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Manifesto degli insegnanti per Gaza
Riceviamo da Tiziana Guidi, una delle promotrici e volentieri pubblichiamo questo importante documento. In fondo alla lettera al Ministro Valditara si trovano i riferimenti per contatti a informazioni. La scuola è il luogo dove si sviluppano abilità, conoscenze e competenze, e dove si apprendono i veri valori della vita. Oggi il nostro ruolo di educatori non ha senso e non è credibile se non prendiamo una posizione netta contro la risoluzione violenta dei conflitti e il genocidio in corso a Gaza ed in Cisgiordania Non si può rimanere indifferenti di fronte al dramma che sta vivendo la popolazione palestinese e in particolare per le sofferenze indicibili dei bambini e dei ragazzi. La Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, approvata nel 1989 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, stabilisce quali sono i diritti inviolabili di bambine, bambini e adolescenti e i doveri degli adulti nei loro confronti: nulla di tutto ciò oggi è possibile in Palestina e Cisgiordania. Ad oggi ai bambini palestinesi  viene negato: il diritto all’istruzione e allo sviluppo il diritto alla protezione dalla violenza e dagli abusi il diritto a un ambiente sicuro e sano, ma soprattutto il diritto all’esistenza! Lanciamo un appello al mondo della scuola invitandolo a sottoscrivere questo documento che così riassume la nostra posizione: Condanniamo la violenza e le violazioni dei diritti umani Ribadiamo l’inalienabilità del diritto all’istruzione e allo sviluppo per tutti i bambini e le bambine palestinesi. Denunciamo la grave crisi umanitaria che avrà conseguenze devastanti a breve ed a lungo termine sulla salute fisica e mentale della popolazione In nome di ciò chiediamo: L’immediato cessate il fuoco e la protezione dei civili. Il riconoscimento dello Stato di Palestina e l’applicazione immediata della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza Il ripristino dei confini antecedenti al 1967, come da risoluzione n. 242 dell’ONU L’immediata cessazione di invio di armi allo Stato d’Israele ed il divieto di qualsiasi collaborazione militare con esso da parte del governo italiano Insieme per una pace giusta e duratura. Promotori e primi firmatari: Tiziana Guidi, Francesca Russo e Alberico Mitrione. Adesioni: Associazioni: La Comunità per lo sviluppo umano- Av, Irpinia in movimento, Insieme per Avellino e l’Irpinia, Unicef- Avellino, L’Angolo delle storie, ASD Taekwondo – Avellino, Controvento, Arci Saviano, Aps Cuore al centro, Pax Christi-AV, Archeoclub d’Italia-Avellino, Zia Lidia Social Club, La mela di Odessa, L’albero vagabondo, Il Bucaneve – edizioni e saggio, Info@Irpinia, Radio Arci Masaniello, L’Albero della vita, Edizioni Disvelare. Gruppi musicali, teatrali e di danza: I Lumanera, Teatro 99 posti, La Bottega del Sottoscala, Puck Teatral, Il Teatro di Gluck, Teatro d’Europa, Barabba Blues, Cantiere Danza, Emian, Muovimenti, Vernice fresca, Teatro Arci Saviano.  Pagine e gruppi FB: Avellino Rinasce, Collettivo Hurriya, Occhi di un Mondo Altro, La Comunità per lo sviluppo umano- Italia, Poesis,  Marcia Mondiale per la Pace e la Nonviolenza. Sindacati: ANIEF Avellino, FLC-CGIL Il Vescovo di Avellino Monsignor Aiello Le promotrici del manifesto hanno inoltre inviato una lettera aperta al Ministro Valditara: Gentile Ministro Valditara, di fronte  all’immane tragedia che sta colpendo il popolo palestinese non si può non provare un indicibile dolore. Chi le scrive appartiene al mondo della scuola e per noi educatori, in questi mesi, pensare di aver davanti dei giovani, dei bambini e degli adolescenti che possono godere di cibo, istruzione, accoglienza, protezione, assistenza sanitaria, mentre ai loro coetanei palestinesi oggi è negato persino il semplice diritto all’esistenza, è stato fonte di disagio e malessere: ha attanagliato le nostre coscienze condannando spesso le nostre notti all’insonnia. Da questo è nato il “Manifesto degli insegnanti per Gaza”, dalla necessità di non voltarsi dall’altra parte e di ribadire che quei sacrosanti diritti dei bambini e degli adolescenti, affermati nel 1989 dalla Convenzione che li consacrò, non possono continuare ad essere calpestati.  Così come avviene per il diritto all’autodeterminazione dei popoli, sancito nei trattati di pace al termine della 1* Guerra Mondiale proprio da un presidente americano, Woodrow Wilson,  nei suoi 14 punti,   e che  è oggi disatteso e messo all’angolo quando si parla dello Stato Palestinese. Eppure il rispetto, tra gli Stati come nelle relazioni, non può nascere senza  il riconoscimento dell’altro.   L’iniziativa del “Manifesto degli insegnanti per Gaza” è nata spontaneamente da un gruppo di tre docenti, alla fine di maggio, praticamente ad attività didattica  conclusa, ma nonostante ciò si è estesa a macchia d’olio: dai docenti agli allievi, poi ai loro genitori, al mondo della cultura ed alla società nelle componenti più varie, confermando quella naturale trasversalità che il nostro mondo scolastico ha nelle comunità.                                  