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Guerra grande, strozzature e specchi di faglia
Qui il pdf: guerra grande, strozzature e specchi di faglia GUERRA GRANDE, STROZZATURE E SPECCHI DI FAGLIA Se conosci il nemico e te stesso, la tua vittoria è sicura. Se conosci te stesso e non il nemico, le tue probabilità di vincere e perdere sono uguali. Se non conosci il nemico e nemmeno te stesso, soccomberai in ogni battaglia. Sun Tzu, L’arte della guerra «Questo è il momento della pace attraverso la forza. È il momento di una difesa comune. Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi sarà necessario più coraggio. E altre scelte difficili ci attendono. Il tempo delle illusioni è finito.» Così dichiarava, il 4 marzo scorso, la presidente della Commissione UE Ursola Von der Leyern presentando un piano di 5 punti per il riarmo degli Stati appartenenti all’Unione Europea, mobilitando quasi 800 miliardi di euro per le spese per la difesa. L’annuncio precede e si aggiunge al maxi fondo tedesco da 500 miliardi di euro che il Bundestag, il parlamento tedesco, ha approvato il 18 marzo con i voti della SPD, della CDU-CSU e dei Verdi, unitamente alle modifiche costituzionali per investire nel riarmo e per superare lo “scoglio” del limite del debito e della spesa statale. L’accordo multimilionario per finanziare la difesa tedesca dà a sua volta impulso al piano di riarmo europeo. Quest’ultimo è strutturato ed articolato su 5 punti strategici. Il primo punto del piano “ReArm Europe” prevede l’attivazione della clausola di salvaguardia nazionale del patto di stabilità (ovvero il regolamento che disciplina i bilanci degli Stati UE). Questa misura permetterà agli Stati membri di aumentare la spesa per il riarmo anche oltre il limite del 3% del deficit senza incorrere nella procedura di infrazione europea. In pratica i governi potranno investire di più in armamenti senza temere sanzioni dell’UE (cioè fare ciò che tutti i governi e politici sia di destra che di sinistra dicevano che era impossibile per le spese sociali e sanitarie). Il secondo punto prevede un nuovo strumento finanziario da 150 miliardi di euro per investimenti militari “condivisi”. La particolarità è che questi investimenti militari saranno per equipaggiamenti standardizzati fra eserciti di Stati diversi, così da assicurare che i sistemi militari possano operare assieme in caso di guerra. Per istituire questo meccanismo la Commissione UE utilizzerà l’articolo 122 del trattato dell’Unione, che consente di costruire strumenti finanziari di emergenza senza l’approvazione del parlamento degli Stati europei. Il terzo punto introduce la possibilità di utilizzare i fondi destinati alla pacificazione sociale (i cosiddetti “fondi di coesione” presenti in ogni “piano di resilienza” introdotto negli anni passati ed emanazione diretta del manifesto della borghesia e degli Stati europei, ovvero il documento Next generation UE) per progetti di riarmo di guerra. Il quarto punto del piano prevede il coinvolgimento della Banca Europea per gli Investimenti nel finanziamento a lungo termine per investimenti di natura militare, mentre il quinto e ultimo punto ordina la mobilitazione generale del cosiddetto capitale privato, ovvero il furto di classe dei piccoli risparmi delle classi sociali non privilegiate del vecchio continente per finanziare la guerra dei padroni e degli Stati, drenando soldi dai piccoli conti bancari per trasformarli in capitali di rischio in investimenti militari e nella re-industrializzazione del vecchio continente. Il provvedimento proposto da Mario Draghi ed Enrico Letta dopo il successo ottenuto negli anni passati a danno delle classi sfruttate per finanziare le grandi opere nello Stato italiano (anche in questo caso, come per il “fronte interno” degli Stati articolato nelle misure repressive, la classe dominante e lo Stato italiano fanno scuola in Unione Europea). L’ideologia nazionalista fa da involucro e da parte in causa nel muovere la guerra globale, sia nelle sue varianti dichiaratamente reazionarie (ad esempio tutti i partiti di estrema destra chiedono maggiori attenzioni ai vari riarmi nazionali) sia nelle varianti progressiste e sinistrorse (evidenti sono, ad esempio, le dichiarazioni in Francia di alcuni esponenti del Nouveau Front Populaire sull’urgenza di ri-creare un’ideologia patriottica e nazionalista di sinistra). In questo clima di union sacrée e di mobilitazione delle coscienze e dei corpi, disertare (per quanto ci riguarda) dal fronte occidentale diviene un’urgenza sempre più impellente. Come fare? Cerchiamo innanzitutto di fotografare le dinamiche e di fissare alcune coordinate della “Guerra Grande” in corsa sempre più veloce sul piano inclinato che ci sta portando verso l’abisso, partendo dal fronte orientale europeo e tenendo ben saldi nelle mani il sestante del disfattismo rivoluzionario e dell’internazionalismo antiautoritario. La vittoria della porzione della classe dominante statunitense che sostiene l’amministrazione Trump ha impresso una accelerazione crescente al rafforzamento dell’interventismo dello Stato a stelle e strisce nell’area del continente americano, africano, mediorientale e soprattutto indo-pacifico, mentre con l’avvio dei colloqui e degli “incontri di pace” fra classe dominante russa e nord-americana si evidenzia la crescente contrapposizione con le borghesie del vecchio continente (degno di nota che uno di questi “incontri di pace” si è tenuto nella città di Monaco, già teatro della tristemente nota conferenza di pace del 1938) nell’onda di una sorta di Yalta 2.0 che ricorda bene le dichiarazioni del primo segretario generale dell’Alleanza Atlantica, ovvero che la Nato serve a: “tenere dentro gli americani, fuori i russi e sotto i tedeschi”. Ciò ci porta a ricordare l’obiettivo del più grosso atto di guerra realizzato in questi ultimi anni in Europa a danno dei padroni di casa nostra, ovvero il sabotaggio del gasdotto Nord Stream. Negli ultimi mesi il territorio della regione di Kursk, così come le aree di confine tra la regione ucraina di Sumy e quella russa di Belgorod, sono state completamente riconquistate dalle forze militari russe e nord-coreane. Per quanto riguarda i territori ucraini la regione di Donetsk è sotto controllo russo per più del 73%, quella di Kherson per il 59%, e assistiamo al totale controllo russo sulla regione di Lugansk. Attualmente più del 21% del territorio dello Stato ucraino è sotto controllo delle forze armate di Mosca. Ovviamente i successi degli ultimi mesi dell’esercito russo sul fronte orientale hanno un impatto ben pesante sui negoziati, visto che la borghesia russa sta vincendo la guerra, e la preoccupazione attuale dei nostri padroni è quella di interrompere velocemente questo conflitto prima che l’esercito ucraino crolli e quello russo dilaghi. Il rischio che i dominatori di entrambi i fronti temono maggiormente è la presenza di un convitato di pietra al tavolo dei possibili negoziati di pace, ovvero il ruolo che la nostra classe sociale sta giocando da entrambi i lati del fronte con il rischio sempre più visibile di un aumento esponenziale delle diserzioni dal militarismo sia russo che ucraino-NATO, fino ad arrivare – come dichiarato nell’ultimo mese da alcuni analisti geopolitici dei padronati occidentali – alla possibilità di ammutinamento delle truppe ucraine contro il governo di Kiev. Come abbiamo sempre sostenuto, la guerra in Ucraina è anche guerra per il controllo delle importanti risorse di terre rare indispensabili all’economia di guerra e alla trasformazione della società e del modo di produzione capitalista verso la fase digitale. Mentre l’eventuale e sempre più traballante proseguimento degli aiuti militari statunitensi dipende dall’accordo che pone in mano al capitalismo a stelle e strisce le risorse minerarie e le infrastrutture ucraine che, secondo alcune fonti di Kiev dei mesi scorsi, sarebbero già state assegnate all’Empire 2.0 britannico in base ad un accordo siglato durante la visita del primo ministro Starmer a Kiev. Già alla conferenza di Monaco si parlò della proposta della delegazione del Congresso degli Stati Uniti di un contratto che avrebbe concesso agli USA i diritti sul 50% delle future riserve minerarie ucraine. I disaccordi e i tira e molla con Trump sulle terre rare negli ultimi mesi si sono verificati a causa del ruolo attivo in questa questione dei ceti padronali britannici che, in base ad un preaccordo che fu firmato da Zelensky e Starmer, lo Stato ucraino si sarebbe impegnato a trasferire tutti i porti, le centrali nucleari e i sistemi di produzione e trasferimento del gas e giacimenti di titanio sotto il controllo di Londra. Il giacimento di litio di Shevchenko (Donetsk), riconquistato dall’esercito russo lo scorso gennaio, contiene circa 13,8 milioni di tonnellate di minerali di litio. Il giacimento è il più grande non solo dell’Ucraina, ma di tutta l’Europa. Già nel 2021, la società mineraria del Commonwealth European Lithium aveva annunciato di essere in procinto di mettere in sicurezza il sito. La perdita di questo giacimento è un duro colpo per i fabbisogni di litio per le classi dominanti UE che si sarebbero comunque dovuti rivolgere alla borghesia britannica. Ma anche il cosiddetto agribusiness (cioè lo sfruttamento intensivo delle terre e degli animali di allevamento con l’espulsione delle comunità locali) è una della parti in causa nella corsa dei padronati contrapposti per il controllo delle ricche risorse dell’antica Sarmatia. Ad esempio già nel 2013 la società agricola ucraina “Ksg Agro” firmò un accordo con lo “Xinjiang Production and Construction Corps” dello Stato cinese per la concessione in affitto di terreni agricoli nella regione orientale di Dnipropetrovsk. L’accordo prevedeva una iniziale locazione di 100mila ettari, con la possibilità di espandersi fino a 3 milioni di ettari nel tempo, equivalente circa al 5% del territorio ucraino, e avente come obiettivo principale la coltivazione agricola e l’allevamento dei suini destinati al mercato cinese. Progetto ad oggi fallito non solo a causa di eventi bellici ma anche per via di resistenze e di piccolo lotte delle comunità locali. Secondo il rapporto del 2023 dell’“Oakland Institute”, oltre 9 milioni di ettari di terreni agricoli ucraini sono dominati dalla grossa borghesia locale e da grandi aziende agro-industriali statunitensi, europee e arabe-saudite (come la “NHC Capital” degli Usa, la francese “Agrogénération” e le tedesche “KWS” e “Bayer”). Terra di confine fin dai tempi del Kanato dell’Orda d’Oro e del gran ducato di Lituania, tutti gli sfruttatori e gli oppressori di ogni età hanno sempre cercato di controllare la porzione del basso piano sarmatico accarezzata dal Mar Nero. Lo stesso toponimo “ucraina” significa “presso il bordo” limitante, cioè il bordo fra blocchi di Stati e capitalismi contrapposti e di un piccolo bacino semi chiuso e poco profondo: il Mar Nero. Il nome di quest’ultimo non è però legato al colore delle sue acque, ma “Kara” (“Nero”) è il modo con cui i turchi definivano questo specchio d’acqua secondo un’antica associazione dei punti cardinali a colori specifici. Ma la cupezza legata all’angusto pelago è più antica. Nel settimo secolo a.C. i primi colonizzatori delle sue coste (gli Ioni) lo definivano “Pontos Axeinos” (“Mare inospitale”). Le parole non sono mai neutre ma lavorano per gli interessi delle varie classi sfruttatrici, così come possono lavorare anche per noi sfruttati chiamando con il loro nome le cose, indicando i responsabili dell’oppressione, e dipingendo una cosmovisione altra della vita. Come fa presagire il suo nome, questo mare non è mai stato controllato da nessuno. Nell’attuale frangente storico, sulle coste e nelle acque del