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Sentirsi parte di una narrazione a più voci
TRA MILLE DIFFICOLTÀ E CONTRADDIZIONI IL MONDO CONTADINO RACCOGLIE OGGI SEMPRE PIÙ ESPERIENZE DIVERSE DI RITORNO ALLA TERRA E DI CREAZIONE DI COMUNITÀ LEGATE ALL’AGRICOLTURA CONTADINA, COME PRATICHE CARICHE DI SENSO, RICCHE DI NUOVE E VECCHIE DOMANDE. QUESTO UNIVERSO È GIÀ IN GRADO DI INDICARE STRADE DI DISOBBEDIENZA, OFFRIRE SAPERI, ROMPERE L’INDIVIDUALISMO DELLA SOCIETÀ ATOMIZZATA. SI TRATTA PERÒ DI NON DIMENTICARE MAI CHE I CAMBIAMENTI CULTURALI NON AVVENGONO IN MESI O ANNI MA IN DECENNI E PER QUESTO QUALSIASI ECOSISTEMA DEVE RESTARE APERTO, MA SI TRATTA ANCHE DI NON DELEGITTIMARE, SCREDITARE, ISOLARE ESPERIENZE DIVERSE DALLA PROPRIA. ALCUNE RIFLESSIONI DALLA TRE GIORNI “STORIE E RESISTENZE CONTADINE” IN VAL PELLICE Raccolte d’autunno: Ortica per il pasto, Prugnolo-Sambuco&Biancospino per la composta. Foto di Daniela Di Bartolo -------------------------------------------------------------------------------- In giugno ho partecipato per un giorno e una notte all’incontro “Storie e resistenze contadine” in Val Pellice. Un luogo incantevole, una cornice bella e accogliente, fra uno spazio per le tende, un prato al centro che ospita un grande cerchio, un bellissimo torrente d’acqua fresca e cristallina che attraversa lo spazio comunitario quasi a rigenerarlo e a ricordare che nulla è fermo. E ancora: una cucina aperta e un operoso collettivo che sforna ottimo cibo, una spina di birra artigianale e un box di ottimo barbera a offerta libera stanno a ricordare che la fiducia è una pratica e un esercizio politico essenziale. Una comunità biodiversa si pone delle domande nella creazione di esperienze e pratiche di contadinanza a partire da una critica radicale al modello dominante che considera la città come il grande parassita, il mostro che tutto colonizza, tutto sussume, tutto mercifica, tutto intossica e abbruttisce fuori e dentro di noi. La critica alla città come fonte ed emblema del problema, contesto mortifico da lasciarsi alle spalle per dare vita ad altre forme di economia e di autonomia, a partire dalla cura della terra come cura di noi stessi e noi stesse e dall’autoproduzione di cibo, come primo passo di autosussistenza e autodeterminazione. Città come epicentro dell’inutile e del fittizio, che non risponde ad alcun bisgno se non a quello della sopravvivenza e delle perpetuazione del capitalismo. La città irradia modelli e gerarchie come fossero assiomi assoluti e immodificabili ed espande la dipendenza dal denaro e la cupidigia dell’accumulo come unica prospettiva che avviluppa tutto, a partire dal pensiero. Nella convivialità dell’incontro colpisce la presenza giovanile, che costituisce la maggioranza delle e dei presenti e l’eterogeneità dei partecipanti, tra chi da tempo lavora con la terra, chi si sta avvicinando, chi ne è affascinato e sta pensando a come lasciare la città, chi si muove in funzione di raccolte e lavori temporanei senza avere riferimenti fissi. C’è chi conduce piccole aziende agricole che di fatto sono piccole imprese, chi non ne vuole saperne di burocrazia e compromessi e si dedica a sviluppare progetti di sussistenza nell’informalità, chi in modo comunitario, chi in forma collettiva. Diverso anche il rapporto col denaro tra chi riceve contributi pubblici per portare avanti il proprio progetto e chi li rifiuta, chi ha contratto dei debiti per avere accesso a trattore e altre forme di tecnologia e vive fatiche e ansie legate a mole di lavoro, costi e debiti che allontanano dalle speranze originarie di una vita armonica e serena in natura e chi ha deciso di proseguire secondo un approccio rigorosamente low tech, vivendo diverse forme di fatiche. Una ragazza racconta il timore di