Ha finito per coinvolgere in poco più di un mese più di mille persone, 20 Associazioni, oltre 70 tra scrittori, musicisti, artisti, gruppi teatrali, musicali e di danza, diverse pagine FB, un’agenzia stampa, due sindacati ed il sostegno del nostro Vescovo, Monsignor Aiello. Apparteniamo a una piccola città campana in un area interna qual è l’Irpinia, che è certo terra di gente testarda, ma siamo persone comuni, senza alcun superpotere e se tutto questo è stato possibile è perché il nostro disagio trovava rispondenza nel cuore di molti,  si leggeva negli occhi dei tanti che cercavano un modo per poter dire “non nel mio nome”. Perché “la libertà è l’obbedienza alla verità interiore”. C’è una strada obbligata perché le violenze in Medio Oriente si plachino da ogni parte, e questa passa dal riconoscimento dello Stato della Palestina, poiché soltanto dando pari dignità ai due popoli che abitano quei territori essi potranno intraprendere un dialogo autentico e costruttivo.  Abbiamo ascoltato la premier Meloni dire che sarebbe “prematuro” tale riconoscimento e ci viene spontaneo chiederci: quale tempo viene considerato congruo perché la Palestina veda riconosciuto il suo diritto all’autodeterminazione? 77 anni sono un tempo considerato troppo breve? Noi crediamo di no. Così come crediamo necessaria la non collaborazione con lo Stato d’Israele fino a quando non cessi la sua politica di genocidio. Pertanto, gentile Ministro Valditara, le chiediamo di esercitare il suo peso all’interno del governo italiano affinché  l’Italia, seguendo l’esempio del Vaticano e delle altre potenze europee che lo hanno già fatto, riconosca lo Stato di Palestina ed interrompa ogni rapporto di partenariato con Israele fino a quando non muti la sua politica. Professoresse Tiziana Guidi e Francesca Russo. Informazioni di contatto: kefinovanta@yahoo.it francesca.ing.russo@gmail.com    Redazione Italia
L’operatore ONU Gennaro Giudetti sotto i bombardamenti a Gaza. Il governo italiano intervenga
Ieri mattina era arrivato l’ordine perentorio alla popolazione palestinese di lasciare la zona di Deir el Balah, a Gaza, dove hanno sede le Ong e l’agenzia dell’Onu. Molti non avevano i mezzi per allontanarsi mentre fame e sete colpiscono soprattutto i bambini. L’attacco aereo è partito ieri sera, oggi l’avanzata terrestre con i carri armati che stanno distruggendo tutto. È stata individuata una “zona rossa” da radere al suolo. In questa zona agisce come operatore umanitario un cittadino italiano, Gennaro Giudetti, che tenta ancora di portare conforto e aiuto. Il governo italiano, la Farnesina, debbono intervenire immediatamente per fermare l’ennesima violazione del diritto internazionale che rappresenta uno smacco per il pianeta intero. Quanto accade al nostro concittadino e quanto subisce l’intera popolazione dell’area è l’ennesimo crimine di cui Israele e il suo governo debbono rendere conto. Netanyahu è un criminale e chi lo sostiene, come il governo italiano, è un  miserabile  complice. Maurizio Acerbo , segretario nazionale del Partito della Rifondazione Comunista Rifondazione Comunista - Sinistra Europea
La risposta del Viminale sugli agenti infiltrati in Potere al Popolo non regge
Cinque agenti infiltrati nei collettivi e nelle assemblee del partito per mesi senza copertura giudiziaria. Mentre il governo minimizza, cresce la denuncia: sorveglianza politica e violazione delle libertà costituzionali. Dopo oltre un mese di assoluto silenzio, il Viminale ha accennato una risposta all’interpellanza urgente presentata dal Movimento 5 Stelle; il Sottosegretario all’Interno Emanuele Prisco ha negato che vi sia stata qualsiasi infiltrazione in partiti o movimenti politici. «I cinque giovani poliziotti che hanno attraversato le assemblee di Potere al Popolo», ha riportato, «erano semplicemente studenti regolarmente iscritti all’università, operanti con le loro vere generalità» e si limitavano a «partecipare a manifestazioni pubbliche di collettivi con connotazioni estremistiche che avevano mostrato crescente aggressività». Una puntualizzazione che tuttavia, lungi dal chiudere il caso, apre molte altre crepe e conferma la situazione gravissima nata a partire dall’inchiesta di Fanpage.it. Grazie ai documenti raccolti dal giornalista Antonio Musella, è venuto alla luce che i cinque agenti del 223° corso hanno agito per almeno otto mesi – da ottobre 2024 a maggio 2025 – fra Napoli, Milano, Bologna e Roma, inserendosi nei movimenti studenteschi Cambiare Rotta e CAU e, attraverso questi, nella vita interna di Potere al Popolo: chat organizzative, riunioni e perfino all’assemblea nazionale del partito. «Il governo ha ammesso l’operazione, ma sta minimizzando», spiega Giuliano Granato, portavoce nazionale di Potere al Popolo. «Hanno spiato un partito che si presenta alle elezioni: vogliamo sapere chi l’ha ordinata e perché. Cinque poliziotti, tutti trasferiti all’antiterrorismo nello stesso periodo, sono finiti solo nei due collettivi legati a noi. Nel Paese esistono centinaia di realtà studentesche: possibile che l’allerta ordine pubblico riguardasse soltanto le nostre?». La linea del Viminale Nel suo intervento in aula, Prisco ha dipinto un quadro di crescente conflittualità: «12 mila manifestazioni nel 2024, con turbative dell’ordine pubblico nel 2 % dei casi. In questo contesto sono maturati livelli crescenti di tensione», da cui la decisione «ordinaria, prevista dalla legge 121/1981» di potenziare l’attività informativa della Direzione centrale della Polizia di prevenzione. «Nessuna operazione sotto copertura, nessuna identità falsa. Ogni agente, anche libero dal servizio, ha l’obbligo di segnalare reati alle autorità. Si è trattato solo dell’adempimento dei propri compiti istituzionali, nel pieno rispetto della legge». La risposta di Potere al Popolo Per i soggetti coinvolti