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Fermare Israele
Il dibattito tra chi sostiene che la soluzione del conflitto mediorientale stia nella formula “due popoli, due Stati” e chi invece ipotizza la costituzione di un’unica entità statale, testimonia la giusta volontà di trovare una soluzione che salvi i palestinesi dallo sterminio, ma diventa una discussione sterile se si cerca di entrare troppo (e troppo astrattamente) nel merito delle ipotesi, perché ciò che solo conta in questo momento è fermare Israele prima che sia troppo tardi. Israele si presenta oggi come un tragico incidente della storia. Di base, si tratta del classico caso di interpretazione integralista, assolutizzata ed escludente, di una credenza religiosa che pensa di potersi imporre a dispetto di tutto e di tutti. Uno degli aspetti più caratteristici e deleteri di questo estremismo religioso è quello che si esprime attraverso l’idea della “guerra santa”. Una distorsione che in vari momenti della storia ha interessato in particolare tutte le religioni monoteiste come il Cristianesimo e l’Islam, mettendone in discussione quello che per altro verso va considerato il loro indubbio e positivo valore storico. Il sionismo rappresenta oggi questo tipo di estremismo, capace di mettere in gioco la stessa sopravvivenza del popolo palestinese sottoposto agli orrori del genocidio in corso. Bisogna fermare Israele! Non ci sono alternative! Se ciò non avverrà, domani, quando il presente sarà storia, ci chiederemo come sia stato possibile. Piangeremo i morti, ma ciò non basterà, perché resterà comunque aperta una ferita che prima di rimarginarsi potrebbe produrre altri conflitti, odi permanenti e ipotesi di vendette. Il male purtroppo, molto spesso, non produce altro che male. Oggi pagano i palestinesi. Domani pagheremo tutti, compreso il mondo ebraico che dovrà portare la macchia di questa onta, esattamente come la memoria delle crociate pesa ancora, a distanza di secoli, sul mondo cristiano. Fermare la follia sionista non è facile. Molte cose giocano a suo favore. La memoria dell’Olocausto, innanzitutto, che pesa più di qualunque altro misfatto del passato, proprio perché avvenuta entro le mura di casa nostra, sotto i nostri occhi e non in terre lontane. Qualcuno sostiene che da quel momento, al culmine dei tanti orrori della “seconda guerra dei trent’anni”, (come viene ormai sempre più spesso definito il periodo che va dal 1914 al 1945), si cominciò a delineare un nuovo modo di vedere la storia, al centro della quale non stava più “la figura dell’eroe vincente”, quanto piuttosto quella della “vittima”. Certamente un grande passo in avanti nel modo di vedere le cose. Una spinta alla speranza del cambiamento rivoluzionario in favore degli sfruttati e degli oppressi, che tuttavia, come tutte le cose di questo mondo, poteva essere ribaltata mostrando il suo possibile lato oscuro. A partire dall’inizio degli anni Settanta, Israele ha giocato sulla (falsa) identificazione di antisionismo ed antisemitismo, autoproclamandosi depositaria dell’eredità dell’Olocausto. L’attenzione ed il valore dell’essere “vittima”, come motore di una nuova etica della pace e dell’uguaglianza tra possibili “fratelli diversi”, è stata in questo modo trasformata in una sorta di diritto alla “pretesa della vittima vendicata”. Una follia che equivale a dire: “io sono per sempre la vittima, e chi è contro di me, a prescindere da ciò che io faccia e da ciò che lui dica, è per sempre il carnefice”. Sul piano della ragione sarebbe fin troppo facile smontare simili pretese, ma purtroppo a fare gioco è anche il profondo senso di colpa che attraversa l’Occidente per quanto avvenuto in passato, e che viene artatamente trasformato, da motore verso l’affermazione di un più radicale senso di giustizia, ad un passivo bisogno di espiazione: “tu sei per sempre il colpevole