Lavoro precario, bassi salari, bassa produttività e bassa crescita nei 10 anni di Jobs Act
Verso i referendum dell’8 e 9 giugno.
A dieci anni dall’introduzione del Jobs Act (2014-2016) e alla vigilia dei
referendum sul lavoro promossi dalla Cgil, che si tengono l’8 e il 9 giugno
2025, la Fondazione Di Vittorio ha verificato i risultati che ha avuto la
riforma voluta dall’allora Governo Renzi e ha fatto il punto sulla situazione
del lavoro in Italia. “Il Jobs Act ha portato, nel complesso, a un indebolimento
delle tutele e delle condizioni di lavoro per lavoratori e lavoratrici, si legge
nel Rapporto. I contratti a termine e part time riguardano stabilmente ormai
quasi il 30% degli occupati e colpiscono in modo particolare i giovani, le donne
e i laureati: la precarietà è diventata un elemento strutturale del lavoro in
Italia. L’aumento del numero di occupati si accompagna alla più lenta crescita
delle ore lavorate totali, data l’espansione del lavoro part time. La domanda di
lavoro si concentra nei settori dei servizi a bassa qualificazione, con un
modesto livello tecnologico e bassi salari. In termini reali, i salari italiani
hanno registrato una caduta senza precedenti. Questi sviluppi hanno contribuito
ad aggravare il declino dell’economia italiana, alimentando un circolo vizioso
tra lavoro precario, bassi salari, bassa produttività e bassa crescita, portando
a un crescente divario nei confronti delle principali economie europee.
Contemporaneamente, a partire dalla metà degli anni Novanta è cresciuto
rapidamente il numero di giovani, tra i 18 e 34 anni, che sono emigrati
all’estero: tra il 2011 e il 2023 si calcola che siano usciti dal Paese 550 mila
giovani italiani, con un saldo negativo per quella fascia d’età di 377 mila
persone. Il dato più preoccupante è che ormai il 43% dei giovani che lasciano il
paese è laureato, una quota che è cresciuta costantemente e che riflette
l’impoverimento del sistema produttivo e del mercato del lavoro del Paese.
Se si considerano le attivazioni di nuovi contratti (senza considerare le
cessazioni) e si prende come punto di partenza l’introduzione del Jobs Act
emerge una chiara divergenza tra le tipologie contrattuali: a partire dal 2016
si amplia notevolmente il numero di contratti a tempo determinato e
parasubordinati (apprendistato, stagionali, somministrazione ed intermittenti).
Stiamo parlando di valori assoluti impressionanti: nel 2024 sono stati 3 milioni
e 700 mila i contratti a tempo determinato e 3 milioni e 100 mila i contratti
parasubordinati (ricordiamo che il totale delle persone dipendenti a tempo
determinato è di 2 milioni e 800 mila). E stiamo parlando del fatto che gran
parte dei contratti è per periodi inferiori all’anno, con un’elevatissima
frammentazione delle posizioni lavorative. I nuovi contratti di assunzione a
tempo indeterminato restano invece stabili intorno al milione e 200 mila l’anno,
con un balzo soltanto nel 2015, dovuto alla forte riduzione dei contributi
sociali introdotta insieme al contratto a tutele crescenti. Per comprendere fino
in fondo l’evoluzione di questi anni del mercato del lavoro italiano è
indispensabile il confronto tra numero di occupati e ore lavorate totali. Con la
crisi del 2008 si apre un divario tra occupati totali – prima in calo, poi in
aumento – e il numero di ore lavorate, che diminuisce in modo più grave, con un
gap che resta costante fino al 2019. Del totale di 18 milioni e 800 mila
occupati dipendenti del 2024, 13 milioni e mezzo sono quelli “standard”, a tempo
indeterminato e a tempo pieno e 2 milioni e mezzo sono a tempo indeterminato e
