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Convegno a Napoli del 17 ottobre: Educazione alla pace e critica al militarismo
Grande la partecipazione al convegno dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università che si è tenuto il 17 ottobre a Napoli, organizzato dall’Assemblea di Autoformazione della scuola presso il Liceo Statale Villari in collaborazione con alcuni suoi docenti. La mattina è iniziata con l’introduzione di un portavoce del collettivo organizzatore, che ha inquadrato la prospettiva generale della giornata di formazione e l’idea di autoformazione che la sottende in un mondo, quello della scuola, sempre più incardinato sul militarismo sia implicito sia in divisa.  Il prof. Charlie Barnao – sociologo e docente dell’Università di Palermo – è intervenuto sul tema del militarismo culturale e dei processi di socializzazione ad esso connessi, partendo da un’autoetnografia sui sistemi addestrativi militari; la prof.ssa Daniela Tafani – ricercatrice in Filosofia politica presso l’Università di Pisa – sulle relazioni tra il complesso militare industriale e i giganti del Big Tech e sull’incompatibilità tra democrazia ed enormi concentrazioni di capitale che questi ultimi rappresentano; Barbara Bertani – docente di scuola primaria e attivista nella Rete Alfabeti Ecologici – ha illustrato il modo in cui un approccio ecologico alla pedagogia, basato sulla costruzione di una comunità di ricerca che si pone domande, che discute, e in cui il conflitto emerge e viene rielaborato, possa contribuire alla crescita di soggetti capaci di immaginare altri mondi possibili e di incidere sulla realtà per trasformarla. Infine Roberta Leoni – docente di scuola secondaria e attuale presidente dell’Osservatorio – ha relazionato sul fenomeno della militarizzazione delle scuole e delle menti, dagli accordi tra il mondo della formazione e quello dei corpi armati e dell’industria bellica, alle norme nazionali e comunitarie che lo promuovono, dall’invasione più o meno sottile delle menti attraverso i media, l’editoria scolastica, i prodotti culturali per bambini/e e adolescenti; l’intervento è stato accompagnato da una carrellata di immagini tratte dalle numerose segnalazioni dell’Osservatorio e dalla testimonianza delle più significative campagne finora portate avanti. Video dell’intervento di Roberta Leoni a Napoli. Nel pomeriggio i presenti si sono divisi in gruppi coordinati dai docenti dell’Assemblea di autoformazione che hanno discusso a partire da domande-guida su temi desunti dalle relazioni mattutine: pedagogia e guerra, cultura della militarizzazione, pervasività del digitale; gli spunti che ne sono scaturiti sono stati poi esposti e riportati in plenaria da un rappresentante per gruppo. Ringraziamo le relatrici e i relatori, il Liceo Statale Villari che ci ha ospitati, le colleghe e i colleghi che hanno collaborato all’organizzazione, tutti quanti hanno partecipato e che ci hanno dato feedback che rafforzano la convinzione della necessità di questi momenti di approfondimento orientato alla lotta. Qui alcuni scatti della giornata. Assemblea di autoformazione della scuola di Napoli Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università
Territori Resistenti: le connessioni tra caccia e militarismo a Bologna
Dal 26 al 28 settembre si è svolta a Monte San Pietro, in un luogo immerso nella natura dei colli intorno a Bologna, una 3 giorni organizzata da RIOTDOG con la collaborazione di altre realtà, denominata Territori Resistenti e dedicata alla lotta contro dominio, caccia e colonizzazione. In particolare, durante la seconda giornata dei lavori, i partecipanti sono stati invitati ad un dibattito teorico sulla caccia, volto a declinare il tema in relazione a cinque diverse prospettive: il militarismo, il colonialismo, il patriarcato, lo specismo e l’industria agroalimentare. Per il nostro Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università è intervenuto Giuseppe Curcio, al quale è stato chiesto di coordinare il gruppo che aveva il compito di analizzare le connessioni tra caccia e militarismo. Ciascun gruppo ha preso posto in un angolo diverso del suggestivo luogo in cui si è svolto il weekend di lotta e riflessione e dall’analisi sviluppata dal confronto sono emersi alcuni aspetti principali che sintetizziamo di seguito. Innanzitutto, si è pensato di distinguere un piano cognitivo