la ricostruzione non regge. «Ci eravamo quasi abituati alla favola dei poliziotti innamorati delle militanti; adesso ci dicono che erano studenti modello mossi da preoccupazioni di sicurezza nazionale», ironizza Granato. «Peccato che abbiano partecipato, abbiamo anche le prove, a momenti privati del partito, chat organizzative, riunioni e perfino all’assemblea nazionale, non a semplici iniziative pubbliche». Anche Matteo Giardiello, membro dell’esecutivo nazionale di Potere al Popolo, commenta duramente: «Ci dobbiamo aspettare che più aumenta il dissenso e più il governo porterà avanti pratiche antidemocratiche per fermarlo? Ci dobbiamo aspettare di essere sempre di più spiati solo e soltanto perché proviamo a opporci a quello che sta avvenendo? Vogliamo dire chiaramente che, se il dissenso è reato, noi siamo colpevoli». «Sorvegliare il dissenso non è compito dei servizi» Potere al Popolo ha lanciato un appello pubblico, firmato da oltre 2.000 persone nelle prime 24 ore, che denuncia l’operazione come una grave lesione delle libertà costituzionali: «L’assenza di una cornice giudiziaria e la natura prolungata e sistematica di queste attività disegna un profilo allarmante: non si tratterebbe di operazioni a scopo investigativo, ma di sorveglianza politica preventiva», si legge nel testo. Il documento ricorda che la libertà di associazione e partecipazione politica non è «un privilegio», ma un diritto inalienabile sancito dalla Costituzione. Il silenzio delle autorità, si denuncia, «è inaccettabile e pericoloso». Nell’appello si legge inoltre: «In una democrazia, il dissenso politico non è materia per i servizi di sicurezza. Nessuna forza dell’ordine dovrebbe infiltrarsi in un partito senza un preciso fondamento giuridico». Il timore, condiviso anche da altri intellettuali e sigle, è che l’approvazione del nuovo decreto sicurezza imponga agli atenei di consegnare dati su studenti e gruppi ritenuti “pericolosi” per la sicurezza nazionale, trasformando le università da luoghi di libertà intellettuale in snodi di controllo. Fra i primi firmatari figurano Carlo Rovelli, Zerocalcare, Mimmo Lucano, Andrea Segre, Fabrizio Barca, Luigi De Magistris, Vauro, Vera Gheno, Elena Granaglia, e decine di accademici, giuristi, attivisti, sindacalisti e parlamentari. Il movimento chiede che Meloni e Piantedosi riferiscano in Parlamento, chiariscano «chi ha autorizzato l’operazione» e pongano limiti chiari all’uso degli apparati di sicurezza contro chi esercita legittimamente il dissenso. Dalle aule ai telefoni: il filo che porta a Graphite Il caso degli agenti‑studenti si intreccia, anche temporalmente, con un’altra vicenda rimasta senza risposta: l’uso dello spyware Graphite (Paragon Solutions) sui telefoni del direttore di Fanpage Francesco Cancellato, di Ciro Pellegrino e di Roberto D’Agostino. Meta e Apple hanno certificato gli attacchi, ma nessuna autorità italiana ha chiarito chi li abbia commissionati. Degli episodi che, letti parallelamente, restituiscono l’immagine di una sorveglianza particolare dello Stato verso redazioni, attivisti e collettivi. Il Ministro Piantedosi si era detto “pronto a riferire” in aula già a fine giugno. Da allora nulla è cambiato, se non la versione ufficiale: da “agenti innamorati” a “studenti zelanti”. Nel frattempo, cinque poliziotti restano iscritti a corsi universitari, i collettivi continuano a protestare sotto i rettorati e un partito politico attende di sapere perché è finito, di fatto, in un dossier di pubblica sicurezza. Rimane ancora senza risposta la domanda: “Chi ha ordinato tutto questo e per quale motivo?”   Emiliano Palpacelli
Droghe: “Troppo spesso, in nome della sicurezza, si è fatta e si fa la guerra ai poveri”
Nei giorni scorsi sul sito del Dipartimento per le Politiche Antidroga è stata pubblicata la Relazione 2025 sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia, dalla quale, come si legge sul sito del Dipartimento, “emerge un quadro articolato delle droghe nel nostro Paese. Il consumo di sostanze psicotrope tra i giovani appare leggermente diminuito rispetto al 2023, tuttavia sembrano emergere nuove sfide per la salute pubblica e la sicurezza, legate a una trasformazione qualitativa del mercato degli stupefacenti, alla diversificazione dell’offerta e alla permanenza sul mercato italiano delle Nuove Sostanze Psicoattive (NPS)”: https://www.politicheantidroga.gov.it/it/notizie-e-approfondimenti/notizie/pubblicata-la-relazione-al-parlamento-2025-sul-fenomeno-delle-tossicodipendenze-in-italia/. “Se la Relazione fosse stata un compito per la maturità, ha affermato Marco Perduca, che per l’Associazione Luca Coscioni segue le leggi e politiche nazionali e internazionali sugli stupefacenti, il governo non l’avrebbe superata per insufficienze di merito e metodo”. Aggiungendo che “il documento del governo, con prefazione del sottosegretario Mantovano, non è purtroppo all’altezza del compito. Infatti, oltre a essere sempre più breve, la Relazione segnala una leggerissima flessione nell’uso degli stupefacenti a fronte dell’aumento delle operazioni ‘anti-droga’ ma, in entrambi i casi, si ragiona in termini percentuali e non assoluti. Altrove invece ci si intrattiene su campioni molto ristretti (39 città su oltre 8.000) magnificando l’efficacia rilevatrice della acque reflue, con metodologie non del tutto riconosciuti come attendibili dalla comunità scientifica internazionale e presentando la presenza di sostanze illecite ogni 100.000 