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Una grande famiglia multietnica
Se ne parla ancora – troppo – poco, ma per accogliere i minori stranieri non accompagnati non ci sono solo le comunità. Esiste anche l’affido familiare, che, secondo l’ultimo rapporto del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali sui minori stranieri non accompagnati presenti in Italia, riguardava al 30 giugno 2025 il 20,3% dei ragazzi migranti soli, per la maggior parte ucraini. Il report sui minori fuori famiglia, invece, al 31 dicembre 2023 contava 953 minori stranieri non accompagnati in affido familiare, pari a circa il 6% dei minori in affido, contro 7.706 Msna accolti in un servizio residenziale. Il calore di una famiglia, per un ragazzo, è sicuramente un’opportunità in più: permette una maggiore inclusione e un percorso più seguito verso l’autonomia. Ma si tratta di un’occasione di crescita anche per chi accoglie, come testimonia la storia di Federico Maria Savia e di sua moglie Alice, che hanno avviato una famiglia-comunità a Piobesi Torinese. Quanti minori stranieri non accompagnati avete avuto in affido? Ne ho avuti 14, insieme a mia moglie. Attualmente sono cinque, perché dal 2000 siamo una famiglia comunità. C’è anche un ragazzo di 22 anni che tecnicamente è un “ex affido” ma che continua a vivere con noi: è arrivato a 11 anni dall’Egitto, ha fatto un bel percorso, è diventato maggiorenne da noi e ha deciso di rimanere. Ora sta costruendo la sua autonomia: si è legato alla nostra famiglia ma anche al territorio. Di fatto ci aiuta: è diventato una specie di mediatore anche con i più piccoli. Tre dei cinque ragazzi che ora vivono con noi, infatti, sono egiziani. E gli altri due? Uno gambiano e uno albanese. Siamo otto in casa. In più, c’è una educatrice della cooperativa Terremondo, che è la proprietaria dell’immobile in cui viviamo. Ci dà una mano nelle commissioni quotidiane e nella gestione dei ragazzi. Come avete deciso di dedicarvi all’affido di minori stranieri non accompagnati? Siamo sposati dal 2004 – sono 21 anni – ma i figli non sono arrivati. Non ci siamo disperati, è andata così. Da sempre siamo stati attivi nel volontariato, nello scoutismo, i ragazzi in giro per casa non mancavano… siamo sempre stati sereni su questo. Nel 2015, siamo rimasti molto colpiti dalla storia di Alan Kurdi (il bimbo siriano il cui corpo senza vita è stato ritratto in un’iconica foto che è diventata simbolo delle stragi in mare, ndr). Abbiamo visto che c’erano tanti minori che mettevano a rischio la propria vita in questi viaggi. All’epoca abitavamo a Collegno, vicino a Torino, avevamo una camera in più per il figlio che non è arrivato e che mia moglie usava come laboratorio. Ci siamo detti: «Usiamo questo spazio per dare accoglienza». Siamo credenti, quindi abbiamo segnalato la nostra disponibilità a Sergio Durando, il direttore della Pastorale dei Migranti di Torino. Che ha rilanciato proponendoci l’affido. E voi? Siamo rimasti inizialmente un po’ spiazzati, ma poi abbiamo detto «ci siamo». Il primo affido è stato di un ragazzo di 16 anni, albanese, che era stato letteralmente sbattuto fuori da una comunità per minori di Torino perché aveva creato problemi. Viveva per strada. L’abbiamo accolto con qualche timore, perché avevamo un po’ di pregiudizi. Invece è andata bene: con noi il ragazzo è rifiorito, ha ripreso serenità. Così ci hanno chiesto di continuare con un secondo affido. In questo caso è arrivato Amir, il giovane egiziano che è ancora con noi: era il 2016. Poi la decisione di diventare famiglia-comunità. Con la cooperativa Terremondo e con Asai, un’associazione torinese che fa animazione interculturale, i servizi per i ragazzi stranieri e l’Ufficio migranti abbiamo cercato una casa più grande. L’abbiamo trovata a Piobesi Torinese. Alla casa abbiamo dato il nome di “Casa Aylan”, proprio perché siamo partiti toccati dalla vicenda di Alan