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Vicofaro, lettera dei volontari al vescovo di Pistoia Fausto Tardelli
Vicofaro è un sistema che infastidisce le istituzioni e la gente “perbene” perché costringe a guardare. Dopo una comunicazione piccata della curia di Pistoia sulla vicenda dello sgombero di Vicofaro i volontari che per anni hanno lottato con Don Massimo Biancalani e contribuito a fare accoglienza vera, quella fatta di cura e umanità, rispondono al vescovo Fausto Tardelli con questa bellissima lettera…. Vicofaro, 27 Luglio 2025 Egregio Vescovo Tardelli, abbiamo letto la risposta inviata dalla Sua cancelleria alle numerose persone ed associazioni che le avevano scritto riguardo a quanto successo a Vicofaro. Pensiamo che Lei condivida quanto scritto nella mail non firmata, ma ci permetta alcune considerazioni che, per chiarezza, elencheremo per punti: Da molti anni conosciamo e cerchiamo di aiutare il lavoro portato avanti da don Massimo Biancalani. Molte volte ci siamo recati nei locali della parrocchia e conosciamo bene le difficoltà che quotidianamente don Massimo e i ragazzi ospiti dovevano affrontare.  Sappiamo bene anche quante volte da Vicofaro siano giunte richieste di aiuto alla pubblica amministrazione e al mondo ecclesiastico. Appelli, come anche il Suo di pochi mesi fa, rimasti come Lei sa bene, senza risposta.  Come poteva e sapeva fare, don Massimo ha risposto all’invito di Papa Francesco di aprire le Chiese ai poveri e ai migranti. E non è stata solo accoglienza, ma anche un percorso di integrazione che ha permesso a tanti ragazzi di trovare un’occupazione e di tornare la sera in un posto dove si sentivano accolti. Aver avuto più “Vicofaro” sul territorio, avrebbe permesso di non arrivare a numeri consistenti di ragazzi ospitati, con i problemi che ne conseguivano. Ci permetta una domanda: se la situazione di sicurezza e igieniche presentavano carenze gravi, si doveva aspettare l’ordinanza del sindaco per trovare una sistemazione ai ragazzi? Non si sarebbe potuto trovare prima quelle soluzioni che in così breve tempo sono state messe in campo? Non possiamo credere che Lei non abbia mai constatato le difficoltà presenti e così evidenti a chiunque si fosse recato a Vicofaro. Perché chiudere Vicofaro? Imbullettarla? Poteva rimanere un presidio, magari per i più fragili? Perché togliere la rappresentanza legale a don Massimo? A quale scopo? Perché non si sono mai ricordate le centinaia di persone salvate da Vicofaro? Mai una parola è stata spesa per ringraziare il sacrificio fatto da tanti volontari che hanno speso tempo e risorse per i ragazzi! Non ritiene che l’irruzione della polizia in tenuta antisommossa sia stata dettata da un mero calcolo di convenienza elettorale, di cui anche Lei – non sappiamo quanto consapevolmente – si è reso responsabile?  I sei ragazzi rimasti in canonica dopo il trasferimento della grande maggioranza dei presenti e che presentavano notevoli fragilità, anziché essere prelevati con la forza avevano necessità di un aiuto invece che di un’azione di polizia. Il modo con cui Lei ha trattato don Massimo noi lo viviamo come una punizione ingiustificata che colpisce una persona che in dieci anni ha messo tutto se stesso per stare dalla parte dei più deboli. Non riusciamo ad accettare la Sua affermazione “Farci vivere i poveri, dicendo che visto che son poveri, è meglio di niente, questo si, è tradire il Vangelo”.  Noi crediamo che lasciare persone in difficoltà senza un tetto, senza cibo, senza alcuna tutela legale e sanitaria, senza un aiuto per imparare la lingua italiana (tutti servizi che a Vicofaro erano garantiti da don Massimo e dai volontari) e – non ultimo – senza sentirsi rifiutati, ma accettati ed amati, sia rispondere oltre che al Vangelo anche a un minimo di umanità. Nessuno può negare che l’attuale situazione di accoglienza dei ragazzi sia decisamente migliore rispetto a quella che per lunghi anni hanno vissuto a Vicofaro e di questo non possiamo che compiacercene, ma Lei è sicuro che la nuova accoglienza sia stata rivolta a tutti i ragazzi, anche a quelli che leggi  come le attuali hanno riportato in una situazione di invisibilità? E’ stato tenuto conto delle possibilità di integrazione nel mondo del lavoro e della possibilità di mezzi per raggiungere il luogo dove diversi di loro sono occupati? E quanti dei 140 mancano all’appello, finiti per strada o rinchiusi nei CPR? Che ne sarà di quei ragazzi che, finiti in carcere per piccoli reati commessi per cercare mezzi di sopravvivenza e che, finita di scontare la pena, non sapranno più a chi rivolgersi per tentare di ricostruire una nuova vita? Resteranno fuori dalla porta del carcere per essere di nuovo riassorbiti nel mondo della criminalità? Non crede che aver escluso don Massimo da qualsiasi ruolo nel rapporto con i ragazzi, rinunciando alla sua conoscenza delle persone ospitate e al carisma che gli deriva da anni di sacrificio ed impegno sia la dimostrazione di voler affossare e rinnegare quanto è stato fatto in questi anni a Vicofaro? Sappiamo anche che il progetto di ristrutturazione è presso il Comune. Che tempi ci sono per le autorizzazioni e per l’inizio dei lavori? E non le sembra strano che don Massimo, i parrocchiani e altri cittadini che sono vicini all’esperienza di Vicofaro non possono vedere tale progetto e sapere quando inizierà? Per quel che ci riguarda, continueremo a seguire e ad aiutare e sorveglieremo la gestione dei migranti e la loro sorte. Speriamo vivamente che, come da Lei più volte affermato, l’esperienza di accoglienza di Vicofaro possa continuare e che non si perda questa testimonianza di umanità di cui abbiamo sempre più bisogno. I volontari di Vicofaro Come associazione Mesa Popular siamo stati più volte a Vicofaro per portare aiuti concreti e solidarietà a Don Massimo, ai volontari e ai ragazzi ospiti e continueremo a seguire e sostenere questo progetto di accoglienza, per ora schiacciato dalla forza di chi non riesce a vedere più la bellezza di azioni umane, ma vive solo di odio e pregiudizio. Redazione Italia
