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Franco Manzoni / Guida terrestre per poeti e editori
Di Franco Manzoni, poeta e scrittore, i più avveduti ricordano la direzione di “Schema”, rivista di poesia attiva negli anni ’80 in quella Milano dove Antonio Porta e “Alfabeta” erano elementi non prescindibili. Ma in “Schema” pubblicarono noti e meno noti, e esordienti di non poca qualità. Manzoni guidava seguendo direzioni tutt’altro che banali. E molti lo sapevano. La sua era una presenza che offriva ampie possibilità, riconosceva alterità radicali e dava sostegno a qualità specifiche. Poco sorprende come, alcuni anni dopo, nel 2012, iniziasse ad apparire – sulla “Lettura” (domenicale letterario del “Corriere della Sera”) una rubrica intitolata Soglie: in essa Manzoni, da giornalista esperto, iniziò a segnalare libri di poesia utilizzando un formato minimo, poche righe poste in alto nella pagina che risaltavano astutamente nel contesto tipografico in essere. E bisogna parlare al presente, perché la rubrica da allora non perde un appuntamento settimanale e di certo la sua resistenza trova vasta accoglienza fra autori e editori in quel contesto fantasmagorico e degno di una Babele biblica che è diventata la pubblicistica poetica. Nessun delirante progetto di raccogliere tutto, quindi, ma un preciso e fascinoso intento di rintracciare nel mucchio brevi flash di nobile – dunque popolare – qualità suggerendo uno sguardo disincantato nel vasto mondo terrestre che abitiamo. Dal lato della poesia. Che risulta meno scomodo di quanto sembri, al netto di uno sguardo ecologico inesausto e tralasciando l’aspetto “educativo” che sempre incombe da queste parti. Manzoni sa come stare lontano dalle trappole degli schematismi, quindi si può immaginare un viaggetto fascinoso nel percorso che ora il volume Soglie offre a mo’ di catalogo che gli happy few hanno agio di sfogliare. Non si tema il naufragio in questa collezione che pone sul piatto non poche riscoperte – nel caso che memoria claudicante e svagatezza abbiano spiaggiato l’attenzione lungo i decenni. O consumato i taccuini di appunti, i journal che taluni si propongono di stilare in ambito poetico. L’ordine annuale e alfabetico danno segni di democratica eleganza (qui non si fanno nomi, sfogliare le pagine implica gelosie fuori luogo), l’aspetto stesso del volume induce a considerarlo al pari di sussidiario d’antica civiltà che i meno moderni di noi ancora ricordano. Il grande formato conforta quest’idea. L’uscita settimanale su “La lettura” continua, e visto che la poesia non può essere “organizzata” ogni inquadramento sta ben lontano da questi lidi, e a chi interessa tale argomento l’orizzonte di Manzoni si avvicina al filo e ne fotografa i mutevoli punti cardinali, non fa che tracciarne la cartografia individuando alcune proiezioni – là dove il linguaggio s’intensifica grazie a certi poeti, a certi editori. Non tutti (impossibile, come si è detto), ma dove qualcosa accade di reattivo nella lingua. Qualcosa che impedisce lo scadimento, in un’epoca di assalti quotidiani vili e ignominiosi. Se la poesia non invecchia è grazie anche a chi ne cura la conservazione e dirada il pulviscolo in cui siamo immersi. Da buoni sarti, e non capuffici. L'articolo Franco Manzoni / Guida terrestre per poeti e editori proviene da Pulp Magazine.