Kurdi. La presenza dell’educatore è arrivata grazie al contributo della Fondazione de Agostini. Nel 2019 ci siamo trasferiti. Il primo ragazzo era diventato maggiorenne e ha deciso di rimanere a Torino, aveva già un lavoro. Continuate a sentire i ragazzi che sono stati con voi? Certo. Abbiamo incrociato tante storie diverse. Ci sono stati degli affidi di minori migranti che arrivavano dal viaggio in mare, oppure ragazzi albanesi che hanno fatto viaggi più sicuri. Per un breve periodo abbiamo avuto anche degli adolescenti afghani che arrivavano dalla rotta balcanica e che sono stati trovati su un camion in tangenziale mentre cercavano di passare in Francia. A casa con noi ci sono stati anche dei ragazzi sudanesi tramite il progetto “Pagella in tasca”, di Intersos e Caritas Italiana, dei corridoi umanitari che sono stati attivi per un po’, per portare in Italia dei ragazzi dai campi profughi in Niger. Quali emozioni vi guidano in questa esperienza? Per noi è una missione. Io sono medico, anche mia moglie lavora. Esprimiamo così la nostra genitorialità: non abbiamo avuto figli nostri e ci siamo ritrovati a essere mamma e papà di adolescenti maschi stranieri tra i 12 e i 20 anni. Lo facciamo anche come scelta politica, per dare testimonianza. Ci piace l’idea di sensibilizzare sull’affido, non solo degli stranieri, ma anche degli italiani. È un’esperienza bellissima e ci sono tante coppie che potrebbero “lanciarsi”. Qual è il vostro rapporto con le famiglie di origine dei ragazzi? Se le famiglie ci sono – alcuni sono orfani o i genitori non ci sono – è un rapporto molto sereno. Sono riconoscenti verso di noi; abbiamo avuto dei contatti, siamo andati in Albania e in Egitto a conoscere le famiglie di alcuni ragazzi, abbiamo ricevuto bellissime accoglienze da parte delle mamme e dei papà che ci manifestavano la loro gratitudine come potevano. In questo senso forse con i Msna è più facile rispetto all’affido di minori italiani che vengono da situazioni familiari complesse. Chiaro è però che bisogna avere la voglia di confrontarsi con una cultura diversa, avere la predisposizione all’accoglienza. Ci sono state situazioni in cui avete avuto delle difficoltà? Senz’altro. Ci sono difficoltà logistiche ma le abbiamo sempre affrontate bene, quindi non sono mai state un peso. Parlo dei documenti, delle iscrizioni a scuola, del rapporto con i tutori. Le complicazioni ci sono, ma sono tutte affrontabili grazie ai servizi che ci sostengono. Abbiamo fatto fatica con alcuni ragazzi, uno degli adolescenti sudanesi in particolare che era arrivato con dei traumi dalla Libia, manie di persecuzione che gli impedivano di stare sereno in comunità o con noi. Aveva paura di tutto, accusava gli altri, aveva creato un clima molto teso. Abbiamo cercato supporto psicologico e psichiatrico. Poi è diventato maggiorenne e ha chiesto l’autonomia. Ora ci sentiamo, ci scriviamo, ci vediamo, ci viene anche a trovare. Ma finché era in casa è stato complicato. Lei ritiene che l’affido sia il modo migliore di accogliere i minori stranieri soli. Come mai? Innanzitutto perché lo dice la Legge Zampa: la prima scelta dovrebbe essere l’affido familiare. Poi, perché l’abbiamo visto nella nostra esperienza: abbiamo conosciuto ottime comunità, ma anche realtà che fanno fatica a causa dei numeri elevati di ragazzi. La famiglia è un ambiente più piccolo, dove il ragazzo è tenuto maggiormente sotto controllo, in senso positivo. Non solo lo si gestisce meglio, ma si riesce a fare un percorso che lo porta ad avere un’autonomia maggiore; in più, spesso i ragazzi chiedono di restare fino ai 21 anni in famiglia riuscendo a prendere un diploma o una qualifica. Un ultimo elemento è che c’è un’inclusione maggiore: i minori in affido sono venuti con noi a delle funzioni religiose cristiane, noi siamo andati con loro ad altre funzioni musulmane. Vivono una vita più normale e vengono coinvolti nelle dinamiche di una famiglia, di una comunità, di un territorio. Redazione Italia
