Il bisogno indotto della guerraAnalizzare i modi attraverso cui l’industria automobilistica, e in Italia dire
auto nel XX secolo è dire FIAT, si è imposta a partire dagli inizi del ‘900 è
emblematico rispetto alle modalità di affermazione del sistema capitalista. Il
paesaggio modellato con le infrastrutture necessarie allo sviluppo del settore
(strade, autostrade, ecc.), solidi legami col potere politico (meglio se di
destra ma con capacità di adattarsi ai differenti schemi politici), attività di
lobbying, creazione del bisogno in modo tale da renderlo insopprimibile,
l’affermazione di una immagine di modernità in contrasto con la mobilità del
passato basata su treni e tramvie.
Spostiamo ora l’attenzione sull’ambito trainante dell’economia capitalista del
XXI secolo: l’industria delle armi. Il complesso militare-industriale è legato a
filo doppio a un’economia di guerra. E’ tutto sommato l’applicazione del modello
consumista, la guerra è la situazione in cui le armi si usano e si consumano
incentivando sempre più massicce produzioni. Pensiamo che l’impulso al sistema
industriale delle armi sia data da un fatto ineluttabile, ovvero la presenza dei
conflitti armati in giro per il mondo, conflitti dovuti al nazionalismo,
conflitti religiosi, etnici, politici. In realtà occorre invertire il nesso
causale.
Le guerre ci sono poiché indotte dal sistema industriale militare. In una logica
capitalista che guarda al profitto e all’accumulo di dividendi al di là di
qualsiasi valutazione etica è nella natura delle cose favorire situazioni di
instabilità che portino poi a conflitti armati. Non è poi così difficile farlo
per il potentissimo sistema industriale di produzione di armi. Gli addentellati
con la politica sono evidenti, le possibilità di giocare a tutto campo sugli
scenari mondiali sconfinate. E’ quanto è avvenuto solo per fare un esempio di
drammatica attualità in Ucraina.
Tendiamo a vedere solo ciò che è palese ma chi ha favorito l’instabilità e la
drammatica apertura di conflitti armati è chi può fornire a dismisura armamenti
guadagnando somme che si misurano nell’ordine delle migliaia di miliardi. E dove
sperimentare al meglio i nuovi sistemi d’arma se non sul campo…di battaglia. Le
vittime civili e militari e la distruzione di beni materiali come test di
innovativi “prodotti”. E non ci sono solo missili, artiglieria pesante, armi
convenzionali. Già hanno fatto irruzione da qualche anno i droni che permettono
di far strage senza rischio alcuno. Ma ora la nuova frontiera è fatta di
iper-tech, intelligenza artificiale, armi cyber, big data, e questo lo avevano
detto ad esempio Taiani e Crosetto. Avevano invitato a tener conto del fatto che
attrezzarsi per la difesa non significava solo missili e cannoni ma appunto un
bel po’ di innovazioni immateriali.
Ah, ora stiamo meglio! Il complesso militare-industriale influenza le politiche
di investimento dei governi e la stessa percezione dei bisogni e dei rischi
della popolazione. Interviene a tutto campo. E’ capace di far passare la
“pubblicità” di una Russia che sta per attaccarci e da cui occorre difenderci
investendo 800 miliardi in armi, indicendo quindi nella popolazione un bisogno
che è percepito come reale anche se ciò è solo negli interessi economici di
qualcuno. Ma fa breccia e la fa persino tra le forze progressiste che non si
sottraggono alle sirene del riarmo. E’ in grado grazie al legame a doppio filo
con gli eserciti di azioni pervasive anche a livello educativo. Sono diventate
normali oramai le “lezioni” dei militari nelle scuole, le visite didattiche alle
forze armate e via dicendo. E fanno passare l’imprescindibile difesa del Paese
per difesa dei confini (minacciati in realtà solo dai poveri cristi che arrivano
da sud e da est) mentre la vera difesa dovrebbe essere a favore della salute,
della scuola, dell’ambiente.
Naturalmente più soldi per le armi significa meno investimenti in sanità,
scuola, ambiente , lavoro. Ma tutto sommato un popolo meno sano, più povero, più
depresso, meno istruito, che viva in un ambiente degradato, si manipola meglio.
Sarebbe sbagliato però pensare di invertire la rotta considerando il sistema
industriale militare come un problema a sé. Creazione del bisogno,
interconnessione del sistema economico con quello politico, attività lobbistica,
consumismo, sono pilastri del sistema capitalista per cui è quello che va
rovesciato.
L’obiettivo non può che essere il comunismo. Non ovviamente quello burocratico e
autoritario di sovietica memoria. Ma piuttosto il comunismo dei beni comuni,
della decrescita e del marxismo ecologista teorizzato dal filosofo Sito Kohei.
In ballo questa volta non ci sono solo le sorti del proletariato ma la
sopravvivenza stessa dell’umanità.
Giuseppe Paschetto