persone. Una formulazione che se proposta in termini percentuali evidenzierebbe che si tratta, si e no, al massimo dello 0,7 grammi a persona!” È stata presentata nei giorni scorsi anche la sedicesima edizione del Libro Bianco sulle droghe, intitolato quest’anno “NON MOLLARE”. Il Libro Bianco è un rapporto indipendente sugli effetti del Testo Unico sugli stupefacenti (DPR 309/90) sul sistema penale, sui servizi, sulla salute delle persone che usano sostanze e sulla società. È promosso da La Società della Ragione, Forum Droghe, Antigone, CGIL, CNCA, Associazione Luca Coscioni, ARCI, LILA con l’adesione di A Buon Diritto, Comunità di San Benedetto al Porto, Funzione Pubblica CGIL, Gruppo Abele, ITARDD, ITANPUD, Meglio Legale e EUMANS. A 35 anni dall’entrata in vigore del Testo Unico sulle droghe 309/90 e 16 di pubblicazione del Libro Bianco sulle droghe, i dati purtroppo  confermano una tendenza al peggioramento. Gli effetti penali, in particolare dell’art. 73, sono sempre più devastanti e creano sovraffollamento carcerario confermando che la Legge Jervolino-Vassalli resta il principale veicolo di ingresso nel circuito penale in Italia. Continuano a salire in termini assoluti, +4,9%, gli ingressi in carcere per reati connessi alle droghe: 11.220 delle 43.489 detenzione nel 2024 sono state causate dall’art. 73 del Testo unico, per detenzione a fini di spaccio, il 25,8% degli ingressi (nel 2023 era il 26,3%). Le presenze in carcere sono 62.715 a metà giugno. Di questi 13.354 a causa del solo art. 73 del Testo unico. Altre 6.732 in combinato con l’art. 74 (associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope), solo 997 esclusivamente per l’art. 74. Complessivamente il 34,1% del totale. Sostanzialmente il doppio della media europea (18%) e molto di più di quella mondiale (22%). Spropositati gli ingressi e le presenze di detenuti definiti “tossicodipendenti”: è dichiarato così il 38,8% di chi entra in carcere, mentre al 31/12/2024 erano presenti nelle carceri italiane 19.755 detenuti “certificati” il 31,9% del totale. Non erano mai stati così tanti dal 2006 (anno dell’entrata in vigore della legge Fini-Giovanardi) a oggi. E la repressione continua ad abbattersi sui minori: 3.722 adolescenti che entrano in un percorso sanzionatorio stigmatizzante (cioè desocializzante) e controproducente. Dal 1990 1.463.442 persone sono state segnalate per possesso di droghe per uso personale, 1.074.754 di queste per derivati della cannabis. Ha ragione Papa Leone XIV quando afferma che: “Troppo spesso, in nome della sicurezza, si è fatta e si fa la guerra ai poveri, riempiendo le carceri di coloro che sono soltanto l’ultimo anello di una catena di morte. Chi tiene la catena nelle sue mani, invece, riesce ad avere influenza e impunità. Le nostre città non devono essere liberate dagli emarginati, ma dall’emarginazione; non devono essere ripulite dai disperati, ma dalla disperazione“. Qui per approfondire e scaricare il Libro Bianco: https://www.fuoriluogo.it/mappamondo/non-mollare-xvi-libro-bianco-sulle-droghe/ Giovanni Caprio
Il tribunale conferma: la Guardia Costiera libica non è un soggetto legittimo per le operazioni di ricerca e soccorso
L’11 giugno 2025, la Corte d’Appello di Catanzaro ha respinto il ricorso del governo italiano contro una sentenza che aveva dichiarato illegittimo il fermo della nave di soccorso Humanity 1. In tale sentenza, il Tribunale Civile di Crotone aveva dichiarato che il Centro di Coordinamento del Soccorso libico e la Guardia Costiera libica non possono essere considerati soggetti legittimi per le operazioni di ricerca e soccorso.  “La decisione odierna segna una tappa importante, poiché il governo italiano ha nuovamente fallito in tribunale nel giustificare la detenzione illegittima di navi di soccorso non governative e la sua crudele cooperazione con la cosiddetta Guardia Costiera libica, che viola sistematicamente i diritti umani dei migranti e dei rifugiati”, commenta Cristina Laura Cecchini, avvocata di SOS Humanity.  “Si tratta di una vittoria significativa per SOS Humanity e per la flotta civile in generale, mentre il governo italiano deve rispondere dell’illegittimità della propria legislazione”. Detenzione illegale della Humanity 1 nel marzo 2024  Nel marzo 2024, la nave SOS Humanity dell’organizzazione di soccorso in mare era stata sanzionata con 20 giorni di detenzione dopo aver sbarcato 77 persone in pericolo in marea Crotone, in Calabria. Il motivo addotto: l’equipaggio avrebbe presumibilmente ignorato le istruzioni delle autorità libiche e quindi messo in pericolo vite umane. Dopo che SOS Humanity era riuscita ad ottenere la revoca della detenzione con procedura d’urgenza, il Tribunale civile di Crotone ha confermato nel giugno 2024 che la detenzione di Humanity 1 era illegale. Il tribunale ha inoltre stabilito che il Centro di coordinamento del soccorso libico e la cosiddetta Guardia Costiera libica non possono essere considerati soggetti legittimi di ricerca e soccorso nel Mediterraneo. Il governo italiano ha presentato ricorso contro questa decisione, ma è stato ora respinto dalla Corte d’Appello di Catanzaro. Gli attori libici stanno commettendo gravi violazioni dei diritti umani, con il sostegno dell’Europa  SOS Humanity sottolinea da anni l’illegittimità degli attori statali libici nel Mediterraneo, confermata ieri ancora una volta dal tribunale, e critica il continuo sostegno loro fornito dall’Europa: “La cosiddetta Guardia Costiera libica