Appello urgente: ricongiungimento familiare per una famiglia palestinese evacuata da Gaza
La famiglia Al Sheikh insieme ai loro quattro figli, è stata evacuata da Gaza il 13 agosto e ha raggiunto l’Italia il 14 agosto grazie all’intervento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e del Governo italiano. Attualmente, la famiglia si trova in … Leggi tutto L'articolo Appello urgente: ricongiungimento familiare per una famiglia palestinese evacuata da Gaza sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
Rifugiati palestinesi in Italia: l’attesa infinita per il riconoscimento dello status
Le famiglie palestinesi arrivate in Italia negli ultimi mesi continuano a vivere una condizione di sospensione giuridica e umana. Nonostante siano state evacuate da una zona di guerra e abbiano tutte le caratteristiche per il riconoscimento immediato dello status di … Leggi tutto L'articolo Rifugiati palestinesi in Italia: l’attesa infinita per il riconoscimento dello status sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
Tra corridoi sanitari e richieste d’asilo: il labirinto burocratico dei rifugiati palestinesi.
Katia Fitermann, giornalista e assistente legale di origine brasiliana ci spiega le tante sfumature della parte legale. “L’operatore fa gli accompagnamenti in questura e si occupa dei rinnovi del permesso di soggiorno. Io mi occupo della parte della normativa e … Leggi tutto L'articolo Tra corridoi sanitari e richieste d’asilo: il labirinto burocratico dei rifugiati palestinesi. sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
Riccardo antirazzista, antifascista, uomo di pace
Riccardo Torregiani è stato uno dei protagonisti principali del movimento antirazzista fiorentino e nazionale negli ultimi decenni del secolo scorso e nei primi anni del nuovo millennio. Anzi, si potrebbe dire che senza di lui, e pochi altri, l’antirazzismo nella … Leggi tutto L'articolo Riccardo antirazzista, antifascista, uomo di pace sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
Vicofaro, lettera dei volontari al vescovo di Pistoia Fausto Tardelli
Vicofaro è un sistema che infastidisce le istituzioni e la gente “perbene” perché costringe a guardare. Dopo una comunicazione piccata della curia di Pistoia sulla vicenda dello sgombero di Vicofaro i volontari che per anni hanno lottato con Don Massimo Biancalani e contribuito a fare accoglienza vera, quella fatta di cura e umanità, rispondono al vescovo Fausto Tardelli con questa bellissima lettera…. Vicofaro, 27 Luglio 2025 Egregio Vescovo Tardelli, abbiamo letto la risposta inviata dalla Sua cancelleria alle numerose persone ed associazioni che le avevano scritto riguardo a quanto successo a Vicofaro. Pensiamo che Lei condivida quanto scritto nella mail non firmata, ma ci permetta alcune considerazioni che, per chiarezza, elencheremo per punti: Da molti anni conosciamo e cerchiamo di aiutare il lavoro portato avanti da don Massimo Biancalani. Molte volte ci siamo recati nei locali della parrocchia e conosciamo bene le difficoltà che quotidianamente don Massimo e i ragazzi ospiti dovevano affrontare.  Sappiamo bene anche quante volte da Vicofaro siano giunte richieste di aiuto alla pubblica amministrazione e al mondo ecclesiastico. Appelli, come anche il Suo di pochi mesi fa, rimasti come Lei sa bene, senza risposta.  