‘Non basta sfuggire alla guerra, serve ricostruire la vita’: Don Vincenzo Russo e l’accoglienza delle famiglie di Gaza a Firenze
A fine maggio sono arrivate a Firenze cinque famiglie da Gaza; hanno ottenuto il ricongiungimento familiare con i loro bambini che erano in cura al Meyer già da un anno. Il corridoio umanitario è stato gestito dall’ambasciata italiana a Gerusalemme … Leggi tutto L'articolo ‘Non basta sfuggire alla guerra, serve ricostruire la vita’: Don Vincenzo Russo e l’accoglienza delle famiglie di Gaza a Firenze sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
Vicofaro normalizzata, ovvero Gaza a Pistoia
Lo sgombero del Centro di accoglienza di Vicofaro attuato in questi giorni con l’ampio dispiegamento delle Forze dell’ordine – alcune fatte venire perfino da Taranto – segna una ferita incancellabile nella coscienza di tutti coloro che hanno dato il loro impegno o hanno seguito con attenzione e solidarietà un’esperienza quasi unica nella generosa anomalia. E’ stato orribile vedere nei giorni scorsi gli agenti in assetto di antisommossa! Ma contro chi? Contro un sacerdote che si è voluto umiliare e contro alcuni “fragili”, che solo lui aveva accolto, dopo che erano stati rifiutati dalle associazioni, oggi improvvisamente “volenterose”.  Tutta l’operazione è stata pianificata e attuata in seguito a inconfessabili accordi tra il potere politico e quello religioso. Ormai alla politica come gestione della pòlis in quanto bene comune si è sostituita l’arrogante propaganda elettorale di una destra indecente, che liscia il pelo all’opinione pubblica spingendola a una gravissima regressione culturale, etica e umana, mentre sembra dominare  – a Pistoia e non solo – la società dell’odio e dell’inimicizia verso i più deboli. D’altra parte il comportamento del vescovo di Pistoia è stato ben lontano dal considerare la Chiesa come “l’ospedale da campo” di papa Francesco, il cui monito evangelico era stato invece seguito da don Massimo Biancalani per aprire le chiese di Vicofaro e di Ramini ai migranti, che spesso erano costretti a vivere in strada. E’ sorprendente che, mentre per più di nove anni “non c’era posto per loro”, in poche settimane la diocesi abbia trovato numerose strutture – peraltro in suo possesso – per il ricollocamento dei migranti di Vicofaro: forse le centinaia di migliaia di euro promessi dal Vaticano per tutta l’operazione hanno risvegliato la memoria? Pur con la sincera speranza che i giovani africani possano trovare nelle strutture condizioni di pieno rispetto dei loro diritti, si deve costatare con amarezza che i poveri e lo stesso Cristo sono stati cacciati dalla chiesa di Vicofaro, con le porte pannellate e continuamente sorvegliata per giorni e giorni da decine di poliziotti. Come ha sottolineato più volte don Biancalani, Vicofaro, nella sua complessità e con le inevitabili criticità, è stata una risposta profetica a un mondo che costruisce muri invece di ponti. E’ stata una cura alle ferite, un rifugio per chi è lasciato ai margini, un’anticipazione del Vangelo vissuto con gli ultimi. Vicofaro ha cercato di mettere in pratica con le poche risorse a disposizione – fornite da privati e da associazioni, mai dalle istituzioni – di andare incontro all’umano nel bisogno, spesso anche sofferente. Così abbiamo avuto la fortuna o la grazia di incontrare in questi anni migliaia di persone. Molti dei giovani accolti oggi lavorano, si sono “sistemati”, fanno parte della nostra comunità che supera i confini tradizionali della parrocchia. In questa straordinaria esperienza umana – ma anche pastorale – nell’impegno generoso di servizio agli ultimi si sono superate le obsolete distinzioni tra credenti e laici. Una sostenitrice con parole commoventi ha scritto indignata nei giorni passati che Vicofaro muore insieme ai facili slanci di umanità di tanti che finiscono al massimo con una lacrimuccia di circostanza quando sono ripescati cadaveri nel Mediterraneo, o si legge di bombe che macellano bambini. Con il loro impegno nei vari servizi, dalla segreteria per i documenti, all’assistenza medica e psichiatrica, all’insegnamento della lingua italiana, con il fornire alloggio e cibo, don Massimo e i volontari hanno voluto rifiutare la crescente disumanizzazione in atto nella società, cercando sempre di realizzare uno scambio di umanità condivisa nell’incontro con la persona migrante, che non è un “invisibile”, ma ha un volto, un nome, una storia, un progetto di vita. Come dice il sindaco di Riace Mimmo Lucano, certe battaglie non si finiscono mai di combattere, perché i Poteri cercheranno in ogni modo di bloccare un progetto di uguaglianza, dignità e riscatto degli ultimi. Come cristiano, come cittadino impegnato nell’accoglienza, rifiuto con fermezza questo sfregio di umanità e alla criminalizzazione di esseri umani contrappongo le nobilissime parole di un uomo di Dio, coerente con il Vangelo, padre Raffaele Nogaro, vescovo emerito di Caserta: Non possiamo rimanere indifferenti di fronte a una realtà abominevole: l’Italia chiude i porti e dispone i campi di sterminio in Libia e in Albania. Non possiamo né tacere, né restare indifferenti, né diventare complici di questa antiumanità, di questa lacerazione brutale della vita umana. Fai strada ai poveri senza farti strada. Don Lorenzo Milani Mauro Matteucci, collaboratore del Centro di accoglienza di Vicofaro – Centro Don Lorenzo Milani di Pistoia Mauro Matteucci ha insegnato per quaranta anni nello Stato – nella media inferiore e superiore – scegliendo sempre scuole di frontiera in coerenza con l’esperienza di don Lorenzo Milani, l’incontro con il quale ha segnato le sue scelte di vita e professionali.  