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Il viaggio della Global Sumud Flotilla e la vergogna dell’Occidente
Stiamo vivendo un momento importante, il corso della storia sta davvero virando, ci sono segni di cedimento di quella continuità plurisecolare che ha visto il cosiddetto occidente egemonizzare il mondo con dosi massicce di colonialismo, genocidi, guerre, razzismo mascherato prima … Leggi tutto L'articolo Il viaggio della Global Sumud Flotilla e la vergogna dell’Occidente sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
Netanyahu sta facendo a Gaza quello che Israele ha fatto in Palestina fin dalle origini
Nell’area centrale furono eseguite due importanti operazioni: la Danny e la Kedem. L’operazione Danny si tradusse nell’occupazione di Ramla e Lydda, nonché nel consolidamento del controllo sul territorio di Gerusalemme, mentre l’operazione Kedem fallì nel tentativo di occupare la città vecchia di Gerusalemme. Durante i “dieci giorni”, la brigata Etzioni […] L'articolo Netanyahu sta facendo a Gaza quello che Israele ha fatto in Palestina fin dalle origini su Contropiano.
Quale memoria? Shoah, Nakba e colonialismo sullo sfondo di Gaza. Seconda parte
LE OMBRE DELLA GERMANIA Dalla disfatta del 1945 alla guerra genocidaria a Gaza a cui siamo costretti ad assistere in mondovisione, la traiettoria tedesca della memoria della Shoah è stata tutt’altro che lineare. Se guardiamo ai processi di giustizia del dopoguerra, il quadro è impietoso. Cito la storica Mary Fulbrook, su circa un milione di tedeschi coinvolti a vario titolo nello sterminio dei civili ebrei, solo 6.655 furono condannati alla fine del Novecento, meno del numero di persone impiegate nella sola Auschwitz. In La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963), Hannah Arendt ricorda che il cancelliere Konrad Adenauer temeva che un grande processo riaprisse tutti gli orrori e ravvivasse l’ostilità internazionale verso la Germania. Entrambe le Germanie dovettero fare i conti con un consenso al nazismo diffuso fino alla sconfitta: in Germania Ovest si preferì riabilitare la maggior parte degli ex nazisti, reintegrandoli nella vita pubblica; in Germania Est si commemoravano genericamente i “caduti del fascismo”, secondo la prassi sovietica di non riconoscere esplicitamente il genocidio degli ebrei, mentre molti quadri minori del passato nazista venivano assorbiti nella nuova identità antinazista. A ciò si aggiunse la campagna staliniana contro i “cosmopoliti senza radici”, che alimentò sospetto verso gli ebrei, accusati di alto tradimento e talvolta giustiziati. Nel ventennio successivo alla riunificazione, la centralità pubblica della Shoah si è stabilizzata come parte della grammatica civile della Repubblica Federale. Nel 2008 Angela Merkel dichiarò alla Knesset che la sicurezza di Israele rientra nella ragion d’essere della Germania, impegno ribadito anche dai governi successivi fino a quello odierno. Nel 2018 la Germania ha istituito a livello federale, e poi diffuso nei Länder, gli incarichi di commissario per l’antisemitismo. La maggior parte dei commissari non è ebrea e i mandati risultano spesso ampi e poco tipizzati. Come ha scritto la redazione di Jewish Currents in un articolo del 2023, un «anti-antisemitismo concepito in modo discutibile» è talvolta divenuto meccanismo di legittimazione della germanicità. Parliamo di figure, per lo più bianche e cristiane, che si presentano come portavoce “ufficiali” degli ebrei, mettono in scena una ebraicità di facciata (foto con kippah, simbolismi) e entrano frequentemente in conflitto con ebrei di sinistra in solidarietà alla Palestina, tra cui figli e nipoti di sopravvissuti, che vengono oggi arrestati con l’accusa di antisemitismo. È il terreno in cui tornano il «filosemitismo invadente» di Jean Améry, l’«allosemitismo» di Zygmunt Bauman e, sul piano geopolitico, il filosemitismo bellico di cui scrive Enzo Traverso: l’ebreo ridotto a nient’altro che un oggetto/simbolo codificato attraverso il quale passa la redenzione tedesca. Sempre la stessa Germania che ha costruito una solida Erinnerungskultur sulla Shoah e si vanta di una cultura della memoria e della disponibilità a fare ammenda per le pagine sanguinose del proprio passato, ha atteso fino al 2021 prima di riconoscere il genocidio coloniale contro la popolazione dei Nama e degli Herero avvenuto nell’attuale Namibia tra il 1904 e il 1908. E tutt’ora si rifiuta di parlare di alcun tipo di riparazione o compensazione. LA DIDATTICA DELLA SHOAH «Oggi si dà per scontato che la memoria della Shoah sia stata sempre centrale nelle coscienze occidentali, ma non è così: i sopravvissuti ebrei del nazifascismo, una volta rientrati dalle camere della morte, furono perlopiù accolti con repulsione dall’Europa cristiana e per decenni non furono ascoltati. Basti pensare a Primo Levi: Se questo è un uomo esce nel 1947 presso una piccola casa editrice; il riconoscimento pubblico arriva solo nel 1958 con Einaudi, che inizialmente lo aveva rifiutato. Nel dopoguerra si registrano violenze antiebraiche in tutta Europa; in Polonia nascono aggressioni e pogrom contro i superstiti ebrei dei campi nazisti, e nel 1967–68 una campagna antisemita di Stato che spinge all’esodo circa 13.000 ebrei. Ci furono episodi analoghi in Slovacchia e in Ungheria. Nell’URSS e nell’Europa orientale seguirono invece le campagne “anticosmopolite”, come il processo Slánský a Praga nel 1952. La memoria della Shoah come oggi la conosciamo prende forma soprattutto dopo il 1989. Il crollo del Muro, l’allargamento a Est e la necessità di un linguaggio memoriale comune fanno della Shoah il perno simbolico dell’Europa che si rifonda. Come ha scritto Tony Judt, la memoria della Shoah ha funzionato da “biglietto d’ingresso” all’Unione Europea, spesso però senza piena assunzione di responsabilità. L’Italia mostra tutti i limiti di un’istituzionalizzazione senza responsabilità. La legge del 2000 