Contro i femminicidi serve davvero l’educazione sentimentale nelle scuole?
Di fronte al problema dei femminicidi che affliggono il nostro paese, una delle
soluzioni che viene spesso suggerita è quella dell’introduzione della educazione
sessuale (o sentimentale) nel nostro sistema scolastico. La questione è tuttavia
più complessa di quanto non possa apparire ad un primo esame.
Partiamo da una considerazione che a molti potrà apparire sorprendente. Per
quanto difficile sia avere dei dati certi, possiamo dire con sicurezza che
l’Italia, insieme alla Grecia, è tra i paesi europei (e con ogni probabilità
anche a livello globale) quello col più basso tasso di femminicidi. Al contrario
l’allarme sociale provocato da questo tipo di crimine è a casa nostra
decisamente più alto che da altre parti. Ma è bene chiarire subito che questo è
tutt’altro che un paradosso.
L’inaccettabilità dei comportamenti criminali non si valuta dai dati statistici.
La situazione ipoteticamente ideale può essere pensata come quella in cui, pur
essendo il numero dei fatti delittuosi vicino allo zero, un singolo crimine sia
comunque in grado di suscitare una indignazione generalizzata e un senso di
insopportabilità nell’intera opinione pubblica.
Tutto questo naturalmente a patto che non ci siano poi i soliti politici
giustizialisti, soprattutto di destra ma spesso anche di sinistra, convinti che
ogni problema di ordine pubblico e di convivenza civile si possa risolvere
semplicemente aumentando le pene e il carcere per i responsabili, cosa che temo
possa avvenire presto in Italia per mano del governo neofascista della Meloni,
complice l’opposizione soft della (finta) sinistra di casa nostra.
In questo senso l’idea in controtendenza che ipotizza l’introduzione
dell’educazione sessuale nel nostro sistema scolastico può essere valutata
positivamente. Tuttavia a complicare notevolmente le cose sono anche in questo
caso “i numeri” di alcuni dati statistici. In paesi a noi molto vicini come la
Germania e la Francia l’educazione sessuale è materia d’insegnamento già da
molto tempo; rispettivamente dal 1968 e dal 2001. Si dà tuttavia il caso che nel
paese teutonico i femminicidi siano, per numero di abitanti, il doppio che in
Italia. Se consideriamo poi i cugini d’oltralpe dobbiamo constatare che le donne
uccise in ambito familiare o sentimentale sono, a quanto ci dicono alcuni dati,
addirittura quattro volte più che da noi. Come la mettiamo allora con
l’educazione all’affettività?
Non voglio entrare in discorsi specialistici che non mi competono, malgrado
l’esperienza di diverse decine d’anni di insegnamento. Devo tuttavia constatare,
(almeno stando alle cronache) un crescente disagio dei docenti in un contesto in
cui l’autorità di chi sta in cattedra pare sia sempre più messa in discussione
dai comportamenti diffusi dei discenti, e soprattutto da quelli delle loro
famiglie. Tutto questo malgrado il fatto che mai come ora, almeno nelle
intenzioni, si tende a porre la massima attenzione alle fragilità e alle
condizioni di disagio dei singoli studenti.
Evito per incompetenza di dare giudizi categorici. Mi permetto solo di osservare
come la presa in carico di condizioni specifiche, che possono a volte apparire
di minorità e dunque bisognose di pura assistenza, non deve mai far venire meno
l’obiettivo primario dell’azione educativa che deve essere in ogni caso quello
di produrre soggettività e non semplice indottrinamento.
Far sì che dal fanciullo si produca l’adulto, in quanto soggetto sociale
autodeterminato capace di scelte consapevoli e di autonomia comportamentale e
relazionale, in grado di realizzare quel difficile equilibrio tra
l’autovalorizzazione di sé e l’attenzione e il rispetto per l’altro e per i suoi
bisogni. Educare, in sostanza, significa insegnare il massimo di libertà in
grado di coniugarsi col massimo di responsabilità, perché la prima senza la
seconda è puro arbitrio e la seconda senza la prima è solo schiavitù.
A questo proposito voglio citare come puro esempio il sistema scolastico
giapponese, nel quale agli studenti, fin dalle elementari, si insegna a pulire
le aule alla fine delle lezioni, o a servire a turno il pranzo ai loro compagni
nell’ora di mensa. Qualcuno dice che forse è troppo per dei bambini, ricordando
come in effetti il Giappone, che ha il più basso tasso di omicidi al mondo, ha
però anche un numero abbastanza elevato di suicidi, frutto forse di una società
troppo irreggimentata. Senza arrivare a tanto, da noi si potrebbe comunque
cominciare a responsabilizzare gli studenti, per esempio, per quanto attiene
alla pulizia dei locali, almeno alle medie e alle superiori.
Cosa c’entra tutto questo con l’educazione sessuale? C’entra nella misura in cui
l’ipotesi di una sua introduzione nella nostra scuola, se ci sta a cuore la sua
reale efficacia, mi pare di tale complessità e delicatezza da imporre una
riflessione a tutto campo sui sistemi educativi, di cui queste mie
considerazioni non sono che un primo modesto abbozzo, giusto per porre il
problema.
Antonio Minaldi