Da quasi 30 anni lavora  come volontario nell’insegnamento organizzando con il Centro Don Lorenzo Milani corsi di lingua italiana ai migranti.   Redazione Toscana
Cultura e sostegno per l’accoglienza
-------------------------------------------------------------------------------- Foto Ciac -------------------------------------------------------------------------------- L’odissea dei rifugiati prosegue in un mare insidioso e ostile, in cui le difficoltà della fuga e dell’espatrio sono moltiplicate dai venti delle false narrazioni e delle politiche ostili. Vale la pena a questo riguardo di richiamare solo qualche aspetto del rapporto annuale che Unhcr ha appena pubblicato in occasione della giornata mondiale del rifugiato. Anzitutto, il 73% dei rifugiati, quasi tre su quattro, sono ospitati in Paesi a basso o medio reddito, non nei paesi “sviluppati” del Nord globale. La maggioranza sono sfollati interni: accolti cioè in una zona più sicura del loro stesso paese. Per esempio nel caso del Congo sconvolto dalla guerra (7,8 milioni di rifugiati), otto su dieci sono rimasti all’interno dei confini. Tra chi attraversa una frontiera, il 67% si ferma nei Paesi confinanti: non hanno né le risorse, né la preparazione, e spesso neppure la volontà di andare più lontano. Molti vogliono semplicemente rientrare nelle loro case. Anche una grave crisi come quella del Sudan (2,8 milioni di rifugiati) sta gravando sui paesi vicini: il poverissimo Ciad (1.1 milioni), l’Egitto (603.000), il Sud Sudan, a sua volta coinvolto in un’aspra guerra civile, oltre che agli ultimi posti nell’indice Onu dello sviluppo umano (488.000). Quella dell’invasione dell’Europa o del mondo sviluppato è una delle tante fake news che alimentano paura e rifiuto. In secondo luogo, quasi la metà dei rifugiati sono donne, il 40% minori. A fuggire sono intere famiglie, a volte donne sole con figli piccoli, altre volte minori non accompagnati. È un’umanità dolente e impaurita, non un’onda di rapaci conquistatori. In un panorama globalmente plumbeo (il conteggio è arrivato a 123,2 milioni, sette milioni in più del 2023) spunta anche qualche buona notizia. Quasi 10 milioni di rifugiati (9,8 milioni) sono rientrati nei luoghi di origine, tra cui 1,8 milioni di rifugiati internazionali, anche se non sempre volontariamente. Il cambio di regime in Siria e le speranze di rinascita del paese hanno contribuito a questo risultato. Quasi 190.000 rifugiati hanno invece potuto reinsediarsi in un paese più sicuro, benché la nuova presidenza Trump metta ora in pericolo questo risultato, il più alto finora registrato. Da alcuni Paesi i flussi di profughi tendono a rallentare, come nel caso afghano: c’è da sperare che non sia solo l’esito di maggiore repressione e minore accoglienza. In parallelo, Unhcr ha diffuso altro dati, ricavati da un sondaggio internazionale realizzato in collaborazione con Ipsos. Riguardano la disponibilità ad accogliere, e disegnano un quadro meno pregiudizievole di quanto il dibattito politico avrebbe fatto pensare: la maggioranza delle persone intervistate (22.000, in 29 paesi) pensa che i paesi più ricchi dovrebbero assumersi maggiori impegni nel sostenere i rifugiati. In particolare, lo pensa il 67% degli italiani, sia nei confronti di quelli accolti sul nostro territorio, sia verso quelli ospitati da altri paesi. Inoltre, il 49% degli italiani ritiene che la maggior parte dei rifugiati riusciranno a integrarsi con successo, superando i pessimisti (43%). Altri dati tuttavia sono più contraddittori: il 49% degli intervistati a livello globale vorrebbe la chiusura totale delle frontiere del proprio paese per i rifugiati, anche se in Italia il dato scende a un pur preoccupante 40%. In sostanza, l’opinione pubblica non appare nettamente contraria ai profughi, e lo è tanto meno in Italia. Sembra piuttosto oscillante, contesa fra emozioni contrastanti, incline all’apertura ma indecisa, e quindi manipolabile. Servono buona informazione, dati obiettivi, narrazioni positive, per sostenere quello spirito di accoglienza che tenacemente persiste nel corpo sociale, malgrado l’infiltrazione delle voci dei seminatori di paura e di arroccamento. Il terreno dell’ospitalità si coltiva con un lavoro culturale di cui si avverte più che mai il bisogno. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato su “Avvenire” del 20 giugno 2025 (e qui con l’autorizzazione dell’autore). Docente di Sociologia dei processi migratori e sociologia urbana all’Università degli Studi di Milano. Tra i suoi ultimi libri L’invasione immaginaria. L’immigrazione oltre i luoghi comuni (Laterza). -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Cultura e sostegno per l’accoglienza proviene da Comune-info.