sulla Giornata della Memoria non menziona il fascismo e piuttosto insiste su chi “si oppose”, alimentando il mai sopito mito degli “italiani brava gente”. In Polonia, l’emendamento del 2018 alla legge sull’Istituto della Memoria Nazionale ha introdotto restrizioni sul modo di parlare del collaborazionismo polacco e dell’etichetta “campi polacchi”, con effetti raggelanti sul dibattito pubblico. In questa cornice, la Shoah ha iniziato a essere raccontata come “una storia di progresso”, una cesura morale che avrebbe rimesso l’Europa sulla retta via; un “inciampo nella storia” dell’Europa illuminista, una frattura spazio-temporale che confermerebbe, per contrasto, la virtù del percorso europeo. Questa narrazione teleologica produce due esiti nefasti che oggi vediamo manifestarsi in tutta la loro chiarezza; sacralizzazione ed eccezionalità da una parte, banalizzazione e negazione dall’altra. Credo che ricucire la Shoah alle genealogie della violenza europea (o forse meglio dire della violenza della storia del mondo) non relativizzi, ma chiarisca. Segregazioni, spoliazioni, colonizzazioni, campi e lavori coatti sperimentati nelle periferie imperiali aiutano a comprendere la peculiarità storica dello sterminio nazifascista, reso possibile da un apparato tecno-burocratico che fuse amministrazione, industria e logistica statale propria dell’epoca moderna. Per uscire dal monopolio del dolore e dalla competizione tra vittime, la didattica sulla Shoah va intrecciata con le storie rimosse del colonialismo e dei genocidi dimenticati nel Sud Globale. Forse, questo riposizionamento potrebbe disinnescare le guerre identitarie e culturali a cui assistiamo nel presente. La posta in gioco non è una graduatoria del male, ma un vocabolario condiviso che tenga insieme Shoah, colonialismi e altre violenze di massa senza eliminare le specificità di ognuna, così che la memoria possa essere terreno fertile per costruire alleanze e resistenze contro la violenza razziale». Link alla prima parte dell’intervista. Redazione Italia
Quale memoria? Shoah, Nakba e colonialismo sullo sfondo di Gaza. Prima parte
Intervista  di Marco Biondi divisa in due parti a Micol Meghnagi, sociologa che si occupa della costruzione dei processi memoriali della Shoah, del colonialismo italiano e della Nakba. Collabora con diverse testate giornalistiche tra cui Internazionale, Altreconomia, Jacobin, Micromega e il Manifesto. In questa intervista, analizziamo la costruzione della memoria della Shoah, dal dopoguerra a oggi, sullo sfondo del genocidio a Gaza, così come il tema dell’antisemitismo e del razzismo istituzionalizzato. Facendo mie le parole di Meghnagi, le lotte antirazziste sono interdipendenti, non cancellandone le differenze ma legandole in alleanza, nominandone le asimmetrie dei contesti e sottraendole alle strumentalizzazioni politiche. ANTISEMITISMO E ISLAMOFOBIA: QUAL È LA TRAMA COMUNE ? Vi è molto più in comune di quello che si crede tra un ebreo degli anni Venti in Europa e un musulmano del Sud Globale. Il fatto che non si riescano a cogliere le molteplici analogie è anche dovuto ad una profonda mancanza di conoscenza della storia ebraica come quella dei popoli soggiogati dal colonialismo europeo. Antisemitismo e islamofobia sono due facce della stessa grammatica di esclusione prodotta dalla modernità europea: ieri l’“ebreo” come nemico interno su cui proiettare ansie e crisi; oggi il “musulmano” come nuovo capro espiatorio. Entrambe costruiscono gerarchie del dolore, normalizzano politiche securitarie e coloniali e servono a dividere le stesse classi subalterne. Un antirazzismo coerente rifiuta la competizione vittimaria: tiene insieme le storie specifiche (Shoah, colonialismo, Nakba) e ne legge le connessioni strutturali, senza lasciare spazio alle strumentalizzazioni politiche». CHIESA CATTOLICA, ANTIGIUDAISMO E ANTISEMITISMO: PUÒ CHIARIRE DEFINIZIONI E INTRECCI STORICI ? In breve, a livello terminologico per antigiudaismo si intende genericamente l’ostilità principalmente di matrice teologica cristiana contro gli ebrei intesi come collettività, per antisemitismo ci si riferisce all’elaborazione moderna, a base “razziale”. Il confine è spesso labile ma è bene tracciarlo. Con antiebraismo intendo invece l’insieme delle pratiche e dei pregiudizi storici contro gli ebrei in senso ampio. Su questi temi, rimando al lavoro dello storico Simon Levi Sullam, e al suo libro “L’archivio antiebraico: il linguaggio dell’antisemitismo moderno” (Editori Laterza, 2008). Nel corso dei secoli, l’antiebraismo si è manifestato nei contesti più disparati, da quelli spirituali e religiosi a quelli laici e secolarizzati, in ambienti di destra come di sinistra, tra conservatori e progressisti. L’antigiudaismo ha funzionato da collante dell’Europa cristiana; un pregiudizio che, pur non essendo “razziale” in senso moderno, ha prodotto esclusione, spoliazione, ghettizzazione, violenza sistematica e norme discriminatorie. La differenza con l’antisemitismo moderno sta nell’immutabilità dello “status ebraico”: nell’antigiudaismo la conversione poteva teoricamente mutarlo, mentre tra Ottocento e Novecento l’idea di “sangue” lo rendeva indelebile. Questa suddivisione non è ovviamente didascalica. La cacciata degli ebrei e dei musulmani dalla Spagna nel 1492, per esempio, insieme agli statuti di limpieza de sangre, ha anticipato quelle logiche classificatorie razziste proprie dell’epoca moderna. Tra il II e il IV secolo, la Chiesa ha elaborato un compatto e duraturo sistema teologico che giudicava gli ebrei, intesi in modo collettivo, come popolo carnale, considerato colpevole in blocco dell’uccisione di Cristo, maledetto, immorale, diabolico e idolatra, che ha modellato il rapporto maggioranza/minoranza entro un sistema sociale. Certamente, le aperture del secondo Novecento, dal dialogo ebraico-cristiano a Nostra Aetate, hanno segnato un cambio di rotta importante, ma il superamento dei retaggi