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Bukavu: dalla parte del popolo
Stella Yanda è una donna congolese che vive a Bukavu e ha dedicato tutta la sua vita al lavoro sociale, partecipando alla nascita della Società civile, di cui è ancora oggi un punto di riferimento. Le abbiamo rivolto alcune domande. Quali sono stati i suoi primi passi nel lavoro sociale? Nel febbraio del 1981, sono entrata a far parte di ” Solidarité paysanne” (Solidarietà contadina), la prima organizzazione laica, almeno nel Kivu, come si chiamava la nostra provincia prima di essere divisa in due, Nord-Kivu e Sud-Kivu. La nostra preoccupazione era che la popolazione agricola, che costituiva oltre l’80% della popolazione totale, non venisse presa in considerazione nelle principali decisioni politiche del Paese, soprattutto quelle riguardanti i settori dell’agricoltura e dello sviluppo. “Cosa state facendo?”, chiedevamo. “Niente”, rispondevano i contadini, anche se erano loro che davano da mangiare a tutti con i frutti del loro lavoro e pagavano le tasse e imposte. Abbiamo iniziato a sensibilizzarli affinché prendessero coscienza del loro importante ruolo e della necessità di organizzarsi per essere forti e rivendicare un posto nei principali processi decisionali del Paese. Eravamo nel pieno della dittatura di Mobutu, durante la Guerra Fredda tra il blocco orientale e quello occidentale. Il regime e altre persone malintenzionate ci chiamavano comunisti e ci accusavano di lavorare per l’URSS. Alla fine, hanno capito che il nostro obiettivo era lavorare con la base, ma dovevamo anche sviluppare strategie utilizzando strutture o processi accettabili o tollerati. Così, abbiamo creato con i produttori della Piana della Ruzizi delle cooperative agricole, nelle quali si mescolavano uomini e donne. Quali erano i rapporti tra uomini e donne in queste cooperative? Nei nostri villaggi nella Piana, alle donne non era permesso di partecipare a riunioni con degli uomini o parlare in pubblico. Abbiamo sottolineato la partecipazione anche delle donne. Il primo passo è stato che le donne partecipassero alle riunioni, anche se non parlavano. Abbiamo istituito un “servizio femminile”, con due animatrici il cui ruolo specifico era quello di lavorare con le donne per sensibilizzarle e incoraggiarle a parlare di fronte agli uomini. Questo ci ha fatto capire che, oltre alle sfide generali dello sviluppo, le donne avevano i loro problemi, come il carico di lavoro, la questione delle talee di manioca, alimento base, e la necessità di andare a cercare acqua su lunghe distanze. Non saper leggere o scrivere rendeva loro difficile partecipare ai comitati delle iniziative messe in atto. Così, abbiamo iniziato a considerare progetti che affrontassero specificamente le sfide delle donne. La priorità era la questione dell’acqua potabile e della salute pubblica, e l’onere di prendersi cura dei malati. Dopo la creazione della Cooperativa agricola (Mkulima), della Cooperativa degli allevatori di bestiame (Butuzi) e della Cooperativa dei pescatori del lago Tanganica (Virigwe), abbiamo iniziato a sviluppare progetti per rendere più fruibile le sorgenti e acquedotti per avvicinare i punti di distribuzione dell’acqua alle case e ridurre così la duplicazione del lavoro per le donne. Ciò ha portato a una diminuzione delle malattie legate al consumo di acqua sporca. Con chi avete collaborato? Il governo, con i suoi servizi tecnici, aveva i tecnici di cui avevamo bisogno, ma non godeva quasi della fiducia della popolazione, perché molti rendevano la loro vita più difficile anziché facilitarla. Tuttavia, c’erano alcuni funzionari governativi con cui abbiamo potuto collaborare in ambiti puramente tecnici a livello della subregione e del territorio d’Uvira come veterinari, agronomi… Abbiamo beneficiato del supporto del governatore dell’epoca, il sig. Mwando Simba, che ci ha aiutato e incoraggiato molto. Quando venivamo a Bukavu, andavamo a parlare con padre Georges Defour dei Missionari d’Africa, direttore dell’ISDR (Istituto Superiore per lo Sviluppo Rurale). Era soddisfatto del nostro lavoro, ci dava consigli e indirizzava a noi