è stata finanziata per anni dall’UE e dai suoi Stati membri, nonostante sia stata ritenuta responsabile di gravi violazioni dei diritti umani e di ritorni forzati illegali di rifugiati in Libia”, afferma Mirka Schäfer, esperta politica di SOS Humanity. “I sopravvissuti a bordo della Humanity 1 denunciano regolarmente gravi torture, violenze sessuali e sfruttamento da parte di attori legati alla cosiddetta Guardia Costiera libica. La cooperazione europea con questi attori deve cessare immediatamente“. Informazioni dettagliate sui respingimenti violenti sono disponibili nel nostro nuovo rapporto ”Borders of (In)Humanity” (Frontiere dell'(In)umanità). Basato sulle testimonianze di 64 sopravvissuti, il rapporto descrive le conseguenze brutali e spesso mortali della politica europea di esternalizzazione e chiusura nei confronti dei rifugiati e dei migranti.     Redazione Italia
Cittadini di 54 Paesi alla “Global March to Gaza”: primo via libera tra imbarazzi diplomatici
Iniziativa popolare senza precedenti, ma Farnesina “non garantisce assistenza”. 5Stelle, “Vergognoso” Nelle ore in cui tantissime persone nel mondo occidentale hanno seguito con trepidazione il viaggio di una sola imbarcazione verso Gaza, finita dirottata dagli israeliani, un’iniziativa popolare senza precedenti promette di esercitare ancora più pressione, a livello internazionale, per la fine del massacro di civili in corso a Gaza. Si tratta della Global March to Gaza, totalmente autofinanziata da ciascuno dei partecipanti, organizzata e gestita esclusivamente dal mondo dell’attivismo e del terzo settore, e che vede già l’adesione di 54 Paesi e centinaia di migliaia di followers. Tutti variamente già in partenza. E dopo diversi tentennamenti è arrivato un primo ok ufficiale dal governo egiziano. Tra mille dubbi sulle modalità la marcia pare arriverà al Sinai. C’era infatti un comprensibile timore per un possibile tsunami di partecipanti da gestire (gli iscritti sono almeno in 3mila), ma d’altro canto anche impedire una marcia pacifica e per Gaza morente susciterebbe imbarazzo in un Pase arabo come l’Egitto.  Di sicuro non ne provoca invece all’Italia, con la Farnesina che su un suo sito ufficiale addirittura ne sconsiglia la partecipazione da giorni avvertendo che non sarà “garantita assistenza consolare”. Un comunicato “vergognoso” per il Movimento 5 Stelle, che oggi ha presentato un’interrogazione parlamentare ricordando che la Farnesina ha l’obbligo di assistere i cittadini italiani all’estero. (Vedi video qui sotto) Non è la prima “marcia” per i diritti umani della storia moderna, ma certamente è la prima nata in poche settimane, e con livelli di partecipazione popolare così ampi nonostante ogni partecipante debba in pratica prendere le ferie, pagarsi il biglietto per il Cairo e il vitto, e marciare per 50 chilometri nel deserto egiziano fino al valico di Rafah con 45 gradi. Coscienze scosse In un periodo storico dove non si raggiunge nemmeno il quorum per un referendum nel fine settimana, e dove la partecipazione si esercita con dei ‘like’ sui social, Gaza dimostra ancora una volta di avere scosso le coscienze della gente comune. Una differenza lampante rispetto all’inanità dei governi, che stano ancora facendo convegni per decidere con quale termine lessicale citare uno sterminio senza precedenti. Una presa di coscienza diffusa nonostante una strutturata disinformazione che non è riuscita ad avere la meglio e a coprire l’orrore commesso quasi in diretta, spesso con tracotanza politica. Ecco quindi che di fronte all’ipotesi di alcune migliaia di persone al valico egiziano/israeliano, dove centinaia di camion di aiuti sono bloccati, sussulta più di una diplomazia. Sarà anche sconsigliata ma intanto ai confini libici si avvicina lo spezzone algerino, tunisino e marocchino, di oltre mille persone. La Global March to Gaza ha risposto che “in merito a quanto pubblicato dal ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, insieme all’ambasciata d’Italia al Cairo, la Global March su Gaza sarà pacifica, non intende entrare nella Striscia e raggiungere Gaza, come non intende trasportare aiuti.  Il programma prevede invece di raggiungere Ismailia, luogo turistico e di libero accesso, e da lì marciare a piedi per circa 50 chilometri fino a raggiungere il valico di Rafah senza forzare alcuna barriera. Il tratto da Al-Aris in poi è infatti una zona militarizzata, impossibile da attraversare se non con permessi speciali. Al momento non esiste una comunicazione ufficiale da parte delle autorità egiziane né sulle misure di sicurezza né sull’autorizzazione alla marcia”.  L’Egitto, secondo quanto appreso informalmente, vede di buon occhio l’iniziativa – e come non potrebbe – ma mantiene una posizione molto prudente, facendo trapelare che dovrebbe essere la diplomazia italiana a fare richiesta per permettere la partecipazione dei suoi cittadini. Ovvio però che questo sia oggettivamente complesso nel momento in cui dovrebbe essere ripetuto per 54 Paesi. Lentezza dei governi Mentre quindi si attende cosa decideranno i governi, ancora una volta più lenti delle persone comuni, l’organizzazione della Global March to Gaza procede e si prevedono le prime partenze dall’Italia tra il 12 e il 13 giugno, con rientro tra il 18 e il 20. “Noi di Global March To Gaza – spiega Antonietta Chiodo, uno dei referenti della marcia – chiediamo che venga rispettato il diritto internazionale e che tutti si prendano la responsabilità di tutelare quei liberi cittadini che si recheranno al Cairo per una marcia pacifica che vedrà riunirsi 54 delegazioni da tutto il mondo. La tensione è molto alta ma dall’altra parte del valico si sta compiendo un genocidio e il mondo non può restare a guardare”. Africa ExPress