lasciare la città e un lavoretto che le garantisce delle entrate certe anche solo per mantenersi una macchina e qualche minima tutela e certezza. Nella pluralità delle visioni e nell’apertura del confronto, un contadino della Val Pellice contesta il carattere antispecistico dato alla tre giorni e al relativo menu. La dimensione del rapporto con le bestie anche crudele ma non industriale fa parte dell’agricoltura, delle pratiche ancestrali e della storia dell’uomo (leggi anche ). Tra diversi racconti ed esperienze che esprimono soprattutto spinte embrionali e recenti tentativi di avvicinarsi alla terra, spiccano esperienze più solide, durature e con le idee chiare. Atelier Paysan con il suo articolatissimo lavoro “Liberare la terra dalle macchine” approfondisce nella storia i meccanismi politici, economici e culturali di espropriazione che hanno relegato il settore primario ai margini delle civiltà europee e denuncia le minacce e i pericoli di controproduttività insiti nell’agricoltura 4.0, dominata dall’alta tecnologia e dalla dipendenza da grandi capitali, dalla proprietà delle sementi e dai nuovi ogm. A fronte delle concrete minacce rivolte alla sovranità alimentare di tutti e tutte, Atelier Paysan propone la sfida di un ritorno diretto alla terra per un milione di contadini e del recupero delle pratiche, dei metodi e dei contenuti dell’educazione popolare per un cambiamento più profondo e integrale. Per la rivoluzione sociale sono necessarie alleanze e strategie con vari settori della popolazione, per cambiare i rapporti di forza a partire dal legame con la terra. Servono ecosistemi aperti e dinamici, non esistono isole felici: la comunità chiuse alla lunga implodono… Il livello e la portata della discussione si alza molto. A comprenderlo e reggerlo ci sono diversi contadini storici. Nonostante il Italia le realtà agricole, controllate da grandi organizzazioni di secondo livello molto colluse col sistema, stentino a dar vita a movimenti politici di massa, è rimasta viva dall’inizio del terzo millennio una rete di agricoltori che era riuscita nel 2013 a fare approvare una legge nazionale che definiva il concetto di “Contadinanza”, a protezione dalle politiche, dalle leggi e dalle normative che privilegiano le grandi imprese. L’impegno, seppur frastagliato, era quello di dar vita a cooperative territoriali integrali, che possano garantire sicurezza alimentare e sociale sui territori, con l’idea di uscire da una dimensione di minoritarietà e marginalità, per fondere i movimenti per i diritti politici e sindacali con quelli contadini, in nome della sovranità territoriale locale. Un tentativo che con molta fatica ha coinvolto circa 250 realtà agricole solo in Piemonte… A fronte di tante esperienze diverse e di nuove e vecchie domande quello che accomuna è vedere nel ritorno alla terra e nella creazione di comunità radicate nella terra una possibile via per resistere al dominio, e praticare sentieri generativi e in qualche modo carichi di senso, maggiore libertà e felicità mentre il futuro si fa sempre più tetro e il disastro intorno incombe. Accomuna il rifiuto di un mercato che penetra ogni ambito della vita in una escalation che porta inevitabilmente alla guerra, di un paesaggio dentro e fuori di noi che si uniforma, di un sistema normativo inibente e senza senso che atrofizza gusto e sensi, rende asettiche pratiche e relazioni e insapore il cibo, di un sistema di controllo che si articola in vari apparati e disegni concorrendo in modo coordinato alla devastazione. Espropriazione dell’acqua, della terra e della possibilità di coltivare e produrre cibo sono la prima forma di attacco e annichilimento, materiale e spirituale. In questo senso un pensiero non può che andare alla Palestina. In questo senso un