degli studenti per tirocini. Quando non avevamo ancora i permessi di lavoro ufficiale, ha persino accettato che Solidarité Paysanne fosse considerata una branca rurale dell’ISDR. La strategia di avere alleati, di collaborare con le istituzioni, con persone che avevano sufficiente influenza, ha permesso di svolgere il nostro lavoro senza problemi. In quali circostanze è nata la società civile? Nella RDC, abbiamo iniziato a parlare di società civile in modo strutturato negli anni ’90, ma questo concetto è di vecchia data: comprende, ad esempio, tutto il lavoro svolto dal movimento sindacale per rivendicare i diritti dei lavoratori. Come Solidarité Paysanne, abbiamo esteso l’esperienza a tutto il Paese, attraverso il Sindacato di Alleanza Contadina, che riuniva i delegati delle cooperative agricole e altre iniziative di base in tutte le province. Pertanto, quando abbiamo avviato la dinamica di costituzione della Società Civile alla vigilia della Conferenza Nazionale Sovrana, c’erano già agganci in tutto il Paese. Nel Sud-Kivu, abbiamo scoperto che c’erano anche altre organizzazioni laiche, perché Solidarité Paysanne non era in grado di rispondere a tutte le esigenze della base. Ci siamo chiesti come lavorare in sinergia ed essere forti nei confronti dell’apparato statale. Così, nella Piana, è nato il CDR (Comitato di Sviluppo Rurale) di Uvira-Fizi, che ha riunito le Cooperative di pescatori del Lago Tanganika, gruppi di donne, cooperative di allevamento, cooperative di produzione agricola e iniziative di trasformazione. Successivamente, all’interno di Solidarité paysanne, vennero create UWAKI (Umoja wa wanawake wa Kivu), che riuniva organizzazioni dedicate alle questioni femminili, e FEDCOOP (Federazione delle Cooperative Contadine), che includeva tutte le altre organizzazioni. A livello generale, venne creata CRONG (Consiglio regionale delle ONG), che riuniva tutte queste organizzazioni a livello provinciale, e successivamente CNONG (Consiglio nazionale delle ONG) a livello nazionale. Durante la Conferenza Nazionale del 1991-92, dei delegati, ci sono stati dei delegati, donne e uomini agricoltori, che hanno partecipato, segnando una nuova dinamica che avrebbe consolidato e promosso questi concetti di Società Civile, come insieme di organizzazioni non governative e associative, prive di connotazioni statali, di polizia, militari o tribali-etniche. È nata così la Società civile, nella sua forma attuale, nella RD Congo. Quali erano i vostri rapporti con gli altri paesi della regione dei Grandi Laghi? Allo stesso tempo, esistevano anche approcci regionali, poiché avevamo gli stessi partner internazionali, come la Cooperazione Belga. Ad esempio, quando si sviluppava una struttura in Ruanda, la proponevano anche alle organizzazioni congolesi e burundesi. Abbiamo svolto un lavoro congiunto, che ha avuto un impatto significativo sul lobbying. I nostri amici del Nord Kivu, Beni e Butembo avevano anche avviato contatti con organizzazioni in Uganda. Abbiamo inviato degli animatori in Tanzania per imparare com’erano strutturate le cooperative e quali erano le loro tecniche di produzione di sementi. Qual era il ruolo e il posto delle chiese? Quando abbiamo strutturato la Società Civile, avevamo previsto dieci componenti, tra cui le confessioni religiose. Sebbene la Chiesa cattolica abbia svolto e continui a svolgere un ruolo importante nella strutturazione della Società Civile, è una sottocomponente di questa componente. Le chiese hanno sempre collaborato per delegare un rappresentante all’Ufficio di Coordinamento e un membro alla guida del Consiglio Etico. Va notato che le chiese hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo fondamentale in momenti cruciali della storia del nostro Paese. Ad esempio, possiamo citare l’organizzazione del Simposio Internazionale per la Pace a Butembo, che ha mobilitato numerose persone provenienti dall’ex provincia del Kivu, da paesi limitrofi come Burundi, Uganda e Kenya, nonché dall’Europa (Svezia, Italia, Francia, Belgio, ecc.). C’è anche il dialogo organizzato a Kinshasa, comunemente noto come dialogo della CENCO, che aveva riunito diversi