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Milano dall’elettronica alle aragoste
Adesso che ho cominciato a dire la mia come faccio a tirarmi indietro? L’altro giorno il “Corriere” ha intervistato mons. Delpini. Tra le tante cose sacrosante che ha detto, una mi è piaciuta particolarmente. Tanti dicono che Milano avrà la forza di risollevarsi dopo questa batosta. “Se queste persone ci sono, si facciano avanti!” dice Delpini. Ma all’orizzonte non si vede anima viva, non si fa avanti nessuno. Qui l’aria che tira è: “ha da passà ‘a nuttata!” I giornali poi sull’intervista di Delpini hanno chiesto il parere di Elena Buscemi, Presidente del Consiglio Comunale. Quando si occupava di città metropolitana ha dato una mano a noi di ACTA, perché potessimo avere più spazio nella tutela delle Partite Iva. La ricordo quindi con gratitudine. Oggi si trova in un’altra posizione e immagino che la poltrona che occupa non sia il massimo della comodità. Ovviamente non fa una difesa d’ufficio della Giunta, però dice una cosa che mi lascia perplesso: la bella Milano che tanti rimpiangono contrapponendola a quella di oggi, che tanti non sopportano, in realtà non è mai esistita, è il prodotto della fantasia di chi oggi critica la politica urbanistica. Boh, sarà. Posso anche essere d’accordo: nella sequenza Mediobanca-Ligresti-Berlusconi- Catella-Sala-Tancredi c’è effettivamente una certa continuità, anzi mettiamoci dentro anche la “Milano da bere”, e abbiamo una storia che dura da quarant’anni (1985-2025). Elena ne ha 43 e capisco che non ha visto altro nella vita, quindi ha ragione a dire che “l’altra Milano” sta solo nella testa di anime belle. Io ho il doppio degli anni di Elena Buscemi e ricordo che la Milano che ho vissuto dal 1957 in poi, cioè dai vent’anni in su, aveva tante cose diverse da quella di oggi – ci mancherebbe – però una, grande come una casa, salta agli occhi di chiunque conservi un po’ di senno. Cos’è? La differenza di qualità dei ricchi. La dignità dei padroni di ieri e la cafonaggine dei padroni di oggi. Non è una battuta, è storia d’Italia. Un certo Enrico Mattei certo che stava a Roma ma Metanopoli l’ha messa qui e quando ha fondato un quotidiano la redazione era qui. Ed è morto poco lontano da qui, perché dava fastidio ai potenti del petrolio. E un certo Adriano Olivetti è vero che la sua azienda aveva il centro a Ivrea, ma quando ha avuto la lungimiranza di capire che un giorno il mondo sarebbe stato dominato dall’informatica, i suoi laboratori di ricerca li ha messi da queste parti, a Borgolombardo, a Pregnana Milanese. Da quei laboratori è uscito il primo personal computer della storia. E la Direzione Pubblicità coi grafici che hanno stupito tutto il mondo, Pintori, Bonfanti, e copywriter che rispondevano ai nomi di Franco Fortini e Giovanni Giudici, stava in via Clerici o in via Baracchini, non stava a Torino o a Chivasso. E la Direzione Commerciale Elettronica stava a due passi dal Pirellone. E i Sottsass, i Bellini, i Maldonado, grandi designer, stavano da queste parti, e non risulta che avessero traffici col Comune per vincere dei bandi. E Leopoldo Pirelli che quando diventa Presidente di Confindustria cerca di dare una svolta e di convincere gli industriali che le maestranze non sono solo delle braccia ma hanno anche un cervello, è uno che non ha paura di essere controcorrente. Mettete a paragone questa gente con i vari Armani, che si fanno cucire le borsette da disperati a 4 euro l’ora, coi Farinetti, i Briatore, i Benetton, i Della Valle … Insomma, sarò anche un vecchio brontolone, ma nessuno mi toglie dalla testa che il confronto tra i padroni di ieri e quelli di oggi è davvero impietoso. E questo ha delle conseguenze sull’aria che tira in una città, soprattutto se è sempre stata una città in mano ai padroni. Quelli di ieri stavano dentro le alte tecnologie, quelli di oggi che sanno fare? Scarpe, magliette, pizzerie. Prendiamo della gente come i Benetton. Ai tempi dei distretti erano bravi nella logistica, facendo magliette conquistano i mercati. Poi si sono stufati , troppa fatica pensare agli operai, meglio farsi dare dallo Stato le