Gaza, EMERGENCY consegna l’appello Ora! con oltre 200.000 firme alla presidente del consiglio Meloni
Sono oltre 200.000 le firme raccolte dall’appello “Ora!” perché il governo italiano si attivi per Gaza: l’appello è stato portato all’attenzione della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, dei Ministri Antonio Tajani e Guido Crosetto per chiedere di non rinnovare il memorandum d’intesa per la collaborazione militare tra Italia e Israele che altrimenti sarà rinnovato automaticamente il prossimo 8 giugno. Oltre a questa richiesta nell’appello ci sono altre quattro richieste urgenti per Gaza: fare pressione sul governo israeliano a consentire l’ingresso di aiuti alla popolazione e la loro distribuzione ai civili, attivarsi con un’azione diplomatica che porti al cessate il fuoco e al rispetto del diritto umanitario internazionale,  interrompere la compravendita di armi da e per Israele, schierarsi a favore della sospensione del trattato di associazione tra Unione Europea e Israele, come già fatto da 17 Paesi europei. EMERGENCY parteciperà sabato 21 giugno a Roma alla manifestazione nazionale “No guerra, riarmo, genocidio, autoritarismo’”, promossa da oltre 300 reti, organizzazioni sociali, sindacali, politiche nazionali e locali. A Gaza EMERGENCY offre da quasi un anno assistenza sanitaria alla popolazione ed è testimone diretta della crisi umanitaria gravissima e senza precedenti in corso in quel territorio: chi non è direttamente colpito dalla violenza delle armi, soffre per la mancanza di cibo, di acqua, di medicinali, di un riparo. Gli aiuti entrati nella Striscia dopo oltre due mesi di sospensione non sono sufficienti per i bisogni della popolazione, che sta morendo sotto le bombe, ma anche di crisi idrica, alimentare e sanitaria. Per questo non è più possibile aspettare che la comunità internazionale faccia sentire la sua voce a difesa dei civili gazawi, ma serve agire “ORA!”. L’appello “ORA!” è stato lanciato in occasione della Festa della Repubblica perché la Costituzione italiana e l’articolo 11 ci dicono chiaramente che solo la fine della violenza permette libertà e democrazia. Si può leggere il testo dell’appello e sottoscriverlo al seguente link: ripudia.it    Emergency
La Global March to Gaza smentisce il comunicato della Farnesina
In merito a quanto pubblicato dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, insieme all’ambasciata d’Italia al Cairo, la Global March to Gaza ci tiene a fare alcune precisazioni e correzioni rispetto a quanto scritto. L’iniziativa non ha mai avuto come scopo quello di “trasportare aiuti via terra direttamente dentro la Striscia di Gaza”, come si legge nel comunicato. Abbiamo sempre spiegato che la marcia sarà pacifica, non intende entrare nella Striscia e raggiungere Gaza, come non intende trasportare aiuti. Il programma prevede invece di raggiungere Al-Alrish, luogo turistico e di libero accesso, e da lì marciare a piedi per circa 50 km fino a raggiungere il valico di Rafah da cui passano pochissimi aiuti umanitari destinati alla popolazione palestinese stremata. Non soltanto un sostegno simbolico: l’obiettivo è di negoziare l’apertura del terminal con le autorità egiziane, in collaborazione con Ong, diplomatici e istituzioni umanitarie, che marciano con noi, in modo pacifico e senza forzare alcuna barriera. Il tratto da Al-Arish, come comunicato ai partecipanti alla marcia, è una zona militarizzata, impossibile da attraversare se non con permessi speciali. A oggi non abbiamo questa autorizzazione. In caso di diniego o di blocco abbiamo sempre comunicato che mai forzeremmo la decisione del governo egiziano o dei militari ai checkpoint: non è nostra intenzione mettere in pericolo le persone che si sono affidate a noi per questa impresa di solidarietà verso i palestinesi. Al momento non esiste una comunicazione ufficiale da parte delle autorità egiziane né sulle misure di sicurezza, né sull’autorizzazione alla marcia. Di recente il Ministro degli Esteri egiziano, Badr Abdelatty, ha ribadito l’urgente necessità di un accesso illimitato e completo agli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza e ha condannato l’uso della fame come arma contro il popolo palestinese. Da fonti egiziane ci risulta che, dopo aver mandato la nostra richiesta per l’autorizzazione alla marcia per tutte le delegazioni che parteciperanno, alcuni degli scenari potrebbero essere i seguenti: 1) inserimento delle persone che arrivano al Cairo in una black list che non permette di rientrare nel paese 2) espatrio 3) che sia permessa la marcia accompagnati dalle forze militari egiziane. Gli incontri che altre delegazioni hanno avuto con le ambasciate egiziane sono stati positivi e di apertura all’evento. Con l’augurio che la marcia riceva tutti i permessi necessari. Proprio ieri è giunta la notizia che venti parlamentari europei marceranno con noi verso Rafah, tra questi anche tre rappresentanti italiani. I membri europei hanno scritto una lettera indirizzata al presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi chiedendo l’autorizzazione ufficiale e la facilitazione della marcia attraverso il territorio egiziano. Nella sua storia l’Italia si è sempre distinta