Un mondo in fuga: il grido ignorato della Giornata Mondiale del Rifugiato
Nel 2024 si è toccato un nuovo record: più di 123 milioni di persone costrette ad abbandonare la propria casa. Conflitti vecchi e nuovi, dal Sudan a Gaza, alimentano una crisi umanitaria che i Paesi poveri sopportano quasi da soli. Oggi si celebra la Giornata Mondiale del Rifugiato, ma come ogni anno non c’è nulla da festeggiare. Al contrario: mai come in questi mesi i numeri parlano una lingua drammatica e inascoltata. Secondo l’ultimo rapporto dell’UNHCR, sono oltre 123 milioni le persone costrette a fuggire dalle proprie case nel mondo, spinte da guerre, persecuzioni, crisi climatiche e instabilità economica. Di queste, almeno 42,7 milioni sono rifugiati nel senso più stretto del termine: persone che hanno attraversato un confine nazionale per cercare protezione altrove. La cifra è in aumento costante: rispetto al 2023, si contano circa 7 milioni di nuovi sfollati forzati. Un incremento che non accenna a rallentare, anzi. Le guerre si moltiplicano, si intensificano, si cronicizzano. Secondo il Peace Research Institute di Oslo, nel 2024 si sono registrati 61 conflitti attivi nel mondo, un record assoluto. Undici di questi hanno superato la soglia delle mille vittime annue, il limite che ne sancisce formalmente lo status di “guerra”. Dall’Ucraina a Gaza, la geografia del dolore Tre sono le aree che più hanno contribuito all’impennata di rifugiati nel corso dell’ultimo anno: Ucraina, Striscia di Gaza e l’intera fascia che va dall’Iran al Libano, oggi al centro di una tensione crescente tra Israele, Hezbollah e altri attori regionali. In Ucraina, dopo oltre tre anni di guerra, si contano più di 8 milioni di sfollati interni e almeno 5 milioni di rifugiati in Europa, ospitati soprattutto da Polonia, Germania e Repubblica Ceca. La guerra in corso, lungi dal concludersi, continua a generare nuovi esodi. In Palestina, e in particolare nella Striscia di Gaza, i numeri sono ancora più drammatici. Le operazioni militari israeliane hanno provocato decine di migliaia di morti e un vero e proprio esodo interno, mentre le popolazioni rifugiate nei campi del Libano vivono in condizioni al limite della sopravvivenza. Il 94% delle vittime in questi teatri è rappresentato da civili. E poi c’è l’Iran, dove il conflitto con Israele sta generando un clima di instabilità e nuove fughe, anche se per il momento i dati restano parziali e difficili da verificare. Foto Unsplash di Julie Ricard Il Sudan, tragedia silenziosa dell’Africa Ma la crisi più grave si consuma nel silenzio quasi totale dei riflettori internazionali. In Sudan, una guerra civile devastante tra l’esercito regolare e le Rapid Support Forces, scoppiata nell’aprile 2023, ha già costretto 12,3 milioni di persone ad abbandonare le proprie case. Di queste, quasi 9 milioni sono sfollati interni, mentre oltre 3,5 milioni sono fuggiti nei Paesi vicini: Ciad, Egitto, Etiopia, Sud Sudan, Repubblica Centrafricana. Si tratta del più grande esodo africano degli ultimi vent’anni. Molti di questi rifugiati trovano accoglienza in Uganda, un Paese che da anni si distingue per la generosità del suo sistema di asilo, pur tra enormi difficoltà economiche. Oggi, più di 1,8 milioni di persone trovano riparo nel Paese, ma i fondi scarseggiano: le razioni alimentari sono state ridotte per almeno un milione di loro. Il Programma Alimentare Mondiale, colpito da tagli di bilancio e scarsa cooperazione internazionale, fatica a garantire anche i servizi essenziali. Chi accoglie davvero Uno degli aspetti più inquietanti di questa crisi globale è la distribuzione profondamente diseguale dell’accoglienza. Oltre il 73% dei rifugiati si trova in Paesi a basso o medio reddito, per lo più confinanti con le aree di conflitto. Le nazioni che ospitano il maggior numero di rifugiati sono la Turchia (circa 3,6 milioni), l’Iran (3,4 milioni), la Colombia (2,5 milioni), la Germania (2,1 milioni) e il Pakistan (1,7 milioni). Nonostante le dichiarazioni di solidarietà, l’Occidente continua ad accogliere una percentuale minima del totale. I meccanismi di reinsediamento internazionale sono deboli e lenti: nel 2024, solo 188.800 rifugiati sono stati effettivamente reinsediati in un nuovo Paese terzo. Numeri irrisori se confrontati con l’ampiezza del fenomeno. Un appello all’umanità La Giornata Mondiale del Rifugiato dovrebbe essere, prima di tutto, un giorno di responsabilità. Il diritto d’asilo non è un favore né un’opzione politica: è un diritto umano fondamentale. Ma in un’epoca in cui la parola “rifugiato” viene spesso strumentalizzata, deformata, politicizzata, è necessario tornare al significato più semplice e universale: quello di una persona che fugge per salvare la propria vita. Dietro ogni numero, ogni statistica, c’è un volto, una storia, un’infanzia spezzata. Un mondo che fugge non è un mondo sicuro per nessuno. Serve una risposta globale, condivisa e solidale. Non basta più celebrare una giornata: bisogna ascoltarla. Foto da Unsplash di Salah Darwish Heraldo
[2025-06-21] Sogno di una casa di mezza estate @ Villaggio 95