movimento verso un ritorno reale alla terra pare l’unica forma di irriducibilità e resistenza. Nell’incontro emerge dunque la visione di un sistema totalitario e totalizzante che fa della mercificazione, dell’estrattivismo, del controllo e della paura le principali forme di dominio, dall’altra una molteplicità di esperienze e percorsi di lotta ed emancipazione a partire dal ritorno alla terra. In realtà quello che percepisco e che vorrei mettere in luce in questo testo è che il problema è non solo esterno ma anche interno al movimento. Il problema siamo anche noi. Mi riferisco, di fondo, a una mancanza di rispetto ai percorsi personali e collettivi. Quella biodiversità delle esperienze che sopra descrivevo, anziché essere un punto di forza diventa un terreno di conflitti, denigrazioni, screditamenti, diffamazioni, diaspore. Si erigono feudi per mettere in campo espressioni di narcisismo, edonismo, nichilismo per espiare drammi, fallimenti, frustrazioni, ambizioni e incapacità personali. Continuiamo a guardare, denunciare, colpevolizzare il nemico fuori senza riconoscere i limiti e blocchi che abbiamo dentro. “La mia o la nostra esperienza è sempre la più giusta, la più rivoluzionaria e radicale…”. Manca di fondo un’etica e una pratica fondata sul rispetto e il supporto ai percorsi altri. Uno dei principali ostacoli alla creazione di un movimento più allargato e al dipanarsi di alternative credibili è la tendenza interna ai movimenti di giudicare, delegittimare, screditare, isolare esperienze diverse dalla propria che rappresentano invece percorsi che ciascuno, secondo propri equilibri e sensibilità, intraprende per provare a vivere nel modo più libero e coerente possibile gestendo le proprie contraddizioni in una cornice oppressiva e in un momento storico deprimente ma proprio per questo colmo di domande e di possibili scelte radicali. In permacultura il concetto di omeostasi si riferisce alla capacità della natura di rafforzarsi e far fronte ai pericoli grazie alla capacita di creare relazioni tanto più solide quanto più agite da soggetti biodiversi. Noi facciamo esattamente il contrario e in questo modo ci indeboliamo. Si tratta invece di accogliere i precari equilibri e gli ecosistemi personali che ogni persona e realtà sta costruendo e di inventare forme creative di mutuo aiuto, fuori dal sistema e dal pensiero dominante. Evitare il reduzionismo che porta a vedere il mondo e le prospettive di cambiamento da un solo tema e angolatura, visto che tutto è collegato. Ciascuno di noi contiene moltitudine e si tratta di accettare che ognuno sceglie e riesce a gestire ambiti di antagonismo e radicalità e ambiti di negoziazione e convergenza perché non ne ha le forze o sente anche di impazzire e implodere nel combattere contro tutto e tutti. In qualche caso riesce ad agire senza denaro e secondo le pratiche che sente proprie dedicando tempo, energie e amore, in altri deve scendere a patti. Chi decide di occupare e chi ritiene aver più margine di azione tenendo aperto un circolo ARCI, chi decide di comprare la terra e chi valuta che la terra non può essere comprata, chi ritiene imprescindibile il rifiuto verso ogni pratica burocratica e chi decide di aprire una piccola impresa o cooperativa agricola per avere risorse per partire e riconoscersi un reddito, chi sceglie per la certificazione biologica e chi no… si tratta di porsi in una posizione di ascolto e apprendimento senza la pretesa di sentirsi più rivoluzionario e più radicale degli altri. Per essere più esplicito: si tratta di imparare a non romperci i coglioni e di perderci in quisquiglie e rivalità personali e di utilizzare tutte le energie a supportarci, a creare un ecosistema basato su rispetto e fiducia e una cornice versatile in cui tutti e tutte