e non hai diritto di parola”. In questi suoi sporchi giochi Israele può poi contare, come suo ulteriore punto di forza, sull’appoggio incondizionato dell’Occidente, Usa in testa, che si serve dello Stato ebraico sul piano geopolitico, come avamposto armato nel cuore del mondo islamico, potendo anche, all’occorrenza, distinguere (sempre molto timidamente) la propria posizione da quella dello Stato sionista, giocando tra guerra e diplomazia. Come fermare dunque Israele? In realtà, anche su questo, sul piano puramente ipotetico la risposta sarebbe facile: ISOLAMENTO TOTALE dello Stato sionista, sia politico che valoriale, da parte del resto del mondo, motivato da un senso di repulsa e di sdegno che considera il genocidio in atto a Gaza come qualcosa di scandaloso che non ha bisogno di altre parole. Rottura dei rapporti diplomatici e commerciali. Se possibile espulsione dall’ONU, e al culmine dell’isolamento eventuale intervento di forze di interposizione. Sto sognando? Può darsi! In ogni caso la possibilità che le cose si evolvano positivamente e che Israele sia infine fermato, non credo possa essere affidata ai giochi delle diplomazie degli Stati, che nulla hanno potuto (o voluto) in quasi ottanta anni di arbitrio sionista. La sola ed unica speranza sta nella crescita di un movimento che sia in grado di mobilitare decine di milioni di persone in tutto il mondo. Solo in questo modo, creando una opinione pubblica a livello globale che si opponga al genocidio, si potranno piegare le politiche degli Stati, dando anche voce e visibilità alle forze ebraiche antisioniste, oggi messe all’angolo. Si farà in tempo a fermare le mani sporche di sangue dei sionisti? Non lo so! Quello che certamente so è che non vorrei che tra cinquanta o più anni, i nostri nipoti, oggi bambini, siano costretti a fare i conti con tutti i mali e le eredità di una catastrofe che la nostra generazione non ha saputo fermare. Per approfondire: Ilan Pappé, Dieci miti su Israele (Tamu ed.)- Ilan Pappé e Noam Chomsky, Palestina e Israele: che fare? (Fazi, ed.) e tanto altro (N.d.R.) Antonio Minaldi
Palestina: un solo stato senza apartheid?
Ieri in Consiglio Comunale a Biella è stata dibattuta una mozione in solidarietà con la Palestina presentata dalla coalizione progressista . E’ una mozione standard impostata sulla proposta di soluzione “due popoli due stati”. Alla lettura della mozione da parte di Greta Cogotti del PD è seguito un minuto di silenzio per le vittime del conflitto richiesto da Karim El Motarajji e rispettato da tutti i presenti in aula. Poi si sono susseguiti gli interventi, alcuni anche con proposte da approfondire; ci riferiamo in particolare all’intervento di Ivo Dato che, oltre ad aver citato Simone Weil, ha anche portato all’attenzione dei presenti altre possibilità di soluzioni oltre a quella “due popoli, due stati”. Posto che la decisione sulle soluzioni non sta a noi e che l’emergenza immediata è il cessate il fuoco e gli aiuti umanitari,  forse aprire a altre possibilità può aiutare ad uscire da questa situazione drammatica. Riportiamo l’opinione di Giuseppe Paschetto, coordinatore provinciale del M5S di Biella, nonché parte della Redazione Piemonte Orientale di Pressenza. Speriamo così di poter contribuire al dibattito per la pace in città e, magari, alla presentazione di una nuova mozione in Consiglio Comunale a Biella. Un solo Stato di diritto per tutti di Giuseppe Paschetto Nel dibattito in corso sul futuro della Palestina penso occorra mettere sul tavolo tutti gli scenari possibili. Cosa possiamo fare tutti insieme per far riconoscere i diritti dei palestinesi e di chiunque viva in quel territorio? Lo scenario considerato nello slogan “Due popoli, due Stati” è l’unica via o si può provare ad esplorare altri scenari? Quello che scrivo vuole essere un contributo al dibattito tenendo conto del fatto che nulla