nominare, scrivere, parlare non sono atti neutri. Sono atti politici che modellano il futuro. -------------------------------------------------------------------------------- Fonte: Desinformémonos (traduzione di Comune). Publicado originalmente en Gaceta UNAM -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI CRISTINA FORMICA: > Lasciarsi alle spalle il patriarcato -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il patriarcato precede la colonizzazione proviene da Comune-info.
La decolonizzazione parte dai nostri sguardi
CONTRO GLI ORRORI DI ISRAELE E L’IPOCRISIA DEI GOVERNI DELLE GRANDI POTENZE POSSIAMO, IN BASSO, IMPARARE AD ASCOLTARE LE VOCI FEMMINISTE PALESTINESI. HANNO QUALCOSA DA DIRCI Foto di Palestinian Feminist Collective -------------------------------------------------------------------------------- Parlare di  guerra e femminismo, dopo oltre un anno di orrori del genocidio ancora in corso di Israele contro la popolazione palestinese, non è facile. La stessa parola guerra è inadeguata, non si tratta infatti di un conflitto tra Stati, tra eserciti, ma di uno degli eserciti più potenti del mondo, quello di Israele, che stermina una popolazione, animato da una furia fanatica e razzista, che si espande in tutta l’area, di prendere una terra che non gli appartiene e cacciare la popolazione autoctona, sostituendola con quella ebraica. Quando l’esercito di uno Stato occupante uccide oltre 50.000 persone, di cui 17.000 bambini con bombe, malattie fame; ammazza più di 200 giornalisti; distrugge un patrimonio culturale, scuole e università; quando bombarda scientemente un’ambulanza, ammazzando e seppellendo in una fossa comune l’equipaggio di soccorritori, non bastano le (poche) parole di denuncia e di condanna. Servono misure per colpire l’impunità di Israele, come del resto hanno indicato la Corte Internazionale di Giustizia e la Corte Penale Internazionale, Unione Europea e governo italiano, come sappiamo, hanno steso su quanto avviene a Gaza e in tutta la Palestina un sudario di indifferenza e immobilità. Oggi la UE chiede «armi all’Ucraina fino alla vittoria» (!), di riarmare l’Europa, di riempire gli arsenali e di manipolare le coscienze fin nelle scuole. È una politica insostenibile, un patriarcato con facce di donne. In questo quadro di silenzio e doppi standard, di disinformazione e informazione disonesta, ascoltiamo le voci femministe palestinesi, hanno qualcosa da dirci, una strada da suggerirci grazie alla loro lunga storia di lotte di liberazione, dal colonialismo britannico nei primi anni del ‘900, fino a quello sionista: la storica Unione dei comitati delle donne palestinesi nel 2021 venne dichiarata terrorista da Israele e, insieme ad altre 5 Ong messa fuori legge (per i movimenti femministi e femminili in Palestina, vedi C. Dalla Negra, Questa terra è donna, Astarte 2024). Nello stesso anno nasceva negli Stati Uniti, il Palestinian Feminist Collective con la dichiarazione: «Il sionismo, come tutti i sistemi coloniali, è complice della violenza di genere» invitava a porre fine alla violenza dall’interno, come dall’esterno.  Le donne palestinesi sono sempre state parte attiva della fondamentale resistenza alle aspirazioni imperialiste sulla loro patria, convinte che la liberazione nazionale è incompleta senza giustizia di genere. Lo sosteneva anche il giovane movimento di Tal’at, contro misoginia e patriarcato. E il PFC (Nada Elia su Middle East Eye, marzo 2021. N. Elia, La Palestina è una questione femminista, Alegre 2023). Dopo il 7 ottobre e la vergognosa esaltazione di tutti i governi – dagli Stati Uniti all’Italia – del diritto all’autodifesa dello stato occupante di Israele dagli occupati, l’appello delle femministe palestinesi è stato: «Porre fine al genocidio di Gaza è una questione femminista», forse anche una reazione a quella parte di femminismo che, come in Francia, che insorgeva contro stupri palestinesi sulle donne israeliane (petizione ripresa anche in Italia da Micromega): la stessa procuratrice di Israele Gez, dichiarava due mesi dopo in un intervista a Ynet: «Sfortunatamente sarà molto difficile provare questi crimini» in assenza di denunce e di prove. Decine di prove e testimonianze hanno invece purtroppo permesso di ricostruire violenze e torture sulle donne palestinesi. Ultima in ordine di tempo l’indagine della Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite (13 marzo) che nel suo rapporto scrive: Israele ha «intenzionalmente attaccato e distrutto» il principale centro di fertilità del territorio palestinese e ha simultaneamente imposto un assedio e bloccato gli aiuti, compresi i farmaci per garantire gravidanze, parti e cure neonatali sicure,  «deliberatamente infliggendo al gruppo condizioni di vita calcolate per provocarne la distruzione fisica» e «imponendo misure volte a impedire le nascite all’interno del gruppo». Ce lo ha ricordato anche Rania Hammad intervenendo il 18 febbraio scorso alla Scuola politica della Casa Internazionale delle Donne «Non perdiamo più la bussola»: Sappiate che la violenza di genere e sessuale è indispensabile al colonialismo nel suo intento di eliminare noi, il popolo nativo della Palestina e rubare le nostre terre nonché reprimere la nostra resistenza. Il Sionismo, Israele non ha mai fatto segreto dei suoi piani, né della soluzione di avere tutta la terra senza palestinesi, non è nulla di nuovo […] Mentre venivano ammazzate in massa le donne palestinesi, mentre venivano sterminate intere famiglie e le donne rapite, imprigionate, torturate, abusate sessualmente e stuprate, ci siamo trovate, noi donne palestinesi in Occidente, in una situazione surreale di fronte al massacro e ai nostri traumi.  Ci siamo trovate di fronte al femminismo coloniale, ci è stato chiesto di mettere da parte le cause del conflitto stesso, le radici del problema, la verità storica, cioè quelle del colonialismo di insediamento e dell’occupazione; ed è stato preteso da noi che ci dimenticassimo di tutti i nostri antenati massacrati prima di noi, migliaia di vittime, di corpi palestinesi, per soffermarci e condannare un giorno di ottobre del 2023. Ho ripensato al tempo della pandemia, quando sembrava che «nulla sarebbe stato più come prima» e opponevamo la rivoluzione della cura contro la guerra, sempre di stampo patriarcale, che distrugge le società in nome della «esportazione» della democrazia e della «libertà delle donne» – ricordiamoci  l’Afghanistan e l’Iraq – arricchendo l’industria delle armi e i poteri militari, scatenando guerre civili e sostenendo le occupazioni: violenza come massimo gesto di incuria verso l’umanità e la natura. Esprimersi contro armi, violenza e guerre, oggi, deve mettere al centro le pratiche, i pensieri e le parole contro gli orrori compiuti da Israele in solidarietà con le femministe palestinesi anche se sostenere queste posizioni può configgere con il cosidetto «femminismo coloniale». Cominciamo dalle nostre menti a sostenere la decolonizzazione. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La decolonizzazione parte dai nostri sguardi proviene da Comune-info.