in diversi momenti possano trovare spazio e dare supporto, secondo una disciplina e delle pratiche condivise. Stefania Consigliere ci ricorda il valore della molteplicità. Siamo cresciuti nel dualismo dell’o/o, pro o contro, con me o contro di me invece dobbiamo imparare a ragionare con la categoria dell’e/e…. Più esperienze, più relazioni, più percorsi, più forme di intreccio, più esiti, più collaborazione. Di fondo più rispetto e supporto riconoscendo che non ci siano gerarchie ma nemmeno uniche certezze e verità o modelli validi per tutti. Servono disobbedienza, opposizione, massa critica, esperienze concrete che possano essere di riferimento. Servono saperi che rischiano di essere persi e depredati. Saperi tecnici legati alla natura e all’agricoltura ma anche saperi di base. Anche cooperare, come ci ricorda sempre Stefania Consigliere, è un sapere, una parte di noi da riprendere e coltivare in una società atomizzata che ha fatto dell’individualismo l’unica forma di sacralità fino a farci sentire tutti soli e divisi… Si tratta di interrogarsi sul lavoro: ripensare forme di lavoro basate sull’economia di sussistenza e centrate sul valore d’uso del nostro impegno e delle nostre relazioni di scambio e/o difendere i diritti conquistati dai nostri padri e nonni all’interno dei rapporti di lavoro salariato? Per quale approccio tendere considerando che ciascuno dei due approcci è portatore di un diverso modo di intendere il tempo, le relazioni, la proprietà? Si tratta di calibrare sforzi e fatiche legate al lavoro, stabilire un equilibrio nella gestione del tempo, mettendo al centro e calibrando il valore del limite e della misura che per ciascuno è soggettivo e diverso. Si tratta di provare a star bene ricostruendo un tessuto di relazioni resistenti, nella convivialità, secondo l’accezione di Ivan Illich, equiparando il più possibile mezzi e fini: liberarsi liberandosi! I cammini si tracciano camminando, caminando se hace il camino… Ma ci vuole tempo… Sempre Stefania Consigliere ci ricorda che i cambiamenti culturali non avvengono in mesi o anni ma in decenni. L’importante è che gli ecosistemi siano aperti nello sviluppo e nelle relazioni e che dibattito e confronto siano ricchi, generativi e trasformativi. Il potere si gongola della nostre divisioni, deride i nostri numeri, si beffa delle nostre fatiche ma non dorme sonni tranquilli quando sappiamo organizzarci, radicare delle pratiche e delle esperienze credibili che sappiano contaminare e avvicinare altri giovani (non a caso si discuteva a Monza come a Venaus come oggi i più giovani siano le principali vittime delle più severe repressioni, quasi in una logica preventiva e intimidatoria). Uno dei più grandi apprendimenti che possiamo acquisire oggi è l’importanza della centratura personale. La dimensione delle emozioni e dello spirito che aiutano nelle scelte. Forse non è tanto l’appartenenza alla classe, non sono gli slogan e le parole d’ordine di un movimento o di un’ideologia che ci portano a scelte e percorso coraggiosi ma è un profondo sentire personale, una connessione con se stessi, col pianeta, con la vita, col genius loci dei territori che abitiamo, le relazioni e le forme di armonia invisibili che ci legano agli altri, umani e non. Forse è questa parte del sentire, a volte estromessa dai movimenti più orientati a sensi di appartenenza basati su altre categorie e dimensioni, quella che può dare autenticità e profondità alle scelte e favorire tante contaminazioni liberatrici. Rassegnazione, disincanto, senso di inutilità sono tra le principali armi del potere per infondere passività, assuefazione e sottomissione. Come ci suggerisce Marco Deriu la rabbia non può essere l’unica emozione che ci muove. La rivolta passa dal reincanto del mondo, dal