comunque può essere ottenuto senza difficoltà in quell’area geografica. Forse è venuto il tempo che Israele come nazione degli ebrei si estingua per fare nascere un nuovo Stato in cui tutti quelli che lo abitano abbiano diritto di cittadinanza. Al di là di ogni differenza religiosa e culturale. Una tesi caldeggiata anche da una intellettuale come Anna Foa in una recente intervista. Nulla può più essere come prima dopo l’orribile strage causata dal governo israeliano a Gaza. Ci sono momenti storici di svolta. Israele da Stato di ispirazione socialista degli esordi è diventato un Pese con nette connotazioni nazionaliste-religiose. Dopo la sconfitta sanguinosa nella seconda guerra mondiale dalle ceneri del Terzo Reich è nata una nuova Germania che è riuscita a riallacciare i rapporti con gli altri Paesi europei e a fare i conti con le vittime che aveva causato, con quegli ebrei sterminati a milioni. Dalla trasformazione di Israele potrebbe nascere una confederazione israelo-palestinese che nasca dalle macerie di Gaza, della Cisgiordania, dai lutti e dall’odio sedimentati negli ultimi 77 anni. La fine del ciclo di uno Stato degli Ebrei per diventare il Paese di tutti quelli che ci vivono, ebrei o arabi che siano. È difficile del resto pensare a uno Stato palestinese quando i suoi territori dovrebbero essere formati da una striscia di Gaza devastata e dalla Cisgiordania costellata di insediamenti di coloni. Se osserviamo la carta della Cisgiordania occupata illegalmente dagli israeliani la vediamo costellata di centinaia di colonie diffuse a macchia di leopardo per centinaia di migliaia di coloni ebrei. O se vogliamo pensare a un paragone più calzante pensiamo a quei cartelli stradali come se ne vedono a volte tutti bucherellati dai pallini di una sventagliata di fucile da caccia. Quelli sono gli insediamenti dei coloni. Già quindi la Cisgiordania dovrebbe vedere la convivenza di una consistente fetta di ebrei nel nuovo Stato Palestinese oppure si assisterebbe a una Nakba al contrario dopo quella palestinese del 1948. Quindi un intero territorio che possa essere popolato da ebrei, islamici, cristiani, israeliani, palestinesi, beduini, con una costituzione, e sappiamo che Israele non ha una vera costituzione, che riconosca parità di doveri e diritti. Si tratterebbe di un unico Paese, dal Golan al Mar Rosso, dal Mediterraneo al Mar Morto, che sia territorio comune. È una utopia? Può darsi. Ma cosa non è utopia in quel territorio devastato in cui invece le differenze religiose e culturali dovrebbero essere elementi di ricchezza? E del resto su piccola scala questa utopia si è realizzata già da 50 anni a Neve Shalom Wahat as Salam, il villaggio israeliano citato anche da Anna Foa nell’intervista citata, gemellato da oltre 30 anni con Cossato. Un’utopia da esportare su grande scala. I combattenti per la pace, israeliani e palestinesi, che hanno imparato quale sia la vera strada per la pace e il dialogo, sono un altro incoraggiante segno. Sono germogli da curare e fare crescere per non fare morire la speranza e credere che anche le utopie più ardite possano divenire realtà. Oggi la realtà che si contrappone alle utopie è fatta solo di morte e distruzione e odio che rischia di protrarsi per generazioni e che nessun confine o muro riuscirà a fermare. Occorre avere il coraggio di gettare lo sguardo oltre questa realtà fatta di macerie materiali e ideali. Questo passo forse sarebbe il vero riconoscimento dei diritti e della dignità del popolo palestinese da troppo tempo martoriato. Certamente il ruolo della comunità internazionale è fondamentale. E’ chiaro che la potenza economica e militare di uno Stato piccolo come la Lombardia e con lo stesso numero di abitanti non potrebbe esistere senza l’enorme appoggio della potente lobby sionista americana, il pluridecennale sostegno USA e il commercio con gli altri Stati occidentali. Quindi entra in gioco in qualsiasi scenario vogliamo considerare il ruolo della comunità internazionale. Qualche Stato, non l’Italia, ha già iniziato a far capire a Netanhiau che il limite è abbondantemente superato. Redazione Piemonte Orientale