Ponto Eusino si incontrano e si scontrano quattro blocchi di Stati e di capitalismi principali: quello russo, quello statunitense, quello “europeo” e quello neo-ottomano. Un mare chiuso caratterizzato da un unico accesso: quello del Bosforo-Dardanelli controllato dallo Stato turco. Le classi dominanti russe hanno sempre considerato strategico questo mare, in quanto unico accesso ai mari caldi e alle loro rotte logistiche. Per il neo-ottomanesimo dello Stato turco, distanziare dall’Anatolia gli Stati rivali è un fattore cruciale, mentre continua l’espansionismo degli interessi del capitale turco verso Europa, Africa, Medio Oriente e Asia Centrale. La nuova dottrina militare della “Mavi Vatan” (Patria blu) rispecchia pienamente questi obiettivi. Fra Stati e potenze in guerra fra loro, la diplomazia turca si adopera per aprirsi margini di influenza lungo le direttrici precedentemente dette. Ad esempio, condanna Mosca per l’invasione dell’Ucraina, ma non cessa di fare affari con il Cremlino. Permette alle flotte della marina militare russa di entrare ed uscire dal Bosforo, ma costringe gli sfruttatori russi ad accettare che sia essa a dirigere la “Black Sea Grain Initiative”, mediata per l’appunto da Ankara per permettere alla fertile Ucraina di esportare derrate alimentari, aumentando ovviamente le tariffe per il transito dei mercantili nel mar di Marmara. Ingenti risultano i tentativi su questo mare ad opera dei padronati di casa nostra di rompere l’anossia data dallo strangolamento delle classi dominanti rivali statunitensi e russe sull’Europa, in quella che è evidentemente sempre di più una riaffermazione dell’accordo di Yalta, ad esempio con lo sfruttamento dei fondali di questo pelago. L’UE vuole realizzare un cavo internet sottomarino lungo 1100 km per collegare gli Stati membri con la Georgia con un investimento da circa 45 milioni di euro. Il progetto mira a ridurre “la dipendenza della regione dalla connettività in fibra ottica terrestre che transita attraverso la Russia”, ha affermato la Commissione europea, come riportato dal “Financial Times”. Attualmente circa il 99% del traffico internet intercontinentale viene trasmesso tramite oltre 400 cavi sottomarini che si estendono per 1,4 milioni di km. La gerarchia ed il controllo delle rotte marittime, dei porti, dei trasporti e della logistica orienta la circolazione di merci e di capitali. Esprime da sempre la potenza degli Stati, fin da quando nacquero, e lo sviluppo del capitale. Mare, capitalismo e guerra muovono e ridefiniscono i rapporti di forza fra Stati e classi dominanti, nei due passati macelli mondiali così come ora. La Guerra Grande in corso si combatte strategicamente sulle onde. Sopra e sotto di esse, tra controllo dei fondali, della terra, dello spazio orbitale e cibernetico fino al dominio delle tecnologie per il controllo dello spazio infinitamente piccolo (genetico e nanotecnologico) contratto in un’unica dimensione. Per la nostra classe sociale, cercare di bloccare la logistica che permette alla megamacchina della morte di funzionare è un’urgenza vitale e necessaria per poter disertare dalla loro guerra. Proverò ora ad introdurre due attrezzi concettuali per l’analisi dei movimenti- posizionamenti del nostro nemico di classe e, soprattutto, per poter cogliere noi la «fecondità dell’imprevisto» (Proudhon) e provare a dargli forma nei territori dove si presenta e si presenterà sempre di più: ovvero il concetto delle “strozzature marittime” e delle possibilità insurrezionali e rivoluzionarie che si aprono per noi negli “specchi di faglia”, ovvero in quei territori dove vanno a collidere interessi di Stati e blocchi contrapposti. Quando parliamo di controllo del mare e di controllo degli spazi (sia fisici che virtuali come quello digitale), per i nostri nemici di classe stiamo parlando di controllo della terraferma circostante questi spazi, e di dominio sulla logistica che rende possibile lo sfruttamento e il loro mondo (dalle rotte commerciali alla infrastruttura materiale come i cavi internet sottomarini, che rendono possibile la trasformazione della società e del modo di produzione capitalistico verso la fase digitale). Per controllare questi spazi e i territori, Stati e classe padronali devono controllare gli stretti di mare detti anche, a livello mondiale, “strozzature”. Snodi naturali e/o artificiali (come Panama e Suez) delle arterie degli Stati e dei meccanismi materiali di valorizzazione e di riproduzione del capitale per i quali transita la quasi totalità delle merci e dei cavi internet su scala mondiale. Malacca, Taiwan, Panama, Gibilterra, Otranto, il canale di Sicilia, Suez, Dardanelli, Bab al-Mandab, Hormuz, Bering, il canale fra Islanda e Groenlandia, l’Egeo, lo Jutland ecc. Se consideriamo i vari fronti aperti a livello mondiale dalla Guerra Grande ci accorgiamo che gli scontri e le guerre in corso dei nostri padroni ruotano attorno al dominio di queste strozzature perché per Stati e capitalismi, sin dalla loro nascita, il mare è viatico inaggirabile nella rincorsa alla volontà di potenza loro e delle classi sfruttatrici. Chi domina questi spazi e quindi in pratica queste strozzature domina il mondo. Attorno a questi si scontrano e/o sormontano le varie “faglie” di blocchi di Stati e di capitalismi in contrapposizione tra loro. Tendenzialmente in alcuni dei territori limitanti una linea di faglia si aprono più facilmente contraddizioni a livello sociale ed economico. Territori e società direttamente contesi o semplicemente considerati punti deboli dal blocco opposto per via delle loro caratteristiche storico-sociali ed economico-culturali. Ad esempio, per i nostri padroni i territori e le società dell’Europa orientale e del Sud Europa sono più sensibili potenzialmente per via delle contraddizioni che si potrebbero spalancare a insurrezioni o autogestioni generalizzate e alla possibile conseguente catarsi rivoluzionaria. Esempi a livello storico dove possiamo utilizzare questi due attrezzi di orientamento e di navigazione per le possibilità insurrezionali sono tutte le grandi rivoluzioni libertarie della storia del XX secolo (Manciuria, Ucraina, Kronstadt, Catalunya). Se consideriamo le considerazioni e le progettualità già elaborate decenni fa nell’area dell’anarchismo di azione per quanto riguarda le possibilità e le occasioni rivoluzionarie nelle società del Sud Europa e nel bacino del Mediterraneo, ritengo che ora, fra le contraddizioni che si spalancano in alcuni territori con la Guerra Grande in corso e la ristrutturazione sociale del capitalismo, le analisi e le considerazioni che facemmo decenni fa sono quanto più attuali e preziose e hanno confermato tutta la loro validità e potenzialità soprattutto per quanto riguarda le aree rurali, ad esempio del Sud Europa. Aree rurali dove poter coordinare informalmente sul territorio specifico in questione situazioni di lotta, di autonomia materiale e di cultura di resistenza; in sostanza porre in rete e creare momenti e situazioni di autonomia materiale, di cosmovisione altra e di lotta e lavoro insurrezionale tracciando un orizzonte politico libertario e anarchico. In sostanza delle CLR (Collettività Locali di Resistenza) dove provare sin da ora a vivere materialmente e umanamente su dei territori la vita per cui ci battiamo in lotta contro la devastazione portata dagli Stati e dal capitale. Rilanciare e nello stesso tempo “uscire” in questa maniera dal mero intervento di agitazione sia teorica che pratica per entrare in un’ottica di possibilità rivoluzionaria e insurrezionale. Possibilità, purtroppo, ben consce e presenti nelle analisi degli Stati dell’UE e dei nostri nemici di classe, dal momento che già nel 2017 in un documento preparato per la Commissione europea, e già citato negli anni passati nei vari articoli della rubrica “Apocalisse o insurrezione”[metterei link], veniva evidenziato come nelle aree rurali dell’est e del sud Europa, già feconde per noi di contraddizioni intrinseche, la situazione a livello sociale era potenzialmente esplosiva. Saper cogliere e rendere feconde le contraddizioni che si stanno aprendo e che si possono spalancare nel momento in cui i nostri padroni e gli Stati dell’UE si trovano in difficoltà e si indeboliscono nel confronto con i loro avversari in questa Guerra Grande. Per noi il tutto sta nel cogliere le possibilità che si aprono su certi territori nel momento in cui sappiamo interpretare lo spazio-tempo in profondità e in ampiezza, declinando in pratica la nostra bussola dei princìpi facendo tesoro dell’esperienza storica delle lotte della nostra classe sociale, fissando una rotta di massima e elaborandola in un lavoro rivoluzionario affinché le correnti del divenire convulso e frenetico di questo periodo storico non ci portino alla deriva. Cosa ancora più facile dal momento che buona parte della classe dominante, soprattutto occidentale, sta scivolando a livello di analisi strategica nella demenza post-storica e dei problemi minuti incasellati in un’illusione dell’eterno presente. Proviamo a vedere le contraddizioni politico-sociali ed economiche che si sono aperte nell’ultimo periodo in due aree geografiche che si trovano sullo specchio di faglia dell’Europa orientale: in Romania e in Moldavia. Che i territori appartenenti allo Stato rumeno e moldavo siano contesi fra due blocchi capitalistici contrapposti, non è una novità per nessuno. Gli avvenimenti istituzionali dell’ultimo anno in Romania (come ad esempio il colpo di stato filo-UE del dicembre 2024), sono esemplificativi di questa situazione. Non è questa la sede per entrare nel merito di queste dinamiche. È interessante, invece, per quanto riguarda l’angolazione della nostra classe, sottolineare le contraddizioni sociali che possono emergere. Ad esempio, gli scioperi continui degli insegnanti per l’aumento dei salari, o le forti proteste dei trasportatori e dei piccoli agricoltori in Romania. Bucarest ormai da più di un anno è una città in ebollizione. «Raderei al suolo il nostro parlamento. Nessuno fa niente per migliorare la situazione economica del paese. I salari non crescono ma i prezzi dei beni di prima necessità continuano ad aumentare. Non ne possiamo più», commenta un tassista di Bucarest. Similare la situazione in Moldavia, area incistata tra Ucraina e Romania e punto di frizione diretta tra le ambizioni di allargamento degli Stati e dei capitalismi UE e le frazioni delle classi dominanti locali che spingono per rafforzare i legami con Mosca. Negli ultimi anni, nelle strade di Chisinau, si sono svolte proteste ed accese mobilitazioni contro il carovita. Nella nostra prospettiva di classe, antiautoritaria e di disfattismo rivoluzionario, è fondamentale comprendere quali sono le difficoltà e le problematiche che sta passando il nemico di casa nostra nella crescente contrapposizione fra Stati e borghesie europee con la classe dominante statunitense. “Con simili amici, chi ha bisogno di nemici?”