SOGNO DI UNA CASA DI MEZZA ESTATE Villaggio 95 - Via Ignazio Pettinengo, 53 (sabato, 21 giugno 18:00) SABATO 21 GIUGNO 2025 🌿 VILLAGGIO 95 📍 Via Ignazio Pettinengo, 53 - Roma | Dalle 18 fino a tarda sera Una serata a sostegno di Binario 95 e dei progetti di accoglienza per le persone fragili o senza dimora della nostra città. Ci rivediamo anche quest’anno al Villaggio 95, nello spazio verde di Casalbertone, per un momento di comunità e convivialità. PROGRAMMA 🕕 h 18:00 - Apertura degli orti sociali di Villaggio 95 alla comunità. 🕖 h 19:00 - DANI E LA GIOCOLERIA | Spettacolo eccentrico di giocoleria comica per un pubblico di ogni età. 🕗 h 20:00 - Menu con bruschette, piatti estivi e barbecue. La street band FANFAROMA ci accompagnerà con la sua musica. A chiudere l’evento un dj set tutto da ballare. INGRESSO LIBERO Ti aspettiamo! 😊
Se vuoi la pace…
Dieci azioni che le istituzioni locali possono mettere in campo contro la guerra. Uno: sostenere i percorsi di riconversione civile delle attività industriali legate alla produzione di armi. Due: istituire fondi, di concerto con i sindacati, per supportare i lavoratori che decidessero di fare obiezione di coscienza all’industria bellica. Tre: adottare codici etici war free per gli appalti pubblici, le sponsorizzazioni e le collaborazioni. Quattro: aderire alle campagne nazionali per il disarmo e l’economia di pace promuovendole sui territori. Cinque: sottoscrivere protocolli con gli Uffici scolastici regionali per arginare il processo di militarizzazione della formazione. Sei: promuovere e finanziare percorsi di educazione alla pace nelle scuole e di formazione alla nonviolenza per gli insegnanti. Sette: organizzare nei luoghi della memoria tragica della guerra – da Monte Sole a Sant’Anna di Stazzema – soggiorni estivi di training per la risoluzione nonviolenta dei conflitti con gruppi misti di ragazzi provenienti dai paesi in guerra. Otto: promuovere Scuole e Accademie di pace e ricerche sulla risoluzione nonviolenta dei conflitti in collaborazione con la Rete delle Università per la Pace. Nove: contribuire a costituire corridoi umanitari per i profughi dai paesi in guerra. Dieci: prevedere percorsi di supporto nell’accoglienza dei rifugiati. Il punto di partenza? Smettere di pensare che la guerra sia una follia e considerarla invece come una strategia razionalmente perseguita. Smettere di pensare la pace come mera assenza di guerra. “Se vuoi la pace, prepara istituzioni di pace. Ci rendiamo sempre più conto che non si tratta solo di istituzioni politiche, nazionali o internazionali, ma è l’insieme delle istituzioni – educative, economiche, sociali – ad essere chiamato in causa”, è uno dei passaggi più significativi del discorso di papa Leone XIV nell’incontro dello scorso 30 maggio con i movimenti per la pace e il disarmo ad un anno dall’Arena di pace, voluta da papa Francesco a Verona. Affermazione che non solo ribalta l’obsoleto, falso e illusorio mantra del se vis pacem para bellum, del quale sono fanatici fondamentalisti i decisori nazionali e internazionali, e i loro chierici mediatici, ma riconduce alla responsabilità di tutti la costruzione di prassi di pace per il superamento dei sistema di guerra. Ed è di questi giorni anche l’inedito attivismo per la pace di diversi amministratori locali: dalla convocazione della Marcia Save Gaza, da Marzabotto a Monte Sole, significativamente nei luoghi dell’eccidio nazista, voluta dalla sindaca Valentina Cuppi per il prossimo 15 giugno, alle dichiarazioni di “interruzione delle relazioni istituzionali” con il governo israeliano espresse dai presidenti delle regioni Puglia, Michele Emiliano, ed Emilia Romagna, Michele De Pascale, seguiti da diversi sindaci dei rispettivi territori. Mentre parteciperemo alla marcia Save Gaza e vedremo come si declineranno concretamente i boicottaggi delle Regioni al governo genocida di Israele, è utile qui evidenziare il ruolo strutturale e continuativo che anche le istituzioni locali possono mettere in campo per preparare la pace, esattamente sui piani educativo, economico e sociale esplicitati da Prevost. Il punto di partenza è considerare la pace non come mera assenza di guerra (pace negativa), ma come costruzione delle condizioni per la sua preparazione e manutenzione (pace positiva). La degenerazione bellica dei conflitti è solo la punta dell’iceberg di un sistema di guerra che prepara e legittima questo esito: è il punto di esplosione di una lunga e articolata filiera di guerra. Rispetto alla quale se le Regioni e le altre istituzioni locali non possono fermare direttamente la violenza una volta avviata, possono invece contribuire attivamente a decostruirne la filiera, non sull’onda dell’emozione temporanea ma strutturalmente e culturalmente, ed a costruirne le alternative. Non solo, peraltro, nell’interesse generale della pace, ma anche di quello specifico dei propri cittadini, visti i numerosi tagli ai trasferimenti dallo Stato agli Enti Locali per alimentare le crescenti spese militari. Le azioni che le istituzioni locali possono mettere in campo, in modalità non occasionale ma continuativa, sono molte, sia a livello di Comuni che di Regioni e possono dare sostanza e coerenza alle diverse “deleghe alla pace” che si vanno diffondendo. Sul piano economico, per esempio, si possono monitorare le attività industriali che nei diversi distretti contribuiscono alla produzione, diretta o indiretta, di armi e sostenerne i percorsi di riconversione civile – ostacolandone quelli contrari – con l’istituzione di peace list virtuose e premianti; istituire