Come poteva e sapeva fare, don Massimo ha risposto all’invito di Papa Francesco di aprire le Chiese ai poveri e ai migranti. E non è stata solo accoglienza, ma anche un percorso di integrazione che ha permesso a tanti ragazzi di trovare un’occupazione e di tornare la sera in un posto dove si sentivano accolti. Aver avuto più “Vicofaro” sul territorio, avrebbe permesso di non arrivare a numeri consistenti di ragazzi ospitati, con i problemi che ne conseguivano. Ci permetta una domanda: se la situazione di sicurezza e igieniche presentavano carenze gravi, si doveva aspettare l’ordinanza del sindaco per trovare una sistemazione ai ragazzi? Non si sarebbe potuto trovare prima quelle soluzioni che in così breve tempo sono state messe in campo? Non possiamo credere che Lei non abbia mai constatato le difficoltà presenti e così evidenti a chiunque si fosse recato a Vicofaro. Perché chiudere Vicofaro? Imbullettarla? Poteva rimanere un presidio, magari per i più fragili? Perché togliere la rappresentanza legale a don Massimo? A quale scopo? Perché non si sono mai ricordate le centinaia di persone salvate da Vicofaro? Mai una parola è stata spesa per ringraziare il sacrificio fatto da tanti volontari che hanno speso tempo e risorse per i ragazzi! Non ritiene che l’irruzione della polizia in tenuta antisommossa sia stata dettata da un mero calcolo di convenienza elettorale, di cui anche Lei – non sappiamo quanto consapevolmente – si è reso responsabile?  I sei ragazzi rimasti in canonica dopo il trasferimento della grande maggioranza dei presenti e che presentavano notevoli fragilità, anziché essere prelevati con la forza avevano necessità di un aiuto invece che di un’azione di polizia. Il modo con cui Lei ha trattato don Massimo noi lo viviamo come una punizione ingiustificata che colpisce una persona che in dieci anni ha messo tutto se stesso per stare dalla parte dei più deboli. Non riusciamo ad accettare la Sua affermazione “Farci vivere i poveri, dicendo che visto che son poveri, è meglio di niente, questo si, è tradire il Vangelo”.  Noi crediamo che lasciare persone in difficoltà senza un tetto, senza cibo, senza alcuna tutela legale e sanitaria, senza un aiuto per imparare la lingua italiana (tutti servizi che a Vicofaro erano garantiti da don Massimo e dai volontari) e – non ultimo – senza sentirsi rifiutati, ma accettati ed amati, sia rispondere oltre che al Vangelo anche a un minimo di umanità. Nessuno può negare che l’attuale situazione di accoglienza dei ragazzi sia decisamente migliore rispetto a quella che per lunghi anni hanno vissuto a Vicofaro e di questo non possiamo che compiacercene, ma Lei è sicuro che la nuova accoglienza sia stata rivolta a tutti i ragazzi, anche a quelli che leggi  come le attuali hanno riportato in una situazione di invisibilità? E’ stato tenuto conto delle possibilità di integrazione nel mondo del lavoro e della possibilità di mezzi per raggiungere il luogo dove diversi di loro sono occupati? E quanti dei 140 mancano all’appello, finiti per strada o rinchiusi nei CPR? Che ne sarà di quei ragazzi che, finiti in carcere per piccoli reati commessi per cercare mezzi di sopravvivenza e che, finita di scontare la pena, non sapranno più a chi rivolgersi per tentare di ricostruire una nuova vita? Resteranno fuori dalla porta del carcere per essere di nuovo riassorbiti nel mondo della criminalità? Non crede che aver escluso don Massimo da qualsiasi ruolo nel rapporto con i ragazzi, rinunciando alla sua conoscenza delle persone ospitate e al carisma che gli deriva da anni di sacrificio ed impegno sia la dimostrazione di voler affossare e rinnegare quanto è stato fatto in questi anni a Vicofaro? Sappiamo anche che il progetto di ristrutturazione è presso il Comune. Che tempi ci sono per le autorizzazioni e per l’inizio dei lavori? E non le sembra strano che don Massimo, i parrocchiani e altri cittadini che sono vicini all’esperienza di Vicofaro non possono vedere tale progetto e sapere quando inizierà? Per quel che ci riguarda, continueremo a seguire e ad aiutare e sorveglieremo la gestione dei migranti e la loro sorte. Speriamo vivamente che, come da Lei più volte affermato, l’esperienza di accoglienza di Vicofaro possa continuare e che non si perda questa testimonianza di umanità di cui abbiamo sempre più bisogno. I volontari di Vicofaro Come associazione Mesa Popular siamo stati più volte a Vicofaro per portare aiuti concreti e solidarietà a Don Massimo, ai volontari e ai ragazzi ospiti e continueremo a seguire e sostenere questo progetto di accoglienza, per ora schiacciato dalla forza di chi non riesce a vedere più la bellezza di azioni umane, ma vive solo di odio e pregiudizio. Redazione Italia