ritrovare meraviglia, gioia, magia, dal riappropriarsi della consapevolezza di sé, coltivando l’immaginazione del possibile. Sentirsi parte di una narrazione a più voci, che faccia del valore e della pratica della biodiversità il proprio paradigma, senza dover aderire a un modello monolitico o a delle certezze definitive e incontrovertibili da difendere, ci può aiutare a trovare lo spirito e il coraggio per affrontare sotto mille forme e prospettive l’attacco all’umano e al pianeta da cui insieme dobbiamo difenderci contrattaccando. La chiave della biodiversità ci può anche aiutare a vedere intorno a noi tanti e sempre nuovi possibili amici e alleati e a trovare nuove chiavi per interpretare incontri generativi ed esperienze significative come quelle vissute in Val Pellice. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Sentirsi parte di una narrazione a più voci proviene da Comune-info.
Uscire dal capitalismo con Ivan Illich
FINCHÉ SIAMO CAPACI DI DIFFONDERE LA PRATICA E IL DISCORSO DELLA CONVIVIALITÀ, DEL FEMMINISMO, DELL’ANTIRAZZISMO, DELL’ANARCHIA, DELLO ZAPATISMO, E SOPRATTUTTO DI RENDERE VISIBILI E SOSTENERE LE ALTERNATIVE, FARLE CRESCERE, COSTRUIRE SPAZI DI VITA ANTICAPITALISTI, C’È SPERANZA A proposito del concetto di convivialità di Ivan Illich, nella foto un’iniziativa della cooperativa sociale Liberi sogni. Dal 31 maggio al 2 giugno, Liberi sogni promuove Transizioni Fest. Sentire Conosce Agire: qui il programma completo e le informazioni per partecipare. Avete prenotato? -------------------------------------------------------------------------------- È davvero possibile uscire dal capitalismo? È diventato banale sottolineare che è più facile immaginare la distruzione dell’umanità che uscire dal sistema capitalistico. Nella post-modernità sono morte le grandi narrazioni che in precedenza ci davano luce e orientamento, come il socialismo o il cristianesimo; sembra che non sia più ideologicamente possibile costruire un obiettivo alternativo. Non stiamo solo affrontando il collasso climatico, ma anche quello delle idee. Intorno a me trovo persone incredule, nichiliste, anche nei movimenti sociali. Ho voluto scrivere questo tributo a Ivan Illich (1926-2002) per i “non convertiti”, per i critici radicali delle alternative, per coloro che sostengono che siamo arrivati “alla fine della storia” e che “non ci sono alternative”. Incontrare Ivan Illich significa tornare alla speranza. Nel mio caso particolare, è vero che la mia sintesi consiste nell’accettare che la spinta della modernità capitalista è brutale, difficile da arrestare (a volte lo sento come impossibile). Tuttavia tornare a Ivan mi riequilibra e mi permette di essere consapevole del fatto che finché siamo capaci di diffondere la pratica e il discorso della convivialità, del femminismo, dell’antirazzismo, dell’anarchia, dello zapatismo, e soprattutto di rendere visibili e sostenere le alternative, farle crescere, costruire spazi di vita anticapitalisti, c’è speranza. Sto già cominciando a sentire le critiche di chi ha letto queste prime righe, compresi i miei amici e familiari più cari: Carlos, tu non vivi in Messico; Carlos, noi non siamo indigeni; Carlos, in Messico questo è impossibile; o la migliore di tutte: Carlos, in Messico si possono creare alternative, ma qui in Europa o negli Stati Uniti è impossibile. Tuttavia ci sono autonomie come quelle di Ostula, di Cherán1 o dello Zapatismo, così come innumerevoli esperienze nel contesto dell’auto-organizzazione conviviale, come il confederalismo democratico e femminista del Kurdistan o settori del movimento indigeno in Sud America, per citare alcuni degli esempi più significativi. E ci sono esperienze in tutto il mondo in cui i beni comuni, gli ambiti comunitari che sono stati