A Ustica, per rompere il silenzio sul passato coloniale italianoNel cuore del Mediterraneo, sull’isola di Ustica, là dove le onde hanno da
sempre portato storie di confino e resistenza, prenderà vita un’iniziativa
civile e simbolica di grande valore: una delegazione di attivisti, ricercatori,
studenti e rappresentanti di associazioni nazionali si recherà presso il
cosiddetto “Cimitero degli arabi” per rendere omaggio a un passato cancellato.
Questo luogo, nascosto tra le memorie dell’isola, ospita le tracce fisiche della
deportazione di oltre 10.000 oppositori libici che, tra il 1912 e il 1934,
furono reclusi sulle isole italiane, tra cui Favignana, le Tremiti, Ponza e
Ustica stessa, in condizioni disumane. Una repressione coloniale feroce, che
rimane largamente assente dal discorso pubblico, dalla memoria collettiva e dai
programmi scolastici.
A promuovere l’iniziativa, in collaborazione con il Centro Studi Ustica, è una
rete ampia e articolata della società civile: tra i promotori figurano Un Ponte
Per, Arci, Anpi, Cgil, la Rete Yekatit 12/19 Febbraio, il Movimento Italiani
senza cittadinanza, l’Unione degli Universitari e altre realtà impegnate sul
fronte dei diritti e della memoria.
L’evento si inserisce in un percorso più ampio che punta all’istituzione di una
Giornata nazionale della memoria per le vittime del colonialismo italiano, con
l’obiettivo di aprire un confronto pubblico e politico sulla necessità, ormai
non più rinviabile, di fare i conti con una parte rimossa della storia
nazionale.
Il momento centrale di questo evento sarà il 17 maggio, quando un corteo partirà
da piazza Municipio, con la partecipazione degli studenti del liceo locale, e si
dirigerà al cimitero degli arabi, dove verrà piantumato un ulivo e apposta una
targa commemorativa, con versi tratti dalle poesie dei deportati libici e dei
confinati antifascisti italiani.
Una vergogna nazionale, rimossa. Così possiamo definire la vicenda della
deportazione degli oppositori libici nelle isole minori italiane durante l’età
coloniale. Si tratta di una pagina che ha inciso profondamente sulla storia del
nostro Paese, anche se in modo sotterraneo, nascosto, negato. A raccontare
perché questa memoria sia rimasta ai margini della narrazione pubblica è Fabio
Alberti, fondatore e presidente onorario di Un Ponte Per, tra i promotori
dell’iniziativa a Ustica.
«L’Italia non ha mai davvero fatto i conti con la propria storia coloniale.
Altri Paesi europei, pur senza un’elaborazione piena, hanno almeno riconosciuto
quel passato – anche perché, forse, più ingombrante del nostro. La
consapevolezza della propria eredità coloniale, altrove, alimenta dibattiti che
incidono sulle politiche e sull’identità nazionale. In Italia, invece, tutto
questo è mancato.
> Le ragioni sono almeno due: da un lato, l’assenza di una vera fase di
> decolonizzazione, poiché le colonie italiane furono perse con la guerra e
> occupate dalle potenze vincitrici; dall’altro, la volontà di tenere unito il
> fronte repubblicano ha impedito uno sguardo critico sull’Italia prefascista,
> liberale e monarchica, che fu anche coloniale.
È come se la nuova Repubblica avesse fatto i conti con il fascismo, ma non con
ciò che lo ha preceduto: il Regno, la monarchia. Invece di affrontare
criticamente l’eredità dell’Italia prefascista – che si è cercata di riabilitare
evocando una presunta continuità virtuosa con l’epopea risorgimentale – si è
preferito costruire il mito consolatorio degli “italiani brava gente”, un modo
edulcorato per distinguere il colonialismo italiano da quello delle altre
potenze europee. Eppure, oggi sappiamo con chiarezza che l’impresa coloniale
italiana, per brutalità e violenza, non fu affatto un’eccezione».