‘Non basta sfuggire alla guerra, serve ricostruire la vita’: Don Vincenzo Russo e l’accoglienza delle famiglie di Gaza a Firenze
A fine maggio sono arrivate a Firenze cinque famiglie da Gaza; hanno ottenuto il ricongiungimento familiare con i loro bambini che erano in cura al Meyer già da un anno. Il corridoio umanitario è stato gestito dall’ambasciata italiana a Gerusalemme … Leggi tutto L'articolo ‘Non basta sfuggire alla guerra, serve ricostruire la vita’: Don Vincenzo Russo e l’accoglienza delle famiglie di Gaza a Firenze sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
Vicofaro normalizzata, ovvero Gaza a Pistoia
Lo sgombero del Centro di accoglienza di Vicofaro attuato in questi giorni con l’ampio dispiegamento delle Forze dell’ordine – alcune fatte venire perfino da Taranto – segna una ferita incancellabile nella coscienza di tutti coloro che hanno dato il loro impegno o hanno seguito con attenzione e solidarietà un’esperienza quasi unica nella generosa anomalia. E’ stato orribile vedere nei giorni scorsi gli agenti in assetto di antisommossa! Ma contro chi? Contro un sacerdote che si è voluto umiliare e contro alcuni “fragili”, che solo lui aveva accolto, dopo che erano stati rifiutati dalle associazioni, oggi improvvisamente “volenterose”.  Tutta l’operazione è stata pianificata e attuata in seguito a inconfessabili accordi tra il potere politico e quello religioso. Ormai alla politica come gestione della pòlis in quanto bene comune si è sostituita l’arrogante propaganda elettorale di una destra indecente, che liscia il pelo all’opinione pubblica spingendola a una gravissima regressione culturale, etica e umana, mentre sembra dominare  – a Pistoia e non solo – la società dell’odio e dell’inimicizia verso i più deboli. D’altra parte il comportamento del vescovo di Pistoia è stato ben lontano dal considerare la Chiesa come “l’ospedale da campo” di papa Francesco, il cui monito evangelico era stato invece seguito da don Massimo Biancalani per aprire le chiese di Vicofaro e di Ramini ai migranti, che spesso erano costretti a vivere in strada. E’ sorprendente che, mentre per più di nove anni “non c’era posto per loro”, in poche settimane la diocesi abbia trovato numerose strutture – peraltro in suo possesso – per il ricollocamento dei migranti di Vicofaro: forse le centinaia di migliaia di euro promessi dal Vaticano per tutta l’operazione hanno risvegliato la memoria? Pur con la sincera speranza che i giovani africani possano trovare nelle strutture condizioni di pieno rispetto dei loro diritti, si deve costatare con amarezza che i poveri e lo stesso Cristo sono stati cacciati dalla chiesa di Vicofaro, con le porte pannellate e continuamente sorvegliata per giorni e giorni da decine di poliziotti. Come ha sottolineato più volte don Biancalani, Vicofaro, nella sua complessità e con le inevitabili criticità, è stata una risposta profetica a un mondo che costruisce muri invece di ponti. E’ stata una cura alle ferite, un rifugio per chi è lasciato ai margini, un’anticipazione del Vangelo vissuto con gli ultimi. Vicofaro ha cercato di mettere in pratica con le poche risorse a disposizione – fornite da privati e da associazioni, mai dalle istituzioni – di andare incontro all’umano nel bisogno, spesso anche sofferente. Così abbiamo avuto la fortuna o la grazia di incontrare in questi anni migliaia di persone. Molti dei giovani accolti oggi lavorano, si sono “sistemati”, fanno parte della nostra comunità che supera i confini tradizionali della parrocchia. In questa straordinaria esperienza umana – ma anche pastorale – nell’impegno generoso di servizio agli ultimi si sono superate le obsolete