strappati ai popoli dal capitalismo, sono difesi o sono stati recuperati. O ci sono semplicemente piccoli gesti di ribellione individuale o collettiva di persone che cercano di fare le cose in un modo diverso: selezionare la spazzatura, riciclare, riparare, recuperare la medicina tradizionale e le ricette delle nonne, rifiutare l’auto e usare la bicicletta. Molti staranno pensando: eh, si… ma tutto ciò non è sufficiente per ribaltare l’inerzia e il caos causati dal capitalismo, soprattutto oggi, con tutto il peso di morte e distruzione che porta con sé. E questo è il momento in cui gli zapatisti, dopo essersi eroicamente organizzati in clandestinità per dieci anni, dopo aver preso le armi, dopo aver tentato di dialogare con il governo, dopo aver rinunciato alle armi e aver costruito in pratica per trent’anni ciò che, secondo Gustavo Esteva, Ivan Illich aveva immaginato, una società conviviale, un’alternativa al capitalismo, ti interpellano e ti chiedono: E tu…? Che cosa stai facendo? E poiché è normale che siamo smarriti, agganciati al sistema, senza bussola, incontrare Ivan ci dà speranza. Io l’ho conosciuto per caso, quando un compagno, a una fiera del libro anarchico, mi ha consigliato il libro intitolato Dizionario dello Sviluppo, con un prologo di Gustavo Esteva (un caro compagno che se n’è andato fisicamente due anni fa – e in gran parte questo testo si aggiunge agli scritti che rendono omaggio alla sua memoria). Questo incontro ha segnato un prima e un dopo nella mia vita. A quel punto volevo sapere tutto sui critici dello sviluppo, su Illich, Esteva, Jean Robert, Wolfgang Sachs. Per prima cosa, ho contattato Braulio Hornedo, a Cuernavaca, che mi ha dato Ripensare il mondo con Ivan Illich2 e mi ha anche raccomandato di procurarmi una copia delle Opere complete che erano state pubblicate in Messico dal Fondo de Cultura Económica, dietro sollecitazione di Javier Sicilia e Valentina Borremans. Non ricordo quando ho comprato Descolarizzare la società, Nemesi medica o La convivialità.3 Per me quest’ultimo è il libro chiave dall’epoca dei pamphlets di Ivan Illich, cioè degli anni Settanta, quando coordinava il CIDOC [Centro di Documentazione Interculturale] di Cuernavaca. Indubbiamente, Illich è ricordato nel mondo come il grande critico del sistema educativo, per aver fatto dichiarazioni radicali sulla sua contro-produttività: «Per la maggior parte delle persone l’obbligo della frequenza scolastica è un impedimento al diritto di apprendere».4 Sebbene molte delle affermazioni di questo libro possano sembrare obsolete, in realtà le idee di base contro il sistema educativo sono pienamente valide ancora oggi. L’impegno di Illich consiste nel puntare sull’apprendere e non sull’istruire, sulla generazione di spazi capaci di promuovere la curiosità e l’apprendimento collettivo invece che su un’istruzione diretta dall’alto e autoritaria.   Ma il pensiero di Illich va ben oltre la critica del sistema educativo: Ivan ci ha lasciato in eredità un’intera cassetta degli attrezzi per pensare alla modernità. «Illich ha anticipato con inquietante lucidità l’attuale disastro, la decadenza di tutte le istituzioni, il modo in cui una dopo l’altra hanno cominciato a produrre l’opposto di ciò che si presume giustifichi la loro esistenza. Ha mostrato precisamente come la corruzione del meglio sia il peggio. Ed ha anche anticipato il modo in cui la gente avrebbe reagito al disastro», ha scritto Gustavo Esteva a proposito del suo grande amico. E qui si comincia ad essere affascinati, quando si conosce la storia di Ivan, il rapporto tra la sua vita e le sue idee, il momento sociale e politico in cui ha generato il suo pensiero, i suoi percorsi e infine il suo impegno per l’amicizia. Sì, l’amicizia, ma anche l’interculturalità. È