L’iniziativa a Ustica non rappresenta soltanto un atto dovuto di riconoscimento
verso le vittime del colonialismo italiano. È, al tempo stesso, un gesto
politico denso di significato, capace di interpellare il presente. In un
contesto in cui cittadinanza, razzismo strutturale e memoria pubblica tornano a
occupare il centro del dibattito, il valore simbolico di radicare un ulivo e
deporre una targa in quel cimitero dimenticato assume una forza nuova, concreta,
urgente. Alberti lo riassume con lucidità, intrecciando memoria, resistenza e
visione del futuro in un unico filo narrativo.
«Questo progetto intende rendere omaggio e restituire dignità alle vittime del
colonialismo italiano, a partire da quelle sepolte sull’isola, che rappresentano
simbolicamente tutte le altre. Ma il suo significato va oltre. Si collega, ad
esempio, all’azione con cui, come associazione Un ponte per, riportammo alla
luce il film Il leone del deserto, rimasto censurato per 44 anni in Italia.
Un’opera che, per la prima volta, raccontava il colonialismo dal punto di vista
dei colonizzati, non come semplici vittime, ma come resistenti.
Ustica rappresenta uno dei luoghi meno noti, ma significativi, della repressione
della resistenza libica al colonialismo italiano. Un frammento di storia in cui,
simbolicamente, si sono incrociate due forme di opposizione: quella degli
anticolonialisti libici e quella degli antifascisti italiani, confinati sulla
stessa isola, se non necessariamente in contatto diretto, almeno in una
convivenza forzata nel tempo e nello spazio. Non a caso, sulla targa che verrà
posta nel cosiddetto “Cimitero degli arabi”, accanto a una poesia scritta
durante la prigionia da un deportato libico, compariranno anche i versi di un
antifascista italiano, anch’egli confinato a Ustica, dedicati proprio alla lotta
anticoloniale. Due resistenze che, seppure distinte, si sono sfiorate e che oggi
ci parlano ancora, richiamando l’urgenza di costruire alleanze tra chi si oppone
alla guerra del Nord del mondo e chi combatte le nuove forme di colonialismo nel
Sud del mondo».
> L’iniziativa di Ustica si colloca all’interno di un percorso più ampio che
> mira all’istituzione di una Giornata della memoria per le vittime del
> colonialismo italiano. Una proposta che sollecita le istituzioni a riconoscere
> la propria responsabilità – non solo storica, ma anche politica e culturale –
> e che mette a nudo le scelte, mai neutre, con cui una società decide cosa
> ricordare e cosa dimenticare della propria storia.
«Sulla proposta di una Giornata del ricordo del colonialismo esiste un dibattito
aperto. C’è infatti il rischio di perpetuare una narrazione in cui il
colonizzato appare solo come vittima. Il nostro approccio, invece, mira a
valorizzare la lotta anticoloniale: non solo il dolore subito, ma anche la
resistenza. Tuttavia, il riconoscimento di quella resistenza e delle vittime –
che furono molte, si parla di circa 700.000 – è il punto di partenza per
assumere, da parte italiana, la responsabilità storica del colonialismo e per
ripensare il nostro approccio alla questione migratoria.
Le vittime ci sono state, sono state rese invisibili agli occhi degli italiani e
vanno invece riportate alla luce. Solo così può emergere anche la storia
coloniale italiana, smentendo definitivamente il mito degli “italiani brava
gente”. È fondamentale, perché la rimozione del passato coloniale ha privato
almeno due generazioni della conoscenza di una parte essenziale della propria
storia. E questo non riguarda solo le persone colonizzate: riguarda noi. Ci è
stato negato il diritto di conoscere la nostra storia, le nostre ragioni, le
radici della nostra identità nazionale.
A intere generazioni sono mancati gli strumenti per comprendere il presente,
perché fenomeni come le migrazioni o le guerre non possono essere letti senza la
lente del passato coloniale. Per questo, prima di tutto, rivendichiamo un
diritto alla conoscenza. Solo da lì può nascere un percorso di conciliazione, un
ragionamento sulla riparazione e, in definitiva, una rilettura delle politiche
italiane alla luce del nostro passato».