utilities, aeroporti, autostrade, quella roba costruita coi soldi dei contribuenti, che ti fa lavorare di meno e guadagnare un fracco di soldi: tu stai in poltrona e incassi i pedaggi. È il momento buono, tanto al governo c’è un certo Prodi, amico dei privati, l’uomo che ha smantellato l’IRI (di cui era Presidente). Certo, sulle autostrade bisogna fare un po’ di manutenzione, ma attenti a non spendere troppo eh… Così crolla il ponte Morandi, 43 morti. I Benetton vanno in galera? Ma manco per sogno. Però lo Stato li “punisce” e toglie loro la concessione. Il tutto dovrebbe avvenire senza indennizzi, il minimo, per il danno che hanno provocato. Macché, lo Stato si ricompra l’autostrada. La ricompra coi soldi nostri, ovviamente. Due miliardi e 400 milioni. Tanto al governo chi c’è? Una faccia nuova, un certo Conte, il cui partito sta oggi a Strasburgo all’estrema sinistra…e a Milano chiede le dimissioni di Sala. Ma allora stava con Salvini ed era culo e camicia con Trump I. Che bei padroni! Pensate a Farinetti. Cosa fa lui per te? Ti sceglie i formaggi migliori, ti risparmia una bella fatica. E li sceglie anche per la middle class di Manhattan. E Briatore? Beh, qui rimando a Crozza. Questa è tutta gente che apprezza il “modello Milano”, che la trova come Londra, come New York. Chiudo con un consiglio turistico. Volete godervi “il modello Milano” nella sua pura essenza? Andate a cena alla “Langosteria”, in una traversa di Coni Zugna. Dicono i tassisti che si spende anche 900 euro a cena, mangi l’aragosta. Ma non è questo il bello, davanti all’ingresso, sempre, anche fuori dall’orario dei pasti, c’è un negro vestito elegante. Una volta, all’inizio, aveva anche il cilindro. Ed è lui che apre la porta, non si deve neanche far fatica, e una volta dentro si respira l’aria che dovevano respirare i padroni delle piantagioni, sì i sudisti, che avrete visto tante volte nei film, quelli convinti che i negri devono essere schiavi, quelli che ce l’avevano con Abramo Lincoln. Geniale il proprietario. Sempre pieno, tanto che ha dovuto aprire un locale gemello a due passi, in via Savona. Crozza dovrebbe imitare lui, altro che quel suonato di Briatore! ARTICOLI CORRELATI MILANO NON È UN MODELLO: MACAO AVEVA GIÀ DETTO TUTTO!  MANIFESTAZIONE CONTRO LA SALVA MILANO E PER LA CITTÀ PUBBLICA – 31 MARZO  MILANO, I VERDI IN DIFFICOLTÀ RESUSCITANO LA LORO “RIVALE” CIVICA AMBIENTALISTA  CRESCE LA RESISTENZA CONTRO LA SALVA-MILANO SALVA MILANO, APPELLO DEI COMITATI A DEPUTATI E SENATORI Redazione Italia
La forza della nostra classe: lavoro/diritti/sovranità, un congresso in Galizia
Nel 2023 ho fatto parte della commissione che all’Università di Trento ha discusso una tesi di dottorato sul lavoro marittimo; lì ho incontrato un docente di diritto del lavoro e della previdenza sociale dell’Università di A Coruña, che conosceva i miei scritti: Xosé Manuel Carril Vàzquez. Suo fratello è il Segretario Generale della Confederazione Intersindacale Galiziana (CIG), il più forte sindacato della Galizia, con 90 mila iscritti. Così sono stato invitato a presenziare al IX Congresso della CIG, a tenere una conferenza per le delegazioni invitate (Cuba, Iran, Algeria, Palestina, Sahara Occidentale, Brasile, Angola, Argentina, Nicaragua, Portogallo…), per altre delegazioni sindacali spagnole (Paesi Baschi, Catalogna, Valencia, Andalusia…) e per alcuni dirigenti della CIG. Il congresso si è svolto nei giorni 23 e 24 maggio, nei giorni precedenti ho visitato la città e ho tenuto una conferenza sul lavoro marittimo-portuale all’Università. Per l’occasione è stato tradotto in gallego il mio saggio “Nazismo e classe operaia”, che è stato distribuito ai partecipanti. Dopo la caduta di Franco, nel 1976/77, la Galizia ha chiesto nuovamente di essere riconosciuta come Nazione (la prima richiesta era stato effettuata ai tempi della Seconda Repubblica) e quindi di avere diritto all’autodeterminazione. Naturalmente non le è stato concesso (nella Costituzione spagnola è considerata una delle 17 comunità autonome, pur essendo una “nazionalità” secondo i termini della Costituzione stessa). Nel 2024 le ultime elezioni per il Parlamento galiziano