Alessandro Piperno / Come non mollare l’osso
Se è vero che – dice Flaubert – i libri “non si fanno come i bambini, ma come le
piramidi”, e non abbiamo motivo per sostenere il contrario, la disciplina che
Alessandro Piperno diffonde con agile destrezza nei suoi scritti riguardanti le
testimonianze classiche della letteratura, europea e americana, mette in buono
stato le nostre esigenze di lettori. Disciplina che non si esime dal farsi
contagiare da una certa sprezzatura, sorniona e spesso sorridente: c’è premura
nell’avvicinarsi a Proust e Kafka, alla loro massiccia ispirazione, senza
disdegnare ciò che Hemingway suggeriva ai giovani di belle speranze, di non
oltrepassare quell’attimo in cui la voglia di scrivere cede le armi. Il
nutrimento “critico” in questo nuovo libro non sottrae l’autore a quanto da
sempre – fin dall’esordio avvenuto con il romanzo Con le peggiori intenzioni – a
lui interessa: passeggiare come “libero lettore” nei vasti campi dove piacere e
inferno si contendono lo spazio. Una logica ferrea e una memoria “ecologica” lo
conducono dove le categorie letterarie s’incrociano dando il meglio di sé. Dove
Philip Roth e Woody Allen conversano amabilmente (con risolto contegno) non
senza inchiodarci alla profonda solitudine (per dire: una manganelliana palude
definitiva) di chi usa la scrittura per mostrarcela senza mezzi termini.
Il richiamo al dovere che sente ogni scrittore (memore di un Philip Larkin a tal
proposito certamente ironico) ogni santa mattina di azionare quel meccanismo che
lo pone davanti al foglio di carta o allo schermo di un computer si traduce in
un “provaci ancora” agonistico che assomiglia moltissimo a un vizio, e anche a
un perpetuarsi genetico permettendo alle cellule d’estenuarsi di vita. Fosse
solo mestiere, dice Piperno, dovremmo accontentarci di risposte pompose e
stupide, di fronte all’insensata richiesta di spiegazioni sul perché si scrive e
se si ami farlo. La letteratura agisce attraverso millenari rapimenti, al
seguito di vizi e virtù che dividono lo stesso letto. Cosa mette in valigia il
Piperno viaggiatore? Computer e pipa prima di tutto il resto. Le domande che si
pone (e pone) in queste “lezioni” d’epoca post-Calviniana (le Six Memos for the
Next Millenium vengono pubblicate nel 1988) sono molteplici, non da meno
inrerpretano le speranze che capitolo dopo capitolo inondano la realtà sua e
nostra. Prima per importanza, la speranza di diventare intelligenti. E di
riuscire a mettere la parola “fine” in coda a un libro, tanto più se lo
scrittore passa il suo tempo a decifrare i labirinti della Recherche. Per la
cronaca (e lo si prenda come avvertimento): il trionfo dura poco.
Le mattine, qui riunite, sono abitate – letteralmente – dagli dèi in terra della
letteratura che ambiziosi secoli ci hanno tramandato e posizionato nelle nostre
incontinenti menti postmoderne e pre-IA (qualunque cosa voglia dire). Virginia
Woolf è in odore di vanità, ragiona per niente timido Piperno, le metafore sono
bandite in quasi tutto il libro, e John Cheever mostra il suo timore d’essere
considerato scrittore “trascurabile” – chissà quanti in fondo lo hanno pensato a
valle del Nuotatore. Ma poi irrompe Baudelaire che ammira Balzac, e dunque la
gloria finanziata da personaggi somiglianti oltremodo ai loro autori s’espande
per ogni dove. Ecco che nel nucleo di queste Cinque lezioni ritroviamo pane per
gli inesperti, elogi di un canone che sa di buon proverbio, sapore di una
stagionatura andata a buon fine. Piperno si guarda bene dal tralasciare coloro
che molti abbandonerebbero alla palude, Céline e Bernhard sono tenuti a bada con
eleganza, perché in fondo è vero che in letteratura esistono zone franche dove
onestamente qualcuno può vendicare gli oltraggi. E pure le assoluzioni. Salinger
si sottrae al consesso civile, forse Piperno ha occhio più riguardoso per il
povero Capote “irrancidito” che si lancia senza mutande standard nella fiera
rombante dei tycoon e delle ereditiere.
Ma poi è vero che Piperno si rivolge sempre a tutti, smaliziati e non, perché
volontariamente si rivolge in molte pagine concentrate a quel duo da
considerarsi “di diverse spanne superiori a chiunque altro”: Franz Kafka e
Marcel Proust. Gran elogio della differenza, si può dire, venuta alla luce per
entrambi solo dopo la morte. Non avventure, ma confessioni a latere attraverso
lettere, diari, riflessioni (e pettegolezzi) altrui. Nessuna naturalezza,
avverte Piperno, nel loro scrivere, ma “sforzi poderosi” e vite che sembrano
assomigliare a quel genere di animali che preferiscono di gran lunga l’ombra e
la solitudine trovata nelle tenebre. Lo scrittore Piperno ha messo a punto un
itinerario tale da considerare il lettore come colui che non aspetta altro che
fronteggiare la sperimentazione tirata fuori dal baule magico della conoscenza.
Nella sospensione di Marcel, negli incisi di Franz c’è molto di più di quanto lo
stile li divida. Infine: Ambizione. Odio. Responsabilità. Piacere. Conoscenza.
Cos’altro esiste di matto al di fuori del paniere della realtà?
Intervista a Alessandro Piperno (novembre 2021)
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