. Dal 24 febbraio del ’22 la frase celebre di Charlotte Bronte può precisamente sintetizzare la situazione del padronato e degli Stati dell’UE verso la borghesia a stelle e strisce. A partire dal sabotaggio del gasdotto Nord Stream ai danni del padronato tedesco avvenuto agli inizi della guerra, fino alla guerra commerciale dei dazi e agli avvenimenti dell’ultimo anno sulla questione dell’approvvigionamento energetico. Lo stop al transito del gas russo verso l’Europa attraverso i gasdotti ucraini alla fine del ’24 determinò difficoltà e rialzo dei costi in gran parte del continente con previsioni di incrementi considerevoli delle bollette. Lo Stato slovacco, membro della NATO e dell’UE, è stato quello che ha risentito di più della decisione assunta da Kiev con il pieno supporto degli USA e, paradossalmente ma non troppo vista la posizione di sconfitti delle classi sociali del vecchio continente, dell’Unione Europea. Washington ha tutto l’interesse ad imporre il suo costoso GNL (sostenuto in maniera perentoria da Obama, da Biden e ora da Trump). L’attacco strategico contro i gasdotti Nord Stream non è stato certamente l’ultima battaglia della guerra per il mercato energetico europeo. L’11 gennaio del 2025 un attacco (fallito) è stato portato da 9 droni ucraini alla stazione di compressione “Russkaya” del gasdotto “Turkstream”, che attraversa i fondali del Mar Nero e raggiunge la Turchia europea, ed è l’ultimo gasdotto ancora funzionante che trasporta il gas russo negli Stati europei come Serbia e Ungheria. Le fazioni della classe dominante nordamericana, che trova nel governo repubblicano al potere il rappresentante e il propinatore dei propri interessi, accelera le pressioni per rinforzare la “Yalta 2.0” contro i padroni del vecchio continente, attraverso anche una sorta di pagamento delle “indennità di guerra”, e cioè attraverso l’imposizione che gli Stati dell’Ue comprino più prodotti “per la difesa” made in USA, se vogliono evitare la guerra – ancora “non combattuta” sul piano militare – dei dazi commerciali. Trump ha previsto di ridurre in 4 anni di 300 miliardi su 900 il bilancio annuale del Pentagono: il militarismo europeo dovrà indebitarsi per assorbire le acquisizioni di armamenti cui rinunceranno gli americani. L’industria statunitense è ben determinata ad occupare il mercato europeo della “difesa” in cui le importazioni dagli USA sono cresciute di oltre il 30% dal 2022. Tracciando una panoramica complessiva, al conflitto in nuce (per il momento limitato al livello commerciale e politico) fra la borghesia USA e quelle del vecchio continente, si aggiungono i crescenti compromessi tra Stato statunitense e russo anche in campo economico ed energetico. L’avvio della guerra mondiale dei dazi si caratterizza, oltre che per l’inasprimento degli accordi di Yalta, anche per il rinvigorimento della dottrina Monroe, prendendo di mira direttamente i due stati limitrofi agli States (Canada e Messico), minacciati di essere colpiti nelle loro esportazioni verso Washington. Per il Canada, i dazi rappresentano anche il tassello di una fase espansionistica che culmina con la minaccia dell’annessione agli Stati Uniti. I continui ripensamenti e poi l’abbassamento dei toni stanno caratterizzando l’atteggiamento delle classi sfruttatrici nord-americane verso il vero nemico: il padronato mandarino. La classe dirigente cinese ha ottenuto dagli USA una retromarcia dietro l’altra sui dazi, come dimostrato dall’ultimo accordo raggiunto nel mese di maggio con la sospensione temporanea e parziale degli enormi dazi che i due Stati si erano imposti a vicenda. In base alle condizioni concordate, infatti, gli USA abbasseranno dal 145 al 30% i dazi sulle merci cinesi, mentre lo Stato cinese, che aveva imposto dazi speculari, li abbasserà dal 125 al 10%. Per il padronato statunitense è l’ennesima resa unilaterale, che mostra l’improvvisazione della strategia dello stato nordamericano, che quando impone i dazi dice che serviranno per la reindustrializzazione e quando li toglie dice che serviranno per favorire il commercio. Negli ultimi mesi, alle atrocità inenarrabili che caratterizzano il proseguimento del primo genocidio automatizzato della storia, si aggiungono i conflitti nelle regioni che insistono attorno allo stretto di Hormuz, come la micro-guerra combattuta fra Stato pachistano e indiano, e la guerra dei 12 giorni di Israele e USA contro l’Iran. Utilizzando l’attrezzo analitico-concettuale delle “strozzature”, per quanto riguarda ad esempio il conflitto fra Pakistan e India, evidenziamo che stagliato sullo sfondo c’è il problema del riequilibrio delle relazioni commerciali tra Stato indiano e statunitense. La tendenza al riposizionamento della borghesia indiana nei confronti degli USA è stata dirompente per gli equilibri del sub-continente. Mentre lo Stato pachistano ha la necessità di un ampio confine diretto con il territorio cinese (fondamentale per uno sbocco diretto sull’Oceano Indiano al fine di superare un eventuale blocco navale dello stretto di Malacca), così la borghesia indiana cerca a tutti i costi di interrompere questo canale di traffico commerciale. Attorno alle strozzature contese fra blocchi di Stati e di capitalismi rivali di Hormuz e di Malacca si stanno spalancando contraddizioni sociali e di classe significative. Basti pensare anche solamente alle enormi mobilitazioni e scioperi in aumento negli ultimi anni ad esempio nel territorio indiano, a partire dalle grosse ondate di scioperi iniziate alla fine del 2020 contro l’introduzione di nuove leggi agrarie, e dove la congiuntura fra la crisi climatica e idrica, il revanscismo dell’ideologia nazionalista indiana e il conseguente riposizionamento delle classi sfruttatrici indù sul piano internazionale della Guerra Grande, nonché la liberalizzazione del mercato del carbone assieme all’eliminazione della legge che vincolava l’uso delle terre al consenso obbligatorio delle popolazioni locali, stanno realizzando sconquassi strutturali rilevanti e un forte inasprimento della lotta di classe. Ma torniamo alla situazione che più riguarda da vicino il territorio che abitiamo e che attraversiamo con un focus sulla situazione groenlandese e delle rotte che attraversano il Mar Artico. La Groenlandia è la nuova isola del tesoro dove le borghesie cinesi, statunitensi, russe ed europee si sfidano fra i ghiacci. Frontiera strategica sulle rotte artiche e ricchissima di terre rare, gas e petrolio, ci sono diversi motivi che hanno scatenato negli ultimi anni un’attenzione crescente attorno a questa isola, e quasi tutti i motivi hanno a che fare con un fattore: il cambiamento climatico. Il riscaldamento globale sta provocando lo scioglimento dei ghiacciai in tutto l’Artico, modificandone i contorni, aprendo nuove possibili rotte commerciali e militari, scoperchiando ricchezze nascoste e giacimenti di “terre rare”. La Groenlandia per la sua posizione geografica è considerata strategica dal militarismo statunitense. L’isola è circondata dagli stretti che introducono ai passaggi a nord-ovest e a nord-est dell’Oceano Artico e, con le rotte nel prossimo futuro sempre più navigabili, gli USA non vogliono che le altre potenze rivali ne approfittino. Lo scioglimento dei ghiacci, inoltre, consentirà sempre di più lo sfruttamento delle risorse minerali presenti nell’isola, ricca di minerali e di metalli rari. Una ricerca del 2023 ha confermato la presenza di 25 dei 34 minerali considerati “materie prime critiche” dalla Commissione europea, tra cui grafite e litio. Ma all’interno del meccanismo delle varie economie di guerra, dove la sicurezza degli approvvigionamenti alimentari ha un ruolo cruciale nel contribuire allo scontro fra capitalismi rivali (come sta avvenendo in Africa nella corsa all’accaparramento e alla predazione dei terreni necessari per la “sovranità alimentare” delle varie potenze in guerra sullo scacchiere mondiale), così i fondali groenlandesi sono necessari per la pesca, visto che diversi stock ittici si spostano sempre più a nord, rinvigorendo le potenzialità del mercato della pesca di Nuuk. La competizione accesa per il controllo dell’isola più grande del mondo, dei suoi stretti e dei suoi mari (lo stesso Macron è volato a Nuuk il 15 giugno scorso per “difendere l’integrità territoriale” di questo territorio colonizzato dalla Danimarca) accende le contraddizioni sociali sull’isola: aumentano le proteste delle comunità Inuit in conseguenza dell’accaparramento dei territori e delle acque limitrofe all’isola, mentre il tasso di disoccupazione e le carenze sanitarie stanno iniziando a creare segnali di insofferenza nel paese. La regione artica sta emergendo come nuova frontiera della competizione strategica e commerciale. Si stima che l’Artico contenga circa il 13% delle riserve mondiali di petrolio, il 30% di quelle di gas e grandi quantità di risorse ittiche e minerali rari. Stato cinese e Stato russo stanno ampliando le loro operazioni nell’Artico, coinvolgendo le isole Svalbard e l’Islanda. Il controllo del cyber-spazio e dei fondali oceanici è una base fondante per la guerra e per la trasformazione della società e del modo di produzione capitalista verso la fase digitale. Tutti questi punti sono ben visibili per quanto riguarda lo spazio artico dove, data la crescente attività del capitalismo russo e cinese inerente alla logistica digitale attraverso i cavi sottomarini, la NATO sta avviando nuovi progetti che «puntano a rendere internet meno vulnerabile ai sabotaggi, reindirizzando il flusso di dati verso lo spazio in caso di danneggiamento delle dorsali sottomarine». La stessa attività estrattiva in acque profonde potrebbe iniziare già quest’anno. Agli inizi di aprile del 2024, i membri dell’Autorità Internazionale dei Fondali marini (ISA) ha revisionato le norme che regolano lo sfruttamento dei fondali. La nuova corsa all’oro degli abissi è iniziata l’anno scorso con una legge dello Stato norvegese che permette l’estrazione mineraria su scala commerciale. L’impatto (anche) ambientale di queste decisioni comporterà la distruzione di interi habitat, oltre al fatto che il 90% del calore in eccesso dovuto al riscaldamento globale viene assorbito dagli oceani, devastando così l’equilibrio che sorregge la vita in questo pianeta. Sostanzialmente, la guerra al vivente procede e si ramifica in ogni sua forma. La guerra è sempre più palesemente il cuore di questo mondo senza cuore. Mentre i nostri padroni proseguono ad attrezzarsi alla guerra mondiale, la domanda (banale) che poniamo è questa: chi pagherà il riarmo degli Stati e delle borghesie nostrane? Già nei mesi scorsi, in un articolo che non lascia adito ad alcun fraintendimento dal titolo: Europe must trim its Welfare State to build a warfare state, il “Financial Times” sostiene che l’Europa deve ridurre le spese per il welfare per assicurarsi la capacità di sostenere un consistente riarmo. L’accordo per aumentare la spesa militare degli Stati aderenti alla NATO al 5% del PIL deciso al vertice dell’Aia va pienamente in questa direzione, assieme all’estrazione e al furto dei piccoli risparmi privati, già presente nei punti che articolano il riarmo europeo. Ribadendo ulteriormente e con forza che fino a quando esisteranno Stati e capitalismi saranno illogiche le speranze di pace duratura poiché la negazione della guerra implica in primo luogo quella dello Stato e del capitale, dinnanzi a questo mondo di conflitti e di miserie generalizzate che corre verso l’oblio e la propria autodistruzione, la resistenza palestinese (vera e propria forza tellurica che ha ridonato speranza alle classi sfruttate di tutto il mondo), la rivolta di Los Angeles e l’accentuarsi delle insurrezioni, delle mobilitazioni sociali, delle lotte e dei gesti di insubordinazione quotidiana in tutto il mondo sono come lampi premonitori che squarciano l’Ancien régime, segnali che un nuovo assalto proletario ai bastioni dell’alienazione e dello sfruttamento può essere alle porte. Non c’è notte tanto lunga da non permettere al sole di risorgere. «Secondo noi le rivalità e gli odi nazionali sono tra i mezzi che le classi dominanti hanno a loro disposizione per perpetuare la schiavitù dei lavoratori. E in quanto al diritto delle piccole nazionalità di conservare, se lo desiderano, la loro lingua e i loro costumi, ciò è semplicemente questione di libertà, che avrà la sua vera finale soluzione solo quando, distrutti gli Stati, ogni gruppo di uomini, o meglio ogni individuo, avrà diritto di unirsi con ogni altro gruppo o separarsi a piacere.» (Errico Malatesta).