hanno visto una netta vittoria del Partido Popular; solo tre partiti hanno ottenuto dei seggi, altri otto, tra cui Vox di estrema destra, non hanno superato il quorum. L’astensione è stata altissima, superiore al 43%.In queste elezioni la seconda forza più votata è stata il Bloque Nacionalista Galego (una federazione di partiti politici che si caratterizzano per posizioni di nazionalismo di sinistra, battendosi per la sovranità della Galizia, presente nei parlamenti spagnolo ed europeo; ha ottenuto il 31,34% dei voti e 25 seggi su un totale di 75), confermandosi prima forza d’opposizione. Il sindacato galiziano, che sposa totalmente la causa della sovranità della Galizia, con la sua presenza costante e intransigente nelle questioni del lavoro, dell’ambiente, dei diritti delle donne – si definisce sindacato femminista – raccoglie più iscritti di ogni altra sigla sindacale. Per la CIG le parole “soberanìa” e “nacionalista” sono sinonimo di sindacato conflittuale. Lo slogan del congresso era: La forza della nostra classe: lavoro – diritti – sovranità. Il sindacato ha raccolto la tradizione culturale e identitaria della Galizia, territorio strettamente collegato al Portogallo anche nella lingua e, di conseguenza, ai paesi di lingua portoghese (si spiega anche così la presenza di delegazioni del Brasile, dell’Angola, del Mozambico…), ma al tempo stesso di forti legami con la cultura celtica, con l’Irlanda, la Scozia, il Galles. Uno degli strumenti musicali tipici della Galizia è una versione autoctona di cornamusa. I segni della guerra civile spagnola sembrano conficcati nella carne di questi posti. Francisco Franco era nativo di Ferrol, che si vede a occhio nudo da Coruña. La ferocia con cui ha voluto “ripulire” la sua terra di repubblicani e “galeguistas” è ricordata in vari luoghi della memoria. Come triestino mi ha fatto un certo effetto sapere che nelle Brigate Internazionali l’armiere del Quinto Reggimento di Vittorio Vidali (Carlos) era un biologo strettamente legato alla Galizia, Faustino Cordòn, di fama internazionale. Invece di darvi un mio resoconto del congresso, vi rimando al link. Se desiderate divertirvi con il galiziano – lo capirete senza problemi – allora guardate questo. Siamo rimasti entusiasti del calore, l’interesse e la premura con cui siamo stati accolti e dall’altissimo livello di efficienza dell’organizzazione, in un’atmosfera di amicizia e solidarietà, di entusiasmo, a cui non eravamo più abituati. La simbologia, la ritualità, l’atmosfera ricordavano moltissimo gli anni Settanta, anche nei suoi difetti. All’inizio ne eravamo sconcertati, ma poi abbiamo capito. In Italia la sconfitta degli anni Ottanta e la lunghissima stagione di devastazione sociale che ci ha portati a un governo di estrema destra, la dissoluzione della Sinistra, l’incivilimento del nostro Paese, hanno disseccato in noi anche certi sentimenti. Quando, in chiusura, si è cantata l’Internazionale mi sono venute le lacrime agli occhi. Ho pensato che fosse per l’età, per il mio cuore malandato e la prostata malconcia. Invece era perché stavo tornando, per un istante, quello di cinquant’anni fa.   > La forza della nostra classe: lavoro – diritti – sovranità, un congresso in > Galizia Redazione Italia
Il nuovo Papa: perché chiamarsi Leone?
Son stati scritti fiumi di parole sull’esito inatteso del conclave e anche sulla ripresa di un nome desueto da oltre un secolo Leone, dicendo troppe banalità. Cerchiamo di decifrare il significato di questa scelta.   VEDIAMO I PAPI LEONE PIÙ ILLUSTRI CITATI DALLA STAMPA IN QUESTI GIORNI: DAI PRIMI SECOLI DELLA CHIESA FINO AL XVI SECOLO Leone I, detto Magno, fu eletto nel 441 e nei suoi 21 anni di regno fu un instancabile combattente per affermare e consolidare il primato del vescovo di Roma, la rigida ortodossia, sconfiggendo le numerose eresie del tempo in particolare sulla natura della figura di Cristo e sulla Trinità. Leone III, Papa dal 795 all’816, incoronò Carlo Magno imperatore del Sacro Romano Impero e stabilì il precedente storico dell’assoluta supremazia del papa sui poteri terreni. Leone IV, Papa dal 847 al 855, fortificò Roma costruendo le Mura