secolari non è mai automatico né immediato. L’antisemitismo è invece un concetto relativamente recente, coniato dal giornalista tedesco Wilhelm Marr alla fine dell’800. L’età moderna, insieme ai processi di secolarizzazione, alimentò l’illusione che l’ostilità verso gli ebrei fosse in via di estinzione proprio mentre, con l’emancipazione civile e politica, si consolidavano nuove forme di ostilità “politica”. Alla domanda «Chi è un ebreo?» non fu più possibile rispondere con i vecchi criteri: nell’immaginario moderno l’ebreo poteva integrarsi, convertirsi, mimetizzarsi e tuttavia restare tale. Il bersaglio dell’antisemita non era più solo una minoranza marginale ma un soggetto percepito come onnipresente e minaccioso per l’ordine sociale. L’antisemitismo moderno nasce in Occidente, all’incrocio tra cristianesimo politico, nazionalismi e razzismo “scientifico”, ma non resta confinato lì: tra la fine dell’’Ottocento e la prima metà del Novecento, viene importato e ibridato dal colonialismo europeo nel mondo arabo, anche tramite la circolazione dei Protocolli dei Savi di Sion (diffusi, fra l’altro, al Cairo negli anni Venti e Trenta) e la propaganda nazista in arabo durante la Seconda guerra mondiale. Ciò avviene mentre si disgrega l’Impero ottomano, e prendono forma il nazionalismo arabo e il sionismo. Dopo la Shoah, con la nascita di Israele nel 1948 e la conseguente Nakba palestinese, i rapporti tra ebrei e musulmani nel così detto Medio Oriente si sono incrinati, forse in modo irrimediabile. Tra il 1948 e il 1967, in paesi come la Libia, Iraq, Yemen e Afghanistan si registrano pogrom, punizioni collettive ed espulsioni di ebrei, che trovano rifugio soprattutto in Israele e in Occidente, tra cui la mia famiglia. In alcuni casi, come riportano gli storici Avi Shlaim ed Ella Shohat, nazionalismo arabo e movimento sionista concorsero all’esodo degli “ebrei arabi” dai paesi d’origine per perseguire i propri rispettivi interessi. IN CHE MODO L’ANTISEMITISMO È USATO COME STRUMENTO POLITICO E QUALI EFFETTI OSSERVA DOPO IL 7 OTTOBRE 2023? «La strumentalizzazione dell’antisemitismo è stata certamente facilitata dalla definizione approvata nel 2016 dall’IHRA (International Holocaust Remembrance Association), un organismo intergovernativo istituito alla fine del secolo scorso con lo scopo di promuovere la memoria della Shoah. Tuttavia, oltre a richiamare atteggiamenti indubbiamente antisemiti (come evocare un complotto ebraico globale o negare la Shoah), la definizione include 11 esempi applicativi, 7 dei quali riguardano la critica allo Stato di Israele, spostando così il baricentro dal pregiudizio antiebraico alla sfera del dissenso politico. Sebbene gli autori la qualificano non giuridicamente vincolante, in pochi anni dalla sua pubblicazione è stata adottata da numerosi Stati membri dell’Unione Europea e dagli Stati Uniti d’America. Dal 7 ottobre 2023, in vari contesti culturali e accademici europei e nordamericani si è prodotto, un clima di censura e repressione diretto principalmente a persone di origini palestinesi e a tutti coloro che esprimono solidarietà alla Palestina, in Germania, dispositivi amministrativi e culturali oggi richiedono dichiarazioni di adesione alla “ragion di Stato” pro-Israele a persone migranti principalmente di origini arabe, come se l’antisemitismo fosse un fenomeno “importato” dall’esterno quando invece affonda radici storiche in Occidente. Siamo in un’impasse: destre post-fasciste e governi occidentali strumentalizzano l’antisemitismo mentre lo alimentano; e i governi israeliani lo brandiscono cercando sponde proprio in quelle destre che ammiccano a chi, ottant’anni fa, deportava gli ebrei. In un Occidente che fatica a tenere insieme confini ed elettorati, Israele viene letto da molte destre come modello etno-nazionale, un popolo, una fede, un nemico (i palestinesi). Sono fantasie ideologiche (Israele non è monolitico), ma spiegano la convergenza fra filosionismo retorico e politiche identitarie. Ma non si cada in errore: il fatto che l’antisemitismo venga strumentalizzato non significa che non esista. Tutto il contrario. Uno dei pericoli di averlo distorto e strumentalizzato è dato dalla possibilità di girarsi dall’altra parte e dire: non è un problema. L’antisemitismo va necessariamente collocato dentro la sfera più ampia del razzismo: oggi il razzismo in Europa si è trasformato, le vittime sono i migranti, spesso persone arabe, nere, e/o musulmane, e lo vediamo nel cimitero dei nostri mari, così come nei i Centri di permanenza per il rimpatrio (CPR) e nelle normative sull’immigrazione che colpiscono i più vulnerabili. Infine, metto in guardia dalle letture selettive. Parlo di Occidente in quanto modello egemonico entro il quale viviamo, ma anche l’Oriente (dal Marocco alla Siria, dalla Russia all’India) non è immune da forme proprie di colonialismo e discriminazione razziale. Riconoscerlo non relativizza nulla, anzi rende l’antirazzismo coerente, l’antisemitismo non appartiene a una sola cultura o parte politica; e nessuna politica contro di esso sarà credibile se non si intreccia con la lotta contro tutte le gerarchie razziali, compresi islamofobia e razzismo anti-nero con il rifiuto delle strumentalizzazioni che lo trasformano in un’arma retorica. Credo che nessuna lotta contro l’antisemitismo possa essere efficace senza una presa di distanza netta dalle sue strumentalizzazioni politiche volte a sostenere le prassi di occupazione, colonizzazione ed eliminazione sistematica dei palestinesi». Redazione Italia
Israele in guerra totale, fra le proteste di chi si oppone e la Nakba che continua tra Gaza e Cisgiordania