Paolo Lagazzi / La prosa ibrida che capisce il poeta
Lavoro sui generis, interessantissimo, quello di Paolo Lagazzi, una delle grandi firme della critica letteraria italiana, che qui ricostruisce la sua “lunga fedeltà” alla poesia e alla persona di Attilio Bertolucci, figura centrale della poesia del Novecento. Il libro si presenta quasi come un diario delle ventiquattro estati che il critico trascorse in parte a Casarola, il paese dell’Appennino parmense, tradizionale buen retiro del poeta, così definito: «Fra tutti i luoghi d’aria di cui si alimenta il soffio della poesia contemporanea, fra tutti i nomi che costellano l’ideale mappa del tesoro poetico novecentesco, la Casarola di Attilio Bertolucci è uno dei più arcani e splendenti». La prima parte del saggio racconta vividamente lo svilupparsi graduale del rapporto umano fra i due, dai primi impacciati incontri fino alla solida amicizia che si sviluppò sulle linee della passione per la poesia; quasi diario di una vita, quindi, di una amicizia e di una formazione critica che ha sempre tenuto come faro la poesia di Bertolucci. “L’arte della conversazione”: così Lagazzi definisce la capacità del poeta di trascendere una certa vena narcisistica per aprirsi in maniera illuminante nei confronti del più giovane lettore e amico, anche in occasione delle tante camminate insieme. L’interesse del libro, va da sé, è soprattutto incentrato proprio sulla figura umana del poeta e sulla sua poesia, così profondamente radicata in quel paesaggio montano, nell’isolamento creativo e nelle infinite suggestioni che sapeva suscita in lui. Lagazzi sa cogliere perfettamente e con totale consonanza spirituale questo aspetto, e ci parla dell’uomo Bertolucci, del suo carattere schivo ma anche del suo temperamento, tanto profondamente ispirato dalla semplicità e dai ritmi lenti che quel relativo isolamento permetteva da trasfigurare Casarola nel centro della sua ispirazione poetica. Come infatti dimostra la sezione Terre alte, cieli profondi, tantissimi dei testi più pregnanti del poeta nascono proprio dalle infinite occasioni che il paesaggio offriva: Lagazzi analizza magistralmente diversi testi, proprio portando a galla riferimenti e suggestioni, contribuendo a una comprensione sempre migliore dell’opera dell’autore della Camera da letto e della Capanna indiana. «Pochi autori come Bertolucci sanno cogliere gli istanti di sconnessione del tempo interiore, le piccole “frane” d’anima, gli impercettibili mancamenti d’aria in cui è messo in gioco il senso stesso del nostro essere»: così il critico illumina il nucleo dell’ispirazione del poeta parmense, empaticamente seguendo un percorso critico che allaccia vita e opere. Saltando a piè pari le insidie della fallacia biografica e della “fallacia intenzionale”, Lagazzi giunge a fulminee intuizioni e definizioni critiche, favorite dalle letture e dalle lunghe conversazioni con il poeta.               L'articolo Paolo Lagazzi / La prosa ibrida che capisce il poeta proviene da Pulp Magazine.
Alessandro Piperno / Come non mollare l’osso
Se è vero che – dice Flaubert – i libri “non si fanno come i bambini, ma come le piramidi”, e non abbiamo motivo per sostenere il contrario, la disciplina che Alessandro Piperno diffonde con agile destrezza nei suoi scritti riguardanti le testimonianze classiche della letteratura, europea e americana, mette in buono stato le nostre esigenze di lettori. Disciplina che non si esime dal farsi contagiare da una certa sprezzatura, sorniona e spesso sorridente: c’è premura nell’avvicinarsi a Proust e Kafka, alla loro massiccia ispirazione, senza disdegnare ciò che Hemingway suggeriva ai giovani di belle speranze, di non oltrepassare quell’attimo in cui la voglia di scrivere cede le armi. Il nutrimento “critico” in questo nuovo libro non sottrae l’autore a quanto da sempre – fin dall’esordio avvenuto con il romanzo Con le peggiori intenzioni – a lui interessa: passeggiare come “libero lettore” nei vasti campi dove piacere e inferno si contendono lo spazio. Una logica ferrea e una memoria “ecologica” lo conducono dove le categorie