Leonine e promuovendo diverse spedizioni armate per sconfiggere i saraceni ed impedirne le scorribande; il giorno di Pasqua dell’850 Leone incoronò imperatore Ludovico, figlio di Lotario, riaffermando il prestigio e il privilegio pontificio di compiere un tale atto. Leone X, Papa dal 1513 al 1521, nato Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico, fu particolarmente impegnato sul fronte dell’ortodossia, in un momento di particolari tensioni nel mondo della cristianità, evitando il pericolo di uno scisma, ribadendo il dogma dell’immortalità dell’anima, contro le teorie filosofiche degli averroisti e la sottomissione della verità filosofica a quella teologica. Fu il protagonista intransigente della diatriba sulle indulgenze, da lui stesso concesse, sollevata da Martin Lutero, con conclusiva scomunica di quest’ultimo e inizio della Riforma protestante. In generale sono Papi coerenti con il significato allegorico del leone: personalità forti, impegnate nel potenziare l’autorità e l’unità della Chiesa, custodi dell’ortodossia contro le eresie, tendenzialmente teocratici nel ribadire la supremazia del potere spirituale su quello temporale, ovvero sull’allora Sacro romano impero d’Occidente. Il leone era anche il simbolo della Repubblica di Venezia, cattolica, dopo l’anno mille protagonista di un’espansione imperiale e di un’accresciuta potenza economica e politica di prim’ordine. Così il leone di San Marco simboleggiò i caratteri con cui Venezia amava pensare e descrivere sé stessa: maestà, potenza, sapienza, forza militare e pietà religiosa. PAPA LEONE XIII FU DAVVERO UN “PAPA SOCIALE”? Ma in tutti i commenti, anche di intellettuali laici e di “sinistra”, si è voluto enfatizzare il probabile richiamo da parte del nuovo Leone XIV all’ultimo Leone, quello comunemente definito con malcelata ammirazione il “papa sociale”, per confermare la continuità con Papa Francesco. Ma quello fu davvero un papa “sociale e progressista” come lo si vuole rappresentare? Di Leone XIII mi sono occupato a lungo in una delle mie più impegnative ricerche storiche: «Preghiamo anche per i perfidi giudei». L’antisemitismo cattolico e la Shoah, DeriveApprodi, Roma 2018 (pp. 8-44). La favola di Leone XIII “papa sociale” resiste, nonostante Giovanni Miccoli (G. Miccoli, Antisemitismo e cattolicesimo, Morcelliana, Brescia 2013), il più importante storico cattolico italiano, negli ultimi anni della sua vita, abbia approfondito proprio quel periodo cruciale dell’antisemitismo cattolico che si dispiega a cavallo tra Ottocento e Novecento, il periodo in cui l’antisemitismo divenne in Europa un tema costitutivo delle ideologie reazionarie, appunto su impulso proprio del lungo Pontificato di Leone XIII (1878-1903) e dell’iniziativa insistente, quasi ossessiva, della rivista da lui promossa a partire dal 1881, «La Civiltà cattolica», impegnata allo stremo nel combattere l’ebraismo e le ideologie anticristiane dallo stesso derivate, la massoneria, il liberalismo e il socialismo. Quello leonino fu un pontificato straordinariamente forte, come poteva lasciar presagire il nome che scelse il cardinal Pecci al suo insediamento e come riconoscono tutti gli studiosi di storia della Chiesa. Un pontificato molto politico, convintamente interventista nelle vicende terrene contemporanee. Fu questo il vero tratto innovatore rispetto al predecessore Pio IX, il quale di fronte alla modernità, da un canto ne ribadì l’assoluta e totale condanna con il Sillabo, dall’altro condusse la Chiesa a ritrarsi nelle proprie casematte, in una posizione difensiva che poteva risultare alla lunga sterile. Questo indebolimento della Chiesa venne percepito fin da subito da Leone XIII che quindi si impegnò per ricollocarla al centro della scena internazionale: dunque la guerra contro la modernità, perché fosse efficace e vincente per la Chiesa, doveva essere ingaggiata in campo aperto, sul terreno dei grandi cambiamenti economici e sociali in corso, in una contesa aspra, militante, con le società liberali. Leone XIII comprese che, dentro la modernità, la civiltà industriale e tecnologica, che si stava convulsamente sviluppando con la