distinzioni tra credenti e laici. Una sostenitrice con parole commoventi ha scritto indignata nei giorni passati che Vicofaro muore insieme ai facili slanci di umanità di tanti che finiscono al massimo con una lacrimuccia di circostanza quando sono ripescati cadaveri nel Mediterraneo, o si legge di bombe che macellano bambini. Con il loro impegno nei vari servizi, dalla segreteria per i documenti, all’assistenza medica e psichiatrica, all’insegnamento della lingua italiana, con il fornire alloggio e cibo, don Massimo e i volontari hanno voluto rifiutare la crescente disumanizzazione in atto nella società, cercando sempre di realizzare uno scambio di umanità condivisa nell’incontro con la persona migrante, che non è un “invisibile”, ma ha un volto, un nome, una storia, un progetto di vita. Come dice il sindaco di Riace Mimmo Lucano, certe battaglie non si finiscono mai di combattere, perché i Poteri cercheranno in ogni modo di bloccare un progetto di uguaglianza, dignità e riscatto degli ultimi. Come cristiano, come cittadino impegnato nell’accoglienza, rifiuto con fermezza questo sfregio di umanità e alla criminalizzazione di esseri umani contrappongo le nobilissime parole di un uomo di Dio, coerente con il Vangelo, padre Raffaele Nogaro, vescovo emerito di Caserta: Non possiamo rimanere indifferenti di fronte a una realtà abominevole: l’Italia chiude i porti e dispone i campi di sterminio in Libia e in Albania. Non possiamo né tacere, né restare indifferenti, né diventare complici di questa antiumanità, di questa lacerazione brutale della vita umana. Fai strada ai poveri senza farti strada. Don Lorenzo Milani Mauro Matteucci, collaboratore del Centro di accoglienza di Vicofaro – Centro Don Lorenzo Milani di Pistoia Mauro Matteucci ha insegnato per quaranta anni nello Stato – nella media inferiore e superiore – scegliendo sempre scuole di frontiera in coerenza con l’esperienza di don Lorenzo Milani, l’incontro con il quale ha segnato le sue scelte di vita e professionali.  Da quasi 30 anni lavora  come volontario nell’insegnamento organizzando con il Centro Don Lorenzo Milani corsi di lingua italiana ai migranti.   Redazione Toscana
Cultura e sostegno per l’accoglienza
-------------------------------------------------------------------------------- Foto Ciac -------------------------------------------------------------------------------- L’odissea dei rifugiati prosegue in un mare insidioso e ostile, in cui le difficoltà della fuga e dell’espatrio sono moltiplicate dai venti delle false narrazioni e delle politiche ostili. Vale la pena a questo riguardo di richiamare solo qualche aspetto del rapporto annuale che Unhcr ha appena pubblicato in occasione della giornata mondiale del rifugiato. Anzitutto, il 73% dei rifugiati, quasi tre su quattro, sono ospitati in Paesi a basso o medio reddito, non nei paesi “sviluppati” del Nord globale. La maggioranza sono sfollati interni: accolti cioè in una zona più sicura del loro stesso paese. Per esempio nel caso del Congo sconvolto dalla guerra (7,8 milioni di rifugiati), otto su dieci sono rimasti all’interno dei confini. Tra chi attraversa una frontiera, il 67% si ferma nei Paesi confinanti: non hanno né le risorse, né la preparazione, e spesso neppure la volontà di andare più lontano. Molti vogliono semplicemente rientrare nelle loro case. Anche una grave crisi come quella del Sudan (2,8 milioni di rifugiati) sta gravando sui paesi vicini: il poverissimo Ciad (1.1 milioni), l’Egitto (603.000), il Sud Sudan, a sua volta coinvolto in un’aspra guerra civile, oltre che agli ultimi posti nell’indice Onu dello sviluppo umano (488.000). Quella dell’invasione dell’Europa o del mondo sviluppato è una delle tante fake news che alimentano paura e rifiuto. In secondo luogo, quasi la metà dei rifugiati sono donne, il 40% minori. A fuggire sono intere famiglie, a volte donne sole con figli piccoli, altre volte minori non