In tantissimi, Israeliani e palestinesi insieme, per dire “La pace ora”
People’s Peace Summit di Gerusalemme, 8 – 9 maggio Migliaia di persone hanno riempito ieri ogni possibile spazio dell’International Convention Center di Gerusalemme per il People Peace Summit che nell’arco di questo mese abbiamo provato a raccontare intervistando alcuni dei principali promotori. Ed è stato un successo, platea piena, ripetuti applausi per tutti gli interventi, una chiarissima dichiarazione di “basta con questa guerra devastante per tutti” e una corale manifestazione di unità, nella sollecitazione di una soluzione politica al conflitto. Organizzato dalla It’s Time Coalition, alleanza di oltre 60 organizzazioni per la pace, la riconciliazione e la convivenza, è stata la più grande mobilitazione contro la guerra dal 7 ottobre: una due-giorni che si è inaugurata nel pomeriggio di giovedì 8 maggio, con  un fitto programma di appuntamenti culturali in tutta la città: proiezioni di film, concerti, mostre d’arte di artisti ebrei e arabi, e naturalmente dibattiti e incontri (elenco delle iniziative qui: https://www.timeisnow.co.il/thursday-english).  Ma il piatto ‘forte’ era appunto ieri, venerdì, al Jerusalem International Convention Center, con la plenaria nella Main Hall la mattina e a seguire 12 sessioni simultanee. Oltre 5000 (secondo gli organizzatori) i partecipanti, tra cui parecchi militari israeliani contrari alla guerra in corso, molti familiari degli ostaggi, sopravvissuti agli attacchi terroristici, parenti in lutto per le vittime della guerra, residenti della regione di confine di Gaza, esperti legali, artisti, diplomatici, opinion leaders, sia ebrei che arabi: un bel campionario di società civile per niente rassegnata, anzi in movimento, unita dal forte e corale appello: “It’s now! È ora di porre fine alla guerra“. “Siamo qui per ricostruire un forte campo di pace” ha esordito l’attore e conduttore israeliano Yossi Marshek inaugurando la sessione mattutina. È seguita la testimonianza del pilota che qualche settimane fa aveva promosso una lettera molto discussa (molto ripresa dalla stampa internazionale), firmata da centinaia di militari israeliani attualmente (e anche non più) in servizio, in cui denunciava l’inaccettabilità delle operazioni di guerra verso obiettivi per lo più civili, e sollecitava l’immediato cessate il fuoco. Tantissimi gli spunti emersi nella sessione di apertura dal titolo “Ci sono partner e c’è una via”: troppi per essere riassunti in un unico articolo, ci sarà tempo in seguito, anche per un bilancio. Ma indubbiamente il focus tematico principale della mattinata è stato il dibattito circa le varie soluzioni sul tappeto, in vista di una soluzione politica al conflitto. E su questo punto si sono espressi l’ex primo ministro israeliano Ehud Olmert, insieme all’ex ministro degli esteri palestinese Nasser al-Qidwa, che hanno presentato il ‘piano di pace’ che da tempo stanno promuovendo.  “La pace è essenziale ma dobbiamo offrire alla comunità internazionale e ai nostri due popoli un piano che possa dirsi fattibile e l’unico piano è la soluzione a due Stati” ha detto Olmert. “Ci sarebbero altre idee, come la soluzione ‘unico stato’ che non ci trova d’accordo, che riteniamo la miglior ricetta per l’infinito scontro fra i due popoli. Siamo per una soluzione che possa offrire un reale cambiamento nelle relazioni fra i due popoli, a cominciare dal diritto all’autodeterminazione, alla libertà di movimento e di voto a parità di condizioni, in condizioni di completa eguaglianza per tutti i cittadini di ciascun stato. E dunque il nostro