scoperta dei combustibili fossili, irrompeva come un fiume in piena che era impossibile sbarrare. La Chiesa rischiava l’irrilevanza se avesse mantenuto un atteggiamento di totale rifiuto del nuovo, espresso icasticamente da Gregorio XVI, quando bollò come un «satana su rotaia» il primo treno in Italia che il 13 ottobre 1839 ansimò sbuffando sui sette chilometri da Napoli a Portici. Leone XIII, invece, comprese che quei processi tecnologici, economici e sociali, a dispetto della «scomunica» pontificia, si stavano affermando, e che andavano coinvolgendo sempre più estese masse di popolazione, le quali rischiavano di essere scristianizzate dalle ideologie che quel processo assecondavano, liberalismo e socialismo innanzitutto, diffusi dall’ebraismo anticristiano. Ebbene, in quell’agone la Chiesa doveva scendere in campo, accettando la sfida della modernità proprio sul terreno economico e sociale, con l’obiettivo di cristianizzare la modernità stessa, sconfiggendo le ideologie razionaliste e laiciste che si erano affermate con l’Ottantanove. L’obiettivo, apparentemente paradossale, era quello di affermare una sorta di «teocrazia della modernità», ovvero ripristinare il primato assoluto della Chiesa, di impronta medievale, nel mondo nuovo delle innovazioni tecnologiche, della produzione industriale e delle conseguenti trasformazioni sociali: la Cristianità che tornava a governare anche il mondo moderno, reinserendolo in quella civiltà cristiana e in quella visione del mondo che il Medioevo aveva cristallizzato come ordine naturale delle cose modellato dal disegno soprannaturale divino. Cosicché, l’anno dopo della sua elezione, Leone XIII si preoccupò di stabilire, in una delle prime encicliche del suo lungo papato, Aeterni Patris, una salda base teologica, unica per tutta la Chiesa e, in qualche modo, indiscutibile e immodificabile, fondata sulla Somma teologica e l’opera di San Tommaso d’Aquino, un’imperiosa restaurazione di una rigidità teologica, che peraltro durerà a lungo, praticamente fino al Concilio Vaticano II. Si tratta di «una visione teocratica dei rapporti tra la Chiesa e la società civile» in Leone XIII che così lo stesso sintetizzò: «Siccome il fine al quale tende la Chiesa è nobilissimo sopra ogni altro, così la potestà di essa va sopra tutte le altre, e non deve essere, né riputata inferiore ai poteri dello Stato, né a lui in qualche modo sottoposta». Dunque, se da un canto Leone XIII gettò la Chiesa e i cattolici nell’agone politico e sociale, dall’altro si preoccupò con grande energia di restaurare una rigida ortodossia teologica, il tomismo, e di ribadire la più ferma condanna delle ideologie che avevano ispirato la modernità: «Non si trattava di una resa davanti alla modernità. Né si trattava di contrapporsi semplicemente alla modernità. Cominciava un confronto, non certo ancora un dialogo, per di più talvolta ancora molto aspro». Il suo programma che è quello di ricostruire e restaurare una nuova Civiltà dandole come tessuto principale e come anima i valori e la filosofia del Vangelo poiché la Società moderna «è caratterizzata da un universale sovvertimento dei principi dai quali, come da fondamento, è sorretto l’ordine sociale». Come si vede, papa Leone non aveva assolutamente in mente la riconciliazione con la modernità, ma la sua sconfitta tramite la confutazione dei falsi principi sui quali essa si fondava per potere restaurare la Cristianità avversata dalla modernità e dalle sette dirette dal giudaismo talmudico. A questo proposito, Leone XIII gestì direttamente i tre casi critici dell’antisemitismo cattolico dell’epoca: la vicenda del partito cristiano sociale austriaco, la posizione dei cattolici francesi rispetto all’affaire Dreyfuss e infine la credenza del rito del sangue nella Pasqua ebraica. La prima vicenda riguarda il primo esperimento, vincente, di discesa in campo in Europa di un partito cattolico, il Partito cristiano sociale austriaco, che partecipò e vinse le elezioni per il comune di Vienna. L’esperimento austriaco fu in sostanza il primo banco di prova dell’enciclica di Leone XIII Immortale Dei del 1º novembre 1885, sulla costituzione