fondi locali, di concerto con i sindacati, per supportare i lavoratori che decidessero di fare obiezione di coscienza all’industria bellica; adottare codici etici war free per gli appalti pubblici, le sponsorizzazioni e le collaborazioni, sotto qualunque forma. Oltre che aderire alle campagne nazionali per il disarmo e l’economia di pace, anziché per il riarmo e l’economia di guerra, promuovendole sui territori. E poi sono molte le azioni possibili e necessarie sui piani culturale e formativo. Per citarne solo alcune: sottoscrivere protocolli con gli Uffici scolastici regionali per arginare il processo di militarizzazione della formazione e, invece, promuovere e finanziare percorsi di educazione alla pace nelle scuole di ogni ordine e grado e di formazione alla nonviolenza per gli insegnanti; organizzare nei luoghi della memoria tragica della guerra del nostro Paese – da Monte Sole a Sant’Anna di Stazzema – soggiorni estivi di training per la risoluzione nonviolenta dei conflitti con gruppi misti di ragazzi provenienti dai paesi in guerra. Inoltre, Comuni e Regioni potrebbero farsi direttamente promotori di Scuole e Accademie di pace, anche in collaborazione con la Rete delle Università per la Pace (Runipace), per promuovere la ricerca e la formazione alla trasformazione nonviolenta dei conflitti, su tutte le scale: dal locale all’internazionale. Infine, contribuire a costituire corridoi umanitari per i profughi dai paesi in guerra e strumenti di protezione delle vittime, prevedere percorsi di supporto nell’accoglienza dei rifugiati che ne portano il trauma, favorire nei territori esperienze di dialogo tra comunità originarie da paesi in conflitto armato e adoperarsi per il riconoscimento dello status di rifugiati ad obiettori di coscienza e disertori di tutti i fronti. Si tratta solo di alcuni, ma fondamentali, esempi di come le istituzioni locali, che volessero davvero mettere in campo non retoriche ma politiche attive di pace, potrebbero agire pratiche di nonviolenza secondo il nuovo principio, razionale, realistico e universale: se vuoi la pace, prepara la pace. Ovunque. Pubblicato su un blog del fattoquotidiano.it (qui con il consenso dell’autore che ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura)   Pasquale Pugliese
“Per un comunismo della cura”. A Milano incontro con Gian Andrea Franchi
Per i lettori di Pressenza il nome di Gian Andrea Franchi, da dieci anni in prima linea con Lorena Fornasir nell’accoglienza dei migranti che approdano dopo inenarrabili sofferenze lun go la rotta balcanica nella Piazza del Mondo di Trieste, suonerà sicuramente familiare. Parecchi gli articoli che salteranno fuori dai nostri archivi digitando il suo nome, in particolare quelli (febbraio 2021) che denunciavano l’incredibile accusa di ‘favoreggiamento dell’immigrazione clandestina’, per aver ospitato una famiglia curdo-iraniana un paio d’anni prima. Indagine poi archiviata, ma che in quei mesi (si era nel dentro&fuori dalla pandemia) riempì di indignazione i tanti che da anni seguivano questa coppia di attivisti non più giovanissimi, nella loro instancabile, quotidiana, mirabile professione di cura, a cominciare dalle parti più martoriate di quei corpi in transito: i piedi. Piedi ridotti a zeppe di bolle e piaghe, chiusi dentro scarpe senza neppure i lacci, per non dire tutto il resto: l’esperienza dei respingimenti, il terrore accumulato in mesi o anni di viaggio, la realtà del trauma dentro gli occhi. In risposta a quell’accusa, Gian Andrea si limitò alle seguenti righe: “Rivendico il carattere politico, e non umanitario, del mio impegno con i migranti. Impegno umanitario è un impegno che si limita a lenire la sofferenza senza tentare d’intervenire sulle cause che la producono. Impegno politico, nell’attuale situazione storica, è prima di tutto resistenza nei confronti di un’organizzazione della vita sociale basata sullo sfruttamento degli uomini e della natura, portato al limite della devastazione (come la pandemia ci ha dimostrato). È inoltre tentativo di costruire punti di socialità solidale che possano costantemente allargarsi e approfondirsi.” Parole che da sole basterebbero a sintetizzare i contenuti e le intenzioni di questo bel libro, che per l’appunto si intitola Per un comunismo della cura recentemente pubblicato da DeriveApprodi, che Gian Andrea Franchi sta presentando ovunque si presenti l’occasione – e l’occasione per Milano è stata qualche giorno fa alla Libreria delle Donne, con la conduzione di Silvia Marastoni. Incontro emozionante, anche grazie all’intervento di apertura di Lorena Fornasir, che non potendo essere presente di persona ci ha regalato una decina di minuti in diretta dalla “sua” Piazza del Mondo, con i ragazzi che arrivavano alla spicciolata… e quel monumento che per anni era stato il naturale punto d’incontro al centro della Piazza, ormai transennato da tutti i lati… e il vecchio porto austriaco in lontananza che per anni era stato il miserrimo rifugio per tanti, non più agibile, tombato pure quello d’ordinanza. “In questa piazza approdano i figli dei figli del nostro colonialismo, delle nostre guerre umanitarie, i disastri che produciamo esportando guerra anche quando la chiamiamo pace” ci ha detto Lorena con l’urgenza imposta da quello che per lei era un momento di lavoro. “Percorsi di dolore di