per aver promosso azioni pacifiche in conflitti di guerra, per sensibilizzare l’opinione pubblica e per chiedere la fine delle guerre laddove i governi non hanno trovato il modo di impedire la strage di innocenti. Da mesi invece tutto questo accade a Gaza, nel complice silenzio dei governi, italiano compreso, che mai hanno chiesto la fine dei bombardamenti. Ricordiamo le carovane della pace a Sarajevo, promosse dal movimento pacifista italiano nel 1991. Sappiamo che il governo italiano ha interessi a mantenere saldi i rapporti con Israele al quale fornisce armi che poi servono a compiere il genocidio del popolo palestinese e per questo cerca di scoraggiare e sabotare una marcia pacifica, abbandonando di fatto i propri cittadini e non garantendo loro una protezione in territorio straniero. «Non sarà una passeggiata: per questo motivo, tutti i partecipanti hanno compilato un modulo di adesione in cui vengono informati della possibilità di essere rimpatriati, interrogati o arrestati. Questo è dovuto all’indifferenza dei politici italiani. Come ben sappiamo, la causa palestinese per molti è diventata propaganda e quindi probabilmente il sapere che non avranno un podio da esporre sui social media ha portato i politici italiani a voltarsi dall’altra parte, senza rendersi conto dell’enorme errore che stanno commettendo. Perché gli italiani questo lo ricorderanno» ha dichiarato alla stampa Antonietta Chiodo, referente per l’Italia della Global March to Gaza. Siamo 52 delegazioni da altrettanti Paesi con centinaia di persone che mosse dalla causa palestinese hanno deciso di riunirsi pacificamente per mandare un messaggio forte: fine del blocco su Gaza e un corridoio umanitario garantito. Ci sostengono decine di associazioni in tutto il mondo, la lista completa si trova sul nostro sito marchtogaza.net. Il nostro gruppo è composto da persone che da decenni lavorano in situazioni di conflitto e crisi, a sostegno dei popoli e dei diritti umani. Ad affiancare via mare la marcia “per rompere l’assedio” ci sarà anche la Freedom Flotilla Coalition, con cui la Global March to Gaza ha firmato una dichiarazione congiunta, che è partita il primo giugno dal porto di Catania in Sicilia con a bordo anche Greta Thunberg e la deputata europea Rima Hassan, insieme ad altri attivisti. Oggi la Madleen si è imbattuta in una nave della guardia costiera libica, che si è prima identificata come egiziana, mentre stava riportando alcune persone verso le coste della Libia, contrariamente a quanto dice il regolamento internazionale sull’accoglienza dei rifugiati. Quattro persone per sfuggire a un destino di torture e prigione si sono gettate in mare, rischiando di annegare, e sono state portate in salvo dalla Flotilla. I centri libici sono finanziati dal governo italiano in barba a ogni diritto umano per le persone che lì sono in trappola. «I palestinesi, compresi quelli della Cisgiordania, sono topi in gabbia a cui è negato da sempre di potere conoscere il mondo. Il Valico di Rafah è l’unico budello di congiunzione con Gaza per uscire – continua Chiodo – ho documentato negli anni passati come reporter l’umiliazione di chi si accampava al valico in attesa di uscire nonostante fosse stato approvato il permesso mesi prima, e per giorni vi erano donne, uomini, anziani e bambini sdraiati per terra in attesa di questa apertura. C’è una vergogna più grande di questa? Non penso. Il valico va aperto, non si può tenere in ostaggio una popolazione». Aggiungiamo infine che il nome corretto dell’iniziativa è Global March to Gaza, non “March for Gaza” come erroneamente scritto nel comunicato. Redazione Italia
Rifondazione: “Esclusi dal processo per la strage di Cutro in quanto voce scomoda?”
Con l’avvicinarsi del dibattimento per l’omissione di soccorso che causò la strage di Cutro del 26 febbraio 2023 – 94 morti accertati, tra cui 35 minori, ed almeno altri venti dispersi – di uomini e donne che tentavano di arrivare in Italia, il Gup ha deciso di escludere 25 delle 113 persone, enti ed associazioni che volevano costituirsi parte civile nel processo. Fra queste esclusioni lascia interdetti quella dell’Associazione Studi Giuridici Sull’Immigrazione (ASGI), dell’Arci, di Cittadinanza Attiva, di Melting Pot, dell’Associazione Sabir  e dell’unica forza politica che ha chiesto di entrare nel processo: Rifondazione Comunista. Sono state invece ammesse le principali Ong che si occupano di salvataggio in mare e, nonostante il parere contrario della difesa degli imputati, i sopravvissuti al naufragio e i loro parenti. Non cesseremo certamente di seguire il processo, ma il non considerare parte in causa noi, insieme alle principali realtà che seguono, oramai da decenni, il risultato di politiche scellerate e capaci di creare solo lutti e sciagure, ci lascia a dir poco interdetti. Il processo in atto si fonda sulle presunte responsabilità non solo dei militari della marina, che non sono intervenuti in tempo per salvare le persone, ma su quelle del Ministero dell’Interno e del governo che dovevano disporre tale intervento. Se la politica è responsabile di un reato è giusto che chi opera politicamente per un radicale cambiamento possa costituirsi contro le scelte di chi ci comanda. Ci domandiamo quindi quali siano le ragioni reali di tali esclusioni: forse non si vogliono al processo, a porre domande, voci scomode che molto hanno da dire sulle ragioni reali per cui quelle persone sono state lasciate morire a poche centinaia di metri dalla salvezza? Il dubbio è lecito. Maurizio Acerbo, segretario nazionale Stefano Galieni, responsabile nazionale immigrazione PRC-S.E. Rifondazione Comunista - Sinistra Europea