cristiana degli Stati, che per permetteva finalmente ai cattolici di intervenire nell’agone politico (non ancora a quelli italiani per il trauma della breccia di Porta Pia). Il leader, Karl Lueger, ispirandosi alla Rerum novarum, elaborò un programma che, riprendendo la critica pontificia al capitalismo ed al marxismo, rappresentava questi fenomeni della modernità come prodotti, in certo modo complementari, della mente ebraica, fondendo questi nuovi temi con il secolare odio per gli ebrei della tradizione cattolica. Karl Lueger, leader carismatico e autoritario di un partito che si presentò come antisemita, fu borgomastro ininterrottamente dal 1895 al 1910, benedetto da Leone XIII e considerato dal giovane Adolf Hitler il modello su cui costruire il suo progetto politico e la sua figura di Führer. La seconda è quella dell’altro tentativo del partito cristiano francese di sfruttare il caso Dreyfuss per conquistare un ruolo di governo nello schieramento reazionario e antisemita. In questo caso, come sappiamo, il progetto di Leone XIII incontrò una bruciante sconfitta. Prima però ebbe modo di lasciare una eredità gravida di calamità per gli ebrei europei, alla luce degli eventi futuri. Il 25 e 26 novembre 1896, nel periodo infuocato dell’affaire Dreyfus, si tenne a Lione il primo congresso nazionale di questo partito voluto da Leone XIII, la Democrazia cristiana, articolato in tre sessioni, la prima antimassonica, la seconda antisemita e la terza sociale. Ebbene questo congresso, benedetto in apertura con una missiva dal Papa, elaborò la prima proposta in Europa di una legislazione antisemita, debitamente articolata e dettagliata, che avrebbe rappresentato il modello per le leggi di Norimberga del nazismo del 1935. Il terzo caso è quello della credenza cattolica nell’omicidio rituale da parte degli ebrei: si riteneva che gli ebrei in occasione della loro Pasqua uccidessero un bambino cristiano per prelevargli del sangue con cui condire il pane azimo rituale. Ebbene, verso la fine del 1899, dopo un ventennio di accuse processi e tumulti in diversi Paesi d’Europa, un gruppo influente di cattolici inglesi, tra cui Lord Russell e lo stesso cardinale di Westminster, presentarono a Leone XIII un’istanza perché questa credenza, ritenuta del tutto infondata, venisse condannata dalla Santa Sede. Il Sant’Uffizio, investito della questione, il 25 luglio 1900 statuiva che la dichiarazione richiesta non poteva essere data, cui seguiva l’approvazione il 27 di Leone XIII: nella sostanza il Papa rigettava l’istanza dei cattolici inglesi con la sottintesa motivazione, «perché gli omicidi rituali che si vorrebbero negare sono invece realmente accaduti», peraltro esplicitata in un manoscritto che accompagnava la risoluzione. Il tema, anzi, divenne ricorrente nella campagna denigratoria nei confronti degli ebrei de «La Civiltà cattolica», tema ripreso come è noto dalla campagna dei nazisti e del fascismo di Salò per sostenere la necessità della Shoah. Dunque, paradossalmente, l’antisemitismo ridiventava un cardine della politica e del magistero della Chiesa, proprio quando la stessa in qualche modo «si apriva» alla modernità, superava il puro e semplice atteggiamento di rifiuto, scendeva sul terreno della nuova società per combattere una battaglia campale per la riaffermazione del primato della cristianità sulla modernità stessa, contro le ideologie scristianizzanti, dal razionalismo al liberalismo, al socialismo. Ed era su questo terreno che la Chiesa riscopriva negli ebrei uno degli ostacoli maggiori al compimento della sua missione. Del resto l’antisemitismo era un pilastro fondamentale del pensiero reazionario di fine Ottocento: il rifiuto del liberalismo, della laicità dello Stato, dei principi dell’Ottantanove, del socialismo si associava all’individuazione degli ebrei come principali ispiratori di questi movimenti ed ideologie, ebrei per di più emancipati dal ghetto proprio grazie alla Rivoluzione francese, in grado così di dispiegare finalmente tutta la loro «nefasta» volontà di rivalsa nei confronti della civiltà cristiana. Fino a qui la coerenza del pensiero e dell’azione di Leone