cui siamo testimoni da quando, nel 2015, abbiamo cominciato questa pratica di cura a Pordenone. Da allora a oggi il cambiamento è stato solo in peggio per la ferocia che si è compiuta su queste persone, che si presentano con i loro corpi torturati, seviziati dalle polizie ai vari confini (…) Ciononostante  noi qui siamo, perché riteniamo che non sia possibile voltare la faccia dall’altra parte, perché come diceva Max Frish pensiamo che il ‘silenzio delle pantofole sia molto più pericoloso del rumore degli stivali’ e questo ci sostiene nella nostra resistenza quotidiana, contro queste politiche di morte, in cui la vita umana non vale più nulla. (…) Una sera è arrivato alla nostra ‘panchina della cura’ un uomo che avrà avuto 30 anni ma ne dimostrava il doppio, tanto il suo corpo era devastato, ed è stato difficile per me intervenire su quelle ferite che non riesco nemmeno a descrivere; non osavo incrociare il suo sguardo e quando alla fine l’ho fatto ho capito che ciò che non osavo guardare era il mio stesso trauma, sapendo che a 100 km da qui nella bellissima Croazia (vi invito a boicottare la Croazia), ci sono ragazzi che muoiono annegati. I morti di cui non si saprà mai nulla e di cui noi ricamiamo i nomi su questo ‘lenzuolo della memoria’: sono soprattutto i ragazzi migranti che li ricamano…”. E sul primo piano dei nomi ricamati in rosso sul bianco del lenzuolo, Lorena si scusa ma deve proprio andare: “Stanno arrivando sempre più persone, la Piazza mi chiama…” Il microfono può quindi passare a Gian Andrea, che a 89 anni ha ancora l’energia dell’attivista che in effetti è sempre stato. Ex professore di liceo in città diverse, ricorda con particolare entusiasmo quegli anni “a cavallo tra i 60 e 70, aperti alla speranza, in cui ci si sentiva parte di un movimento, di lotte, di tentativi di costruzione di forme nuove di vivere insieme… Fu in quell’epoca che decisi di entrare nel PCI e ne uscii dopo tre anni, deluso nell’assistere alla ritirata del Partito di fronte a quella che a me sembrava una fioritura, con le scuole occupate, gli studenti che si ponevano e ci ponevano delle domande, richieste di presenza, partecipazione, senso della vita… le stesse che si ponevano gli operai in sciopero nelle fabbriche, che senso aveva passare tutta la vita a una catena di montaggio… erano domande anche filosofiche, che finalmente circolavano a livello di massa. Poi nel 1969 c’è stata la strage di Piazza Fontana, ed è stato il segnale che il potere avrebbe reagito con inimmaginabile ferocia. E poi c’è stata l’involuzione, la lotta armata, ne ho conosciuti parecchi che si sono persi in quei percorsi. Io mi sono chiesto perché è finita così e una delle risposte che mi sono data è che lottare, in un certo senso, è più facile che costruire. Noi abbiamo lottato, ma non siamo stati capaci di costruire qualcosa che durasse veramente, come anni dopo ci avrebbe insegnato il movimento zapatista: per lottare bisognava avere qualcosa in grado di durare, altrimenti rimane solo la lotta, in cui è l’avversario che decide anche per te, e tu ti definisci in rapporto all’avversario, rispondi ai suoi attacchi o schemi. (…) E quindi appunto in questo libro ho cercato non solo di spiegarmi la complessità di ciò che è successo, ma anche di inquadrare il fenomeno della migrazione nella sua realtà: sia in prospettiva, perché secondo i calcoli dell’IOM (International Organization for Migration, che fa parte dell’ONU) i migranti potrebbero essere un miliardo e mezzo entro vent’anni, e addirittura quattro miliardi entro la fine del secolo, sia come opportunità, per un cambio di rotta quanto mai necessario. E quindi ecco il riferimento al comunismo, nel suo significato più fondamentale, come ‘messa in comune della cura’, creazione di nuove forme di comunità, antidoto alla malattia mortale delle nostre società che è l’individualismo, in cui ognuno guarda solo alla propria cerchia, famiglia, territorio. Essendo andato a sbattere contro questo fenomeno migratorio, ho capito che in questo confronto con situazioni estreme poteva esserci una chiamata a cui rispondere: non solo per cercare di aiutare loro nei loro bisogni e aspirazioni, ma come indicazione di futuro per tutti noi. Perché come non capire che il motivo fondamentale di questi flussi migratori è un problema che ci riguarda tutti come esseri viventi, ovvero l’alterazione degli equilibri biologici che regolano il pianeta terra, la vita stessa? Come non capire che questi giovani che arrivano soprattutto dall’Asia del sud, ma anche dall’Africa, sono solo un’anticipazione di un fenomeno ben più grande che molto presto riguarderà i nostri figli e nipoti? E allora cerchiamo di ripartire appunto dal cuore, ovvero dalla Piazza del Mondo, dall’accoglienza di queste persone, dalla fecondità degli incontri e riunioni, dal ritrovarsi nella soluzione delle esigenze più fondamentali e vitali, nella sperimentazione di resistenze creative. Per costruire dal basso qualcosa che abbia senso, a partire da quel concetto di Disperata speranza del giovane filosofo ebreo Carlo Michelstaedter, su cui ho scritto la mia tesi di laurea e continuato a lavorare per il resto della mia vita. Gian Andrea Franchi, Per un comunismo della cura, Ed DeriveApprodi 2025, 172 pag. € 18 Daniela Bezzi
Uno sguardo umano sulla diversità: il rizoma