Alla fine di una settimana che era cominciata con l’euforia alle stelle, per la straordinaria partecipazione allo sciopero indetto dalle Famiglie degli Ostaggi domenica scorsa, nel vano tentativo di scongiurare la “vietnamizzazione” del conflitto che inevitabilmente conseguirà al piano di occupazione di Gaza City, proviamo a ricapitolare gli ultimi eventi in un Israele in guerra: – Hamas avrebbe accettato la proposta egiziano-quatariota di cessazione delle ostilità per i prossimi sessanta giorni, durante i quali procedere al rilascio graduale dei corpi (solo in parte vivi) degli ostaggi, a fronte di un certo numero (forse 200) di detenuti palestinesi, con previsto intervento delle Nazioni Unite per quanto riguarda i varchi umanitari, la gestione dei soccorsi, l’ipotesi di deporre le armi ecc (la stessa proposta che Israele aveva concordato con il negoziatore US Steve Witkoff due settimane fa) e però come non detto: accordo o non accordo, il piano di occupazione di Gaza City è stato approvato e quindi s’ha da fare, come ci informa The Times of Israel. – i blindati si sono infatti già mossi verso l’obiettivo con una prospettiva di evacuazione di circa un milione di civili già ripetutamente evacuati in precedenza, che di nuovo dovrebbero ammassarsi ora verso sud, dove sarebbe in progress l’ennesima tendopoli, ma tra recinzioni, organizzazione dei servizi essenziali, allestimento della cd ‘cittadella umanitaria’ ci vorrà forse un paio di mesi, mentre l’IDF procederà (secondo i piani) per la totale distruzione di Hamas; – totale distruzione di Hamas per la quale sono stati richiamati ca 60.000 riservisti, ma in quanti si presenteranno non si sa: morale delle truppe proprio ai minimi, mentre cresce il numero dei suicidi (uno alla settimana!) soprattutto tra i giovani, come documentava ieri una lunga intervista su El Pais, descrivendo nei dettagli la ‘questione morale’ che turba i pensieri di una crescente popolazione militare, che aveva prontamente aderito alla chiamata post 7 ottobre, ma dopo ventidue mesi di crimini di guerra contro civili inermi, non ne può più; – in compenso è arrivato il plauso del Presidente Trump che su TruthChannel ha incoronato Netanyahu come “eroe di guerra” in totale spregio dei timori del “Forum dei Familiari degli Ostaggi” che ieri sera (21.8) erano in presidio di fronte alla residenza del Primo Ministro a Gerusalemme e di nuovo lo saranno anche oggi. Timori (non solo per la sopravvivenza degli ostaggi, ma per la sicurezza delle truppe) inizialmente espressi dallo stesso Generale Eyal Zamir, che però sembra aver cambiato idea, rendendosi così “totalmente complice di un crimine”, come ha commentato su Haaretz l’editorialista Uri Misgav. – a raffreddare gli entusiasmi circa i piani di totale distruzione di Hamas, è arrivata però la notizia che solo il 10% dei tunnel (per un totale di ca 500 km) è stato seriamente danneggiato dall’inizio del conflitto, per cui Auguri! In compenso è stata ufficialmente annunciata l’avanzata immobiliare in Cisgiordania con l’approvazione del molto controverso piano E1 tra Gerusalemme Est e Ma’ale Adumin, che renderà possibile edificare 3.400 nuove unità abitative, con il dichiarato obiettivo di “seppellire una volta per sempre l’idea di uno stato palestinese”; – al di là dell’effettiva possibilità di immaginare (chissà quando mai) uno Stato palestinese, il suddetto piano E1 condannerà la popolazione in Cisgiordania in isole/ghetti ancor più separati, economie ancor più frammentate, con difficoltà di spostamento ancor più enormi, l’accesso a scuole e ospedali più che mai complicato, Gerusalemme Est ancor più isolata… ma così sarà, per la gioia dei coloni, proprio ieri ne sono arrivati altri 250, da USA e Canada; – reazioni da fuori Israele: Macron ha definito la nuova offensiva come “certezza di guerra permanente”, mentre Londra ha stigmatizzato il Piano E1 come “flagrante rottura di qualsiasi prospettiva di convivenza”. Un po’ più robuste le voci che si sono espresse ieri a Istanbul, nell’ambito di una Conferenza Stampa dal titolo “E’ tempo di agire”: dove l’ex relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani in Palestina, Richard Falk (predecessore di Francesca Albanese tra il 2008 e il 2014) insieme a un ampio gruppo di’ avvocati avrebbero a questo punto suggerito la necessità di un intervento di forze armate internazionali a Gaza, proposta che sarà avanzata all’Assemblea Generale con l’obiettivo di fermare quella che è stata definita la fase più mortale del genocidio israeliano contro il popolo palestinese, quando sarà già il 20 settembre, per cui chissà quanto sterminato potrà essere il popolo palestinese, o evacuato chissà dove, o comunque ridotto in chissà quali condizioni terminali, per le concause che sappiamo… La Nakba che si rinnova, che non è mai finita nel 1948, che semplicemente si ripresenta con la stessa logica di sempre: di occupazione coloniale, di villaggi e comunità spazzati via, di spazi che si svuotano per essere ripopolati dall’arrivo dei ‘nostri’. L’appuntamento per quella parte di Israele che non si arrende sarà di nuovo domani sera, sabato 23.8, per una marcia “anti war” tra Piazza Dizengoff e Piazza Habima a Tel Aviv, la cui partecipazione però è già stata limitata dalle FFOO entro i 500 partecipanti, per cui: macchina repressiva sempre più dura, guerra che avanza anche in casa. Come è successo l’altro giorno ad Haifa con vari dimostranti arrestati per aver esibito cartelli e intonato slogan critici verso l’operato dell’IDF, ritenuti “turbativi dell’ordine pubblico”.   Centro Sereno Regis
Attacchi dei coloni in Cisgiordania: memorie della Nakba