ed un piano più fisico e materiale nelle quali operano le dinamiche e le strategie messe in atto negli ambiti del militarismo e della caccia, anche se talvolta questi piani si intrecciano: * analogamente a quanto avviene nel processo di militarizzazione, anche chi sostiene la caccia opera su un piano cognitivo e necessità di legittimazione del proprio ruolo e della propria presenza e la sua azione adducendo elementi che vadano a favore della collettività collaterali e complementari al semplice uso delle armi per uccidere. Ad esempio, se i militari evidenziano i compiti che hanno a che fare con la protezione civile e gli interventi in materia di tutela ambientale, anche i cacciatori cercano di autolegittimare la propria funzione affermando che la loro presenza sul territorio aiuti a mantenere puliti i boschi e protetti i luoghi naturali grazie alla loro opera; * il tema del dominio e del controllo del territorio sono caratteri peculiari che contrassegnano sia la caccia che quello della militarizzazione: entrambi questi mondi vedono i territori come target da conquistare e da predare per esercitare il loro dominio su altri esseri viventi, umani nel caso della guerra e non umani nel caso della caccia. Nell’ottica del dominio il controllo del territorio diventa un elemento chiave: una battuta di caccia o un’esercitazione comporta l’espulsione di ogni altro essere umano da quel pezzo di territorio per avere mano libera col pretesto della sicurezza; * anche la caccia tende a mettere in atto, come avviene con il militarismo, un processo di normalizzazione della sua presenza nella società per farla percepire come un’attività legittima e del tutto intrecciata con la presenza umana nei territori, come una forma normale di gestione e regolazione della sicurezza dei luoghi per mantenere alcuni equilibri, che non sono poi veramente tali (ad esempio, gli abbattimenti programmati di alcune specie di animali come i cinghiali, quando superano determinate dimensioni); * l’aspetto ludico-sportivo rappresenta poi un elemento chiave su entrambi i versanti, soprattutto per avvicinare i giovanissimi, nell’ottica di far percepire loro come la caccia o la vita militare possano essere una naturale prosecuzione di quel gioco “sparatutto” o di quello sport praticato in gioventù (tiro al piattello, tiro con l’arco o con la balestra, orienteering, sopravvivenza, etc.) e rappresenta anche un percorso per testare capacità ed abilità ai fini di un “reclutamento” successivo. Non a caso, l’attività di propaganda nelle diverse iniziative pubbliche di divulgazione del mondo della caccia e del mondo militare prevedono la presenza di aree adibite a mettersi alla prova in tali specialità o anche nei poligoni di tiro. Una propaganda volta sia a normalizzare che a reclutare; * la spettacolarizzazione dell’attività svolta ha poi la funzione di affascinare e coinvolgere rendendo più “leggero” l’impatto sulla percezione della cittadinanza e dell’opinione pubblica in generale. La morte viene spettacolarizzata per abbassare il livello delle pregiudiziali morali contro queste attività: si sono menzionate anche le gite via terra e via mare, i tour sui colli o i tour in barca degli israeliani di fronte a Gaza dove, come in un orrendo safari, una guida mostra come l’esercito israeliano bombarda i civili palestinesi nelle loro case, mentre i “turisti” osservano tutto con l’ausilio di un binocolo, come avviene appunto anche nelle battute di caccia; * si osserva inoltre una connessione legata alla prospettiva specista: nelle grandi guerre o ad esempio nel genocidio in corso a Gaza si tende a giustificare le stragi perpetrate con un processo di animalizzazione e quindi deumanizzazione delle vittime. Si considerano gli esseri umani uccisi quasi come bestie, come animali per togliere valore alle loro vite. E così succede nella piattaforma di giustificazione della caccia, dove si tratta realmente di animali, i quali vengono ingiustamente presentati come esseri viventi legittimamente sacrificabili, quasi come se fossero nati per essere puntati e uccisi senza riconoscere la dignità e la sacralità della loro vita; * ma anche nell’approccio più fisico e materiale, si tende in entrambe le categorie del militarismo e della caccia a far passare l’uso delle armi come qualcosa che rientri nella quotidianità e lo si fa talvolta anche avvicinando con pratiche, tecniche