Il nome proprio
Gaza non è un’ingiustizia a fianco di altre, bensì l’orrore che le contiene e le compendia tutte. Il genocidio in corso ricapitola la violenza fondativa di ogni Stato e ci mostra in diretta l’«accumulazione originaria» del capitale – l’esproprio coloniale della terra, la guerra alla sussistenza, la violenza sistematica contro le donne e i bambini, la streghizzazione dei refuseniks e dei non-allineati, lo sviluppo delle tecno-scienze, l’esperimento permanente sul materiale umano –, equipaggiata di tutti gli strumenti che un Progetto Manhattan fattosi mondo ha elaborato dal 1945 ad oggi. A Gaza possiamo vedere nitidamente che «il nemico è la nuova potenza che dispone degli antichi emblemi» (Karl Kraus). Se volessimo riassumere tutto ciò in una sigla: International Business Machines (IBM). Il colosso statunitense dell’informatica – il cui programma completo si chiama niente meno che Smart Planet – raccoglie e gestisce i dati biometrici del popolo palestinese per conto dello Stato israeliano, dopo aver fornito le proprie schede perforate alla macchina di sterminio nazista. L’esistenza stessa di IBM Israel tradisce ignominiosamente la memoria della Shoah nel perfezionamento high tech di una nuova Nakba. Gaza è il simbolo concreto di tutte le oppressioni, ma anche l’equivalente generale delle resistenze. È la vita che si sostiene con il niente che trova, è lotta armata, Sumud, memoria storica e poesie di lancinante bellezza. Nelle testimonianze da Gaza incontriamo sconosciuti Ungaretti che si appoggiano a «brandelli di muri« (dei loro famigliari non è rimasto nemmeno tanto) o ad «alberi mutilati», sconosciuti Picasso che rappresentano, insieme a quello umano, lo strazio degli asini, sconosciute Rosa Luxemburg che soffrono nel vedere picchiare quegli animali mansueti quando, esausti, non riescono più ad avanzare sotto il peso di case racchiuse nei bagagli, sconosciute Ingeborg Bachmann che non rinunciano alla magia delle parole nemmeno dentro la «linea del fuoco». Quello in solidarietà con la resistenza palestinese è, con tutte le sue insufficienze, il più vasto movimento internazionale degli ultimi decenni. Non c’è continente in cui masse di diseredati o minoranze più o meno numerose non si sentano coinvolte. Anche quando non incide direttamente sulle vite quotidiane di milioni di persone, il dolore che si leva dalla Striscia non può non penetrare nella sostanza psichica dell’umanità. Si tratta di un terribile banco di prova della nostra reale consistenza e insieme un anticipo delle capacità disfattiste di fronte alla guerra prossima ventura. Quando persino una relatrice dell’ONU parla di «economia del genocidio», elencando aziende le cui sedi e i cui addentellati sono ovunque, non si può certo dire che manchi il «materiale infiammabile» per agire in modo diretto e risoluto. E chi, con un minimo di buona fede, potrebbe dire «non sono questi i mezzi»? Quando tutti gli Stati – tanto in ambito NATO come in quello dei BRICS – sono complici o al meglio spettatori passivi; quando il Diritto internazionale è una barzelletta insanguinata; quando anche coloro che praticano l’azione diretta nonviolenta diventano un’«organizzazione terroristica» (come nel caso della messa al bando di Palestine Action in Gran Bretagna); quando si ammazzano i bambini in fila per un po’ d’acqua. Quale che sia l’angolo d’attacco che consideriamo prioritario, non vedere nel genocidio dei palestinesi il cuore di un mondo senza cuore è una distrazione dello sguardo o una pigrizia dell’anima. Vogliamo lottare contro il razzismo di Stato? Gaza. Vogliamo contrastare l’economia di guerra e la militarizzazione sociale? Gaza. Non vogliamo separare emancipazione femminile e resistenza anticoloniale? Gaza. Vogliamo metterci di traverso rispetto alla furia estrattivista ed ecocida del capitalismo? Gaza. Vogliamo combattere la tortura del carcere e il carcere come tortura, solidarizzando con le compagne e i compagni prigionieri? Gaza. Vogliamo opporci alle smart city e alla società dei varchi? Gaza. Ci battiamo per un’agricoltura contadina contro le nuove enclosures genetiche e digitali? Gaza. Siamo inorriditi dal cibo in laboratorio e dalla riproduzione artificiale dell’umano? Gaza. Cerchiamo un nesso tra la profilazione di massa e lo sterminio algoritmico? Gaza. Odiamo gli Elon Musk, i Jeff Bezos, i Peter Thiel e il neo-feudalesimo che ci stanno apparecchiando? Gaza. Nella solidarietà attiva e internazionalista con gli oppressi palestinesi, come anarchiche e anarchici, in particolare, abbiamo l’occasione di rievocare e attualizzare le pagine migliori della nostra storia. Tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, dall’Indonesia a Cuba, quelle anarchiche sono state le idee rivoluzionarie più influenti nei movimenti anticoloniali. Anarchiche e anarchici furono tra i primi a ribellarsi, nel 1896 in Italia, contro l’aggressione imperialista all’Abissinia al grido di «Viva Menelik!», «Abbasso Crispi!», «Via dall’Africa!», contribuendo a un moto popolare che ha bloccato i treni militari, assaltato le caserme, liberato i coscritti. E lo stesso avvenne nel 1911 con l’occupazione coloniale della Libia, quando la campagna per liberare Augusto Masetti (il soldato anarchico che sparò al colonnello Stroppa urlando «Abbasso la guerra, viva l’anarchia!») fu un fulgido esempio di agitazione antimilitarista. Per non parlare del ruolo decisivo giocato durante la «settimana rossa», che è stata anche e soprattutto un’insurrezione contro i signori dello sfruttamento e della guerra. Durante la disfatta di Caporetto del 1917, provocata dal più vasto «sciopero militare» della storia italiana, il movimento anarchico spinse – tra l’immobilismo e l’ignavia del Partito socialista (con l’eccezione della sua Federazione giovanile) – per trasformare la rivolta dei fanti contadini e operai in insurrezione contro la guerra e contro lo Stato. Persino durante l’occupazione dannunziana di Fiume, Malatesta e altri compagni tentarono – kairós impervio come pochi altri – di guadagnare al movimento proletario «quel vago sovversivismo ancora incerto tra la nostalgia della trincea e il richiamo della barricata». E anche durante la rivolta di Ancona del 1920, scoppiata per impedire le partenze coatte dei soldati verso l’Albania, anarchiche e anarchici diedero il loro generoso appoggio. Allargando lo sguardo, non molti sanno che la rivolta libertaria e antiburocratica del Maggio francese fece esplodere quella rottura con i sindacati e il Partito comunista maturata durante la guerra d’Algeria, un’atroce campagna coloniale disertata da centinaia di migliaia di giovani e sostenuta dal PCF e dalla CGT. E potremmo parlare dell’anima internazionalista e libertaria dei Gari, del Movimento 2 giugno, delle Rote Zora… Quelle idee, quei sentimenti, quelle storie possono oggi darsi appuntamento pubblico e segreto con un «comunismo dello spirito» che raramente nella storia recente è stato così universale. Gaza è il nome proprio della rabbia, del bisogno di riscatto, del desiderio di giustizia. Invoca amore e chiede vendetta.
È uscito il secondo numero di “disfare – per la lotta contro il mondo-guerra”
Riceviamo e diffondiamo: È uscito il secondo numero di “disfare – per la lotta contro il mondo guerra”, dell’estate 2025. Per richiedere copie / To request copies / pour demander des exemplaires: disfare@autistici.org * 52 pagine, 4 euro a copia, 3 euro per i distributori (dalle 3 copie in su) * 52 pages, 4 euros per copy, 3 euros for distributors (from 3 copies upwards) * 52 pages, 4 euros par exemplaire, 3 euros pour les distributeurs (à partir de 3 exemplaires) Scarica il pdf dell’editoriale: disfare_2_editoriale Scarica il pdf dell’articolo “Processo alla resistenza palestinese” del Collettivo Hurriya! Pisa sul caso di Anan Yaeesh: disfare_2_Anan
Nel più ordinario dei giorni
Nel più ordinario dei giorni Per scrivere una poesia non politica devo ascoltare gli uccelli e per sentire gli uccelli bisogna far tacere gli aerei da caccia. (Marwan Makhoul, Versi senza casa) Apocalisse non è l’immane violenza. Quella è già qui nel più ordinario dei giorni. Apocalisse è non produrre né maneggiare oggetti che incorporano il sudore e il sangue degli schiavi la materia estratta a forza dalle viscere della Terra la distanza orbitale dei satelliti i cavi che cingono il Pianeta il lavoro invisibile di milioni di donne. Apocalisse è rendere commensurabili gesti e conseguenze, prodotti e mondo. Nella quiete dei laboratori si trasformano «aree di smercio in campi di battaglia, perché questi a loro volta divengano aree di smercio». La quiete dei magazzini «lavora sul corpo e sulla psiche delle vittime. Non fa in tempo a impacchettare un’impresa che già si accinge a nuove confezioni, non lascia finire una guerra senza gettare le basi dei campi di concentramento che fioriranno nelle successive». Apocalisse non è l’immane violenza. Quella è già qui nel più ordinario dei giorni. Non arriverà alcun salvatore perché nostro padre che è nei cieli, è soltanto un aereo da caccia, nient’altro tranne colui che sta a bordo, che è venuto a cacciarci e ha centrato la nostra sottomissione (Marwan Makhoul, New Gaza). Apocalisse non è il trionfo della Giustizia nella Storia. L’apocalisse – rottura dell’ordito storico, rivelazione della sua infamia – è da sempre il respiro della creatura calpestata. Avremmo bisogno oggi di un’apocalisse anders (cioè diversa). Di un nuovo pauperismo che si prefigga, nella società della dismisura, un obiettivo terra-terra, il compimento di una promessa ben poco eroica. Non dire più, come Élisée Reclus al fratello Élie, poco prima di smettere di insegnare ai figli di un proprietario di schiavi nella Louisiana: «Anch’io tengo in mano la frusta». Per una finalità così modesta, per un’aspirazione tanto umile, bisogna interrompere il mondo. Forse non diventeremo migliori, ma almeno smetteremo di produrre e maneggiare, nel più ordinario dei giorni, oggetti che siano più disumani di noi.