impressionante che dopo cinquant’anni, dopo aver attraversato un periodo di oblio, il pensiero di Ivan si presenti oggi come un corpus critico complesso, utile per affrontare il collasso sistemico. Il suo lavoro può essere interpretato come una revisione critica della moderna tensione tra autonomia e strumentalità, come ha fatto Humberto Beck.5 Le donne e gli uomini hanno creato strumenti [herramientas] o istituzioni per raggiungere una maggiore autonomia, ma Illich ha sottolineato che gli strumenti, invece che mezzi per raggiungere l’autonomia, sono diventati fini. Così perdiamo l’autonomia, e le istituzioni ci controllano generando l’opposto di quello che era il loro scopo originario. In La convivialità Illich ha proposto la sua teoria dei limiti. Egli ritiene che, a partire da una certa soglia di sviluppo, un’istituzione produca esattamente l’opposto di quello che, in teoria, è il suo fine. La medicina produce nuove malattie; Il sistema educativo genera meccanicismo e ignoranza e il trasporto motorizzato rallenta gli spostamenti, smantellando così i moderni concetti di progresso e sviluppo. Molte persone, leggendo questo, penseranno: sì, è chiaro, se qualcosa cresce troppo non va bene, gli estremi non sono mai buoni! Ma raramente ci fermiamo a pensare che lo Stato e le istituzioni moderne fanno parte di questi estremi. Abbiamo normalizzato il fatto che soggetti terzi si occupino di sfere chiave della nostra vita, supponendo anche che lo facciano altruisticamente, come se il potere e le strutture verticali attraverso le quali si sono arrampicati non li influenzassero. Vale a dire che le istituzioni educative, le istituzioni sanitarie, i moderni sistemi di trasporto, così come il sistema alimentare e molti altri, sono cresciuti così tanto che abbiamo delegato il nostro potere decisionale a “esperti”, e questi sistemi hanno generato, secondo Illich, “contro-produttività”. Recuperare collettivamente i nostri ambiti comunitari, strapparli allo Stato e alle grandi imprese, impiegare “i verbi” [invece dei sostantivi], come diceva Gustavo, è la sfida: imparare, seminare, curare, spostarsi. Queste indicazioni ci ricordano esattamente la necessità di un ritorno a quella dimensione comunitaria che è tanto rivendicata nella Tierra insumisa,6 l’Europa che gli zapatisti hanno voluto incontrare. Da dove è nata questa geniale intuizione? si chiede Javier Sicilia nel prologo al secondo volume dell’Opera Omnia di Illich pubblicata in Messico.7 Per Illich, la modernità come fase storica non rappresenta la fine del cristianesimo, né il suo esito positivo, ma il suo pervertimento. Per Illich, secondo le conversazioni che ebbe con l’amico David Cayley, pubblicate postume, i primi cristiani avevano la tradizione di tenere sempre in casa una candela e un pezzo di pane, nell’eventualità che Gesù si presentasse nelle vesti di uno straniero a chiedere di essere ospitato a casa loro.8 Tuttavia, con l’imperatore romano Costantino il cristianesimo fu istituzionalizzato come religione di Stato, così come la pratica dell’ospitalità. In tal modo, quello che prima era un segno del cristianesimo (accogliere il migrante, il prossimo, ospitarlo e nutrirlo) divenne qualcosa che solo l’istituzione poteva fare, il che spogliava i cristiani primitivi di una caratteristica che dava loro un’identità. È qui che Illich colloca la nascita della cultura delle istituzioni moderne: il momento in cui smettiamo di occuparci dei nostri affari vitali e comunitari e deleghiamo agli esperti il potere di svolgere quelle attività al nostro posto, in modo tale che a lungo andare gli strumenti diventano fini in se stessi, e prima o poi producono l’opposto di ciò per cui erano stati creati. In modo analogo, Illich reinterpreta la parabola del Buon Samaritano