e strategie di marketing operativo portando ad esempio i consumatori ed i cittadini a frequentare i luoghi nei quali sono presenti le armi e tutto ciò che è connesso ai mondi della caccia e del militarismo (ad es. le armerie o semplicemente i reparti caccia e pesca di negozi di articoli sportivi ed i tanti luoghi “vestiti” con i colori del camouflage, anche nel settore dell’abbigliamento). Per comprare un fumogeno da portare in un corteo di protesta bisogna recarsi in armeria per via della specificità del prodotto legato a specifiche licenze, ma anche per un semplice coltellino per tagliare delle corde occorre recarsi in un negozio che abbia articoli di caccia e pesca e acquistare un “tagliabudella”; * il ruolo dell’innovazione tecnologica rappresenta un altro ambito di connessione fra caccia e militarismo. Dal progresso di alcune tecnologie nascono prodotti sempre più performanti e di conseguenza più impattanti nell’opera di distruzione e devastazione che pongono in essere: ad esempio             1) visori notturni utilizzati in guerra vengono adottati anche da chi caccia al buio;             2) l’intelligenza artificiale usata dai militari per mappare la morfologia dei territori viene utilizzata per individuare tane di animali o luoghi ideali per posizionarsi e cacciare;             3) le fototrappole possono essere utilizzate indistintamente in guerra contro soldati o civili, ma anche nella caccia per gli animali; * l’uso delle armi comporta poi un certo numero di “danni collaterali”, cioè anche esseri umani che ci rimettono la vita per un proiettile o un colpo partito per caso oppure anche per via dell’esposizione a sostanze dannose per la salute, come ad esempio l’uranio impoverito, il torio radioattivo, il cadmio, il piombo e l’antimonio: le munizioni all’uranio impoverito rilasciano nanoparticelle di metalli pesanti e radiazioni, che possono essere inalate e ingerite, causando danni alla salute come mesotelioma e tumori (in particolare linfoma di Hodgkin e leucemie), danni ai reni, al pancreas, allo stomaco e all’intestino; * l’accesso alle armi rappresenta un nodo fondamentale ed anche quello più visibile che accomuna il mondo della caccia alla sfera militare. Infatti, entrambi si presentano come opportunità per agevolare nell’accesso alla detenzione ed all’uso di un’arma, attraverso il patentino armi per uso di caccia oppure il servizio militare nelle Forze Armate o nei Corpi armati dello Stato può attestare l’idoneità al maneggio delle armi (DIMA), utile per l’accesso al porto d’armi; * L’impatto ambientale che la guerra e la caccia producono è significativo. La guerra è di sicuro l’attività umana più distruttiva in termini ambientali, nella fase di produzione delle armi, durante il suo utilizzo ed anche dopo la fine dei conflitti per la contaminazione che permane per decenni e secoli nell’ambiente. Anche la caccia, così come la pesca, rappresenta uno dei principali motivi che portano all’estinzione di alcune specie animali e si presenta come atto di predazione e colonizzazione della natura nei territori, oramai anche quelli più incontaminati e più lontani dai centri abitati. Gli inquinanti contenuti nelle munizioni contaminano l’ambiente per decenni; Le analisi e le risultanze dei confronti all’interno di ciascun gruppo sono state poi restituite in plenaria, evidenziando collegamenti fra le varie dimensioni analizzate, e contribuiranno a creare un opuscolo che riassumerà gli interessanti lavori della giornata e rappresenterà un prezioso strumento di divulgazione per una maggiore consapevolezza sul tema della caccia e sulle implicazioni che la sottendono. Infine, si è evidenziato come negli ultimi anni si sia verificata una convergenza della lotta contro la caccia con la lotta antimilitarista, ad esempio nella scena bresciana, dove gli animalisti hanno trovato un terreno comune per le loro rivendicazioni con chi combatte contro le armi, la NATO e la forte presenza militare sul territorio (è la zona in cui si trova la Beretta di Gardone Val Trompia, ma anche la base di Ghedi): un mondo senza armi, senza cacciatori, senza basi militari della NATO sembra davvero una prospettiva decisamente migliore di quella attuale. Anche se apparentemente quello della caccia può sembrare concettualmente distante da quello del processo di militarizzazione al di là di qualche elemento fisico comune, in realtà le connessioni hanno evidenziato dinamiche simili e terreno fertile per un approccio di lotta comune contro le armi e la predazione dei territori. Convergiamo e resistiamo insieme! Giuseppe Curcio, Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università, Bologna