accompagnati. È un’umanità dolente e impaurita, non un’onda di rapaci conquistatori. In un panorama globalmente plumbeo (il conteggio è arrivato a 123,2 milioni, sette milioni in più del 2023) spunta anche qualche buona notizia. Quasi 10 milioni di rifugiati (9,8 milioni) sono rientrati nei luoghi di origine, tra cui 1,8 milioni di rifugiati internazionali, anche se non sempre volontariamente. Il cambio di regime in Siria e le speranze di rinascita del paese hanno contribuito a questo risultato. Quasi 190.000 rifugiati hanno invece potuto reinsediarsi in un paese più sicuro, benché la nuova presidenza Trump metta ora in pericolo questo risultato, il più alto finora registrato. Da alcuni Paesi i flussi di profughi tendono a rallentare, come nel caso afghano: c’è da sperare che non sia solo l’esito di maggiore repressione e minore accoglienza. In parallelo, Unhcr ha diffuso altro dati, ricavati da un sondaggio internazionale realizzato in collaborazione con Ipsos. Riguardano la disponibilità ad accogliere, e disegnano un quadro meno pregiudizievole di quanto il dibattito politico avrebbe fatto pensare: la maggioranza delle persone intervistate (22.000, in 29 paesi) pensa che i paesi più ricchi dovrebbero assumersi maggiori impegni nel sostenere i rifugiati. In particolare, lo pensa il 67% degli italiani, sia nei confronti di quelli accolti sul nostro territorio, sia verso quelli ospitati da altri paesi. Inoltre, il 49% degli italiani ritiene che la maggior parte dei rifugiati riusciranno a integrarsi con successo, superando i pessimisti (43%). Altri dati tuttavia sono più contraddittori: il 49% degli intervistati a livello globale vorrebbe la chiusura totale delle frontiere del proprio paese per i rifugiati, anche se in Italia il dato scende a un pur preoccupante 40%. In sostanza, l’opinione pubblica non appare nettamente contraria ai profughi, e lo è tanto meno in Italia. Sembra piuttosto oscillante, contesa fra emozioni contrastanti, incline all’apertura ma indecisa, e quindi manipolabile. Servono buona informazione, dati obiettivi, narrazioni positive, per sostenere quello spirito di accoglienza che tenacemente persiste nel corpo sociale, malgrado l’infiltrazione delle voci dei seminatori di paura e di arroccamento. Il terreno dell’ospitalità si coltiva con un lavoro culturale di cui si avverte più che mai il bisogno. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato su “Avvenire” del 20 giugno 2025 (e qui con l’autorizzazione dell’autore). Docente di Sociologia dei processi migratori e sociologia urbana all’Università degli Studi di Milano. Tra i suoi ultimi libri L’invasione immaginaria. L’immigrazione oltre i luoghi comuni (Laterza). -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Cultura e sostegno per l’accoglienza proviene da Comune-info.
Un mondo in fuga: il grido ignorato della Giornata Mondiale del Rifugiato
Nel 2024 si è toccato un nuovo record: più di 123 milioni di persone costrette ad abbandonare la propria casa. Conflitti vecchi e nuovi, dal Sudan a Gaza, alimentano una crisi umanitaria che i Paesi poveri sopportano quasi da soli. Oggi si celebra la Giornata Mondiale del Rifugiato, ma come ogni anno non c’è nulla da festeggiare. Al contrario: mai come in questi mesi i numeri parlano una lingua drammatica e inascoltata. Secondo l’ultimo rapporto dell’UNHCR, sono oltre 123 milioni le persone costrette a fuggire dalle proprie case nel mondo, spinte da guerre, persecuzioni, crisi climatiche e instabilità economica. Di queste, almeno 42,7 milioni sono rifugiati nel senso più stretto del termine: persone che hanno attraversato un confine nazionale per cercare protezione altrove. La cifra è in aumento costante: rispetto al 2023, si contano circa 7 milioni di nuovi sfollati forzati. Un incremento che non accenna a rallentare, anzi. Le guerre si moltiplicano, si intensificano, si cronicizzano. Secondo il Peace Research Institute di