Finché ci sarà uno Stato… Presa di posizione sulla guerra Israele-Iran
Riceviamo e diffondiamo: Qui il pdf: iran israele definitivo-1 FIN QUANDO CI SARA’ UNO STATO NON CI SARA’ MAI PACE Presa di posizione dell’assemblea “Sabotiamo la guerra” sulla guerra Israele-Iran L’attacco sferrato da Israele all’Iran la notte tra il 12 e il 13 giugno rappresenta una svolta drammatica verso la mondializzazione della guerra. Dopo oltre tre anni di guerra tra NATO e Federazione Russia in Ucraina, dopo due anni di genocidio in corso a Gaza, le forti tensioni in Asia Occidentale sfociano in una nuova guerra fra potenze regionali, entrambe in possesso di armi altamente tecnologiche, entrambe dotate di una industria nucleare, e che si è immediatamente aperta con uno spregiudicato quanto criminale attacco proprio contro le strutture nucleari iraniane. Da una parte, vi è l’Iran che non dispone di armi atomiche né esistono prove che le stia costruendo e che si sottopone ai controlli delle agenzie internazionali. Dall’altra, Israele, che possiede armi atomiche senza dichiararle, non rispetta trattati né accetta controlli e compie abitualmente attacchi militari senza porsi alcun limite etico. Se il diritto internazionale e le organizzazioni che lo rappresentano hanno avuto la funzione di garantire l’ordine mondiale, cioè precisi rapporti di forza e di dominio tra gli Stati, oggi, il fatto che vengano messi in discussione, in primis da Israele e dagli Stati uniti, è un chiaro segnale della crisi globale, della rottura dei precedenti equilibri e di ritorno alla guerra come mezzo di risoluzione delle rivalità interstatali. L’Iran è stato attaccato poco dopo essersi sottoposto a controlli dei suoi impianti nucleari e durante le trattative con gli Stati Uniti in merito all’arricchimento dell’uranio. Risulta evidente l’intento di Israele di fare fallire le trattative e ogni ipotesi di risoluzione politica dei dissidi. I Paesi alleati hanno immediatamente operato per respingere il contrattacco iraniano, abbattendo decine di razzi e droni, mentre si corre il serio pericolo di una partecipazione diretta dei Paesi occidentali (a partire dagli USA) nei bombardamenti. Il che rappresenterebbe un’ulteriore drammatica precipitazione della crisi. Gli Stati Uniti negli ultimi trent’anni hanno condotto la cosiddetta “guerra infinita”, una serie ininterrotta di guerre, attacchi militari e operazioni di destabilizzazione (dall’attacco all’Iraq al cambio di regime in Siria). Attualmente i loro obiettivi si espandono su diversi fronti: quello Russo, quello dell’intera Asia Occidentale e, in prospettiva, quello dell’Indo-Pacifico. I conflitti in corso si stanno estendendo e ne nascono di nuovi, in una tendenza verso la guerra mondiale che allo stato dell’arte appare inarrestabile. Sullo sfondo si profilano tensioni sia politiche che militari fra gli Stati Uniti e la Cina. Nel mentre, all’interno dei Paesi occidentali e in particolar modo proprio all’interno della potenza dominante nordamericana, sono in corso gravissime crisi sociali che talvolta sembrano assumere i connotati della guerra civile. Sappiamo che storicamente gli Stati risolvono le loro più gravi crisi interne con la guerra. Tornando alle vicende di questi giorni. La responsabilità di questa nuova e gravissima esclation risiede nell’iniziativa criminale dello Stato di Israele. Un’entità fondata sul colonialismo di insediamento, sul suprematismo razzista, sul fanatismo religioso, sulla militarizzazione della società, avanguardia nelle tecnologie di controllo e nella sua sperimentazione sulla popolazione palestinese colonizzata, deportata e sterminata. Nell’azione del 7 ottobre 2023, fra le varie contraddizioni che ha aperto, c’è sicuramente quella di aver smascherato il vero volto di questa entità. Israele sta mettendo in atto un genocidio, ma non riesce a sconfiggere la resistenza di un popolo, contraddizione che prova a sublimare rilanciando con sempre nuove avventure: dall’invasione del Libano alle innumerevoli provocazioni anche a carattere terroristico, fino agli eventi di venerdì notte. Bisogna quindi ribadire con forza che a Gaza è in corso un genocidio: dobbiamo fare in modo che questa nuova guerra non serva a nasconderne il compimento. Israele è, da un lato, la punta di lancia dell’imperialismo occidentale e l’attore che da decenni svolge il lavoro sporco per conto degli Stati Uniti e dell’Europa; contemporaneamente, però, la sua leadership politica fuori controllo è in grado di condizionare a suo vantaggio le politiche delle potenze occidentali. I nostri governanti sono pienamente corresponsabili delle atrocità commesse da Israele, senza il sostegno di queste potenze Israele non potrebbe condurre le proprie avventure militari e forse nemmeno sopravvivere. L’opposizione intransigente al progetto sionista non ci porta però a sostenere la repubblica islamica dell’Iran. Una potenza regionale, con una oligarchia di petrolieri e un’industria, anche militare, molto sviluppata. Non parliamo “semplicemente” di un’odiosa teocrazia, che tortura e impicca gli oppositori e opprime in particolar modo le donne, elemento che ama sottolineare la propaganda liberale occidentale. Parliamo di un regime che mette il suo potere oscurantista al servizio della propria borghesia per reprimere nel terrore le lavoratrici e i lavoratori. Si pensi, per fare un esempio fra i tantissimi che potremmo citare – che in qualche modo ci parla tanto della misoginia quanto del classismo all’interno del regime – al caso della sindacalista Sharifeh Mohammadi, condannata a morte per la sua attività di coordinamento con gli scioperi radicali che sempre più spesso negli ultimi anni hanno attraversato il Paese. Dal 2005 oltre 500 sindacalisti sono stati arrestati, imprigionati, o in alcuni casi condannati a morte ed espulsi per aver creato un’organizzazione sindacale indipendente e per aver svolto attività sindacali nel quadro degli accordi e degli standard internazionali sul lavoro. In una guerra fra tali odiosi regimi, gli unici eroi sono i disertori. Come anarchici e rivoluzionari ci auguriamo la caduta del governo teocratico iraniano, un regime oppressivo che è sorto soffocando nel sangue una generazione di compagni rivoluzionari. Allo stesso tempo sappiamo che un regime deve cadere sotto i colpi dell’insurrezione autenticamente popolare, mentre i cambi di regime progettati e attuati dai capitalisti occidentali, come la storia recente insegna, non fanno che sostituire un oppressore con un oppressore ancora più feroce e asservito alle potenze straniere, trasformando interi paesi in inferni sulla terra. Tenendo presente tutto ciò, invitiamo tutti i rivoluzionari e le persone di buona volontà a guardare con gli occhi ben aperti a un possibile sommovimento in Iran (che è al momento il principale obiettivo strategico di Israele), stando ben attenti a distinguere il grano dal loglio e a non abboccare a quelle false flag che sono da oltre un decennio le principali armi del soft power occidentale per corrompere e cooptare il dissenso, portandolo sul terreno altamente compatibile dei “diritti” liberali. In ogni caso, se anche si producesse un autentico moto di classe (non impossibile in un Paese in cui gli ayatollah sono andati al potere incarcerando e impiccando i rivoluzionari), questo non dovrebbe spostare di un millimetro la nostra opposizione intransigente al Sistema-Israele e a tutto l’imperialismo occidentale che lo nutre. In generale, in una guerra tra Stati, tanto più se questi sono potenze regionali con importanti alleati internazionali, gli oppressi non hanno alleati né amici tra i governanti, ma sono solo carne da cannone per le loro sporche guerre. Convinti che fin quando ci sarà uno Stato non ci sarà mai pace, la nostra posizione rimane quella internazionalista: contro ogni Stato, a partire dal nostro. Quindi, dal nostro lato del fronte, non vogliamo sottacere le responsabilità del governo e dei padroni italiani, che hanno le mani sporche del sangue palestinese. Non possiamo dimenticare che la marina militare italiana dirige l’operazione Aspide, coordinando una coalizione a cui partecipano sette Paesi dell’Unione Europea: il compito di questa missione è contrastare l’azione yemenita che, attaccando le navi, è riuscita a lungo a bloccare un’importante via di comunicazione commerciale e a recare un fortissimo danno all’economia mondiale, mettendo in atto una delle più efficaci forme di sostegno e solidarietà alla popolazione di Gaza. Il governo italiano offre a Israele un appoggio politico incondizionato. L’esercito italiano e quello israeliano sono sempre più integrati, i militari si addestrano reciprocamente, l’industria bellica italiana è il terzo esportatore verso Israele (dopo Stati Uniti e Germania), mentre l’Italia compra dall’alleato sionista sistemi d’arma ad alta tecnologia. Finanche le amenità del Bel Paese sono uno dei luoghi prescelti da Israele per la “decompressione” dei propri militari dopo i combattimenti. I servizi segreti italiani condividono informazioni e tecnologie con gli apparati israeliani, come dimostra da ultimo il caso Paragon. Non dimentichiamo peraltro come la magistratura italiana sia schierata a supporto della repressione israeliana. Come dimostra lo scandaloso processo in corso all’Aquila contro Annan Yaeesh che vorrebbe far passare la resistenza armata palestinese, legittima anche per il diritto internazionale, per terrorismo. L’Italia supporta la logistica militare di Israele, come avviene con l’approdo nei porti italiani, ad esempio delle navi ZIM, e la ricerca tecnologica finalizzata alla supremazia militare, come avviene in numerosi atenei. Ormai nei mezzi di comunicazione di massa italiani è quasi impossibile ricevere informazioni che non siano sfacciata propaganda di guerra. Questi mezzi di comunicazione sono parte integrante della macchina bellica, affermazione che è rafforzata dalla considerazione che nell’attuale strategia di guerra occidentale sempre più frequentemente lo spettacolo determina le scelte sul campo. Nonostante una propaganda martellante gli sfruttati sono generalmente contrari alla guerra, in particolare il genocidio di Gaza ha profondamente scosso l’opinione pubblica; ma non basta una ribellione delle coscienze. Peraltro la classi più povere delle società occidentali stanno già pagando a caro prezzo il costo della guerra: dall’inflazione alla repressione. Di recente, il capo della NATO Rutte ha affermato che se gli europei non vogliono tagliare la loro spesa sanitaria a favore di quella militare (l’obiettivo dichiarato è di raggiungere il 5% del PIL!) allora dovranno imparare a parlare russo. D’altro canto, le politiche repressive sempre più efferate dei nostri governanti, di cui il pacchetto sicurezza di recente approvazione (dove si reprimono i blocchi stradali, i picchetti sindacali, le proteste in carcere, anche in forma pacifica, e si introduce il cosiddetto “terrorismo della parola”) è soltanto il più recente e probabilmente non definitivo approdo, vanno lette a tutti gli effetti come delle vere e proprie politiche di guerra, anche alla luce di quelle tensioni sociali di cui si faceva cenno. Nei prossimi mesi sarà importante per anarchici e solidali saper collegare la resistenza contro questa offensiva (così come la solidarietà con i nostri compagni in varie forme perseguitati) alla lotta complessiva contro la guerra, di cui queste operazioni sono la manifestazione sul fronte interno. La propaganda sempre più faziosa e pervasiva, il cablaggio tecnologico delle facoltà critiche, le sconfitte storiche del movimento operaio, una certa predilezione per l’autoisolamento da parte delle minoranze