La Striscia di Gaza è teatro di un genocidio perpetrato dall’esercito di occupazione israeliano dall’ottobre 2023, mentre la Cisgiordania è teatro di una pulizia etnica sistematica da parte dei coloni terroristi sotto la protezione dell’esercito di occupazione israeliano. Questa atmosfera ci ricorda, come palestinesi nei territori occupati, il periodo che ha preceduto la Nakba del 1948, che ha portato alla catastrofe e allo sfollamento della maggior parte del popolo palestinese e alla costituzione dello Stato di Israele sul 78% della Palestina storica, tra la debolezza araba e l’approvazione internazionale. Sembra che Israele ritenga ora che le condizioni siano mature per completare l’imposizione della sua sovranità e l’annessione del resto della Palestina. Dall’inizio della guerra genocida contro Gaza, abbiamo assistito a feroci attacchi dei coloni contro i villaggi della Cisgiordania. Questi attacchi sono diventati sempre più violenti, distruttivi e sanguinosi, verificandosi quotidianamente e con crescente frequenza, simultaneamente in tutta la Cisgiordania, con l’obiettivo di espellere la popolazione indigena e impadronirsi delle loro terre. Questi attacchi vengono compiuti sotto lo sguardo attento dell’esercito di occupazione israeliano e della polizia, che garantiscono ai coloni l’impunità per i loro crimini. Tuttavia, negli ultimi giorni i coloni hanno attaccato installazioni militari israeliane nell’insediamento di Beit El vicino a Ramallah, protestando contro il breve arresto di diversi coloni che avevano lanciato pietre contro i soldati israeliani. Queste scene ricordano a noi palestinesi la violenza e i massacri perpetrati dalle bande sioniste prima della Nakba del 1948, sotto lo sguardo vigile dell’esercito britannico, e la successiva escalation di questi crimini, che in seguito hanno preso di mira le installazioni militari britanniche e hanno fatto da preludio alla pulizia etnica che ha preceduto e accompagnato la Nakba.   Il terrorismo dei coloni sta aprendo la strada a una nuova Nakba Gli attacchi dei coloni sono diventati più violenti e diffusi perché godono di copertura politica, militare e legale, oltre che del sostegno finanziario del governo israeliano. Godono anche del pieno sostegno americano, in particolare da quando Donald Trump è entrato alla Casa Bianca, e della complicità occidentale. A livello politico, i leader più importanti dei coloni fanno parte del governo, prendono decisioni politiche e conferiscono legittimità ai leader dei coloni e alla loro teppaglia, in particolare attraverso i ministri estremisti Itamar Ben-Gvir e Betslael Smotrich. Non nascondono la loro intenzione di attuare il piano di annessione della Cisgiordania e di imporre la sovranità israeliana su di essa, in quello che chiamano il “piano decisivo”. Incitano apertamente all’uccisione e allo sfollamento dei palestinesi, sia in Cisgiordania che nella Striscia di Gaza. Questa copertura politica è accompagnata dal governo israeliano, in particolare dal ministro della Sicurezza nazionale estremista Ben-Gvir, che sta procedendo a un massiccio armamento dei coloni per difendersi dal “terrorismo palestinese”. Ciò si traduce nel fatto che queste armi vengono fornite ai coloni per uccidere e terrorizzare i palestinesi e impadronirsi delle loro terre con la forza. D’altra parte, gli attacchi dei coloni ai villaggi palestinesi avvengono sotto la forte presenza militare israeliana, che interviene solo se i palestinesi resistono agli attacchi. L’esercito allora spara per uccidere i palestinesi, come è successo nel villaggio di Kafr Malik, a est di Ramallah, la scorsa settimana (l’articolo originale è stato pubblicato il 4 luglio 2025 su Middle East Monitor). L’esercito di occupazione ha anche installato cancelli di ferro e barriere agli ingressi di tutti i villaggi e città palestinesi per impedire la circolazione dei palestinesi e isolare la Cisgiordania attraverso più di 900 barriere e cancelli. Questa punizione collettiva mira a minare qualsiasi tentativo di contiguità territoriale o di autodifesa da parte dei palestinesi e lascia la libertà di movimento esclusivamente ai coloni, dando loro un vantaggio offensivo. Il governo israeliano ha inventato misure legali emanate sotto forma di ordini militari dall’amministrazione civile per modificare la realtà demografica e geografica della Cisgiordania, espellendo un numero maggiore di residenti e consentendo ai coloni di assumere il controllo dell’area. Le autorità di occupazione hanno istituito quello che chiamano “insediamento pastorale”. Ciò significa che consentono a un singolo colono, o a un numero molto ridotto di coloni, di appropriarsi di migliaia di dunam (1 dunam equivale a 1000m2) di terra palestinese per il pascolo del bestiame. Ai palestinesi è vietato coltivare o utilizzare queste terre perché sono diventate pascoli. Immaginate l’immensa ricchezza di cui godrà questo colono, che beneficia di questi pascoli, quando prenderà possesso di queste terre dopo l’annessione della Cisgiordania e l’imposizione della sovranità israeliana su di esse. Ciò ricorda il selvaggio West americano e le storie dei cowboy che uccidevano i nativi americani, si appropriavano delle loro terre e diventavano ricchi. L’amministrazione civile emette anche ordini militari che dichiarano vaste aree “riserve naturali”, vietando ai proprietari palestinesi di coltivarle o raccoglierne i frutti, anche se sono di proprietà privata e sono state coltivate per centinaia di anni. Lo scopo di questa misura è quello di espellere la popolazione indigena e sostituirla con coloni. Un altro metodo per espellere le popolazioni e confiscare la terra consiste nel dichiarare ampie aree “zone militari”, alle quali i palestinesi non possono accedere. Queste aree vengono poi assegnate ai coloni per essere utilizzate sotto la copertura militare. Gli attacchi quotidiani dei coloni includono l’incendio di proprietà come case e automobili, l’incendio di coltivazioni, in particolare uliveti e campi di grano, e il lancio di pietre contro i veicoli palestinesi che viaggiano sulle strade principali. In molti casi, i palestinesi sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco. È significativo che nessuno dei coloni sia stato assicurato alla giustizia, né sia mai stata avviata alcuna indagine sugli incidenti. Il silenzio del mondo è complicità I coloni e i loro leader vedono ora l’opportunità di annettere la Cisgiordania, o gran parte di essa, a Israele. Interpretano il silenzio del mondo e l’incapacità di fermare i crimini