Ritorno della leva obbligatoria: militarismo dilagante in Italia e in Unione Europea
La fine dell’esercito di leva rappresentava, quasi un quarto di secolo fa, una svolta epocale dettata dai contesti storici e geopolitici in evoluzione e dai processi tecnologici che andavano rivoluzionando anche il settore militare. E, se i vari paesi europei si sono convinti, nell’arco di pochi anni, di superare la leva, la spiegazione sta proprio nell’evoluzione dello stesso concetto di guerra per il quale servivano élites militari di professione, addestrate e formate anche sul piano ideologico. Così, una volta cessata l’attività militare, queste élites avevano una corsia preferenziale per accedere ai concorsi nella PA e non solo nelle forze di polizia. Con la guerra in Ucraina sono cambiati alcuni scenari da cui scaturisce la necessità di avere organici numerosi, da impiegare in guerre logoranti che si trascinano per anni con l’occupazione e il presidio di vaste distese territoriali. Ma è indubbio che la leva svolga anche un ruolo ideologico, di fedeltà passiva all’idea di patria, che poi rappresenta il terreno ideologico sul quale si costruiscono teorie e pratiche militariste e guerrafondaie. In una fase storica come la nostra non ci sono le controindicazioni degli anni Settanta e Ottanta, per capirci quelle ragioni etiche, morali e politiche così forti da favorire la renitenza alla leva, l’obiezione di coscienza e una crescente disaffezione verso la nozione di patria e il ruolo delle forze armate. Anche a destra il fascino per la divisa era entrato in crisi, non c’era più da presidiare i confini difendendoli dalla minaccia dei paesi socialisti. Oggi la Lega avanza una proposta di legge per ripristinare la leva obbligatoria e altre forze di destra si fanno promotrici di analoghe istanze in altri paesi UE. Un servizio di leva per 6 mesi, nella propria Regione di residenza impiegando ragazzi e ragazze di età compresa tra i 18 e i 26 anni. Per gli obiettori di coscienza ci sarà il servizio civile di durata identica occupandosi della tutela del patrimonio culturale e naturale, di soccorso pubblico e Protezione civile. E per chi si sottrarrà alla leva e al servizio civile ci sarà una accusa penale ai sensi dell’articolo 14 della legge 230 del 1998 con la reclusione da sei mesi a due anni. Una proposta più completa della mini-naja proposta da Ignazio La Russa, ma tale da provocare qualche perplessità anche a destra, almeno tra i fautori dell’esercito professionale, convinti che una leva obbligatoria rappresenti un eccessivo incremento delle spese senza portare benefici reali ai dispositivi militari A detta di questi settori sarebbe, invece, auspicabile il modello israeliano con la militarizzazione di tutta la società e la istituzione della Riserva operativa in cui far confluire ex militari che, dopo aver trovato un diverso impiego, sono disponibili a essere richiamati, con giustificazione al lavoro, due o tre mesi all’anno per addestramento o emergenze. Questi riservisti li ritroviamo nell’occupazione di terreni e case palestinesi per favorire gli insediamenti coloniali e, per quanto impopolare sia oggi il premier israeliano nel suo stesso paese, la stragrande maggioranza della popolazione risponde con solerzia alle chiamate del Ministero della difesa Un’ulteriore spiegazione per il ritorno in auge della leva potrebbe essere anche motivata dal continuo e costante calo degli organici militari (dai 190 mila nel 2010 siamo passati a 154 mila nel 2024 e senza arruolamenti ulteriori ci troveremmo da qui a 6\7 anni l’età media delle truppe attorno ai 50 anni) che indurrebbe a mantenere  da una parte l’esercito professionale, ma dall’altra anche qualche forma di leva prolungata, o di riservisti per destinare questi ultimi a operazioni sul territorio nazionale che vanno dall’ordine pubblico alla lotta agli incendi, dalla protezione fino al presidio del territorio ricordando che l’Operazione “Strade sicure”, impiega circa 7mila soldati che poi verranno a mancare in eventuali scenari di guerra. Federico Giusti, Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università