agenti, al momento pesano sul senso di impotenza e rassegnazione. Lo stesso livello tecnologico della guerra guerreggiata – si pensi al confronto aeronautico e balistico tra Israele e Iran, per non parlare delle tecnologie messe in campo da NATO e Russia in Ucraina – spinge verso un sentimento di ineluttabilità, nell’impossibilità per le umane forze degli sfruttati di fare qualcosa per fermarli. Eppure la variante umana e di classe è determinante. Sono le braccia dei portuali a caricare le armi sulle navi dirette a Israele: quelle braccia, come ci hanno mostrato in Marocco, a Marsiglia, a Genova, possono decidere di fermarsi. Sono i corpi dei proletari russi e ucraini a venire gettati nelle trincee, a massacrarsi vicendevolmente per gli interessi delle classi dirigenti russe e statunitensi (mentre Putin e Trump dialogano amabilmente al telefono); eppure quei corpi possono disertare, e lo fanno a decine di migliaia. La resistenza armata del popolo palestinese, che non ha amici tra le grandi potenze, riesce con la propria volontà e la propria azione ad opporsi ad una delle più terribili e avanzate macchine belliche presenti sula terra. Israele ha un dominio tecnologico esorbitante, eppure vediamo come i combattenti palestinesi riciclano le bombe inesplose del nemico per farne degli ordigni artigianali. La fantasia degli oppressi non conosce confini. E gli oppressi, come diceva Errico Malatesta, sono sempre in condizione di legittima difesa, i mezzi da adoperare, purché coerenti con i fini dell’uguaglianza e della libertà per tutti gli esseri umani, sono solo una questione d’opportunità. Dal nostro lato dei molteplici fronti, lottiamo per la disfatta del nostro campo: per la sconfitta della NATO, per la distruzione del sionismo. Trasformiamo la guerra dei padroni in guerra contro i padroni! Assemblea “Sabotiamo la guerra”
«Un progetto esplicitamente apocalittico»
«Un progetto esplicitamente apocalittico» Leggendo questa espressione, è molto probabile che si pensi subito al capitalismo nell’epoca della sua svolta tecno-totalitaria o alla tendenza degli Stati verso la guerra mondiale. Invece è riferita all’esatto contrario. A parlare è «CB», dell’università di Princeton, in occasione di un’intervista fatta da «Endnotes» e «Megaphone» sul movimento per la Palestina nei campus statunitensi: «Ho visto un cartello dell’accampamento di Toronto con l’Angelus Novus di Klee e una citazione di Césaire che recitava: “L’unica cosa al mondo che vale la pena di iniziare… la fine del mondo, ovviamente!”. Gli accampamenti sono un progetto esplicitamente apocalittico». Queste parole vanno prese sul serio, in senso letterale. Il luogo comune che consiste nell’associare l’apocalisse (quella nucleare su tutte) alla smisurata sete di potenza del dominio è sbagliato. L’unica vera apocalisse è quella rivoluzionaria. Senza addentrarsi in dotte ricostruzioni storico-teologiche, il concetto di apocalisse – etimologicamente, l’atto di gettar via un velo che copre – tiene insieme l’idea di fine del mondo e quella di rivelazione. La fine, cioè, deve interrompere un continuum e allo stesso tempo disvelarne la struttura. La distruzione nucleare del mondo non può essere apocalittica perché essa non assegnerebbe alcun significato nascosto al tempo, ma lo annienterebbe, eliminando, insieme all’umanità, la possibilità di ogni rivelazione. Lo stesso si può dire dei vari scenari verso cui spinge lo sviluppo tecnologico. Prendiamo uno dei tanti deliri prodotti dalla Silicon Valley: il datismo. Secondo questa tecno-religione, l’homo sapiens è stato funzionale all’evoluzione del mondo nella misura in cui ha primeggiato sulle altre forme di vita nella raccolta e nell’elaborazione dei “dati”; la potenza illimitata delle macchine “intelligenti”, diventando essa stessa il centro dell’evoluzione, conduce oggi all’estinzione del suo intralcio evolutivo: l’essere umano. Non c’è bisogno che tale profezia si realizzi compiutamente per definirla totalitaria, dal momento che la concatenazione dei mezzi che impiega ha già un effetto sull’insieme della materia-mondo. Ma nemmeno la macchinizzazione universale sarebbe propriamente apocalittica. L’apocalisse non è il punto più alto di un processo cumulativo, ma la sua interruzione e il suo disvelamento. Per capirlo sarà utile un parallelo con la religione cristiana, dal momento che «l’apocalittica neotestamentaria ha determinato attraverso le sue aporie tutto il corso della nostra storia» (Sergio Quinzio, La croce e il nulla). Ecco il punto cruciale: «Se non c’è catastrofe apocalittica, se non c’è rottura radicale della realtà data, se non c’è abisso da attraversare, allora c’è continuità fra il mondo il cui principio è Satana (Gv 12, 31; 16, 11), c’è graduale via per andare dall’uno all’altro, c’è, in definitiva, omogeneità: la scala che conduce al regno sta appoggiata al mondo». È nel differimento dell’apocalisse che s’inserisce e s’inscrive l’idea moderna di progresso, di cui la distruzione nucleare o il mondo transumano sono l’achèvement (il compimento e l’estremizzazione), nient’affatto l’arresto rivelatore. Senza la sua apocalittica (intesa sia come insieme delle scritture che hanno per tema l’apocalisse sia come componente messianico-escatologica), affogata letteralmente nel sangue, arsa viva o ridotta a precettistica, il cristianesimo si rifugia nelle regioni dello spirito. Se il cristianesimo è diventato ben presto – e poi in modo dominante – uno strumento di potere, è rimasto per secoli anche la «religione degli schiavi». Per milioni di contadini e di poveri la promessa del Regno è stata una speranza di riscatto e la legittimazione della rivolta contro i ricchi. Se, negli Stati Uniti dell’Ottocento, insegnare a leggere agli schiavi era un reato passibile di morte, è anche perché gli abolizionisti sceglievano certe pagine della Bibbia come testi su cui esercitarsi, cioè le pagine in cui si afferma l’uguaglianza degli esseri umani in quanto figli di Dio. Persino l’abolizionista ateo faceva ricorso a quel linguaggio – «non si tiene in catene un figlio di Dio» – per l’effetto apocalittico che sapeva produrre contro il regime schiavistico. Più in generale, se il mondo è regno di Satana (nel Libro di Daniele Dio affida il governo ai santi dopo l’apparizione della belva più feroce), l’idea di uscirne come ricompensa personale è un escamotage; quella di uscirne progressivamente è semplicemente un non-senso: tra il male e il bene non può esistere alcuna scala a pioli. «Il processo per il quale la volontà di redentrice concretezza si trasforma in spiritualizzatrice fuga verso l’astratto è lo schema entro il quale si è svolta la storia del moderno». Ecco l’aporia: se la linea evolutiva è ascendente, il tempo salvifico è quello posto più in alto; se è discendente, il tempo salvifico è la rottura apocalittica. La quale è sia un evento unico (perché il tempo cristiano è una linea e non una ruota, come nella concezione ciclica dei Greci), sia un evento «oggettivo, pubblico, terrestre, istantaneo e immediatamente immanente» (contro l’idea di una salvezza interiore o gradualmente raggiungibile). Per questo la Chiesa ha trasformato l’apocalittica in semplice ammonimento morale. Ma così come il vino nuovo non può non rompere l’otre vecchio (Mt 9, 16-17), la salvezza non può non distruggere-svelare il «mistero dell’iniquità» – in termini materialistici: la violenza dello Stato e del capitale. O Gaza è un tassello – o un inciampo – in una linea evolutiva che va proseguita. Oppure è il moto accelerato verso «un paesaggio di catastrofi contratto in un’armonia infernale», che solo una rottura apocalittica può fermare. L’apocalittica oggi può essere fatta propria unicamente da un movimento rivoluzionario. E qui torniamo alla citazione iniziale. Il movimento internazionale e internazionalista di solidarietà con gli oppressi palestinesi ha due sole prospettive: rassegnarsi all’inconcludenza, o farsi «esplicitamente apocalittico». Nulla meglio dei campus statunitensi lo rivela. È certo importante e apprezzabile riuscire a spezzare le specifiche collaborazioni con il genocidio israelo-statunitense di Gaza. Ma, come ha detto un altro partecipante agli accampamenti, «un autentico disinvestimento dalla morte non può avvenire all’interno di un regime necropolitico». Prima e al di là di cosa vi si insegna e cosa vi si ricerca, resta il fatto che quelle università (e non solo quelle) sono state fisicamente erette sulle terre strappate ai popoli nativi con la violenza. «245 tribù indigene persero oltre 4 milioni di ettari di terra, destinati all’espansione delle università statunitensi». Globalmente, «oltre sei milioni di ettari di terre indigene in tre diversi continenti sono stati trasferiti alle università coloniali» (Maya Wind. Torri d’avorio e d’acciaio). Per questo «RH» e «KG», intervistati sempre da «Endnotes» e «Megaphone», concludono: «I nostri antagonisti sono l’amministrazione e la polizia, il che è un sintomo delle più ampie contraddizioni sociali, ovvero il fatto che siamo su una terra rubata e che l’intero paese è costruito solo sulla violenza. Quindi dire che i nostri unici antagonisti sono gli amministratori non è corretto. Il nostro antagonista è lo Stato». Ricapitolare, nella critica pratica delle università, la violenza genocida su cui si fondano, significa mettere in discussione almeno due secoli di storia, cioè operare qualcosa di apocalittico. Il colonialismo d’insediamento israeliano compendia l’intera storia della modernità capitalistica. Dispiegandosi diversi decenni dopo gli altri colonialismi d’insediamento, la sua violenza genocida – che Ilan Pappé definisce con rara precisione «incrementale» (l’esatto opposto, si noti, di apocalittica) – è allo stesso tempo in ritardo e in anticipo sui tempi storici. In ritardo, perché il suo progetto coloniale è il solo ancora incompiuto (la sua incompiutezza si chiama resistenza palestinese); in anticipo, perché, disponendo di tutta la potenza che il complesso scientifico-militare-industriale ha accumulato nel frattempo, esso è il laboratorio di ogni sperimentazione contro i pellerossa del Medio Oriente e i palestinesi dell’Occidente, cioè contro gli Untermenschen del presente e del futuro. Eccoci qui: «tutta la nostra cultura europea si muove già da gran tempo con una tensione torturante che cresce di decennio in decennio, come se si avviasse verso la catastrofe: inquieta, violenta, precipitosa, come un fiume che vuole sfociare, che non si rammenta più, che ha paura di rammentare» (Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888). Gaza diffonde oggi schegge di apocalisse, richiamando in vita coscienze che sembravano sepolte. L’azione di Elias Rodriguez ricorda, per intensità etica e per dedizione totale, quelle compiute dalle «nichiliste» e dai «nichilisti» russi di fine Ottocento. E non a caso nelle rivolte in corso negli Stati Uniti contro le deportazioni degli immigrati si vedono ovunque le kefiah. Le donne e gli uomini che si mettono in mezzo per impedire le retate dell’ICE richiamano e rinnovano la storia degli abolizionisti che si opponevano alle leggi Jim Crow, cioè alla caccia armata agli schiavi fuggiaschi. Si tratta di piccole, e ancora sotterranee, apocalissi storiche. Non lo diciamo per gusto dell’estremismo, ma per cogliere la filologia delle lotte e della loro posta in gioco. E proprio sul piano filologico ci teniamo a «correggere» la frase da cui siamo partiti. L’apocalisse non può essere un «progetto», ma una via che si riconosce dopo aver cominciato a percorrerla, cioè un abisso da attraversare. I progetti rivoluzionari servono a preparare un minimo di bagaglio per la traversata.
