Una grande famiglia multietnica
Se ne parla ancora – troppo – poco, ma per accogliere i minori stranieri non
accompagnati non ci sono solo le comunità. Esiste anche l’affido familiare, che,
secondo l’ultimo rapporto del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali sui
minori stranieri non accompagnati presenti in Italia, riguardava al 30 giugno
2025 il 20,3% dei ragazzi migranti soli, per la maggior parte ucraini. Il report
sui minori fuori famiglia, invece, al 31 dicembre 2023 contava 953 minori
stranieri non accompagnati in affido familiare, pari a circa il 6% dei minori in
affido, contro 7.706 Msna accolti in un servizio residenziale.
Il calore di una famiglia, per un ragazzo, è sicuramente un’opportunità in più:
permette una maggiore inclusione e un percorso più seguito verso l’autonomia. Ma
si tratta di un’occasione di crescita anche per chi accoglie, come testimonia la
storia di Federico Maria Savia e di sua moglie Alice, che hanno avviato una
famiglia-comunità a Piobesi Torinese.
Quanti minori stranieri non accompagnati avete avuto in affido?
Ne ho avuti 14, insieme a mia moglie. Attualmente sono cinque, perché dal 2000
siamo una famiglia comunità. C’è anche un ragazzo di 22 anni che tecnicamente è
un “ex affido” ma che continua a vivere con noi: è arrivato a 11 anni
dall’Egitto, ha fatto un bel percorso, è diventato maggiorenne da noi e ha
deciso di rimanere. Ora sta costruendo la sua autonomia: si è legato alla nostra
famiglia ma anche al territorio. Di fatto ci aiuta: è diventato una specie di
mediatore anche con i più piccoli. Tre dei cinque ragazzi che ora vivono con
noi, infatti, sono egiziani.
E gli altri due?
Uno gambiano e uno albanese. Siamo otto in casa. In più, c’è una educatrice
della cooperativa Terremondo, che è la proprietaria dell’immobile in cui
viviamo. Ci dà una mano nelle commissioni quotidiane e nella gestione dei
ragazzi.
Come avete deciso di dedicarvi all’affido di minori stranieri non accompagnati?
Siamo sposati dal 2004 – sono 21 anni – ma i figli non sono arrivati. Non ci
siamo disperati, è andata così. Da sempre siamo stati attivi nel volontariato,
nello scoutismo, i ragazzi in giro per casa non mancavano… siamo sempre stati
sereni su questo. Nel 2015, siamo rimasti molto colpiti dalla storia di Alan
Kurdi (il bimbo siriano il cui corpo senza vita è stato ritratto in un’iconica
foto che è diventata simbolo delle stragi in mare, ndr). Abbiamo visto che
c’erano tanti minori che mettevano a rischio la propria vita in questi viaggi.
All’epoca abitavamo a Collegno, vicino a Torino, avevamo una camera in più per
il figlio che non è arrivato e che mia moglie usava come laboratorio. Ci siamo
detti: «Usiamo questo spazio per dare accoglienza». Siamo credenti, quindi
abbiamo segnalato la nostra disponibilità a Sergio Durando, il direttore della
Pastorale dei Migranti di Torino. Che ha rilanciato proponendoci l’affido.
E voi?
Siamo rimasti inizialmente un po’ spiazzati, ma poi abbiamo detto «ci siamo». Il
primo affido è stato di un ragazzo di 16 anni, albanese, che era stato
letteralmente sbattuto fuori da una comunità per minori di Torino perché aveva
creato problemi. Viveva per strada. L’abbiamo accolto con qualche timore, perché
avevamo un po’ di pregiudizi. Invece è andata bene: con noi il ragazzo è
rifiorito, ha ripreso serenità. Così ci hanno chiesto di continuare con un
secondo affido. In questo caso è arrivato Amir, il giovane egiziano che è ancora
con noi: era il 2016.
Poi la decisione di diventare famiglia-comunità.
Con la cooperativa Terremondo e con Asai, un’associazione torinese che fa
animazione interculturale, i servizi per i ragazzi stranieri e l’Ufficio
migranti abbiamo cercato una casa più grande. L’abbiamo trovata a Piobesi
Torinese. Alla casa abbiamo dato il nome di “Casa Aylan”, proprio perché siamo
partiti toccati dalla vicenda di Alan Kurdi. La presenza dell’educatore è
arrivata grazie al contributo della Fondazione de Agostini. Nel 2019 ci siamo
trasferiti. Il primo ragazzo era diventato maggiorenne e ha deciso di rimanere a
Torino, aveva già un lavoro.