Oslo, nel 2024 si sono registrati 61 conflitti attivi nel mondo, un record assoluto. Undici di questi hanno superato la soglia delle mille vittime annue, il limite che ne sancisce formalmente lo status di “guerra”. Dall’Ucraina a Gaza, la geografia del dolore Tre sono le aree che più hanno contribuito all’impennata di rifugiati nel corso dell’ultimo anno: Ucraina, Striscia di Gaza e l’intera fascia che va dall’Iran al Libano, oggi al centro di una tensione crescente tra Israele, Hezbollah e altri attori regionali. In Ucraina, dopo oltre tre anni di guerra, si contano più di 8 milioni di sfollati interni e almeno 5 milioni di rifugiati in Europa, ospitati soprattutto da Polonia, Germania e Repubblica Ceca. La guerra in corso, lungi dal concludersi, continua a generare nuovi esodi. In Palestina, e in particolare nella Striscia di Gaza, i numeri sono ancora più drammatici. Le operazioni militari israeliane hanno provocato decine di migliaia di morti e un vero e proprio esodo interno, mentre le popolazioni rifugiate nei campi del Libano vivono in condizioni al limite della sopravvivenza. Il 94% delle vittime in questi teatri è rappresentato da civili. E poi c’è l’Iran, dove il conflitto con Israele sta generando un clima di instabilità e nuove fughe, anche se per il momento i dati restano parziali e difficili da verificare. Foto Unsplash di Julie Ricard Il Sudan, tragedia silenziosa dell’Africa Ma la crisi più grave si consuma nel silenzio quasi totale dei riflettori internazionali. In Sudan, una guerra civile devastante tra l’esercito regolare e le Rapid Support Forces, scoppiata nell’aprile 2023, ha già costretto 12,3 milioni di persone ad abbandonare le proprie case. Di queste, quasi 9 milioni sono sfollati interni, mentre oltre 3,5 milioni sono fuggiti nei Paesi vicini: Ciad, Egitto, Etiopia, Sud Sudan, Repubblica Centrafricana. Si tratta del più grande esodo africano degli ultimi vent’anni. Molti di questi rifugiati trovano accoglienza in Uganda, un Paese che da anni si distingue per la generosità del suo sistema di asilo, pur tra enormi difficoltà economiche. Oggi, più di 1,8 milioni di persone trovano riparo nel Paese, ma i fondi scarseggiano: le razioni alimentari sono state ridotte per almeno un milione di loro. Il Programma Alimentare Mondiale, colpito da tagli di bilancio e scarsa cooperazione internazionale, fatica a garantire anche i servizi essenziali. Chi accoglie davvero Uno degli aspetti più inquietanti di questa crisi globale è la distribuzione profondamente diseguale dell’accoglienza. Oltre il 73% dei rifugiati si trova in Paesi a basso o medio reddito, per lo più confinanti con le aree di conflitto. Le nazioni che ospitano il maggior numero di rifugiati sono la Turchia (circa 3,6 milioni), l’Iran (3,4 milioni), la Colombia (2,5 milioni), la Germania (2,1 milioni) e il Pakistan (1,7 milioni). Nonostante le dichiarazioni di solidarietà, l’Occidente continua ad accogliere una percentuale minima del totale. I meccanismi di reinsediamento internazionale sono deboli e lenti: nel 2024, solo 188.800 rifugiati sono stati effettivamente reinsediati in un nuovo Paese terzo. Numeri irrisori se confrontati con l’ampiezza del fenomeno. Un appello all’umanità La Giornata Mondiale del Rifugiato dovrebbe essere, prima di tutto, un giorno di responsabilità. Il diritto d’asilo non è un favore né un’opzione politica: è un diritto umano fondamentale. Ma in un’epoca in cui la parola “rifugiato” viene spesso strumentalizzata, deformata, politicizzata, è necessario tornare al significato più semplice e universale: quello di una persona che fugge per salvare la propria vita. Dietro ogni numero, ogni statistica, c’è un volto, una storia, un’infanzia spezzata. Un mondo che fugge non è un mondo sicuro per nessuno. Serve una risposta globale, condivisa e solidale. Non basta più celebrare una giornata: bisogna ascoltarla. Foto da Unsplash di Salah Darwish Heraldo