Preferisco di no
  Cosa fare, nella sezione “semi-liberi” di un carcere, contro l’orrore di Gaza? Il nostro amico e compagno Massimo ha deciso di partecipare allo sciopero generale “Fermiamo il genocidio” (proclamato nella provincia di Trento da due sindacati di base per il prossimo 30 maggio). Nel suo caso, uno sciopero “un po’ paradossale”, perché consiste nel rimanere in carcere invece di uscire per lavorare. Il testo che segue ne spiega le ragioni. Preferisco di no Benché nella mia esistenza non abbia trascorso che una manciata di anni recluso, si tratta comunque di molto più tempo di quello che ho passato lavorando come salariato. Di conseguenza, tra i metodi di lotta che ho praticato non rientrava fino ad oggi lo sciopero, se non nella forma indiretta dell’appoggio solidale. I casi della vita (e della repressione) fanno sì che in questo momento io sia contemporaneamente un lavoratore dipendente e un detenuto in semi-libertà (o semi-prigionia). Mi trovo quindi nella situazione un po’ paradossale di poter scioperare, scegliendo di non uscire dal carcere per farlo. Lo sciopero generale “Fermiamo il genocidio” indetto a livello provinciale dai sindacati di base Cub Trento e Sbm per venerdì 30 maggio me ne dà l’occasione. L’orrore di Gaza, la cui violenza genocida sta oggi assumendo i caratteri della vera e propria soluzione finale, è un pungolo fisso che sento nel costato e nello spirito. Da quando sono qui non ho smesso di chiedermi cosa posso fare che abbia un minimo di senso. Non perché m’illuda di poter mettere chissà quale peso sulla bilancia della storia, ma perché non posso accettare che la normalizzazione del massacro guadagni terreno nella mia coscienza. Rinunciare a qualche ora di “libertà”, standomene in carcere con indosso una maglietta sulla resistenza palestinese e una kefiah, mi accomunerà se non altro a quei milioni di persone nel mondo che non sanno esattamente cosa fare ma che non possono far finta di niente. Il prigioniero palestinese Anan Yaeesh ha scritto, nella sua potente e commovente dichiarazione, di sentirsi un privilegiato rispetto al suo popolo stretto tra le bombe, la fame e la violenza assassina dei coloni. Se è un “privilegio” per un palestinese la prigionia nella sezione di Alta Sorveglianza di Terni – la stessa in cui è rinchiuso il mio amico e compagno Juan –, la mia condizione è allora un doppio privilegio. Se sono convinto che senza azioni diffuse e risolute non si può spezzare l’infame complicità dello Stato e del capitalismo italiani (delle loro fabbriche di armi, delle loro banche, dei loro porti, della loro logistica, dei loro centri di ricerca, delle loro università) con il regime sionista, mi piace la proposta di uno sciopero economico, sociale e umano, perché la non-collaborazione individuale e collettiva è parte necessaria di un movimento internazionalista di solidarietà. L’anarchico francese Albert Libertad lo chiamava, più di un secolo fa, «sciopero dei gesti inutili». Se generalizzato, lo sciopero dalle attività anti-ecologiche e anti-sociali su cui si fondano e con cui si riproducono lo Stato e il capitale potrebbe sfidare il più oppressivo dei regimi. Il punto è che nella storia la non-collaborazione non è mai riuscita a sottrarre così tanta legna da spegnere il fuoco del potere – di qui la necessità di altre pratiche di resistenza e di lotta. Ad ogni modo, l’espressione «preferisco di no» è il lievito di ogni rivolta morale – sempre possibile, anche quando si è all’angolo (o in una cella). Nel ringraziare chi ha proclamato lo sciopero, e nello stringere idealmente la mano a tutti quelli che il 30 maggio cercheranno di essere sabbia e non olio negli ingranaggi automatizzati del genocidio, posso solo dire che la mia “libertà” oggi vale ben poco senza la liberazione del popolo palestinese, la cui indomita resistenza perfora i muri (persino quelli delle carceri). Servano le sbarre a ricordarmi la sua prigionia. Possano queste mie povere parole servire come monito a non cedere al comfort della rassegnazione. Come occasione, anche, perché «possiamo intanto che abbiamo cuore». «Durano i sentimenti / più del tuo corpo / e del mio» Francesca Matteoni «A dire che non siamo che occasioni, contenitori provvisori di qualcosa che comunque esisteva, esiste ed esisterà: prima, durante e dopo di noi, che possiamo. Ma possiamo intanto che abbiamo cuore» Maria Grazia Calandrone Carcere di Trento, 14 maggio 2025 Massimo Passamani Riportiamo di seguito il testo d’indizione dello sciopero, anche per rendere più comprensibili alcuni riferimenti contenuti nella “dichiarazione” di Massimo: UNO SCIOPERO PER GAZA Non ci sono più parole. Siamo di fronte al piano esplicito, formale, dichiarato, di soluzione finale della questione palestinese. Dopo 19 mesi di violenza genocida ed ecocidia contro gli abitanti e la terra di Gaza, il Gabinetto di guerra israeliano ha approvato il piano di invasione del 90% della Striscia. Si chiama «Operazione Carri di Gedeone». Più di due milioni di palestinesi verrebbero sfollati a forza e rinchiusi nel restante 10%, un territorio grande come Mantova, una città di quarantamila abitanti. Intanto continua il blocco di cibo e acqua, con immagini strazianti di bambini scheletrici che si aggirano tra cumuli di macerie. Alla morte o deportazione dei gazawi si aggiunge l’intento esplicito di annettere la Cisgiordania, cioè di realizzare il «Grande Israele» senza più tracce del popolo palestinese. Il tutto con la complicità dell’intero Occidente (governo italiano compreso). Il parlamentare del Likud (lo stesso partito di Netanyahu) Moshe Saada ha proclamato sull’emittente televisiva Canale 14: «Sì, farò morire di fame gli abitanti di Gaza, sì, questo è un nostro dovere». Queste, invece, le parole del dissidente israeliano Gideon Levy: «Non esiste più “permesso” e “proibito” riguardo alla malvagità di Israele nei confronti dei palestinesi. È permesso uccidere decine di prigionieri e far morire di fame un intero popolo. Un tempo ci vergognavamo di tali azioni; la perdita della vergogna sta ora smantellando ogni barriera rimanente». Di fronte a un tale orrore che si compie in diretta, continuare la nostra vita quotidiana come se nulla fosse ci è semplicemente insopportabile. E sappiamo di essere in tanti a provare un sentimento simile di angoscia, di impotenza, di rabbia. Per questo lanciamo uno sciopero generale per l’intera giornata di venerdì 30 maggio. Uno sciopero che non sia solo astensione del lavoro – un’astensione che vorremmo la più ampia possibile e in grado di incidere sull’economia –, ma astensione da tutto quell’insieme di gesti che riproducono la normalità sociale: fare la spese, prendere un mezzo di trasporto, andare al bar, in banca, alla posta, prelevare dal bancomat, collegarsi a Internet ecc. Insomma, uno sciopero economico, sociale e umano affinché pensieri e gesti siano rivolti, almeno per un giorno, unicamente al popolo palestinese, alla sua indicibile sofferenza e alla sua indomita resistenza. Per questo stiamo pensando anche a un momento in un cui trovarsi collettivamente per leggere riflessioni, appelli, poesie e altre testimonianze da Gaza e per raccogliere fondi per la sua popolazione. Usciamo dalla logica delle parrocchie politiche con uno sforzo comune: diffondiamo il senso della giornata del 30, partecipiamo e invitiamo a partecipare. In gioco, insieme alle sorti di un intero popolo, è ciò che rimane della nostra umanità. Trento, 9 maggio 2025 CUB Trento e SBM (Ci facciamo promotori dello sciopero perché come organizzazioni sindacali ci sentiamo in dovere di farlo e per dare copertura a chi, in tempo di genocidio, sa da che parte della storia collocarsi)
L’occhio del nemico – Su Mondeggi Bene Comune e l’agri-tech “dal basso”
Riprendiamo dal blog del collettivo Terra e Libertà: Scarica in formato pdf: occhiodelnemico_lettura occhiodelnemico_stampa L’occhio del nemico Su Mondeggi Bene Comune e l’agri-tech “dal basso” Gran parte del lavoro necessario ad imporre lo sviluppo tecnologico che incarcera la società e devasta il pianeta consiste nel convincere coloro che pagheranno a caro prezzo una nuova tecnologia ad esserne entusiasti. Lo sosteneva Neil Postman facendo l’esempio dell’avvento del computer: il grande capitale e gli Stati, i veri vincitori dell’era informatica, si dovettero dare un gran da fare per convincere i perdenti (più o meno tutte le persone “normali”) dei mille vantaggi che avrebbero potuto trarne. Ma i capitalisti non si trovarono da soli a promuovere l’adesione al nuovo mondo informatico: ad aiutarli accorsero subito i cantori dell’internet e del software libero – forse in cerca di universi cibernetici in cui sfogare la frustrazione di essere stati sconfitti sul campo dalla controrivoluzione, forse in cerca di nuovi modi di fare carriera. Di dimostrare la cantonata (o la mala fede) di chi propagandò il computer e la rete come strumenti di emancipazione si è già occupata ampiamente la storia, ma si sa che la storia insegna solo a chi vuole imparare, e certa gente ha la testa dura. È il caso di Alex Giordano, venditore di pentole quattro punto zero, che si presenta al mondo come «pioniere italiano della rete». Affabulatore del mondo cablato fin dai suoi albori, dopo aver lavorato come consulente aziendale nell’ambito del marketing (anche per Google), oggi è attivo come promotore dell’informatizzazione dell’agricoltura. Più che di pentole, Giordano è un vero e proprio venditore di fumo – non solo nel senso che non dice niente di sensato, ma nel senso che i suoi sforzi sono tutti tesi a mistificare la vera natura del mondo digitale. Armato del peggior marciume postmoderno (tra cui la tanto amata paladina del cyborg Donna Haraway, che fa comodo a tutti – uno fra i pochi esempi di teorico citato contemporaneamente nei testi di sedicenti antagonisti e in quelli del Pentagono) sostiene un approccio 5.0 in cui i problemi dei foodsystems possono essere hackerati orientando le nuove tecnologie secondo i valori della dieta mediterranea (sic). Il risultato è un improbabile polpettone che tiene insieme un po’ tutto: gli interessi delle multinazionali con quelli delle comunità locali, l’agricoltura digitale con l’agroecologia. Nel nome della complessità e della visione sistemica (cardini della seconda cibernetica), propone un approccio «olistico» in cui l’intelligenza artificiale si dà come sintetizzatore dell’intelligenza collettiva, e i confini fra la macchina e il vivente si sfumano. L’idea che forse più di tutte gli vince il naso rosso da pagliaccio è quella dei data commons, i dati bene comune, che sarebbe la risposta rigenerativa all’estrattivismo dei dati.  Giordano non è peggiore di tanti servi del potere tecno-industriale che con il loro lavoro accademico lavano via le macchie di sangue, di sfruttamento e di rifiuti tossici dalle superfici scintillanti dei nuovi dispositivi smart. Non sarebbe di grande interesse passare in rassegna i suoi vaneggiamenti se non fosse che recentemente è comparso a Mondeggi Bene Comune, dove il suo collettivo Rural Hack (task-force del centro di ricerca Societing Lab diretto da Giordano all’Università Federico II di Napoli) ha installato una centralina IoT (Internet of Things) per la raccolta di dati ambientali, che verrà integrata con la piattaforma di intelligenza artificiale Wi4Agri per «elaborare modelli predittivi utili alla comunità»[1]. Il tutto in collaborazione con Primo Principio, cooperativa agri-tech responsabile fra le altre cose del sistema di videosorveglianza dell’isola dell’Asinara.   Ma facciamo un passo indietro: Mondeggi Bene Comune ha recentemente accettato di collaborare a un maxi-progetto di riqualificazione urbana voluto dalla Città Metropolitana di Firenze e finanziato con oltre 50 milioni di euro del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). In un testo pubblicato nel giugno 2024, alcuni ex-presidianti della fattoria occupata avevano criticato questo percorso prendendo in considerazione il PNRR e il progetto di rigenerazione proposto per la tenuta[2]. Del PNRR, in particolare, veniva messo a fuoco il suo impatto sul comparto agricolo, sottolineando come la digitalizzazione dell’agricoltura promossa dal Piano sia essa stessa un disastro ecologico senza alcuna garanzia di effetti positivi, e di come essa porterà alle estreme conseguenze la perdita di saperi legati alla terra già iniziata con la meccanizzazione dell’agricoltura – tendenze palesemente incompatibili con gli obiettivi di difesa dell’agricoltura contadina che avevano guidato l’esperienza della Fattoria Senza Padroni. La riqualificazione della tenuta prevede inoltre la realizzazione di un acceleratore di startup di agricoltura 4.0, con campi sperimentali dove queste coltivazioni potranno essere sviluppate «nel rispetto dei principi dell’agro-ecologia». Il testo degli ex-presidianti suggeriva che il termine agroecologia, quando è in bocca a scienziati, politici e imprenditori, può voler dire tutto e niente, e faceva notare provocatoriamente che i promotori dell’agri-tech avrebbero potuto far passare sotto quella dicitura persino la sperimentazione dei cloni chimerici brevettati (i nuovi OGM, anche detti TEA). Gli ex-presidianti sostenevano che, accettando di collaborare alla riqualificazione, Mondeggi Bene Comune stava spalancando la porta a progetti che sono un attacco diretto all’agricoltura contadina e di comunità, e contribuendo a legittimare la retorica fintamente green e “inclusiva” dietro cui vengono nascosti. All’epoca sembrava che Mondeggi Bene Comune si stesse incamminando a legittimare la digitalizzazione dell’agricoltura suo malgrado. E invece, giocando d’anticipo sui progetti metropolitani e installando la nuova centralina IoT ben prima dell’arrivo delle start-up, ha addirittura preso l’iniziativa. Questo dispositivo, che promette di ridurre i trattamenti fitosanitari sulla base dell’analisi dei dati metereologici e l’applicazione dell’intelligenza artificiale, racchiude in sé una doppia falsità. La prima è che l’agricoltura industriale possa essere resa sostenibile tramite la digitalizzazione, la seconda è che l’agricoltura contadina (agroecologica e di comunità) abbia bisogno dell’intelligenza artificiale per essere resa sostenibile. L’intreccio di queste due menzogne è un vero capolavoro di impostura intellettuale che contribuisce a inquinare le acque già torbide del dibattito su tecnologia, agricoltura, ecologia.  