di Israele come un via libera per completare la missione. Alla luce dell’incapacità del mondo di fermare la guerra di annientamento a Gaza e la guerra israeliana contro l’Iran, soprattutto data la presenza di un presidente americano filoisraeliano che si allinea quasi completamente all’aggressione israeliana. Tutte queste circostanze e questi eventi sono molto simili alle condizioni che prevalevano a metà degli anni ’40. Dopo la vittoria della Gran Bretagna e dei suoi alleati nella seconda guerra mondiale, i combattenti armati sionisti terminarono il lavoro al fronte e giunsero in Palestina. Dichiararono l’inizio della battaglia decisiva che portò alla pulizia etnica del 78% della Palestina storica in preparazione alla creazione dello Stato ebraico, con l’approvazione internazionale e in particolare occidentale. Durante quel periodo, gli attacchi contro la popolazione indigena si intensificarono e si estesero e le bande sioniste commisero numerosi massacri, in particolare il massacro di Deir Yassin, con l’obiettivo di terrorizzare la popolazione e costringerla ad andarsene e a cedere le proprie terre, cosa che successivamente avvenne. Le bande sioniste si sentirono sempre più sicure e incoraggiate e iniziarono ad attaccare le installazioni e il personale militare britannico, nonché le autorità britanniche che avevano favorito la loro crescita, le avevano armate e avevano permesso l’immigrazione ebraica in Palestina. Uno degli attacchi terroristici più notevoli fu quello del 1946 contro il quartier generale amministrativo britannico al King David Hotel di Gerusalemme. Noi, palestinesi che viviamo in Cisgiordania, siamo esausti per la guerra che ci viene mossa da oltre un secolo. Sentiamo questa nuova catastrofe avvicinarsi a piccoli passi. Siamo indifesi e privi dei mezzi per difenderci dalle bande armate organizzate, sostenute da un governo e da un esercito che imperversano in tutto il Medio Oriente. Il mondo arabo rimane in silenzio e non fa nulla, se non condannare e denunciare gli attacchi dei coloni, mentre l’Occidente è complice del genocidio a Gaza e della pulizia etnica in Cisgiordania. La nostra unica speranza di sopravvivenza risiede nella continua pressione dei popoli liberi sui loro governi e nel fatto che il mondo trasformi la sua condanna verbale in azioni concrete sul campo, ritenendo Israele e i suoi leader responsabili dei loro crimini, boicottandoli economicamente e politicamente e imponendo loro sanzioni prima che sia troppo tardi. di Fareed Taamallah tradotto da Nazarena Lanza Articolo originale: https://www.middleeastmonitor.com/20250704-settler-attacks-in-the-west-bank-memories-of-the-pre-nakba-period/   Redazione Piemonte Orientale
“Sangue e farina”, un video sulla Nakba che si ripete
Amnesty International – Italia racconta la storia di  Amal Khayal, responsabile CISS per la Striscia di Gaza. Dalla Nakba al Genocidio in corso, “Sangue e Farina” è un viaggio doloroso e intenso nella vita di Amal, dei palestinesi, nelle vite spezzate delle persone che hanno perso tutto e che adesso, come lei, stringono forte tra la mani le chiavi della propria casa, ormai distrutta. Oggi come nel 1948. Noi tutte e tutti desideriamo dire grazie ad Amnesty International ma soprattutto ad Amal per la sua testimonianza, per quello che fa ogni giorno instancabilmente per noi e per il suo popolo che non ha mai abbandonato, per le persone che lavorano ancora con noi e si trovano all’interno della Striscia di Gaza tra fame, disperazione e morte. Parliamo di Palestina, non smettiamo mai di farlo. Ciss – Cooperazione Internazionale Sud Sud   Amnesty International
77 anni dopo la Nakba: A Gaza la storia si ripete con una nuova “catastrofe”
Presstv. Di Ivan Kesic. Una nube cupa incombe sulla Striscia di Gaza assediata e devastata dalla guerra, mentre i Palestinesi celebrano 77 anni dalla Nakba – in arabo “catastrofe” – un termine che riporta alla mente le profonde cicatrici degli sfollamenti di massa e l’eredità duratura di un popolo sradicato dalla propria terra. Il 15 maggio si è celebrato in tutto il mondo il Giorno della Nakba, ovvero il “Giorno della Catastrofe”, in commemorazione dello sfollamento di massa e dell’espropriazione dei Palestinesi nel 1948. La Nakba rappresenta un’espulsione su larga scala che accompagnò la creazione dell’entità sionista, attuata con il sostegno delle potenze occidentali. E nulla è cambiato in tutti questi anni. La situazione è solo peggiorata, soprattutto dal 7 ottobre 2023. I discendenti di coloro che furono espulsi con la forza – milioni di musulmani e centinaia di migliaia di cristiani – ora vivono in sei continenti. Eppure, il regime sionista continua a negare loro sia il risarcimento che il diritto al ritorno, riconosciuto a livello internazionale. Gli eventi catastrofici di 77 anni fa presentano una sorprendente somiglianza con l’attuale campagna genocida israelo-americana contro Gaza, che si protrae da quasi due anni. Molti storici sostengono che la Nakba non sia mai veramente terminata. Al contrario, vedono l’attuale attacco a Gaza come la continuazione di decenni di politica sionista di sfollamento, violenza e annientamento. L’entità senza precedenti della distruzione e delle perdite umane a Gaza ha portato alcuni a descrivere la guerra in corso come una “seconda Nakba”, aggravando il trauma collettivo vissuto dai Palestinesi. Le radici della Nakba risalgono al 1947, quando gruppi paramilitari sionisti pesantemente armati lanciarono una campagna di violenza contro la popolazione indigena palestinese, ponendo le basi per decenni di espropriazione. Nei mesi successivi, le forze sioniste occuparono illegalmente l’80% della Palestina storica, distrussero centinaia di villaggi e città, uccisero almeno 15.000 Palestinesi ed espulsero con la forza 750.000 persone – circa l’80% della popolazione palestinese – attraverso una sistematica pulizia etnica. Secondo l’Ufficio Centrale di Statistica