letterarie s’incrociano dando il meglio di sé. Dove Philip Roth e Woody Allen conversano amabilmente (con risolto contegno) non senza inchiodarci alla profonda solitudine (per dire: una manganelliana palude definitiva) di chi usa la scrittura per mostrarcela senza mezzi termini. Il richiamo al dovere che sente ogni scrittore (memore di un Philip Larkin a tal proposito certamente ironico) ogni santa mattina di azionare quel meccanismo che lo pone davanti al foglio di carta o allo schermo di un computer si traduce in un “provaci ancora” agonistico che assomiglia moltissimo a un vizio, e anche a un perpetuarsi genetico permettendo alle cellule d’estenuarsi di vita. Fosse solo mestiere, dice Piperno, dovremmo accontentarci di risposte pompose e stupide, di fronte all’insensata richiesta di spiegazioni sul perché si scrive e se si ami farlo. La letteratura agisce attraverso millenari rapimenti, al seguito di vizi e virtù che dividono lo stesso letto. Cosa mette in valigia il Piperno viaggiatore? Computer e pipa prima di tutto il resto. Le domande che si pone (e pone) in queste “lezioni” d’epoca post-Calviniana (le Six Memos for the Next Millenium vengono pubblicate nel 1988) sono molteplici, non da meno inrerpretano le speranze che capitolo dopo capitolo inondano la realtà sua e nostra. Prima per importanza, la speranza di diventare intelligenti. E di riuscire a mettere la parola “fine” in coda a un libro, tanto più se lo scrittore passa il suo tempo a decifrare i labirinti della Recherche. Per la cronaca (e lo si prenda come avvertimento): il trionfo dura poco. Le mattine, qui riunite, sono abitate – letteralmente – dagli dèi in terra della letteratura che ambiziosi secoli ci hanno tramandato e posizionato nelle nostre incontinenti menti postmoderne e pre-IA (qualunque cosa voglia dire). Virginia Woolf è in odore di vanità, ragiona per niente timido Piperno, le metafore sono bandite in quasi tutto il libro, e John Cheever mostra il suo timore d’essere considerato scrittore “trascurabile” – chissà quanti in fondo lo hanno pensato a valle del Nuotatore. Ma poi irrompe Baudelaire che ammira Balzac, e dunque la gloria finanziata da personaggi somiglianti oltremodo ai loro autori s’espande per ogni dove. Ecco che nel nucleo di queste Cinque lezioni ritroviamo pane per gli inesperti, elogi di un canone che sa di buon proverbio, sapore di una stagionatura andata a buon fine. Piperno si guarda bene dal tralasciare coloro che molti abbandonerebbero alla palude, Céline e Bernhard sono tenuti a bada con eleganza, perché in fondo è vero che in letteratura esistono zone franche dove onestamente qualcuno può vendicare gli oltraggi. E pure le assoluzioni. Salinger si sottrae al consesso civile, forse Piperno ha occhio più riguardoso per il povero Capote “irrancidito” che si lancia senza mutande standard nella fiera rombante dei tycoon e delle ereditiere. Ma poi è vero che Piperno si rivolge sempre a tutti, smaliziati e non, perché volontariamente si rivolge in molte pagine concentrate a quel duo da considerarsi “di diverse spanne superiori a chiunque altro”: Franz Kafka e Marcel Proust. Gran elogio della differenza, si può dire, venuta alla luce per entrambi solo dopo la morte. Non avventure, ma confessioni a latere attraverso lettere, diari, riflessioni (e pettegolezzi) altrui. Nessuna naturalezza, avverte Piperno, nel loro scrivere, ma “sforzi poderosi” e vite che sembrano assomigliare a quel genere di animali che preferiscono di gran lunga l’ombra e la solitudine trovata nelle tenebre. Lo scrittore Piperno ha messo a punto un itinerario tale da considerare il lettore come colui che non aspetta altro che fronteggiare la sperimentazione tirata fuori dal baule magico della conoscenza. Nella sospensione di Marcel, negli incisi di Franz c’è molto di più di quanto lo stile li divida. Infine: Ambizione. Odio. Responsabilità. Piacere. Conoscenza. Cos’altro esiste di matto al di fuori del paniere della realtà? Intervista a Alessandro Piperno (novembre 2021)   L'articolo Alessandro Piperno / Come non mollare l’osso proviene da Pulp Magazine.