Continuate a sentire i ragazzi che sono stati con voi?
Certo. Abbiamo incrociato tante storie diverse. Ci sono stati degli affidi di
minori migranti che arrivavano dal viaggio in mare, oppure ragazzi albanesi che
hanno fatto viaggi più sicuri. Per un breve periodo abbiamo avuto anche degli
adolescenti afghani che arrivavano dalla rotta balcanica e che sono stati
trovati su un camion in tangenziale mentre cercavano di passare in Francia. A
casa con noi ci sono stati anche dei ragazzi sudanesi tramite il progetto
“Pagella in tasca”, di Intersos e Caritas Italiana, dei corridoi umanitari che
sono stati attivi per un po’, per portare in Italia dei ragazzi dai campi
profughi in Niger.
Quali emozioni vi guidano in questa esperienza?
Per noi è una missione. Io sono medico, anche mia moglie lavora. Esprimiamo così
la nostra genitorialità: non abbiamo avuto figli nostri e ci siamo ritrovati a
essere mamma e papà di adolescenti maschi stranieri tra i 12 e i 20 anni. Lo
facciamo anche come scelta politica, per dare testimonianza. Ci piace l’idea di
sensibilizzare sull’affido, non solo degli stranieri, ma anche degli italiani. È
un’esperienza bellissima e ci sono tante coppie che potrebbero “lanciarsi”.
Qual è il vostro rapporto con le famiglie di origine dei ragazzi?
Se le famiglie ci sono – alcuni sono orfani o i genitori non ci sono – è un
rapporto molto sereno. Sono riconoscenti verso di noi; abbiamo avuto dei
contatti, siamo andati in Albania e in Egitto a conoscere le famiglie di alcuni
ragazzi, abbiamo ricevuto bellissime accoglienze da parte delle mamme e dei papà
che ci manifestavano la loro gratitudine come potevano. In questo senso forse
con i Msna è più facile rispetto all’affido di minori italiani che vengono da
situazioni familiari complesse. Chiaro è però che bisogna avere la voglia di
confrontarsi con una cultura diversa, avere la predisposizione all’accoglienza.
Ci sono state situazioni in cui avete avuto delle difficoltà?
Senz’altro. Ci sono difficoltà logistiche ma le abbiamo sempre affrontate bene,
quindi non sono mai state un peso. Parlo dei documenti, delle iscrizioni a
scuola, del rapporto con i tutori. Le complicazioni ci sono, ma sono tutte
affrontabili grazie ai servizi che ci sostengono. Abbiamo fatto fatica con
alcuni ragazzi, uno degli adolescenti sudanesi in particolare che era arrivato
con dei traumi dalla Libia, manie di persecuzione che gli impedivano di stare
sereno in comunità o con noi. Aveva paura di tutto, accusava gli altri, aveva
creato un clima molto teso. Abbiamo cercato supporto psicologico e psichiatrico.
Poi è diventato maggiorenne e ha chiesto l’autonomia. Ora ci sentiamo, ci
scriviamo, ci vediamo, ci viene anche a trovare. Ma finché era in casa è stato
complicato.
Lei ritiene che l’affido sia il modo migliore di accogliere i minori stranieri
soli. Come mai?
Innanzitutto perché lo dice la Legge Zampa: la prima scelta dovrebbe essere
l’affido familiare. Poi, perché l’abbiamo visto nella nostra esperienza: abbiamo
conosciuto ottime comunità, ma anche realtà che fanno fatica a causa dei numeri
elevati di ragazzi. La famiglia è un ambiente più piccolo, dove il ragazzo è
tenuto maggiormente sotto controllo, in senso positivo. Non solo lo si gestisce
meglio, ma si riesce a fare un percorso che lo porta ad avere un’autonomia
maggiore; in più, spesso i ragazzi chiedono di restare fino ai 21 anni in
famiglia riuscendo a prendere un diploma o una qualifica. Un ultimo elemento è
che c’è un’inclusione maggiore: i minori in affido sono venuti con noi a delle
funzioni religiose cristiane, noi siamo andati con loro ad altre funzioni
musulmane. Vivono una vita più normale e vengono coinvolti nelle dinamiche di
una famiglia, di una comunità, di un territorio.
Redazione Italia