Palestinese, delle 774 città e villaggi palestinesi che passarono sotto il controllo israeliano nel 1948, 531 furono completamente distrutti. Molti altri furono parzialmente spopolati o riconvertiti in colonie sioniste. Circa 11 importanti centri urbani – Lidda, Ramla, Haifa, Giaffa, Acri, Tiberiade, Safad, Ashkelon, Beersheba, Beisan e parti di Gerusalemme (al-Quds) – furono spopolati o parzialmente distrutti, con ampi quartieri palestinesi sottoposti a pulizia etnica. Molti Palestinesi divennero rifugiati nei paesi limitrofi o furono sfollati all’interno della Palestina storica. Tuttavia, nonostante tutti i tentativi delle autorità sioniste, i Palestinesi non si sono assimilati né hanno perso la loro identità. Il ricordo della Nakba permane come elemento centrale della coscienza nazionale palestinese. Dall’ottobre 2023, la guerra genocida in corso ha causato la morte di almeno 53.000 persone. Tuttavia, studi recenti suggeriscono che il bilancio effettivo delle vittime potrebbe essere superiore del 46-107%, collocando il numero reale tra 77.000 e 109.000 o anche di più. La guerra ha anche innescato sfollamenti di massa in tutta Gaza, con oltre 1,9 milioni di persone – quasi il 90% della popolazione di Gaza – costrette ad abbandonare le proprie case a causa dell’aggressione militare israeliana. Molti non sono ancora in grado di farvi ritorno, poiché interi quartieri sono stati ridotti in macerie. Oggi Gaza è un territorio urbano densamente popolato, diviso in cinque governatorati: Gaza Nord, Gaza City, Deir al-Balah, Khan Younis e Rafah. Tutti e cinque hanno subito ingenti danni a causa degli incessanti bombardamenti israeliani effettuati con le bombe fornite dagli americani. A Gaza City, il più grande centro urbano, il 74% degli edifici è stato danneggiato o distrutto, compresi interi quartieri come Shujaiya e Jabalia, secondo gli enti governativi locali. In tutta la Striscia di Gaza, il 70% delle strutture – circa 175.000 edifici – è stato danneggiato o distrutto, di cui 70.000 completamente rasi al suolo. La comunità internazionale, attraverso la Risoluzione 194 delle Nazioni Unite del 1948, ha affermato il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi. Tuttavia, l’attuazione è rimasta bloccata per decenni, con una responsabilità minima per lo sfollamento di massa. Negli ultimi due anni, nonostante i ripetuti appelli delle Nazioni Unite per il cessate il fuoco e le indagini su orrendi crimini di guerra, l’applicazione delle misure è rimasta limitata, in gran parte a causa del costante sostegno politico e militare al regime israeliano da parte degli Stati Uniti e di altre potenze occidentali. L’espulsione dei Palestinesi nel 1948 ha innescato una grave crisi umanitaria, poiché i rifugiati sono stati costretti a vivere in povertà, senza un alloggio adeguato e con un accesso limitato ai beni di prima necessità nei paesi confinanti. Oggi, Gaza si trova ad affrontare una catastrofe umanitaria altrettanto grave. La distruzione delle infrastrutture, inclusi ospedali, scuole e aree residenziali, ha portato a gravi carenze di cibo, acqua potabile, elettricità e assistenza medica. Dei 36 ospedali presenti a Gaza prima dell’ottobre 2023, nessuno è ora pienamente operativo. Martedì, l’ospedale Nasser di Khan Yunis è stato l’ultimo a essere bombardato dal regime israeliano. Solo 17 ospedali sono attualmente parzialmente funzionanti, mentre i restanti sono stati completamente distrutti o resi inoperativi a causa di bombardamenti, blocchi o mancanza di rifornimenti. In totale, 114 ospedali e cliniche sono stati chiusi e 162 strutture sanitarie, inclusi 80 centri di assistenza primaria, sono state prese di mira. Almeno 130 ambulanze sono state danneggiate o distrutte. Sebbene il numero esatto di centri medici distrutti durante la Nakba sia sconosciuto, i documenti storici indicano che la maggior parte di essi, nelle principali città palestinesi, furono abbandonati, saccheggiati o riadattati in seguito alle espulsioni di massa. Sia la Nakba che l’attuale guerra genocida a Gaza hanno distrutto anche i luoghi di culto. Nel 1948, oltre l’80% delle moschee nei villaggi palestinesi, stimate tra le 400 e le 500, fu distrutto, profanato o convertito ad altri usi. Ad esempio, la moschea di Saliha fu fatta saltare in aria con i civili al suo interno, uccidendo fino a 94 persone. Nel febbraio 2025, il Ministero delle Dotazioni di Gaza riferì che 814 delle 1.245 moschee della Striscia (circa il 79%) erano state completamente distrutte, mentre altre 148 erano state gravemente danneggiate, portando il numero totale a 962 moschee. Anche il patrimonio cristiano palestinese subì danni in entrambi gli eventi. Durante la Nakba, si stima che tra le 20 e le 50 chiese siano state danneggiate o distrutte, a dimostrazione delle ridotte dimensioni della comunità cristiana (all’epoca circa il 10% della popolazione). Dal 2023, tutte e tre le chiese rimanenti a Gaza sono state danneggiate o distrutte, inclusa l’antica chiesa di San Porfirio, risalente al V secolo. È stato colpito per la prima volta nell’ottobre del 2023, uccidendo 18 civili, e nuovamente nel 2024. Sia nel 1948 che nella guerra attuale, anche i cimiteri palestinesi non sono stati risparmiati. Si stima che almeno 500 cimiteri siano andati perduti durante la Nakba, poiché la maggior parte delle città e dei villaggi ne aveva almeno uno. Molti sono stati distrutti, trascurati o ricoperti dagli edifici crollati. Nell’attuale guerra genocida, almeno 19 dei 60 cimiteri di Gaza – circa il 32% – sono stati deliberatamente presi di mira e distrutti. Secondo resoconti attuali, le tombe sono state profanate, riesumate o rase al suolo. Sia la Nakba che il genocidio in corso a Gaza hanno dovuto affrontare negazionismo, revisionismo storico e occultamento di responsabilità da parte del regime israeliano e dei suoi sponsor occidentali. Sono stati inoltre sistematicamente emarginati dalla storiografia occidentale e ampiamente ignorati o minimizzati nelle narrazioni dei media mainstream. Traduzione per InfoPal di Aisha T. Bravi
