Uscire dal capitalismo con Ivan Illich
FINCHÉ SIAMO CAPACI DI DIFFONDERE LA PRATICA E IL DISCORSO DELLA CONVIVIALITÀ,
DEL FEMMINISMO, DELL’ANTIRAZZISMO, DELL’ANARCHIA, DELLO ZAPATISMO, E SOPRATTUTTO
DI RENDERE VISIBILI E SOSTENERE LE ALTERNATIVE, FARLE CRESCERE, COSTRUIRE SPAZI
DI VITA ANTICAPITALISTI, C’È SPERANZA
A proposito del concetto di convivialità di Ivan Illich, nella foto
un’iniziativa della cooperativa sociale Liberi sogni. Dal 31 maggio al 2 giugno,
Liberi sogni promuove Transizioni Fest. Sentire Conosce Agire: qui il programma
completo e le informazioni per partecipare. Avete prenotato?
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È davvero possibile uscire dal capitalismo? È diventato banale sottolineare che
è più facile immaginare la distruzione dell’umanità che uscire dal sistema
capitalistico. Nella post-modernità sono morte le grandi narrazioni che in
precedenza ci davano luce e orientamento, come il socialismo o il cristianesimo;
sembra che non sia più ideologicamente possibile costruire un obiettivo
alternativo. Non stiamo solo affrontando il collasso climatico, ma anche quello
delle idee. Intorno a me trovo persone incredule, nichiliste, anche nei
movimenti sociali. Ho voluto scrivere questo tributo a Ivan Illich (1926-2002)
per i “non convertiti”, per i critici radicali delle alternative, per coloro che
sostengono che siamo arrivati “alla fine della storia” e che “non ci sono
alternative”.
Incontrare Ivan Illich significa tornare alla speranza. Nel mio caso
particolare, è vero che la mia sintesi consiste nell’accettare che la spinta
della modernità capitalista è brutale, difficile da arrestare (a volte lo sento
come impossibile). Tuttavia tornare a Ivan mi riequilibra e mi permette di
essere consapevole del fatto che finché siamo capaci di diffondere la pratica e
il discorso della convivialità, del femminismo, dell’antirazzismo,
dell’anarchia, dello zapatismo, e soprattutto di rendere visibili e sostenere le
alternative, farle crescere, costruire spazi di vita anticapitalisti, c’è
speranza.
Sto già cominciando a sentire le critiche di chi ha letto queste prime righe,
compresi i miei amici e familiari più cari: Carlos, tu non vivi in Messico;
Carlos, noi non siamo indigeni; Carlos, in Messico questo è impossibile; o la
migliore di tutte: Carlos, in Messico si possono creare alternative, ma qui in
Europa o negli Stati Uniti è impossibile. Tuttavia ci sono autonomie come quelle
di Ostula, di Cherán1 o dello Zapatismo, così come innumerevoli esperienze nel
contesto dell’auto-organizzazione conviviale, come il confederalismo democratico
e femminista del Kurdistan o settori del movimento indigeno in Sud America, per
citare alcuni degli esempi più significativi. E ci sono esperienze in tutto il
mondo in cui i beni comuni, gli ambiti comunitari che sono stati strappati ai
popoli dal capitalismo, sono difesi o sono stati recuperati. O ci sono
semplicemente piccoli gesti di ribellione individuale o collettiva di persone
che cercano di fare le cose in un modo diverso: selezionare la spazzatura,
riciclare, riparare, recuperare la medicina tradizionale e le ricette delle
nonne, rifiutare l’auto e usare la bicicletta.
Molti staranno pensando: eh, si… ma tutto ciò non è sufficiente per ribaltare
l’inerzia e il caos causati dal capitalismo, soprattutto oggi, con tutto il peso
di morte e distruzione che porta con sé. E questo è il momento in cui gli
zapatisti, dopo essersi eroicamente organizzati in clandestinità per dieci anni,
dopo aver preso le armi, dopo aver tentato di dialogare con il governo, dopo
aver rinunciato alle armi e aver costruito in pratica per trent’anni ciò che,
secondo Gustavo Esteva, Ivan Illich aveva immaginato, una società conviviale,
un’alternativa al capitalismo, ti interpellano e ti chiedono: E tu…? Che cosa
stai facendo? E poiché è normale che siamo smarriti, agganciati al sistema,
senza bussola, incontrare Ivan ci dà speranza.
Io l’ho conosciuto per caso, quando un compagno, a una fiera del libro
anarchico, mi ha consigliato il libro intitolato Dizionario dello Sviluppo, con
un prologo di Gustavo Esteva (un caro compagno che se n’è andato fisicamente due
anni fa – e in gran parte questo testo si aggiunge agli scritti che rendono
omaggio alla sua memoria). Questo incontro ha segnato un prima e un dopo nella
mia vita. A quel punto volevo sapere tutto sui critici dello sviluppo, su
Illich, Esteva, Jean Robert, Wolfgang Sachs. Per prima cosa, ho contattato
Braulio Hornedo, a Cuernavaca, che mi ha dato Ripensare il mondo con Ivan
Illich2 e mi ha anche raccomandato di procurarmi una copia delle Opere complete
che erano state pubblicate in Messico dal Fondo de Cultura Económica, dietro
sollecitazione di Javier Sicilia e Valentina Borremans.