La maggioranza Meloni approva l’acquisto di nuove tecnologie militari da Israele
Nel silenzio generale, l’Italia continua attivamente a finanziare l’industria bellica israeliana. La maggioranza di governo ha infatti approvato, in Commissione Bilancio della Camera, lo schema di un decreto ministeriale (Smd 19/2024) dal valore di oltre 1,6 miliardi di euro, che prevede la «progressiva implementazione di suite operative “Multi-Missione MultiSensore” (MMMS) su piattaforma condivisa Gulfstream G550 “Green” base JAMMS». Lo schema rientra in un ampio progetto a più fasi che intende dotare l’Italia di una piattaforma aerea di ultima generazione per condurre attività di diversa natura, in primo luogo di spionaggio. Gli aerei coinvolti, i Gulfstream G-550, sono jet civili da convertire in aerei spia, dotandoli proprio di tecnologia israeliana. Lo schema prevede infatti «l’implementazione delle modifiche operative richieste» per convertire gli aerei in quella che viene definita «versione completa», per cui sono necessarie le tecnologie dell’azienda israeliana Elta Systems Ltd. L’approvazione dello schema di decreto ministeriale da parte della Commissione Bilancio è avvenuta martedì 6 maggio. L’allarme sul contenuto del programma è stato lanciato da Peacelink, che ha notato come la discussione sull’approvazione dello schema si sia svolta in soli cinque minuti, senza menzionare una sola volta Israele. Per comprendere cosa c’entri lo Stato ebraico, si deve perciò procedere per gradi. Nella documentazione per l’esame dell’atto di governo approvata il 6 maggio, si legge che lo schema riguarda la «prosecuzione dei già avviati ed approvati programmi di A/R n. SMD 03/2020 e SMD 37/2021». Il primo dei programmi citati, risalente al 2020, illustra il piano pluriennale, che dovrebbe terminare nel 2056, e lancia la prima fase del progetto – diviso in più «tranche» – con scadenza 2032. Con la prima tranche del programma, tra le altre cose, vengono acquisiti 8 aerei, di cui 2 già in assetto completo e 6 nella cosiddetta versione green (cioè in assetto civile, da convertire in assetto militare). Gli aerei, precisa il documento, sono velivoli «Jet executive sviluppati dall’azienda aeronautica statunitense Gulfstream Aerospace», che verranno dotati di tecnologia CAEW (Conformal Airborne Early Warning) «modificata in parte dalla stessa Gulfstream ed in parte dalla israeliana Elta Systems Ltd (filiale della Israel Aerospace Industries)»: la tecnologia, insomma, è israeliana. L’onere finanziario di questo primo schema è pari a 1,223 miliardi di euro, già stanziati. Il secondo schema è stato approvato e finanziato nel 2021 e punta a implementare gli aerei acquisiti nella prima tranche per raggiungere quella che viene definita Full Mission Capability (FMC), ossia la conversione in versione militare. Il documento precisa che il raggiungimento della FMC si ottiene attraverso la «integrazione del sistema di missione CAEW su velivoli G-550 versione green», confermando, di nuovo, l’impiego di tecnologia israeliana. Questa tranche «è rivolta alla trasformazione operativa di n. 4 dei 6 velivoli G-550 di cui alla 1° tranche», e vale 925 milioni di euro. Le tecnologie necessarie alla conversione degli aerei sono state «acquisite direttamente attraverso procedure con Paesi alleati e/o di interesse strategico». Di preciso, l’Italia ha stipulato un accordo bilaterale con Israele e promosso la firma di un memorandum d’intesa tra l’italiana Leonardo e l’israeliana Elta System Ltd. Il terzo schema approvato il 6 maggio si colloca sulla scia della prima fase del programma pluriennale e prevede un onere totale di oltre 1,632 miliardi di euro, 700 in più rispetto a quanto stimato nella seconda tranche. Di questi, oltre 600 milioni, già stanziati, sono indirizzati al completamento delle conversioni degli aerei previste nella seconda tranche del progetto, mentre oltre 900 milioni per altre attività e acquisizioni. Di questi ultimi, parte verranno utilizzati per finanziare «le modifiche alla configurazione FMC dei rimanenti velivoli “Green Base JAMMS”», che a questo punto dovrebbero essere 2. Se la conversione, come confermato da entrambi i precedenti schemi, dall’accordo intergovernativo, e dal memorandum tra aziende italiane e israeliane, richiede tecnologia israeliana, questo significa che l’Italia dovrà acquistarla direttamente da Elta System Ltd. Oltre a ciò, lo schema prevede l’acquisizione di un simulatore e l’acquisto di un ulteriore velivolo destinato alla ricerca. Con l’approvazione da parte della Commissione Bilancio, la palla è passata alla Commissione Difesa, che dovrà esprimersi entro il 26 maggio. Peacelink ha così lanciato un appello per fermare l’approvazione del documento, a cui per ora hanno risposto parlamentari di M5S e AVS: «Mancano ancora pochi giorni prima che il Parlamento approvi», Alessandro Marescotti, attivista e fondatore di Peacelink. «Scriviamo tutti ai membri delle Commissioni Difesa di Camera e Senato per chiedere di fermare quest’acquisto, come primo passo concreto per rompere la complicità con l’occupazione e sostenere davvero i diritti del popolo palestinese». Dario Lucisano Laureato con lode in Scienze Filosofiche presso l’Università di Milano, collabora come redattore per L’Indipendente dal 2024. L'Indipendente