Lamezia Terme ricorda la Nakba
Ricorreva il 15 maggio scorso l’anniversario della Nakba, anniversario quanto mai signaficativo in questo momento in cui sono in atto un genocidio e una pulizia etnica di nazi-fascista memoria ai danni del popolo palestinese, un popolo vittima da ben 77 anni. Vittima da quando l’Occidente, i vincitori della seconda guerra mondiale hanno deciso di risarcire gli ebrei per lo sterminio subito durante il secondo conflitto mondiale ad opera dei nazifasciti; appare strano sin dal 1948, anno della nascita dello stato di Israele, che le vittime di ieri siano i persecutori di oggi, vengono in mente in proposito, infatti, le parole pronunciate qualche decennio fa da uno dei più famosi internati di Auswich, lo scrittore Primo Levi “quello che non perdonerò mai ai nazisti è di averci fatto diventare come loro”.  Per ricordare il tragico momento della Nakba, ma soprattutto denunciare i tragici eventi di oggi un folto gruppo di associazioni, collettivi e partiti politici della Calabria centro settentrionale ha organizzato un sit-in di protesta e di sensibilizzazione sul corso Nicotera di Lamezia Terme. Le sigle promotrici sono state numerose, anche se non commisurato il numero dei presenti all’evento; le ricordiamo tutte: Cordinamento provinciale di Catanzaro in solidarietà con il popolo palestinese, Collettivo Addunati-Lamezia Terme, Potere al popolo-Calabria, Fronte comunista, Calabria resistente e solidale, Kalibreria-Soverato, Non una di meno-Lamezia Terme, Collettivo Aurora-Catanzaro, Unical per la Palestina, Agorà-Decollatura, Orto corto-Decollatura, COLPO-Paola, Associazione il futuro Lamezia Terme, Manifesta blog-Mammut Teatro-Lamezia Terme, Associazione ICICA-Lamezia Terme, ARCIAEqua, Orgoglio bisessuale, Associazione culturale Kinema, Scenari Visibili-Lamezia Terme, USB Unione Sindacale di Base-Catanzaro, Associazione Marxisista rivoluzionaria, Controvento Calabria, Partito comunista italiano-Calabria, Partito della rifondazione comunista-Calabria, Movimento per la rinascita comunista-Calabria e Partito comunista rivoluzionario-Calabria   I manifestanti erano tutti muniti di bandiere della pace e palestinesi e non mancavano striscioni con fraHsi ad effetto. Il pomeriggio è stato ricco di interventi tutti molto significativi e importanti per i loro contenuti. Hanno parlato i rappresentanti di alcune delle sigle presenti e tra gli altri: Potere al popolo, sindacato USB, associazione LGBT e persone queer, Non una di meno e studenti Unical per la Palestina. Non sono mancati gli interventi di semplici cittadini e le lettura di poesie come quella quella della più importante poetessa palestinese Fadwua Tuqan di cui qui riportiamo la prima strofa: Brutto tempo; e il nostro cielo è sempre coperto di nebbia. Ma mi dica, di dov’è signorina? Una Spagnola, forse? – No, sono della Giordania. – Scusami, della Giordania dici? Non capisco! – Sono delle colline di Gerusalemme; della Patria della luce e del sole! – Oh, oh! Capisco; sei un’ebrea! Ebrea? Che pugnalata mi ferì al cuore! Una pugnalata tanto crudele e tanto selvaggia! Tutti hanno espresso il loro forte dissenzo nei confronti delle politiche israeliane e del governo di Netanyahu attualmente in carica, ma si sono espressi con forza anche contro l’occidente e governi di tutto il mondo che dal 1948 non ha detto, ma soprattutto fatto nulla per la causa palestinese. Il sionismo è stato definito senza se e senza ma una forma di colonialismo insediativo e Israele un avamposto dell’occidente in medio oriente. Ma il momento più toccante di tutto il pomeriggio è stato quello della testimonianza portata dal giovane palestinese che oggi vive a Soverato e che è appena ritornato dalla Cisgiordania. Shukri, questo è il suo nome, ci ha raccontato della storia sua famiglia, del suo popolo, ma soprattutto ha ribadito, sebbene a tutti presenti fosse abbastanza chiaro, la gravità della situazione a Gaza evidenziando la necessità che le forze politiche di tutto il mondo seguano la strada indicata dall’ONU che ha dichiarato le azioni compiute da Netanyahu e dal suo governo “atti di genocidio e di pulizia etnica”. L’evento si è chiuso al grido di “Palestina libera dal fiume al mare” e, soprattutto, con l’auspicio che il mondo possa fermare il genocidio e la deportazione in atto e i bambini di Gaza riprendere a sorridere. Stupisce in questo triste momento e anche in questa manifestazione l’assenza del mondo cattolico-cristiano e dei credenti in genere; perchè, parafrasando il Talmud possiamo dire “Dio è dalla parte del perseguitato” lo è ora dalla parte dei palestinesi, come durante la seconda guerra mondiale lo era degli ebrei. Due popoli accumunati da un triste destino di persecuzione che avrebbero potuto “allearsi” per sconfiggere il l’odio e la vendetta.    Anna Murmura
Colonialismo e decolonizzazione in Palestina. Intervista allo storico Ilan Pappé
Oggi, 15 maggio 2025, giorno in cui ricorre la Nakba, la catastrofe causata dall’operazione di pulizia etnica del 1948 con cui le truppe sioniste cacciarono 750.000 palestinesi dalla propria terra e ne massacrarono migliaia, divulghiamo un lavoro sulla questione palestinese delle classi VA, VE, IVE del Liceo Scientifico “Righi” di Roma. Si tratta di un libro intitolato “Colonialismo e decolonizzazione in Palestina”, che contiene un’intervista allo storico di fama internazionale Ilan Pappé, realizzata dagli studenti e dalle studentesse delle suddette classi, uno stimolo alla conoscenza della questione coloniale in Palestina e alla lotta per spezzare il silenzio, la censura e la complicità di governi e istituzioni non solo riguardo alla Nakba storica, ma anche a quella che i palestinesi definiscono ”al nakba al mustamirra”, “Nakba in corso”, il genocidio che tristemente osserviamo impotenti dai nostri cellulari. Redazione Roma