attori politici quando l’ex presidente Joseph Kabila voleva proporsi per un terzo mandato, sebbene la Costituzione della RD Congo limiti i mandati presidenziali a due. Anche oggi, le chiese nella RD Congo si mobilitano da diversi mesi per riunire gli attori politici e porre fine al conflitto armato che continua a affliggere la popolazione della parte orientale del Paese. Il ruolo delle chiese rimane molto significativo. Tuttavia, è legato al dinamismo e all’impegno dei capi delle confessioni religiose. Cosa serve per essere un vero attore sociale? Quando abbiamo strutturato la Società Civile, abbiamo previsto dieci componenti, tra cui le confessioni religiose. Sebbene la Chiesa Cattolica abbia svolto e continui a svolgere un ruolo importante nella strutturazione della Società Civile, ne è un sottocomponente. Le chiese hanno sempre collaborato per delegare un rappresentante all’Ufficio di Coordinamento e un membro a presiedere il Consiglio Etico. Cosa serve per essere un vero operatore sociale? La cosa fondamentale è amare ciò che si fa, crederci e impegnarsi a farlo, e a farlo con gli altri… Altrimenti, rimaniamo artificiali e non giungiamo a conclusioni. Nel nostro gergo, parliamo di attori-soggetti e attori-oggetti. Un attore-soggetto si impegna, crede in ciò che fa e cerca anche di convincere gli altri a unirsi a lui. Spesso invece, gli attori-oggetti si rivolgono al lavoro sociale perché non hanno lavoro altrove e sono in cerca di uno stipendio. Sono sempre puntuali all’inizio del lavoro, alle 16:05 hanno già la borsa pronta e iniziano a guardare l’orologio per andarsene precisi alle 16. Quando c’è un’emergenza fuori programma, gli attori-soggetti vi si precipitano, gli attori-oggetti sono a disagio. Alcuni, impegnati nella città, si rifiutano di andare nei villaggi della campagna, eppure il nostro lavoro richiede sacrificio, con l’obiettivo di dare il nostro contributo, per quanto piccolo, per le persone che soffrono e hanno bisogno di aiuto. Pressenza IPA
A Goma e Bukavu occupate
Mathilde Muhindo Mwamini, rappresentante di lunga data della Società civile a Bukavu, nel Sud- Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo, dà qui uno spaccato della situazione prevalente nel Nord-Kivu e nel Sud-Kivu, occupati dalle forze dell’M23/AFC sostenute dal Ruanda. I colloqui tra il governo congolese e l’M23in corso a Doha lasciano la popolazione scettica: riusciranno a riportare la pace? Goma, regno dell’arbitrio Nel giugno 2025, sono andata in battello da Bukavu a Goma per partecipare al matrimonio civile di mio nipote e rivedere alcuni membri della mia famiglia. Ogni volta che contemplo questo meraviglioso lago, con tante piccole isole verdeggianti, le sue coste punteggiate di villaggi, mi ritrovo nel racconto della creazione e dico: «Signore, come ci hai benedetti!». Poche ore dopo, sono arrivata nella città di Goma, dove la gente muore nel silenzio. Una mia parente, madre di famiglia, commerciante, aveva un figlio ventenne, laureato, che l’aiutava. Un giorno dello scorso maggio, verso le 16,00, lei gli aveva detto di precederla a casa. Tornata a casa, non vi aveva trovato suo figlio. Da un mese non fanno altro che cercarlo e dare soldi. Sembra che sia in un container per sospetti criminali, dove non hanno nulla da mangiare e stanno morendo lentamente. Due settimane fa, tutti i detenuti nelle prigioni segrete di Goma sono stati rilasciati, ma suo figlio non è ancora tornato. Come consolare questa madre? Nove anni fa, il figlio maggiore di un’altra donna della mia famiglia, un uomo intraprendente, si era costruito una casa e lavorava nel suo negozio. Della gente è venuta a chiedergli soldi, lui glieli ha dati, ma non sono stati soddisfatti. Lo hanno seguito a casa, lui gli ha dato quello che aveva e loro gli hanno sparato a bruciapelo davanti alla porta; ha lasciato una vedova e quattro figli. Venerdì 16 maggio scorso, verso sera, è stato il turno di suo fratello, padre di sette figli. Possedeva un’officina meccanica e, prima di tornare a casa, ha voluto comprare pane e zucchero per la sua famiglia. Si è fermato a salutare il farmacista della porta accanto, suo padrone