part time. Insomma, più lavoratori si contendono un numero minore di ore
lavorate. Anche la precarizzazione del mercato del lavoro che si è acuita in
questi anni ha aggravato la disuguaglianza nel nostro Paese, sia tra Nord e Sud
che tra Uomini e Donne. La quota di lavoratori dipendenti a tempo determinato
nel 2024 raggiunge il 20% nel Mezzogiorno e il 12% nel Nord Italia. L’aumento è
concentrato negli anni successivi al Jobs Act, con una crescita forte
soprattutto nel Sud del paese. Le differenze di genere nell’occupazione sono
rilevanti. La percentuale di donne che hanno contratti a tempo determinato è
stata storicamente molto più elevata che per gli uomini; nel 2004 era oltre il
14% contro meno del 10% per gli uomini. Negli anni successivi al Jobs Act si
registra una forte crescita e una convergenza: nel 2019 la quota per entrambi è
intorno al 17%. Nella ripresa dopo la pandemia, i divari tornano a essere
rilevanti, con la quota per le donne in crescita ulteriore, prima del calo
registrato negli ultimi anni. Particolarmente grave è la posizione delle donne
nel lavoro part time. Il numero di donne con lavori part time è salito da 1,6
milioni nel 2004 a 2,7 milioni nel 2019, per poi stabilizzarsi fino ai 2,6
milioni del 2024. Per gran parte di questi lavoratori e lavoratrici il part time
è involontario: risponde ad una scelta di flessibilità oraria ed organizzativa
delle imprese piuttosto che ad una esigenza di conciliazione tra vita e lavoro
da parte delle famiglie.
Un mercato del lavoro fatto di elevata precarietà e diffuso part time si
accompagna di conseguenza ad una dinamica dei salari negativa: tra il 2008 e il
2024 i salari reali medi in Italia sono diminuiti di 9 punti percentuali, mentre
in Germania e Francia si è assistito ad un incremento, rispettivamente, dell’14%
e del 5%. Secondo il rapporto OCSE sull’occupazione, l’Italia risulta essere il
Paese che ha registrato la maggiore caduta dei salari reali nell’area OCSE. E
anche sul fronte della salute e della sicurezza sul lavoro, i dati Inail per
l’industria e i servizi mostrano che il numero totale di infortuni sul lavoro è
progressivamente diminuito fino al 2015 quando, in coincidenza con
l’introduzione del Jobs Act, si registra una battuta di arresto e gli infortuni
restano a un livello costante, e addirittura aumentano dopo la fine della
pandemia, per arrivare nel 2023 a 470 mila. Gli infortuni mortali invece hanno
avuto un andamento oscillante e nel 2023 hanno raggiunto i 1012 casi. Se
guardiamo alle imprese in cui avvengono le morti sul lavoro, troviamo che due
infortuni mortali su tre avvengono nelle imprese con meno di 50 addetti: nel
2023, su 1012 infortuni mortali in industria e servizi, 363 casi sono stati
nelle imprese con meno di 10 addetti, 281 casi in quelle tra 10 e 49 addetti. E
i lavoratori a tempo determinato registrano una maggiore esposizione al rischio
rispetto ai dipendenti “standard”, come mostrano evidenze empiriche sia per
l’Italia che per altri paesi, a causa: della difficoltà nell’acquisizione di una
cultura della sicurezza dovuta alla discontinuità contrattuale e professionale;
della maggiore propensione ad accettare condizioni peggiori per mantenere il
posto di lavoro; la difficoltà che i sistemi di prevenzione territoriali hanno
ad intervenire in contesti di elevata precarietà e frammentazione dei percorsi
lavorativi.
Qui per approfondire e per scaricare il Rapporto completo della Fondazione Di
Vittorio sul lavoro in Italia a dieci anni dal Jobs Act:
https://www.fondazionedivittorio.it/dieci-anni-jobs-act-dieci-anni-precarieta.
Giovanni Caprio