Non ricordo quando ho comprato Descolarizzare la società, Nemesi medica o La
convivialità.3 Per me quest’ultimo è il libro chiave dall’epoca dei pamphlets di
Ivan Illich, cioè degli anni Settanta, quando coordinava il CIDOC [Centro di
Documentazione Interculturale] di Cuernavaca. Indubbiamente, Illich è ricordato
nel mondo come il grande critico del sistema educativo, per aver fatto
dichiarazioni radicali sulla sua contro-produttività: «Per la maggior parte
delle persone l’obbligo della frequenza scolastica è un impedimento al diritto
di apprendere».4 Sebbene molte delle affermazioni di questo libro possano
sembrare obsolete, in realtà le idee di base contro il sistema educativo sono
pienamente valide ancora oggi. L’impegno di Illich consiste nel puntare
sull’apprendere e non sull’istruire, sulla generazione di spazi capaci di
promuovere la curiosità e l’apprendimento collettivo invece che su un’istruzione
diretta dall’alto e autoritaria.
Ma il pensiero di Illich va ben oltre la critica del sistema educativo: Ivan ci
ha lasciato in eredità un’intera cassetta degli attrezzi per pensare alla
modernità. «Illich ha anticipato con inquietante lucidità l’attuale disastro, la
decadenza di tutte le istituzioni, il modo in cui una dopo l’altra hanno
cominciato a produrre l’opposto di ciò che si presume giustifichi la loro
esistenza. Ha mostrato precisamente come la corruzione del meglio sia il peggio.
Ed ha anche anticipato il modo in cui la gente avrebbe reagito al disastro», ha
scritto Gustavo Esteva a proposito del suo grande amico.
E qui si comincia ad essere affascinati, quando si conosce la storia di Ivan, il
rapporto tra la sua vita e le sue idee, il momento sociale e politico in cui ha
generato il suo pensiero, i suoi percorsi e infine il suo impegno per
l’amicizia.
Sì, l’amicizia, ma anche l’interculturalità. È impressionante che dopo
cinquant’anni, dopo aver attraversato un periodo di oblio, il pensiero di Ivan
si presenti oggi come un corpus critico complesso, utile per affrontare il
collasso sistemico. Il suo lavoro può essere interpretato come una revisione
critica della moderna tensione tra autonomia e strumentalità, come ha fatto
Humberto Beck.5 Le donne e gli uomini hanno creato strumenti [herramientas] o
istituzioni per raggiungere una maggiore autonomia, ma Illich ha sottolineato
che gli strumenti, invece che mezzi per raggiungere l’autonomia, sono diventati
fini. Così perdiamo l’autonomia, e le istituzioni ci controllano generando
l’opposto di quello che era il loro scopo originario.
In La convivialità Illich ha proposto la sua teoria dei limiti. Egli ritiene
che, a partire da una certa soglia di sviluppo, un’istituzione produca
esattamente l’opposto di quello che, in teoria, è il suo fine. La medicina
produce nuove malattie; Il sistema educativo genera meccanicismo e ignoranza e
il trasporto motorizzato rallenta gli spostamenti, smantellando così i moderni
concetti di progresso e sviluppo.
Molte persone, leggendo questo, penseranno: sì, è chiaro, se qualcosa cresce
troppo non va bene, gli estremi non sono mai buoni! Ma raramente ci fermiamo a
pensare che lo Stato e le istituzioni moderne fanno parte di questi estremi.
Abbiamo normalizzato il fatto che soggetti terzi si occupino di sfere chiave
della nostra vita, supponendo anche che lo facciano altruisticamente, come se il
potere e le strutture verticali attraverso le quali si sono arrampicati non li
influenzassero. Vale a dire che le istituzioni educative, le istituzioni
sanitarie, i moderni sistemi di trasporto, così come il sistema alimentare e
molti altri, sono cresciuti così tanto che abbiamo delegato il nostro potere
decisionale a “esperti”, e questi sistemi hanno generato, secondo Illich,
“contro-produttività”. Recuperare collettivamente i nostri ambiti comunitari,
strapparli allo Stato e alle grandi imprese, impiegare “i verbi” [invece dei
sostantivi], come diceva Gustavo, è la sfida: imparare, seminare, curare,
spostarsi. Queste indicazioni ci ricordano esattamente la necessità di un
ritorno a quella dimensione comunitaria che è tanto rivendicata nella Tierra
insumisa,6 l’Europa che gli zapatisti hanno voluto incontrare.