di casa, poi è entrato dalla porta seguente, in un negozio di alimentari. Degli uomini armati sono entrati nel negozio e hanno detto al negoziante: «Dacci dei soldi!». «Di questi tempi non vendiamo molto…», ha risposto l’uomo. «Dacci i soldi!». Ha dato quello che aveva. «Tutto qui?». Presi i soldi, hanno sparato a bruciapelo al cliente, poi al venditore, quindi al farmacista e a un ragazzo di 16 anni: tutti uccisi senza motivo! Sua madre ha passato tre settimane in ospedale per insufficienza cardiaca. Mentre eravamo nella gioia di ritrovarci come familiari, qualcuno ha chiamato mia cugina al telefono: «Vieni subito, qualcuno ha appena ucciso la tua vicina». Erano le 16 e 30. Il giorno dopo, al matrimonio, mi a cugina ci ha spiegato che due giovani erano arrivati in moto a casa della vicina, le avevano sparato e se n’erano andati. Che situazione! Bukavu non sa più contare i suoi morti I venditori ambulanti di verdura passano davanti a casa mia a Bukavu la mattina presto, e ci salutiamo: «Come va dalle vostre parti?» ho chiesto loro. «Le cose non vanno bene – hanno risposto -. Non hai sentito cos’è successo da noi a Kamisimbi (villaggio a una ventina di chilometri da Bukavu, ndt)? Ci sono stati scontri tra gli Wazalendo (forze partigiane) e l’M23… L’M23 ha trovato un anziano del villaggio e lo ha chiamato. Si è avvicinato, gli hanno sparato ed è morto sul colpo. È iniziata la carneficina. I centri sanitari di Muku e Camasiga sono stati saccheggiati, così come la parrocchia protestante di Muku. L’M23 è entrato nelle case, uccidendo persone. Ho perso vicini, persone del mio villaggio. Mi sono trasferito per essere più vicino alla città». La Società civile ha dato il bilancio completo: più di 50 persone uccise in seguito a questi scontri nella zona di Kamisimbi. La vita sta diventando difficile. Qualche giorno fa, nella nostra comunità di base, la shirika, una donna ha chiesto preghiere per il suocero, ucciso insieme ai suoi due cognati. Stavano aspettando un momento di tregua per dar loro sepoltura. A Nyangezi e Kaniola, nella stessa settimana, si sono verificati scontri e vittime civili. Come movimenti femminili, siamo preoccupati per questa situazione e stiamo cercando modi per aiutare questa popolazione devastata e indirizzare gli aiuti verso l’assistenza psicologica per le comunità colpite, in particolare donne e bambini. Un accordo di pace dubbio Nell’accordo di pace tra la Repubblica Democratica del Congo e il Ruanda, firmato a Washington il 27 giugno 2025, è come se tutti gli appelli della società civile fossero stati ignorati. L’attenzione è rivolta alle FDLR, il piccolo gruppo armato di opposizione ruandese che sarebbe presente in Congo, mentre i soldati ruandesi sono presenti nel Congo orientale da trent’anni senza mai davvero attaccarli. La parola “giustizia” non compare nel testo: gli assassini sono stati scagionati! Eppure il nostro Ministro degli Esteri ha parlato di cicatrici che rimangono sul popolo congolese, senza giustizia né riparazione. La pace è ancora uno slogan per la popolazione che vive nell’est della RD Congo. Gli scontri tra i ribelli dell’M23 e gli Wazalendo/FARDC (esercito regolare congolese) continuano nei villaggi intorno alla città di Bukavu. E tutti questi rifugiati che dovrebbero arrivare dal Ruanda al Congo, da dove vengono? Se solo avessero almeno parlato dei rifugiati congolesi che si trovano in Uganda, a Bujumbura… I nostri vicini stanno cercando di occupare spazi nel nostro paese, ma non dovrebbero inventarsi l’idea che ci siano rifugiati congolesi in Ruanda. Siamo ancora in guerra, nulla è cambiato. Non sappiamo a chi presentare le nostre difficoltà. Siamo abbandonati nelle mani dei ribelli. È la balkanizzazione che sta prendendo piede? Che fare? Una lunga storia Mi sono ricordata che nel 1996, quando iniziarono le guerre a ripetizione, con l’arrivo dell’AFDL, la gente comune, persino i bambini di Bukavu, dicevano: «Sono gli americani che ci stanno facendo la guerra». Il regime ruandese funge da interfaccia; ha creato un mercato per le materie prime provenienti dalle nostre due province del Nord e del Sud-Kivu. Hanno rifornito