Il vento della pace può soffiare da Gerusalemme? Sul Summit di pace dell’8 e 9 maggio
Gaza è un campo di sterminio, denuncia il segretario generale dell’Onu, Antonio
Guterres. Impassibili, Netanyahu e Smotrich confermano. Pronti all’invasione e
occupazione dell’intera Striscia, obiettivo dichiarato la pulizia etnica. “La
popolazione sarà spostata”
“Coscienza”, in Occidente, è ormai solo il nome di una nave di volontari della
Freedom Flotilla Coalition, che dal 2008 tenta di rompere l’assedio di Gaza. La
nave che hanno affondato, al largo di Malta. Buio e silenzio in fondo al male:
gli occhi di duecentodiciassette giornalisti spenti, forse ormai di più: anche
loro nel silenzio della maggior parte dei colleghi europei. Se devo morire/tu
devi vivere/per raccontare la mia storia, scriveva Refaat Alareer, docente di
letteratura inglese, prima di essere assassinato insieme a gran parte della sua
famiglia a Gaza City. Oh, andatevelo a leggere, quel prontuario della lingua
felpata o bifida della grande stampa italiana, quel florilegio dei cinismi e
della viltà che è (insieme ad altro, molto altro, come i diari dall’inferno del
reporter Alhassan Selmi e i pastelli dell’anima, colorati di dolore e di
speranza, di Marcella Brancaforte) il libro di Raffaele Oriani, Hassan e il
genocidio (People 2025): il giornalista che un anno fa ha rinunciato alla
prestigiosa testata su cui scriveva perché dove lui vedeva “un’unica cosa
enorme” la maggior parte delle maggiori firme troncavano, sopivano,
banalizzavano – o addirittura aggredivano le vittime.
“Scrivo mentre il mondo continua a voltarsi dall’altra parte”, esordisce il
libro appena uscito di Rula Jebreal: Genocidio. Quello che rimane di noi
nell’era imperiale (Piemme). Il genocidio “ha rivelato il vuoto morale e
politico di un mondo che riduce l’umanità a una gerarchia di morte”
Siamo in fondo al male, certo. Eppure c’è un mistero che la dialettica di Hegel
e di Marx aveva (piuttosto infelicemente) tentato di rendere loico: lo stesso
cui senza teologali pretese accennava quel sussurro di voce rimasta a papa
Francesco per le sue ultime parole Urbi et Orbi, annunciando Pasqua, cioè
resurrezione, mentre moriva. Trasformando la sua effettiva via crucis nella via
regia – muta e dolorosa – dell’ultimo suo giro fra la folla. Ascoltai, a
Gerusalemme, a Pasqua, a San Giacomo degli armeni, la stessa
improvvisa coincidentia oppositorum del dolore immemoriale di tutti i genocidi
(e gli armeni ne sanno qualcosa), quando dal profondo sale all’alto, al lieve,
all’avvolgente canto di salvezza. Più prosaico, più timido ritrovai lo stesso
annuncio nell’omelia del Patriarca latino di Gerusalemme, oggi papabile. Di
desolazione: una tomba. Nient’altro che una tomba vuota. E di consolazione: la
parrocchia di Gaza, “una piccola barca ancorata alla vita, in un mare di dolore
e di sofferenza”. La stessa che fino all’ultimo giorno il papa morente aveva
amato, senza più parole.
A Gerusalemme si prepara per l’8 e il 9 maggio da oltre un anno, un Summit
popolare di pace, “il più grande, partecipato, complicato, importante convegno
di pace mai tentato prima d’ora in Medio Oriente, e forse nel mondo. Oltre 60
diverse organizzazioni hanno aderito, in migliaia approderanno a Gerusalemme da
altre città di Israele, interventi sono previsti anche dalla Palestina benché
solo via internet, e da tutto il mondo sarà possibile seguire in streaming”. Ne
scrive Daniela Bezzi sul sito di Assopace e su Pressenza, dove oltre a tutta
l’informazione necessaria si trovano anche interviste ai due principali
iniziatori del progetto: l’israeliano Maoz Inon, che ha perduto i genitori nel
massacro del 7 ottobre, e il palestinese Aziz Abu Sarah, che ha perduto un
fratello torturato a morte nelle carceri israeliane. Entrambi abbracciati l’anno
scorso da papa Francesco, all’Arena di Pace di Verona. Ma, avverte, in
collegamento con Gerusalemme il palestinese Sayel Jabareen da Beit Jala: “Non è
certo per equiparare l’oppressore e l’oppresso che abbiamo deciso, da partners,
di rompere il ciclo di silenzio e divisione per convenire in uno spazio di
dolore condiviso. Ma per insistere nella nostra umanità e dichiarare che ci
rifiutiamo di permettere che tutta questa sofferenza continui”.
Vogliamo provare a crederci? Cioè ad esserci? Con tutti i nostri numerosi ma
ancora troppo impercettibili sussurri, le molte iniziative sperse e sparse per
tutta la penisola che si stringe al calvario della Palestina. Insieme, forse,
faremmo una ruah, il vento della vita che risorge.
Roberta De Monticelli. Il Manifesto
Ripubblicazione autorizzata dall’autrice
Redazione Italia