Il corteo che il 17 maggio si dirigerà verso il “Cimitero degli arabi” non vedrà
soltanto la partecipazione di attivisti, ricercatori e rappresentanti del mondo
associativo. A prenderne parte saranno anche le e gli studenti del liceo di
Ustica: una presenza che conferisce all’iniziativa una dimensione educativa
tutt’altro che accessoria. Restituire spazio alla memoria rimossa del
colonialismo italiano significa anche trasmettere strumenti per leggere
criticamente il presente. In un contesto in cui la scuola fatica a colmare
questo vuoto, esperienze come questa si configurano come momenti di
apprendimento autentico, in cui la storia si intreccia con l’esercizio della
cittadinanza. Su questo punto, la riflessione di Fabio Alberti è particolarmente
incisiva.
«La generazione che oggi frequenta la scuola è la prima a non avere alcun legame
diretto né con l’esperienza della guerra né con quella del colonialismo e spesso
lo stesso vale per i loro genitori. Senza un’adeguata trasmissione storica,
attraverso la scuola e il dibattito pubblico, rischia di crescere all’oscuro di
capitoli fondamentali di questo Paese, e quindi priva di strumenti critici per
interpretare il presente. Allo stesso tempo, però, è una generazione in
formazione, che sta costruendo ora la propria visione del mondo e che può
riconsiderarla, se messa nelle condizioni di conoscere anche ciò che è stato
rimosso. In questo senso, approfondire la storia della colonizzazione italiana
nei programmi scolastici è essenziale. Non per demonizzare il passato, che non
si può riscrivere, ma per comprenderlo. Perché solo conoscendo ciò che è stato
si può influenzare la qualità dello sguardo che le nuove generazioni rivolgono
all’altro, in particolare a chi proviene da contesti non europei. In fondo,
questa esperienza insegna che la scuola va supportata da un’educazione alla
conoscenza, che continua anche fuori dai confini dell’aula.
È un invito a superare i limiti di ciò che la scuola trasmette: apprendere
richiede anche un impegno autonomo, personale e collettivo, per andare oltre ciò
che le istituzioni raccontano o tacciono. Finora, la storia insegnata è stata in
gran parte quella dell’Occidente. Ma nessun fenomeno politico contemporaneo,
dalle grandi migrazioni alle guerre, fino alla povertà globale, può essere
davvero compreso senza tener conto anche della dimensione coloniale che i Paesi
europei hanno avuto con il resto del mondo per 500 anni.
Certo, il colonialismo non spiega tutto, ma senza di esso si comprende ben poco.
Riconoscerne le radici è fondamentale per leggere i processi in corso e
confrontarsi con il presente in modo critico. Pensiamo, ad esempio, alle
politiche migratorie: l’Europa deve assumersi la responsabilità di essere parte
delle cause delle migrazioni, non solo per il proprio passato coloniale, ma
anche per il prolungamento postcoloniale delle disuguaglianze economiche,
militari e commerciali che ancora oggi condizionano i rapporti con il Sud del
mondo».
Ma la memoria del colonialismo, come sottolineano i promotori dell’iniziativa a
Ustica, non riguarda solo il passato. Riguarda il presente, e il modo in cui
l’Italia e l’Europa continuano a costruire le proprie relazioni con il Sud
globale. Le politiche migratorie, commerciali e militari non possono essere
comprese – né trasformate – senza guardare in faccia la genealogia coloniale che
le attraversa. Anche in questo senso, piantare un ulivo tra le tombe dimenticate
non è solo un gesto simbolico: è un atto politico che interroga il nostro
presente. Come conclude Fabio Alberti:
«Guardare alle migrazioni con la consapevolezza di esserne in parte causa
dovrebbe condurre a due conseguenze: anzitutto, al riconoscimento di un dovere
di accoglienza; ma soprattutto, alla necessità di rivedere profondamente le
politiche estere – commerciali, economiche e militari – specialmente nei
confronti dell’Africa, dove persiste una politica di spoliazione che alimenta la
pressione migratoria, costringendo milioni di persone a cercare altrove una
possibilità di vita».
L’immagine di copertina è “Libia-1912-piazzando-i-reticolati“
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