Da dove è nata questa geniale intuizione? si chiede Javier Sicilia nel prologo
al secondo volume dell’Opera Omnia di Illich pubblicata in Messico.7 Per Illich,
la modernità come fase storica non rappresenta la fine del cristianesimo, né il
suo esito positivo, ma il suo pervertimento. Per Illich, secondo le
conversazioni che ebbe con l’amico David Cayley, pubblicate postume, i primi
cristiani avevano la tradizione di tenere sempre in casa una candela e un pezzo
di pane, nell’eventualità che Gesù si presentasse nelle vesti di uno straniero a
chiedere di essere ospitato a casa loro.8 Tuttavia, con l’imperatore romano
Costantino il cristianesimo fu istituzionalizzato come religione di Stato, così
come la pratica dell’ospitalità. In tal modo, quello che prima era un segno del
cristianesimo (accogliere il migrante, il prossimo, ospitarlo e nutrirlo)
divenne qualcosa che solo l’istituzione poteva fare, il che spogliava i
cristiani primitivi di una caratteristica che dava loro un’identità. È qui che
Illich colloca la nascita della cultura delle istituzioni moderne: il momento in
cui smettiamo di occuparci dei nostri affari vitali e comunitari e deleghiamo
agli esperti il potere di svolgere quelle attività al nostro posto, in modo tale
che a lungo andare gli strumenti diventano fini in se stessi, e prima o poi
producono l’opposto di ciò per cui erano stati creati.
In modo analogo, Illich reinterpreta la parabola del Buon Samaritano per
renderci consapevoli dell’importanza di avere ben chiaro chi è il nostro
prossimo, chi sono coloro con cui costruire l’alternativa. Nella versione di
Ivan, il Buon Samaritano incontra un uomo ferito, un romano o qualcosa del
genere, spiega Illich per farci capire tutte le potenzialità dello sguardo del
Samaritano, come se ai nostri giorni, in cui assistiamo al genocidio palestinese
da parte dello Stato israeliano, un palestinese incontrasse un ebreo ferito e
decidesse di prendersene cura e di farsi carico delle spese della locanda che lo
ospiterà. È un’azione radicale e trasgressiva: si tratta di recuperare la
libertà di scegliere chi è il nostro prossimo, indipendentemente da ciò che il
contesto ci indica.
Alla fine della sua vita, Ivan si dedicò allo studio dell’origine delle certezze
moderne e a coltivare l’amicizia. Indicò quest’ultima come il luogo in cui è
possibile generare relazioni altre, conviviali. Una scelta che in realtà porta
con sé un grande impegno. L’amore per le persone con cui viviamo, per gli amici,
la famiglia, il partner, i compagni, porta in sé il seme del mondo nuovo. Quegli
amici con cui si può condividere da una tavola apparecchiata fino alla
generazione collettiva di nuove forme di vita, costituiscono il luogo illichiano
della speranza, lo spazio ideale per uscire gradualmente dal capitalismo, come
dicono gli zapatisti, ognuno a modo suo, costruendo un mondo in cui trovano
posto molti mondi diversi.
Anche la conversazione è uno spazio privilegiato e un’arte caldeggiata da Ivan.
Poiché tutto inizia nella nostra mente, condividere ciò che abbiamo imparato,
sottoporci a un esame critico, ideare qualcosa insieme agli altri è un tesoro di
cui dobbiamo approfittare. È urgente mettere in pratica i nostri progetti
conviviali verso un’uscita non violenta dal capitalismo, ma non porgendo l’altra
guancia, come a volte viene mal interpretato nel contesto del pacifismo, ma con
azioni collettive che generino alternative giuste, locali e sostenibili, che
nello stesso tempo disarticolino e blocchino l’inerzia del sistema. Il potere
insiste nel farci credere che non ci sono alternative, ma il futuro non è
scolpito sulla pietra. Il messaggio di Ivan porta con sé questa speranza.
Diffondiamo il suo messaggio nelle conversazioni con i nostri amici, mettiamo in
pratica le sue idee, discutiamone, costruiamo la casa di tutti.
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Fonte: «Salir del capitalismo con Iván Illich», in El Salto. Articolo pubblicato
con l’autorizzazione dell’autore. Traduzione a cura di Camminardomandando.
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1 N.d.t. – Città che in Messico hanno realizzato un buon grado di autonomia.
2 N.d.t. – Museodei by Hermatena, Riola (BO) 2014 [2012].
3 N.d.t. – Descolarizzare la società. Una società senza scuola è possibile?,
Mimesis, Milano-Udine, 2019 [1971] / Nemesi medica. L’espropriazione della
salute, Red Edizioni, Como 2013 [1976] / La convivialità, Boroli, Milano 2005
[1973].
4 N.d.t. – Dall’Introduzione a Descolarizzare la società.
5 N.d.t. – Beck H., Otra modernidad es posible, Malpaso Ediciones, 2017.
6 N.d.t.- Arrivando in Europa nel loro «viaggio per la vita», così gli zapatisti
hanno battezzato il continente: terra indomita, che non cede, che non si
arrende. Si veda l’articolo di Esteva «Condizioni di forza e di debolezza», 28
giugno 2021.
7 N.d.t. – Obras reunidas, Fondo de Cultura Económica, México 2008.
8 N.d.t. – Illich I., I fiumi a nord del futuro. Testamento raccolto da David
Cayley, Quodlibet, 2009 (testo originale: 2005), pp. 38-39.
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