compagnie minerarie provenienti da Europa e Stati Uniti… All’inizio c’erano ancora esperti di ONG internazionali per i diritti umani; persone, per lo più diplomatici, che venivano a informarsi su cosa stesse succedendo ad Est, ma si ha l’impressione che lo abbiano fatto per riaggiustare le loro strategie. Il tempo passava, e noi continuavamo a sperare. E finalmente, vediamo che hanno messo tutto sul tavolo: «Per noi – dicono apertamente – sono i nostri interessi economici che hanno la precedenza, le materie prime, gli affari: questa è la nostra priorità». Bisognava attendere dieci milioni di Congolesi morti; bisognava sottometterci a questo livello per accedere a questi minerali. «Lo faremo correttamente, firmeremo dei contratti», dicono. Ma ignorano la vita della popolazione e tutto ciò che sopporta. È un’ingiustizia! Con tutto ciò che è stato affermato nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, guardando a ciò che sta accadendo, non solo qui, ma a Gaza, in Ucraina…, ci chiediamo: dov’è finita la sensibilità per la dignità della persona umana, il rispetto dei diritti umani? Abbiamo rovesciato i valori: mettiamo gli interessi economici al primo posto e le persone in secondo piano, addirittura le ignoriamo. Il mondo è malato. Forse un giorno, il vapore solleverà il coperchio. Siamo miliardi sulla Terra: cercare lo sviluppo è giusto, ma per gli esseri umani, non contro di loro! Grazie!   Pressenza IPA
Rep. Democratica Congo: “Noi donne siamo morte pur respirando”.
Non dimenticateli! Pressenza pubblica questa testimonianza di una suora missionaria di Bukavu, nella Rep. Democratica del Congo. La regione è ancora in preda a un caos devastante e la gente fa sempre più fatica a sopravvivere. L’ho incontrata il 9 giugno 2025, fuori da una sala riunioni. Aveva riempito una scatola di bottiglie di plastica vuote. Le chiedo cosa ne farà e qual è la situazione delle donne a Bukavu in questo periodo di occupazione. Accetta prontamente di parlare. “Sono madre di quattro figli che mando a scuola. Raccolgo queste bottiglie di plastica vuote; dopo averle lavate, le riempio di acqua o di succo di frutta fatto con la polvere che compro. Le metto nel congelatore e poi le vendo per 200 FC (meno di 10 centesimi di euro). Ma mentre in passato una madre che mandava il figlio al mercato gli dava degli spiccioli per comprare i miei succhi, ora non è più così e per i bambini è difficile comprare. Da quando è iniziata la guerra con l’M23 (Movimento 23 marzo, un gruppo paramilitare ribelle, N.d.T.), a Bukavu la vita è diventata molto difficile. Tante persone hanno perso il lavoro e molti di noi non commerciano più a causa del saccheggio sistematico dei magazzini dove tenevamo le nostre merci. Coloro che sono venuti a portarci la guerra hanno saccheggiato a modo loro; anche alcuni abitanti del luogo, vedendo che i soldati erano fuggiti e la polizia se n’era andata, hanno derubato i loro concittadini. Inoltre alcuni evasi di prigione hanno fatto saccheggi. A causa della guerra, non possiamo più muoverci per raggiungere i mercati circostanti. Chi cerca ancora di rifornirsi al mercato di Mudaka deve pagare delle tasse per strada. Ad esempio, se hai 30.000 franchi (equivalenti a 10 dollari) per acquistare merci, ti viene chiesto di pagare 20.000 franchi di tasse. Ti tengono in ostaggio. Si cominciano a registrare stupri persino nel centro della città, anche se alcuni genitori cercano di nascondere il crimine per non far perdere l’onore alla propria figlia. È difficile pagare la scuola dei miei figli a causa della mancanza di denaro. Cercano di andare a scuola, ma spesso vengono cacciati. Il loro padre era un dipendente pubblico ma, come tanti altri, ora è disoccupato. Noi donne siamo morte, anche se respiriamo ancora. Private del poco che avevamo, siamo state lasciate a soffrire e non siamo più in grado di sostenere le nostre famiglie, anche se eravamo il pilastro della casa. Non sappiamo più cosa fare. Dormiamo e non sappiamo se ci alzeremo. Non mangiamo, non ci vestiamo, non viaggiamo, non viviamo, moriamo! Siamo vittime di accordi che non conosciamo nemmeno. Vorrei dire al nostro governo