Sadagari / Sporcarsi le mani con il mondo
Diritto al malessere è l’opera d’esordio di Sasha De Maria, in arte Sadagari,
grafico, illustratore e attivista. Si tratta di un lavoro molto denso, a metà
strada tra la graphic novel e il saggio autobiografico, contraddistinto da un
uso ossessivo, quasi barocco, dell’estetica ASCII e 8 bit. Le ampie tavole che
danno forma al libro, spesso riempite all’inverosimile, si susseguono tra loro
in una sorta di clonazione soft dell’estetica noise, accompagnate da slogan,
ricordi personali e riflessioni critiche. Ne risulta un testo in bianco e nero
piuttosto voluminoso, dai toni tanto cupi quanto disperati, che rompe con la
tradizione del testo illustrato per seguire un’originale ibridazione tra grafica
e quella che è stata denominata “theory” (una versione minoritaria e ribelle
della teoria critica accademica, sviluppatasi sulle riviste, prima cartacee poi
online, tra la fine degli anni Novanta e i primi vent’anni del Duemila).
Come si può evincere dal titolo, il filo conduttore del libro è il diritto a
esperire fino in fondo il proprio malessere psicofisico, a divenirne
autocoscienti e a manifestarlo apertamente. Diritto negato dal sistema
capitalista poiché non compatibile con l’attuale paradigma produttivo, fondato
sulla competizione e sul miglioramento di sé.
Questo il tema portante dell’opera, che prende le mosse dalla neurodivergenza
per approdare alla sofferenza psichica in generale, in quanto prodotto dello
sfruttamento sistemico. In breve, si tratta di una sorta di
ricontestualizzazione delle considerazioni intimiste e delle bordate teoriche
canonizzate da Mark Fisher – non a caso padre putativo della theory.
Fin qui, Diritto al malessere rappresenta indubbiamente una novità dal punto di
vista formale: una modalità espressiva che, per l’appunto, pesca a piene mani
dall’attività di grafico del suo autore – anziché dal fumetto classico o dai
libri illustrati; ma anche un dispositivo narratologico che prende spunto dal
web. Si potrebbe dire che l’idea stessa di concepire il medium-libro alla
stregua di una riproduzione tattile di un sito, incarni i limiti una generazione
che non conosce altro che internet, che non abita altro che il nomadismo
digitale e l’impermanenza, ma che desidera anche fissare in qualche modo questa
stessa esistenza rizomatica ed effimera. Serve tempo per consumare e
metabolizzare l’opera di Sadagari – e non poco. Questo tipo di testo, ancor più
del romanzo o del saggio classici, sembra richiedere una particolare dose di
attenzione, non essendo fondato su un solo meccanismo ma su una sovrapposizione
di strategie narrative, toni e registri anche molto diversi tra loro.
Dal punto di vista contenutistico, per quanto appassionata e radicale, l’opera
dà mostra di tutti i limiti che (in modo piuttosto stereotipato) si possono
attribuire alla giovane età dell’autore. Mi riservo questa considerazione dal
retrogusto ageista in virtù del tempo trascorso assieme al mio, di malessere. La
radicalità del testo, infatti, non ha mancato di riportarmi alla mente il mio
stesso desiderio di “universalizzazione” (nel mio caso si è trattato addirittura
di una “assolutizzazione”) della sofferenza. Negare ogni possibilità di sintesi
dialettica tra sé stessi e il mondo è una strategia fallimentare nel momento
stesso in cui rifiuta di confrontarsi non solo con il reale ma con quella stessa
istanza che, all’altro capo della barricata, non manca mai di riconoscere il
proprio autoproclamato nemico. Se, da un lato, infatti, non vi è istante in cui
non siamo consapevoli di essere malati, dall’altro, siamo anche profondamente
ripugnati dal dover trafficare con ciò che ci circonda. Un’etica e, forse,
un’estetica della purezza che offre più problemi che soluzioni. Lo stesso
autore, d’altro canto, attraverso la sua professione e la sua produzione
artistica, è testimone della possibilità di una sintesi concreta tra
autenticità, lotta e sofferenza.
Non intendo scendere troppo nei particolari, ma mi pare che il libro – come
molti altri testi recenti – vada incontro a una banalizzazione e, peggio ancora,
a una riduzione a slogan dei temi trattati. La costruzione di un codice che non
è più a misura di individuo ma che, al contrario, assoggetta gli individui a
concetti e parole d’ordine. L’effetto è che molte delle idee espresse nel libro
appaiono confuse e, a volte, contraddittorie, là dove la lucidità di visione è
l’elemento più rilevante anche all’interno di una filosofia o critica del
malessere.
Un esempio pratico. Ciò è particolarmente vero nel caso dei disturbi
psichiatrici che confinano con la sfera antisociale e che, negli ultimi anni,
sono divenuti oggetto di una vera e propria persecuzione da parte delle
attiviste e degli attivisti digitali. Sto parlando, ovviamente, del disturbo
borderline, del disturbo antisociale e del disturbo narcisistico. Come si
configura questo asse “perverso” del malessere, rispetto alla proposta di
Sadagari? Il diritto al malessere consentirebbe di rimuovere lo stigma sui
disturbi del gruppo B, promuovendone l’espressione e la presa in carico
collettiva. D’altra parte, tuttavia, senza un adeguato processo terapeutico
(D.B.T. e Schema Therapy) non è neppure remotamente possibile approdare a un
superamento del conflitto autodistruttivo al quale tali disturbi danno luogo.
Detto questo, trovo perfettamente comprensibile che le nuove generazioni siano
in cerca di una via di fuga – tanto concreta quanto immaginaria – o di forme di
vita sottrattive (come nel caso degli hikikomori), anziché di nuove strategie di
conflitto. Si tratta, in fondo, di un lascito inscritto nel fallimento
dell’attivismo stesso dinanzi ai nuovi media digitali, nonché all’egemonia del
mediattivismo promosso da agenti economici quali case editrici e influencer. Da
questo punto di vista, Diritto al malessere incarna, forse, il primo vagito di
un nuovo modo di pensare e rappresentare il pensiero su carta, nonché il primo
passo verso un percorso artistico e personale che ci si augura possa guadagnare
in organicità e affilatezza senza perdere in radicalità.
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