per renderci consapevoli dell’importanza di avere ben chiaro chi è il nostro prossimo, chi sono coloro con cui costruire l’alternativa. Nella versione di Ivan, il Buon Samaritano incontra un uomo ferito, un romano o qualcosa del genere, spiega Illich per farci capire tutte le potenzialità dello sguardo del Samaritano, come se ai nostri giorni, in cui assistiamo al genocidio palestinese da parte dello Stato israeliano, un palestinese incontrasse un ebreo ferito e decidesse di prendersene cura e di farsi carico delle spese della locanda che lo ospiterà. È un’azione radicale e trasgressiva: si tratta di recuperare la libertà di scegliere chi è il nostro prossimo, indipendentemente da ciò che il contesto ci indica. Alla fine della sua vita, Ivan si dedicò allo studio dell’origine delle certezze moderne e a coltivare l’amicizia. Indicò quest’ultima come il luogo in cui è possibile generare relazioni altre, conviviali. Una scelta che in realtà porta con sé un grande impegno. L’amore per le persone con cui viviamo, per gli amici, la famiglia, il partner, i compagni, porta in sé il seme del mondo nuovo. Quegli amici con cui si può condividere da una tavola apparecchiata fino alla generazione collettiva di nuove forme di vita, costituiscono il luogo illichiano della speranza, lo spazio ideale per uscire gradualmente dal capitalismo, come dicono gli zapatisti, ognuno a modo suo, costruendo un mondo in cui trovano posto molti mondi diversi. Anche la conversazione è uno spazio privilegiato e un’arte caldeggiata da Ivan. Poiché tutto inizia nella nostra mente, condividere ciò che abbiamo imparato, sottoporci a un esame critico, ideare qualcosa insieme agli altri è un tesoro di cui dobbiamo approfittare. È urgente mettere in pratica i nostri progetti conviviali verso un’uscita non violenta dal capitalismo, ma non porgendo l’altra guancia, come a volte viene mal interpretato nel contesto del pacifismo, ma con azioni collettive che generino alternative giuste, locali e sostenibili, che nello stesso tempo disarticolino e blocchino l’inerzia del sistema. Il potere insiste nel farci credere che non ci sono alternative, ma il futuro non è scolpito sulla pietra. Il messaggio di Ivan porta con sé questa speranza. Diffondiamo il suo messaggio nelle conversazioni con i nostri amici, mettiamo in pratica le sue idee, discutiamone, costruiamo la casa di tutti. -------------------------------------------------------------------------------- Fonte: «Salir del capitalismo con Iván Illich», in El Salto. Articolo pubblicato con l’autorizzazione dell’autore. Traduzione a cura di Camminardomandando. -------------------------------------------------------------------------------- 1 N.d.t. – Città che in Messico hanno realizzato un buon grado di autonomia. 2 N.d.t. – Museodei by Hermatena, Riola (BO) 2014 [2012]. 3 N.d.t. – Descolarizzare la società. Una società senza scuola è possibile?, Mimesis, Milano-Udine, 2019 [1971] / Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Red Edizioni, Como 2013 [1976] / La convivialità, Boroli, Milano 2005 [1973]. 4 N.d.t. – Dall’Introduzione a Descolarizzare la società. 5 N.d.t. – Beck H., Otra modernidad es posible, Malpaso Ediciones, 2017. 6 N.d.t.- Arrivando in Europa nel loro «viaggio per la vita», così gli zapatisti hanno battezzato il continente: terra indomita, che non cede, che non si arrende. Si veda l’articolo di Esteva «Condizioni di forza e di debolezza», 28 giugno 2021. 7 N.d.t. – Obras reunidas, Fondo de Cultura Económica, México 2008. 8 N.d.t. – Illich I., I fiumi a nord del futuro. Testamento raccolto da David Cayley, Quodlibet, 2009 (testo originale: 2005), pp. 38-39. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Uscire dal capitalismo con Ivan Illich proviene da Comune-info.