nazionale di aiutarci innanzitutto a portare la pace qui nella parte orientale del Paese, coinvolgendoci a tutti i livelli, perché ci sono innumerevoli omicidi. Con la pace, tutto diventerebbe più facile; senza pace, nulla è possibile. All’M23 vorrei dire: chi viene a liberare qualcuno non lo uccide! Il liberatore cerca la pace per il popolo. Gesù ha dato la sua vita, ci ha liberati. Voi siete assassini, saccheggiatori, riscattatori. Andate a dire a chi vi ha mandato di lasciarci in pace. Alla comunità internazionale ripeto le parole di Papa Francesco: “Giù le mani dall’Africa”. Siete il nemico numero 1 della Rep. Dem. Congo: non siete qui per il nostro bene, ma per rubare i nostri minerali. Siete voi a sostenere l’M23. Vi presentate come ricchi, ma i ricchi siamo noi congolesi. Ci ingannate dicendo che ci state aiutando, ma siete dei criminali in cravatta. Non vi interessa la vita del popolo congolese, ma il sottosuolo del Paese. Lasciateci in pace: state a casa vostra e lasciateci stare qui. Dio ci ha dato la nostra ricchezza: se la volete, venite a chiederla in modo normale. Io me ne vado con le mie bottiglie, domani le venderò per pochi spiccioli… e la vita continua”. Traduzione dal francese di Thomas Schmid. Rédaction Rep. Dem. Congo
Bukavu oggi, una città occupata
Intervista di Teresina Caffi a Raphael Wakenge. Al fondo una precisazione da parte dell’intervistatrice. Lo scorso 16 febbraio, il movimento M23/AFC, sostenuto da numerosi militari ruandesi, è entrato senza una vera opposizione nella città di Bukavu, nel Sud-Kivu, Repubblica Democratica del Congo. Qual è la situazione della città a circa tre mesi da questo evento? Lo abbiamo chiesto a Raphael Wakenge, decano della Società civile della Provincia, coordinatore dell’Iniziativa congolese per la giustizia e la pace (Icjp, e-mail: icjp2014.rdc@gmail.com) e coordinatore nazionale della Coalizione congolese per la giustizia di transizione, che vive a Bukavu. Qual è la situazione attuale della sicurezza nella città di Bukavu? Rimane preoccupante. Ricordiamo che dall’entrata dell’M23, all’inizio di febbraio 2015, la provincia del Sud Kivu è divisa: la parte meridionale è governata dalle autorità provinciali, il resto da un governo de facto stabilito dall’M23 nella zona che controlla. In quest’ultima parte, la vita umana è profanata; ogni giorno si raccolgono cadaveri, si registrano rapimenti di uomini e donne: a volte vengono ritrovati vivi, ma la maggior parte morti. Oppure scompaiono. Quali sono le sfide quotidiane che la popolazione di Bukavu affronta? Nel Sud Kivu in generale e a Bukavu in particolare, c’è incertezza: nessuno sa cosa può succedere e ognuno si chiede quando finirà il calvario che sta attraversando. La gente fatica ad accedere anche ai mezzi di sostentamento: avere l’acqua, l’elettricità è un problema, del cibo non ne parliamo. Poiché le persone non possono accedere alle banche, al microcredito, alla loro retribuzione, è difficile sopravvivere. Alcune istituzioni non funzionano più: non si può arrivare facilmente al proprio posto di lavoro. È difficile raggiungere i territori che producono per la città o trasportare i prodotti agricoli a causa della mancanza di manutenzione delle strade e delle infrastrutture stradali nonché dei posto di blocco a pagamento installate dalle milizie filogovernative Wazalendo o dall’M23. Sui prodotti provenienti dalla città di Goma, l’M23 impone una doppia tassazione. Tutto ciò fa aumentare il costo della vita e accresce l’impoverimento della popolazione di Bukavu. Queste tasse vanno a beneficio della popolazione? Secondo le informazioni che abbiamo, non si sa dove finiscano e i vantaggi per la popolazione non si vedono. Così è netta l’impressione che gli abitanti continuino a non avere fiducia nei nuovi padroni della città. Le rapine e i saccheggi continuano? Vengono segnalati regolarmente casi di furti e saccheggi. L’identità degli autori non è ancora ben definita: M23, o persone che si nascondono sotto l’identità dell’M23, persone che si presume fossero nelle carceri, delinquenti di lungo corso, elementi della polizia e dell’esercito incontrollati che non hanno