Ora, l’idea che una comunità contadina abbia bisogno dell’intelligenza artificiale per farsi il vino risulterà per molti un’idiozia a pelle, senza bisogno di grandi ragionamenti. Indubbiamente questa sensibilità è una buona bussola, ma l’ordine dei problemi che questa vicenda tira in ballo è di ampia portata, per cui potrà essere forse utile mettere in fila alcuni elementi. Innanzitutto, è importante ricordare – contro la propaganda sull’immaterialità e la sostenibilità dei sistemi digitali – che l’intelligenza artificiale non è pensabile senza un apparato globale fatto di satelliti, dorsali di cavi che avvolgono l’intero pianeta, ripetitori, e sensori (che vanno costantemente prodotti, distribuiti, sostituiti e prodotti nuovamente). Come è ormai ampiamente noto, le materie prime delle batterie e dei chip devono essere estratte sventrando la terra con procedimenti di raffinazione che devastano tanto gli ecosistemi quanto le vite di chi li abita. E se fino adesso questa devastazione è stata tenuta sufficientemente lontana dall’occhio delicato dell’osservatore occidentale, le esigenze di disaccoppiamento delle filiere produttive e commerciali (decoupling) con cui l’asse atlantico cerca di garantirsi l’autonomia strategica necessaria ad affrontare la guerra con la Cina stanno dando il via a una nuova stagione mineraria nella stessa Europa. Queste materie prime, che vanno da quelle critiche a quelle strategiche fino alle cosiddette terre rare, sono al centro dello scontro globale per la supremazia tecnologica.  Il mondo dei dati nella sua totalità accelera il disastro ecologico, non solo per le conseguenze dell’estrattivismo minerario, ma anche per i costi energetici e idrici assolutamente astronomici necessari a mantenere accesi i milioni di computer che popolano i datacenter. Questo apparato globale inoltre non può esistere senza esigere un costante sacrificio di carne umana: dai lavoratori che muoiono nelle miniere africane, all’esercito di etichettatori che vengono sfruttati per addestrare le intelligenze artificiali, per non parlare dei lavoratori resi sempre più ricattabili da sistemi che si nutrono come vampiri della loro esperienza per renderli superflui e sorvegliati da forme di controllo sociale sempre più avanzate.  Il moloch digitale avanza distruggendo il pianeta e calpestando un’umanità ridotta in schiavitù, e l’intelligenza artificiale ne è il cuore pulsante. L’intelligenza artificiale nasce per fare la guerra, e se da una parte essa è volta ad aumentare l’efficacia con cui gli eserciti uccidono, dall’altra la sua dipendenza da flussi energetici e riserve di materie prime moltiplicherà i conflitti per assicurarsi le risorse necessarie. Queste tendenze che puntano dritte alla guerra robotica totale, lungi dall’essere previsioni distopiche, sono ampiamente riscontrabili nell’attualità – dal genocidio algoritmico di Gaza alle mire espansionistiche USA in Groenlandia o ai discorsi sullo scudo ucraino. In Palestina, vera cartina di tornasole di cosa piove realmente dal cloud, negli ultimi diciotto mesi all’apartheid digitale già consolidato si è affiancato il genocidio automatizzato di decine di migliaia di civili, massacrati tramite l’azione congiunta di vari sistemi di intelligenza artificiale che hanno incrementato esponenzialmente la capacità dell’esercito sionista di seminare la morte nella Striscia. Alla luce del ruolo che l’intelligenza artificiale e la digitalizzazione hanno nel costruire un mondo di sfruttamento e di guerra, e del ruolo che hanno avuto nell’inferno di Gaza – senza mezzi termini l’olocausto della nostra epoca – l’idea che queste tecnologie possano essere messe al servizio dell’agroecologia è una barzelletta che non fa ridere.  Non c’è molta differenza fra sostenere che una comunità possa riappropriarsi dell’intelligenza artificiale con finalità agroecologiche e sostenere gli usi civili del gas nervino. Chi diffonde queste idee, però, si garantisce un posto fra i guardiani dell’ordine costituito – con tutte le ricompense che ne derivano. Operazioni come quella di Alex Giordano e soci sono infami e squallide. Infami perché mirano a fare penetrare dal basso le logiche del dominio, a convincere chi cerca – in buona fede – di distruggere la casa del padrone che farlo con gli attrezzi del padrone è possibile, anzi, conveniente. Squallide perché sono basate su una costante opera di stordimento retorico, miscugli di parole chiave senza logica in cui gli elementi di critica vengono neutralizzati citandoli senza mai affrontarli con ordine e onestà. Giusto per fare un esempio, Giordano ammette che l’approccio «black box» alle tecnologie informatiche sottrae sapere agli agricoltori, ma subito dopo millanta la possibilità di smontare e rimontare questi dispositivi per capirne i processi interni. Ora, l’idea che una piccola comunità di contadine e contadini possa garantirsi un controllo sostanziale sui vari processi di un sistema di agricoltura 4.0 (estrazione e stoccaggio dei dati, addestramento e funzionamento degli algoritmi di intelligenza artificiale, assemblaggio dei chip e dei dispositivi) per metterlo al servizio dell’agroecologia è ovviamente falsa, ed è falsa per vari motivi. È facile rendersi conto che queste tecnologie sono troppo complesse per essere padroneggiate “dal basso”: richiedono conoscenze avanzate di ingegneria, elettronica, matematica, informatica; e dipendono da apparati globali per il funzionamento della rete, la raccolta dei dati, l’estrazione delle risorse minerarie, la produzione di energia. Ma ad un livello più profondo questa idea è falsa perché si basa su una concezione completamente fuorviante di cosa sia la tecnologia e di che rapporto ci sia fra tecnologia e società, ovvero la concezione dominante secondo cui la tecnologia può essere usata liberamente ed è politicamente ed eticamente neutra. Per capire cosa sia effettivamente la tecnologia, la sua definizione va ampliata fino ad includere, oltre al dispositivo in sé, l’utente e le modalità di produzione e utilizzo, ma soprattutto la sfera di elementi politici, economici, simbolici, nonché la relazione con altre tecnologie e con la società nel suo insieme. Ogni tecnologia specifica porta con sé una sfera di elementi (pratiche, competenze, infrastrutture, obiettivi, immaginari) ed agisce in una maniera che Neil Postman definì ecologica: una nuova tecnologia non si aggiunge alla società, ma crea una nuova società. Per fare un esempio, si immagini di dover spiegare cosa sia l’automobile a un uomo dell’antichità: è chiaro che definirla come un dispositivo che converte energia termica in lavoro meccanico per favorire la locomozione, per quanto tecnicamente corretto, sarebbe assolutamente insufficiente a fargli capire cosa effettivamente sia l’automobile. Per permettergli di farsene un’idea minimamente utile bisognerebbe parlargli dei processi industriali ed economici che ne hanno permesso la produzione e l’acquisto di massa, dell’estrazione di combustibile fossile che ne ha garantito il funzionamento, della rete di strade e autostrade che ne ha facilitato la circolazione, della cultura che ne ha fatto un simbolo di status sociale. Diventerebbe chiaro, da questa spiegazione, che l’automobile è stata il fulcro di uno stravolgimento profondo e generale della società, che ha completamente cambiato l’aspetto delle città, i rapporti sociali, le catene di valore. È solo con questa ampiezza di sguardo che possono essere comprese le tecnologie moderne. La tecnologia va dunque intesa come un “oggetto” socio-storico costitutivo della società, e in quanto tale non è possibile separarlo dal proprio contesto e indirizzarlo verso altri scopi. Le tecnologie della società capitalistica, in particolare, sono inseparabili dalle dinamiche coloniali ed estrattive che generano una distribuzione diseguale di risorse su scala globale, anzi, il progresso delle tecnologie imperiali è esattamente l’indice dei processi di accumulazione capitalista: non un accessorio, bensì l’espressione della struttura economica vigente. Lo sviluppo tecnologico moderno si nutre di un flusso di lavoro e risorse che è per forza di cose asimmetrico: ad esempio, la diffusione dei pannelli solari in Europa non sarebbe possibile se questi dispositivi non fossero prodotti in paesi dell’Asia dove il lavoro ha un costo minore e dove i vincoli ambientali sono pressoché nulli. La conseguenza è che, al massimo, l’impiego di queste tecnologie per affrontare i problemi ambientali non fa che spostarli dal centro dell’impero alle periferie sacrificabili. Se anche la centralina IoT ridurrà in una qualche misura i trattamenti fitosanitari del vigneto di Mondeggi, lo farà solo volgendo a proprio favore i meccanismi di sfruttamento globale, appropriandosi di lavoro a minor costo e producendo danni ecologici dislocati nei paesi in cui vengono estratte le risorse e prodotti i dispositivi. Come ben riassunto da Adrián Almazán, la vecchia idea socialista che le tecnologie del capitalismo possano essere messe al servizio del proletariato è falsa perché il capitalismo è, fra le altre cose, la sua tecnologia. Finché non ci si libera di questo errore di fondo nel pensare la tecnologia sarà impossibile orientarsi e agire efficacemente contro questo presente segnato in maniera cruciale dalla dimensione tecnologica, e si sarà facile preda di ciarlatani come Giordano. Per promuovere l’adozione dell’agri-tech Giordano sfrutta inoltre una retorica di “naturalizzazione” dello sviluppo tecnologico: così come i contadini del passato creavano «ibridazioni» mettendo il giogo ai buoi (sic), così oggi siamo chiamati a rispondere ai problemi del nostro tempo con i sensori e l’intelligenza artificiale. Creare una falsa linea di continuità fra la civiltà contadina e i dispositivi moderni serve a renderli più rassicuranti e ad occultare le differenze sostanziali che esistono fra tecnologie conviviali, che – riprendendo le categorie di Ivan Illich – promuovono l’autonomia di chi le utilizza, e tecnologie che manipolano e sottomettono l’utente rimanendo di fatto nelle mani di altri. È importante notare che questa è la stessa operazione ideologica che viene regolarmente usata per difendere il ritorno dei cloni chimerici brevettati, che vengono quasi sempre proposti come una versione più moderna ed efficiente di una pratica di selezione delle piante la cui storia si perde nella notte dei tempi. A ben vedere, la “naturalizzazione” delle tecnologie moderne è pressoché onnipresente nel discorso mainstream sull’innovazione tecnologica in qualunque ambito, e serve a celare una discontinuità fondamentale: la tecnologia moderna è fondata su scambi di lavoro e di risorse asimmetrici negoziati sul mercato globale, senza i quali non potrebbe esistere. Intelligenza artificiale e OGM sono entrambi progetti di rapina perché, ancor prima di valutarne gli usi e gli effetti, sono inestricabilmente legati allo sfruttamento e al dominio che li rende possibili. In ballo qui non c’è solo una centralina IoT, ma un vero e proprio modo di pensare che porta dritti fra le braccia del nemico. Su una cosa Giordano è sincero, ed è quando rivolgendosi a Mondeggi Bene Comune dice: «Noi ci muoviamo un po’ nelle istituzioni […] e sappiamo benissimo che solo con voi possiamo fare questa cosa». Questo è il punto cruciale: l’informatizzazione dell’agricoltura – così come l’incarcerazione tecnologica della società – non può avvenire solo dall’alto, ma ha bisogno di infiltrarsi anche “dal basso” tramite la collaborazione di soggetti sociali che si fanno vettori di accettazione e contribuiscono a normalizzare gli strumenti del potere nell’arsenale di chi vorrebbe resistere. Le parole in questo hanno un ruolo fondamentale: le parole ci permettono di pensare, e la loro mancanza inibisce il pensiero, per cui quasi sempre queste erosioni del senso critico passano attraverso veri e propri furti semantici (in questo caso di parole come agroecologia, comunità, commons, ecc.). Contro questi tentativi di annebbiare la vista e di rubare il senso alle parole, ripetiamo che intelligenza artificiale e digitalizzazione sono guerra generalizzata al vivente. L’idea che questi sistemi mortiferi, che sono al centro dello scontro per la supremazia mondiale ed inestricabilmente legati alle dinamiche di sfruttamento su scala planetaria, possano essere riorientati secondo valori diversi da quelli che effettivamente e materialmente li animano è pura fantasia. Perdere perché il nemico è più forte è una sconfitta che risparmia la dignità, intollerabile invece è non vedere più il nemico perché ormai si guarda il mondo come lui. Rovereto, aprile 2025 Collettivo Terra e Libertà [1] https://mondeggibenecomune.org/2025/04/14/verso-i-data-commons-per-lagroecologia-rural-hack-a-coltivare-gaia/ [2] https://mondeggibenecomunque.noblogs.org/