piano prevede una soluzione a due Stati basata sui confini pre-1967 di Israele: quando il partito Likud entrò per la prima volta al governo, nessuno credeva che Menachem Begin avrebbe fatto pace con l’Egitto e che Israele si sarebbe ritirato dal Sinai, e invece è successo!” “Questa conferenza è indubbiamente importante” ha aggiunto Nasser al-Qidwa intervenendo in videomessaggio. “Ma poiché l’establishment israeliano farà di tutto per boicottare questa soluzione, dipende da noi credere nella coesistenza, nella redistribuzione dei territori come unica garanzia di futuro comune. Ma senz’altro occorre mettere fine al colonialismo d’insediamento. Occorre fare una scelta: o si pensa che la terra appartiene già tutta a Israele, che quindi ha diritto di colonizzarla ed espellere la gente che ci vive dalla Cisgiordania come da Gaza; oppure bisogna creare le condizioni di coesistenza per i due popoli, occorre credere nella divisione dei territori, senza escludere forme di cooperazione. (…) La prima cosa da risolvere però è Gaza, è urgente arrivare ad un accordo: per il rilascio degli ostaggi parallelamente al  rilascio dei prigionieri palestinesi. E chiaramente la struttura governativa dovrà essere legata all’Autorità Nazionale Palestinese, cui delegare la responsabile per la ricostruzione di Gaza. (…) Naturalmente sarà necessario negoziare tante cose: insediamenti, rifugiati, misure di sicurezza su entrambi i fronti ecc. Ma niente sarà possibile, se non creeremo una nuova cultura, tra israeliani e palestinesi. Oggi siamo qui per dire che insieme dobbiamo andare avanti e costruire un futuro. Solo così potremo contare.” Solo pochi minuti prima il giornalista palestinese Mohammed Daraghmeh, presente di persona grazie ad un permesso ‘concesso’ proprio all’ultimo momento, aveva descritto una situazione in Cisgiordania già molto ‘israelizzata’:  “Andando da Ramallah a Nablus per esempio c’è tutta una geografia e una quantità di infrastrutture – ponti, strade, segnaletica, aziende agricole, impianti per la produzione di energia solare – che sembra di essere in Israele. Israele ha usato la guerra a Gaza come copertura per annettere anche la Cisgiordania, che per il 60% è ormai soggetto a progetti d’insediamento secondo il ben noto piano di Bezalel (Ministro della Difesa Israeliano), che ha creato un dipartimento apposta per agevolare l’espansione dei coloni, rendendo le comunità palestinesi dei cantoni. (…) Ma se Israele e Palestina vengono lasciati a loro stessi, non c’è speranza, è da 30 anni che negoziano senza successo, con Israele che ha continuato a mangiare la torta messa sul tavolo negoziale. Senza una forte pressione da fuori per fermare gli insediamenti dei coloni, non c’è futuro per lo Stato Palestinese. Agli israeliani vorrei dire però che l’espansione degli insediamenti sarebbe controproducente anche per loro, perché alla fine si ritroveranno con uno Stato unico, con i problemi che possiamo prevedere. (…) E dunque è importante che su questo problema intervenga anche la comunità internazionale, con sanzioni che scoraggino gli insediamenti, in modo da frenare questa espansione che rende sempre più difficile la soluzione a due stati.”  Sulla questione è intervenuta anche Rula Hardal alla co-direzione (insieme all’israeliana May Pundak) dell’organizzazione A Land for All: “Si parla di due Stati ma la realtà sviluppatasi sul terreno ormai da decenni non è quella della separazione. Siamo interconnessi e dobbiamo capire che occorre un altro piano per rispondere a questa situazione d’interdipendenza. Per questo proponiamo una soluzione confederativa, con istituzioni e soluzioni condivise, per esempio sul piano della salute, dell’ambiente, dell’educazione, cioè … della convivenza. Ci sono poi tematiche difficili che le due parti non hanno mai davvero affrontato, come il diritto al ritorno. Il 7 ottobre e