In occasione della settimana Europea della Salute Mentale (19-25 maggio), si è svolto all’interno del seicentesco Complesso Monumentale dei Santi Apostoli di Napoli un incontro di studio e di approfondimento sul concetto di diversità e neurodivergenze. Dal 1977 il palazzo è sede del Liceo Artistico della città ed è in questo contesto che l’evento di apertura ha avuto luogo. Sono state coinvolte l’istituzione liceale e universitaria insieme per affrontare, attraverso un dialogo profondo e animato, questioni di prevenzione e cura del disagio sociale e psicologico-individuale. Il dibattito è iniziato concentrandosi sull’idea di avanguardia del passo prima, quell’attimo, cioè, dell’esperienza umana che è luogo di un pensiero che riflette, che si muove fermo e saldo, e che avanza intrepido nonostante il dolore e la perdita. Il passo prima è ciò che precede l’irreparabile, ma che non cancella la sconfitta o il fallimento, che osserva attento e disponibile l’azione umana quando è conquista e affermazione di sé. È quel momento di una prospettiva futura in cui si crea la possibilità di sperimentare il proprio essere autentico nell’incontro con l’altro e con la sua diversità, che è anche la propria unicità. Il passo che nel suo procedere affronta lo spavento e l’indifferenza degli individui, e in cui la paura non ha travolto già le loro menti e i corpi, dove la speranza rivolge ancora uno sguardo di fiducia verso l’apprendimento di una pratica dei saperi in difesa della pluralità e della ricchezza della soggettività di ciascuno. Tramite gli interventi dei partecipanti la differenza si è potuta immaginare non solamente come qualcosa di fragile e vulnerabile, ma anche come una protezione dall’omologazione e dall’anonimato. La discussione si è così avviata verso il concetto particolare di rizoma. Il rizoma in botanica è un fusto perenne, una radice che cresce in modo continuo e costante, è sotterraneo con uno sviluppo per lo più orizzontale. Il rizoma ci mostra, lungo la sua evoluzione, che i passaggi (di stato) prendono la forma di internodi, punti di incontro che si intrecciano e che diventano sempre più forti e solidi. Nello spazio dell’internodo, anche detto spazio-di-mezzo, spazio intermedio nascono gemme, foglie e rami nuovi; insomma il rizoma ci ha fatto pensare ad una rete di connessioni che rende viva la pianta e che produce una trasformazione, una rigenerazione. Questa speciale radice, il rizoma appunto, sembra qualcosa che, al tempo stesso, ripara proprio lì dove la spaccatura fa nascere un fiore e anche costruisce poiché genera una nuova vita. Utilizziamo, quindi, la parola rizoma come concetto simbolico di un modo nuovo di intendere la comunità e le relazioni tra le persone. Una comunità, quindi, che possa fare esperienza di un’altra logica, la logica dell’inter-essere, una funzione relazionale che ha in sé i principi della molteplicità, della eterogeneità e che si riferisce ad un sistema aperto, libero e infinitamente percorribile. Sono assenti punti o posizioni congelate, e c’è invece un fluire, una trasformazione in continuo movimento. Un sistema umano pensato e vissuto attraverso le forme di congiunzione e/e – come coesistenza di diversi elementi – e non con le forme respingenti, di disgiunzione o/o. Una comunità, quindi, che possa funzionare come una struttura che si sviluppa in maniera diffusiva e reticolare e con una modalità meno rigida e verticale, e per lo più di tipo orizzontale (simmetria asimmetrica). L’incontro ci ha permesso di fare esperienza reale della capacità di riscatto che ci rimanda un’osservazione sensibile e accorta e lo stare-in-relazione con cura, elementi sostanziali per uno scambio reciproco tra gli individui, ingredienti primari e fonti di vitalità. Il convegno è stato una sorta di esercitazione volta verso un sentire che accoglie la differenza nella sua pluralità, che sperimenta la regola dello stare insieme come un piacere e non solo come un dover essere, e che comprende, perciò, le uguaglianze e le diversità, che mette in luce l’essere come soggetto in azione, individuo libero che desidera e sceglie, un soggetto che ricerca e scopre nell’organizzazione comune e nel fare collettivo un diritto dell’uomo e del proprio assetto umano. Ritrovare, in questo modo, l’umanità dell’uomo nel suo aspetto fragile ci restituisce solidità e stabilità, un investimento sull’interezza del proprio mondo interno. É stato, insomma, un lavoro che ha perseguito un pensiero di prevenzione e una spinta a resistere come pulsione di vita. La giornata si è conclusa con la riflessione attuale che è proprio nel qui e ora che abbiamo tante responsabilità: il fidarsi vicendevole della relazione tra sé e l’altro, il muoversi secondo la regola e il limite del buon senso, che, in fondo, è una regola del sentimento, cioè quel sentire profondo e naturale dell’affidarsi, dell’accogliere e di scoprire, perciò, che umanizzare la fragilità significa anche avvicinarsi alla mancanza e all’imperfezione, immaginandole come risorse proprie e sorgenti vitali di un futuro più capace di amare. Ci permettiamo, allora, di cogliere legami nuovi e affidabili che possano esistere per davvero ed essere costruiti e nutriti all’interno di un ambiente di cura della fragilità di ognuno, luogo in cui potersi chiedere: la fragilità è poi così tanto fragile?     Redazione Napoli