XIII può apparire persino scontata. Ciò che può sorprendere è il lato sociale, presente nella Rerum Novarum. Ma anche questo è un dato in verità ricorrente nel pensiero politico reazionario tra Ottocento e Novecento. Lo si è visto per i cristiano sociali austriaci; lo si vedrà con il fascismo italiano, nel programma del 1919 ripreso poi con la Carta di Verona della Repubblica sociale; lo si vedrà nel movimento politico costruito da Hitler, non incidentalmente chiamato Partito nazionalsocialista dei lavoratori, con la bandiera su fondo rosso, colore intenzionalmente mutuato dai vessilli del movimento operaio e socialista. Almeno nei programmi, il pensiero reazionario e antimoderno spesso adottò accenti anticapitalisti, essendo anche il capitalismo in certo modo filiazione del liberalismo, e si cimentò sul piano sociale proprio con l’obiettivo di sottrarre le masse operaie all’influenza del socialismo, divenuto ormai più pericoloso e temibile dello stesso liberalismo. Dunque antisemitismo e Rerum Novarum non solo non confliggevano, ma facevano parte di una visione coerente che Leone XIII aveva sistematizzato in una strategia di lungo periodo di scardinamento delle ideologie della modernità. Del resto, occorre ricordarlo, i pontefici che seguirono nel corso della prima metà del secolo scorso, Pio X, Benedetto XV, Pio XI e Pio XII, si mossero sostanzialmente all’interno del solco teologico, ideologico e politico tracciato in profondità dal papato leonino. Si dovranno attendere papa Giovanni XXIII ed il concilio Vaticano II, agli inizi degli anni Sessanta, perché la Chiesa cattolica uscisse da quel solco profondo ed angusto, riconoscesse «i segni dei tempi» e aprisse un dialogo vero con le culture laiche della modernità, con le confessioni non cattoliche e con le religioni non cristiane, quindi anche con l’ebraismo. Infine, Se poi qualcuno vuole conoscere più a fondo la figura di Leone XIII consiglio la piacevolissima lettura del folgorante romanzo-inchiesta di Émile Zola, Roma, Paris 1896, ed. it. Bordeaux, Roma 2014. CONCLUSIONI In conclusione, Robert Francis Prevost tutto quanto detto sopra a proposito di Leone XIII e degli altri Papi Leone lo conosce bene, essendo un plurilaureato e un profondo studioso della Chiesa. E la scelta di Leone ha ragioni profonde che non hanno nulla a che vedere con la presunta “sensibilità sociale” e quindi con la continuità con Papa Francesco. E la novità va ben oltre il pur simbolico ripristino dei paramenti e della Croce che rappresentano il potere papale. Programmaticamente vorrebbe essere un papato forte, autorevole nella Chiesa, fermo nell’affermare e conservare l’ortodossia, ma anche influente sulle sorti del mondo ricostruendo il primato della Chiesa cattolica, come furono i Leone che lo hanno preceduto. Chissà, forse per la Chiesa si tratta di una scelta lungimirante come fu quella di Giovanni Paolo II, per l’esito della crisi del bipolarismo (Paolo Mieli è a questo papa che lo paragona, non a Francesco). In questo caso potrebbe essere un tentativo della Chiesa di salvare l’Occidente in crisi, in particolare il paese guida, gli Usa, dilaniato da contrasti interni autodistruttivi. È l’ipotesi di Cosimo Risi, già diplomatico e Ambasciatore d’Italia in Svizzera, ora insegnante di Diritto Internazionale all’Università di Salerno. E il richiamo nei primi discorsi alla potente tecnologia digitale dei nostri tempi, in particolare all’intelligenza artificiale, che nella versione transumanista dovrebbe generare una sorta di nuova specie umana liberata dai limiti della propria condizione, potrebbe far intendere il senso della scelta del nome, ovvero la volontà di riaffermare i valori eterni del messaggio di Cristo anche su questo terreno particolarmente insidioso, in cui gli umani potrebbero immaginarsi onnipotenti e non più bisognosi del conforto della religione: insomma, si tratterebbe di cristianizzare oggi l’intelligenza artificiale, come ai tempi di Leone XIII la macchina a vapore. Staremo a vedere. Una cosa è certa: assisteremo a un cambiamento importante rispetto a Papa Francesco.   > Il nuovo Papa: perché chiamarsi Leone? Redazione Italia