la guerra genocida che ne è seguita sono stati momenti di non ritorno, sia per i palestinesi che per gli israeliani…” Le ha fatto eco May Pundak: “Pensiamo anche alla crisi climatica, ai corsi d’acqua… dobbiamo capire che la segregazione non assicura a nessuna delle due parti un futuro di sicurezza. L’interdipendenza israelo-palestinese è il punto di partenza.” In un videomessaggio da Ramallah, il presidente palestinese Mahmoud Abbas si è limitato a una dichiarazione di circostanza: “Attraverso la giustizia, possiamo garantire la sicurezza e un futuro a tutti i popoli della regione: la pace è possibile e dipenderà da tutti noi renderla possibile.” E in rappresentanza della tanto evocata ‘comunità internazionale’ è intervenuto in video messaggio per ben 5 minuti il primo ministro francese Emmanuel Macron: “I nostri cuori sono sia con le famiglie Israeliane che con quelle Palestinesi. Sosteniamo con la più grande convinzione questo processo di pace che ha reso possibile queste due giornate a Gerusalemme, in coincidenza con le celebrazioni della fine della guerra 80 anni fa in Europa, e intendiamo essere al vostro fianco per qualsiasi futura iniziativa” e in particolare ha accennato a un molto prossimo tavolo negoziale, che dovrebbe avvenire in Arabia Saudita nel mese di giugno (YouTube qui (150) Macron – It’s time: my message to the People’s Peace Summit in Jerusalem. (09.05.25) – YouTube). Tra i tanti interventi non potevano mancare quelli di coloro che la guerra ha colpito negli affetti: Maoz Inon (tra i principali organizzatori di questo evento) che ha perso entrambi i genitori amatissimi il 7 ottobre; Liat Atzili, il cui marito è stato ucciso nello stesso giorno; Sigalit Hilel, madre di Ori, ucisso al Nova Music Festival; Elana Kamin-Kaminka, madre di Yannai, ucciso anche lui il 7 ottobre. “E’ da oltre un secolo che siamo vittime di questo ciclo di violenza” ha detto Elana. “E’ ora di utilizzare tutte le nostre risorse di umanità e creatività per la soluzione di questo conflitto, lo dobbiamo ai nostri figli.”  Parole non diverse da quelle della palestinese Soumaya Bashir, dell’organizzazione Women Wage Peace: “Come donne, affermiamo la vita contro chi vuole solo morte e davastazione. Guai rifugiarsi nel silenzio e nel dolore, il momento di unirsi tutte e tutti nell’azione è adesso!” E da Makbula Nassar, giornalista e attivista, l’appello: “Ascoltiamo le grida dei bambini affamati di Gaza. Mettiamo fine alla crudeltà e ai crimini cui da troppo tempo assistiamo, perché non ci sarà ‘un giorno dopo’ per le nostre coscienze e tutti noi meritiamo di essere liberati da questa infinita oppressione. E solo con la pace, potremo esserlo.” Entrambe le giornate sono state trasmesse in diretta streaming a decine di raduni di solidarietà in più di 20 città in tutto il mondo, tra cui Londra, Berlino, Sydney, New York e Boston. Per l’Italia ci sono state proiezioni collettive a Firenze, a cura della sezione fiorentina di “Sinistra per Israele” e presso l’Università di Udine.  Link ai precedenti articoli su Pressenza: Intervista agli organizzatori Maoz Inon e Aziz Abu Sarah https://www.pressenza.com/it/2025/05/verso-il-peoples-peace-summit-di-gerusalemme-8-9-maggio-le-parole-di-yair-asulin/ https://www.pressenza.com/it/2025/04/verso-il-peoples-peace-summit-di-gerusalemme-8-e-9-maggio-intervista-ad-aziz-abu-sarah/ Intervista a Nivine Sandouka: https://www.pressenza.com/it/2025/04/verso-il-peoples-peace-summit-di-gerusalemme-8-e-9-maggio-intervista-ad-aziz-abu-sarah/ Intervista alle co-produttrici Mika Almog, May Pundak, Maya Savir: https://www.pressenza.com/it/2025/05/verso-il-peoples-peace-summit-di-gerusalemme-8-9-maggio-quando-le-donne-si-muovono/ Presentazione dell’iniziativa: https://www.pressenza.com/it/2025/05/peoples-peace-summit-di-gerusalemme-8-e-9-maggio-ma-di-che-pace-stiamo-parlando/   Daniela Bezzi