Aprire il cammino, un’esperienza in Chiapas
Lunedì 12 maggio alla Casa della Cooperazione, a Palermo, per iniziativa del
CISS, del laboratorio Ballarò e della redazione cittadina di Pressenza, si è
svolto un incontro con l’autore del libro Ta Spol Be (Aprendo il cammino),
l’antropologo messicano Oscar Garcia Gonzales. Il volume, autofinanziato,
raccoglie testimonianze, racconti, pagine di diario, poesie e un registro
etnografico legati a un progetto di educazione popolare con il popolo Tsotsil in
Chiapas tra il 1998 e il 2003.
Nel 1992 era stato cancellato dalla Costituzione federale messicana l’articolo
97 che tutelava le proprietà collettive delle terre dei villaggi. Il passaggio
successivo fu l’accordo commerciale Nafta che rovinò i contadini. Essi reagirono
con il levantamiento, la ribellione iniziata il primo gennaio 1994 e guidata
dall’esercito zapatista, cui lo Stato rispose con una “guerra a bassa intensità”
e con la strage di Acteal del dicembre ’97, che uccise una cinquantina di
persone, fra le quali molte donne e bambini, e provocò l’esodo di migliaia di
sfollati rifugiatisi anche nel municipio autonomo di San Pedro Polho.
La vicenda indignò l’opinione pubblica mondiale. Si recarono a Polho, tra gli
altri, José Saramago, Susan Sontag, Manu Chao. Molti giovani studenti e docenti
dell’Università del Mexico decisero di avviare lì un progetto educativo, ma
l’istituzione non li appoggiò; anche per questa ragione essi crearono una
Università Autonoma Messicana e organizzarono comunque la partenza.
L’obiettivo era di insegnare ai bambini a leggere e scrivere in spagnolo. A
staffetta i volontari si alternarono per cinque anni, fino a quando gli
zapatisti non chiesero a tutti i volontari di lasciare le comunità, per
misurarsi con la propria autonomia. Da principio, i giovani maestri sarebbero
dovuti rimanere solo sei mesi, ma si resero subito conto che tutta l’iniziativa
andava rimodulata, poiché i bambini parlavano solo la lingua Tsotsil: da quella
bisogna muovere per insegnar loro a usare la penna, da quella e dal loro vissuto
esperienziale. Perciò i docenti si fecero discenti: appresero la lingua e gli
usi locali, studiarono le consuetudini i giochi gli arnesi che sarebbero
divenuti esempi per le narrazioni quotidiane.
La didattica si avvalse di un sistema di letto-scrittura per passare dallo
Tsotsil al castigliano, sistema messo a punto da una pedagogista lì sul posto.
Si lavorava non per materie e discipline, ma per progetti di ricerca su temi
scelti dai bambini. Le famiglie erano coinvolte poiché vedevano l’apprendimento
dello spagnolo come uno strumento di autonomia.
Ad ascoltare questo racconto tornano in mente le esperienze di Mario Lodi con i
figli degli emigrati meridionali a Mirafiori e la maieutica reciproca di Danilo
Dolci.
C’erano maestri e formatori di maestri di ogni nazionalità, che si riunivano di
frequente per discutere e confrontarsi sull’approccio corretto, poiché, come
sottolinea Garcia Gonzales, “apprendere una lingua significa apprendere una
cultura, che è come un’insalata: più ingredienti ci sono meglio è”.
Una delle lingue parlate in Chiapas, ad esempio, ci ricorda un medico italiano e
formatore di “promotori di salute” che lì ha vissuto diversi anni, è la lingua
Tojolabal, nella quale non esiste complemento oggetto, sostituito da una sorta
di complemento di termine (cosa molto simile a quanto accade nel siciliano):
l’altro, l’altra non è mai reificato, ridotto a strumento di cui servirsi e
impadronirsi; ci si rivolge a lui, a lei, con un gesto di apertura e
accoglienza, a riprova di quella orizzontalità che caratterizza la mentalità dei
contadini degli Altos, delle montagne, e che permea tutta la politica zapatista.
L’educazione, del resto, è uno dei sette principi chiave della rivoluzione
zapatista, ma i bimbi coinvolti in questo progetto non erano affatto
scolarizzati: o scappavano da tutte le parti, anche dalla finestra, o
all’opposto avevano paura di giocare perché a scuola dovevano “stare buoni”.
Dunque, si è trattato anche e prima di tutto di costruire relazioni comunicative
e affettive sincere e chiare.
Nella testimonianza di Garcia Gonzales, i suoi sentimenti dominanti all’inizio
erano di paura ed entusiasmo insieme: era un giovane studente di psicologia
sociale che si buttava a capofitto in un’avventura non solo umana ma anche
politica, e non priva di rischio per la vita; alla fine, invece, dopo diversi
anni nella selva, andarsene significò dapprima sbandamento e poi la decisione di
diventare antropologo. Adesso è insegnante in un liceo messicano e, soprattutto,
portavoce di un popolo che lotta e non si arrende.
Come ci rammenta Mimma Grillo, organizzatrice di questo incontro, il clima
odierno in Messico è di repressione: ci sono più di centomila desaparesidos e
c’è da fronteggiare non solo l’esercito e i paramilitari ma ora anche i narcos,
diffusi dappertutto con la complicità dei governi federale e locali.
È nata un’associazione di donne, Las buscadoras, donne che vanno in cerca dei
parenti scomparsi, un po’ come erano state le Madri di Plaza De Majo in
Argentina. Nel frattempo l’autogoverno zapatista sta attuando una riforma dei
Comuni che ne eviti la verticalizzazione e la burocratizzazione e ne ripristini
la orizzontalità.
Garcia Gonzales rimarca come oggi sia difficile in Mexico realizzare autonomia;
ma si può lavorare sulla consapevolezza. L’impegno politico deve riguardare
l’intero pianeta, che è unico per tutti e tutte, e la solidarietà. Como se
lleva? Come si fa? “È come studiare in una scuola in costruzione”, dice.
Tra luglio e agosto si terrà una nuova convocatoria con la comandancia per
analizzare “la tormenta” che ci avvolge tutti in questi tempi bui. Si dovrà
progettare il futuro, poiché la tormenta non dura per sempre e occorre pensare a
costruire il giorno dopo, come avverte Marcos.
Dai rappresentanti del Laboratorio Ballarò e della redazione di Pressenza,
Franzitta e Casano, viene avvertita l’analogia con la Palestina, ma soprattutto
con il Rojava: il Chiapas e il Kurdistan esprimono soggettività rivoluzionarie
che realizzano pratiche di cura del bene comune, modelli comunitari esemplari
per tutta la sinistra mondiale.
Si tratta di società senza Stato e, almeno al proprio interno, disarmate, in
cammino (proprio come suona il titolo del libro che stiamo esplorando) verso il
superamento dello Stato-nazione e dell’esercito che ne è la prima incarnazione,
verso il superamento del patriarcato, del modernismo capitalistico ed in intima
consonanza con la natura.
Si tratta, non a caso, di due percorsi estranei al “pensiero unico” occidentale,
che davvero ci indicano la strada.
Daniela Musumeci