seguito gli altri nella loro fuga… Il monitoraggio dei casi continua. Quando sarà il momento, gli attori della società civile cercheranno di scoprire chi ha realmente commesso tali atti; allora avremo bisogno di giurisdizioni competenti. Il furto e il saccheggio di beni dello Stato è particolarmente preoccupante. E si verifica apertamente. Cosa pensare della moltiplicazione dei fatti di «giustizia popolare»? In una situazione normale, di fronte a un crimine o a un reato, ci sono istituzioni competenti a intervenire, in particolare la polizia, la giustizia, cioè i tribunali. Purtroppo, dopo l’occupazione, questi organi non esistono più a Bukavu, e non ci sono più carceri, né commissariati di polizia. Tutte queste assenze portano una parte della popolazione a commettere azioni di giustizia popolare. Nella provincia del Sud Kivu, esisteva già, accanto al codice penale, un editto provinciale per arginare la giustizia popolare. Tutti questi progressi sono caduti in disuso a seguito dell’incursione armata dell’M23. Finché non ci saranno istituzioni, finché saremo in questa situazione, si susseguiranno i casi di giustizia popolare. Bisogna davvero che si finisca il prima possibile, che si metta al primo posto l’interesse superiore della popolazione. Anche l’educazione dei bambini e dei ragazzi rischia di essere disturbata: l’infanzia sembra abituarsi a vedere persone uccise e presunti colpevoli subire la giustizia della strada. Finendo per credere che sia normale. In che altro modo la gioventù è colpita dalla guerra? Già le Forze armate nazionali, i Wazalendo e altri erano alla ricerca di giovani da reclutare; i loro comunicati chiedevano alla popolazione di favlorire l’arruolamento. Adesso è la volta dell’M23, che probabilmente ha bisogno di nuovi miliziani, a sostituire prima o poi i militari ruandesi che torneranno a casa. Alcuni giovani sembrano pronti ad aderire, altri resistono. La comunità soffre perché non sa cosa dire ai giovani, data la situazione. Il quadro più appropriato, cito la società civile, è quasi inoperante per mancanza di diversi fattori. Così oggi la gioventù è senza punto di riferimento, senza guida, abbandonata: non ci sono persone che possano orientarla efficacemente per il futuro. C’è un processo di educazione da rifare. E dal punto di vista scolastico? Dall’arrivo dell’M23, alcune scuole sono rimaste chiuse. I dirigenti hanno preferito così, a causa dell’incertezza quotidiana, dei traumi, degli allarmi relativi a questo o quell’elemento armato. Diversi alunni sono partiti con i loro genitori verso altre città o all’estero. In questo periodo, molti slunni vengono espulsi dalla scuola perché i genitori non sono in grado di pagare i contributi richiesti, che servono a garantire gli stipendi degli insegnanti. Sebbene l’istruzione primaria pubblica sia stata dichiarata gratuita, oggi è difficile distinguere le scuole pubbliche dalle scuole private: sembra che tutto sia stato privatizzato, perché i genitori devono svolgere il ruolo che dovrebbe essere svolto dallo Stato, che è assente nelle zone sotto il controllo della ribellione. Così, il numero di alunni e studenti è diminuito, anche a livello delle università. Si possono quantificare le persone decedute o scomparse a seguito di questa guerra? È difficile allo stato attuale fare un bilancio dei morti, delle persone rapite, scomparse, sfollate. Ma la situazione rimane allarmante. Oggi, la maggior parte delle organizzazioni della società civile cerca di monitorare la situazione,ma non è poi possibile centralizzare i dati. Al momento opportuno, sarà importante che tutti questi attori che hanno potuto documentare i casi si riuniscano per fare il bilancio. Il sostegno della comunità internazionale sarà allora prezioso. La gente deve sapere che ci sono istituzioni a livello nazionale, regionale e internazionale le quali possono lavorare per garantire una vita degna. Qual è l’atteggiamento della popolazione di Bukavu? Ho visto gli abitanti di tre quartieri periferici uscire improvvisamente dalle loro case nel cuore della notte per scendere in strada e protestare contro le violazioni dei diritti umani commesse dall’M23. Penso che occorra gestire e orientare queste azioni, affinché non ci siano eccessi. Chi usa le armi deve capire che le armi non portano mai soluzioni durature. Sono meccanismi non violenti quelli che possono aiutare la popolazione a ritrovare la libertà e la sicurezza. Qualunque sia l’appartenenza religiosa, la fede sembra avere un forte peso nella mente delle persone… Io stesso sono cattolico e penso che la fede sia molto importante in questo processo. La Chiesa deve svolgere correttamente il suo ruolo. Ho seguito i discorsi di alcuni prelati cattolici, i messaggi di alcuni leader delle chiese protestanti, di alcuni imam della comunità musulmana, dei braminni: tutto dimostra che le chiese sono stanche di questa guerra. E’ stato proposto un patto per la riconciliazione, dai vescovi cattolici e dalle chiese protestanti: il processo va avanti, ma purtroppo alcune chiese non partecipano. Se alcune chiese hanno preso una buona iniziativa, è necessario che le altre vi si aggiungano, considerando più l’interesse generale che gli interessi particolari. Il processo avviato dalle chiese si incrocia con i negoziati internazionali: di Nairobi, di Luanda, di Doha, e adesso di Washington. Tutti questi non possono sostituire il processo di pace locale, necessario per trovare una soluzione sostenibile, nell’interesse delle generazioni future. Cosa può fare la comunità internazionale? È tempo che la comunità internazionale appoggi i processi di pace individuando con chiarezza gli interessi della popolazione. In effetti, si ha l’impressione che mentre le parti belligeranti lottano circa il contenuto degli accordi, non si vedano affatto gli interessi della popolazione, che non è consultata, e meno che mai le donne e i giovani. Abbiamo bisogno che si metta l’interesse della popolazione al di sopra di tutto, solo così i diritti umani, la pace, la sicurezza, la lotta contro l’impunità possono assumere centralità. Personalmente, quale via di pace vede? Nei vari processi iniziati negli ultimi tempi, c’è un aspetto molto importante che non era sempre stato preso in considerazione: quello economico. Ci stiamo rendendo conto che la maggior parte degli attori coinvolti nei negoziati ha anche interessi economici a livello della Repubblica democratica del Congo. Sono d’accordo con il processo che è stato recentemente avviato, perché bisogna che a un certo punto qualcuno dia una via da seguire. Questo stanno facendo gli Usa. Ma gli interessi degli USA non sono quelli dei cinesi; quelli dei cinesi non sono quelli degli abitanti del Qatar, o del Ruanda, o della Repubblica democratica del Congo. La questione della sovranità assoluta non esiste per me: bisogna che ad un certo punto le persone accettino di cedere una parte di se stesse, ma bisogna sapere come cederla, in modo da trovare soluzioni ai problemi che abbiamo Segnalo poi agli attori della comunità internazionale che la situazione in cui si trova la Repubblica democratica del Congo rimane preoccupante. I processi internazionali non possono trovare da soli soluzioni al problema congolese. Ci vuole una combinazione di meccanismi internazionali e locali per trovare risposte. E non si può sacrificare l’interesse generale all’interesse individuale: occorre un certo numero di consensi in modo da consentire la convivenza. Precisazione da parte dell’intervistatrice a proposito di quest’ultima risposta. Confesso che rimango perplessa di fronte a queste «aperture» del mio interlocutore. Vedo i pericoli di fidarsi di «potenti» come gli Stati Uniti e altri, che hanno dichiarato il loro interesse come principio della loro politica estera. Vedo l’ingiustizia di accettare di cedere una parte del proprio paese per far finire la guerra. Ma capisco che dietro queste aperture ci sono decenni di indagini sugli orrori delle guerre in Congo. C’è la delusione di fronte all’unica via giusta ma trascurata: sanzioni internazionali capaci di fermare gli aggressori. C’è la preoccupazione di salvare almeno la vita dei congolesi. Questo è ciò che molti di loro dicono ormai, disperati: «Venite, prendete tutto, ma lasciateci la vita».   Rédaction Rep. Dem. Congo