Terrorizzare e reprimere (da disfare 2)Diffondiamo un articolo pubblicato sul secondo numero di disfare. Ricordiamo che
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Terrorizzare e reprimere
Per dispiegarsi compiutamente e senza remore di sorta, la forza coercitiva dello
Stato democratico necessita di argomentazioni almeno parzialmente plausibili e
condivisibili da parte della cosiddetta “opinione pubblica”. Queste si basano
spesso sul rovesciamento semantico di determinati concetti, affinché la carica
negativa scaturente dal rovesciamento di tali elementi ricada interamente
sull’individuo o sul gruppo da reprimere. È il caso, ad esempio, del concetto di
“terrorismo”. A dispetto della sua origine, ancora oggi pietrificata nella
stessa radice della parola (terror), esso oggi ha poco a che vedere con
l’imposizione del terrore sulla popolazione, ma sembra piuttosto riguardare il
terrore che gli Stati hanno delle popolazioni e degli individui.
Rovesciamenti semantici
Il termine “terrorismo” venne coniato a partire dall’esperienza del Regime del
Terrore, instauratosi nella Francia del 1793, a forza di teste ghigliottinate
secondo le decisioni del Comitato di Salute Pubblica, organo del governo
giacobino allora in carica. I neologismi francesi terrorisme e terroriser,
creati a partire dal latino terror, iniziano a circolare in Europa proprio col
significato – tuttora attestato nei vocabolari – di «azione del potere politico
di incutere terrore nei confronti dei cittadini, attraverso la costrizione e
l’uso illegittimo, indiscriminato e imprevedibile della forza»[1]. Formalmente
ristretto a un periodo di emergenza, il terrore per sua natura tende ad
eternarsi e a divenire definitivo, senza possibilità di mutamento, con una
crescita esponenziale di eccessi e di atti di barbarie. Si tratta in sostanza di
un sistema tirannico che agisce contro il popolo, spargendo trappole per
insidiare ogni passo del cittadino, introducendo una spia in ogni casa, un
traditore in ogni famiglia, un assassino in ogni tribunale. Questo sistema è
perciò un’arte, «l’arte del terrore», praticata da un potere arbitrario e
fortemente concentrato nelle mani di poche persone. Per questa ragione, il
terrore si attaglia meglio a una monarchia, ma in verità può essere praticato
anche da una repubblica: in questo secondo caso, tuttavia, esso si dimostra ben
peggiore, perché rende il popolo indifferente alla libertà e anzi la fa odiare.
Il risultato consiste comunque ineluttabilmente nel dividere l’intera società in
due classi distinte: una minoranza persecutrice che fa paura e una maggioranza
perseguitata che ha paura. Si delineava così, per la prima volta, una
fondamentale presa d’atto: l’esistenza di una divaricazione tra il fine
dichiarato del terrore, ossia punire talune persone o certi gruppi ritenuti
colpevoli di attentare al regime o alla vita sociale, e il fine vero,
scientemente attuato, quello di controllare, mediante la paura, l’intera
società[2].
L’origine del concetto di terrore e terrorismo, dunque, tradisce chiaramente il
fatto di riferirsi ad un metodo di governo, adottato da un regime politico
costituito, rivolto alla repressione del dissenso e al controllo sociale. È
quindi connaturato allo Stato stesso. Col passare degli anni, un capovolgimento
semantico avvenne con il colonialismo europeo. Le potenze europee si servirono
dello stigma legato all’impiego del termine terrorismo contro quelle popolazioni
asiatiche e africane che provavano a ribellarsi alle politiche coloniali di
sterminio e depredazione delle risorse. In alcuni casi l’accusa di terrorismo
aprì la strada a veri e propri genocidi, come avvenne in Namibia per la
popolazione Herero trucidata dall’esercito tedesco[3]. Dietro a simili azioni,
in cui l’intera popolazione, senza alcuna distinzione tra, ad esempio,
combattenti e civili, veniva colpita, stava la concezione e teorizzazione di una
modalità di conflitto integrale ed assoluto. Una modalità che con la prima
guerra mondiale diventerà prassi. Nel 1914, il generale e teorico militare
tedesco Colmar von der Goltz (all’epoca più letto di Clausewitz), nominato
governatore del Belgio, sostenne con chiarezza la necessità di punire
esemplarmente gli atti ostili «non solo per la colpa ma anche per l’innocenza»,
inaugurando la consuetudine di colpire per chilometri i villaggi e i luoghi
abitati attorno alla zona di un attentato. Sorte analoga spettò ai Mau Mau in
Kenya, massacrati dagli inglesi durante gli anni ’50 del secolo scorso. Col
pretesto della lotta al terrorismo divenne possibile anche in questo caso
legittimare metodi terroristici come i campi di concentramento e l’uso
sistematico dell’elettrochoc. Anche il colonialismo italiano non fu da meno nel
dispensare campi di concentramento, stupri di massa e gas nervino in Africa come
nei Balcani. A tal riguardo, possiamo di sfuggita segnalare il processo del
Tribunale Speciale per la difesa dello Stato tenutosi nel 1940 contro 60
sloveni. Essi erano significativamente accusati di un reato associativo con
finalità terroristiche in quanto partecipanti «ad associazioni tendenti a
commettere attentati contro l’integrità e unità dello stato». Col trascorrere
del tempo, dunque, i diversi Stati europei operarono un progressivo
rovesciamento semantico del concetto di terrorismo, che da metodo di governo
utilizzato verso i governati si trasformava in metodo di lotta adottato dai
governati stessi contro le istituzioni e i suoi funzionari.
Ne rappresenta un emblematico esempio la definizione adottata dalla Convenzione
per la prevenzione e repressione del terrorismo, elaborata a Ginevra nel 1937,
secondo cui sono terroristici: «i fatti criminali diretti contro uno Stato e i
cui fini o la cui natura è atta a provocare il terrore presso determinate
personalità, gruppi di persone o il pubblico». Dal terrore generalizzato della
popolazione, sotteso alla nozione primigenia di terrorismo, allo spavento di
qualche personaggio c’è evidentemente un abisso, eppure in questa definizione il
terrore di determinate personalità e quello del pubblico sono considerati
equivalenti. È poi particolarmente significativo che tale definizione sia stata
coniata proprio nel medesimo anno in cui la cittadina basca di Guernica fu
sottoposta a un bombardamento a tappeto a opera dello squadrone volontario
Condor della Luftwaffe (l’aviazione tedesca), supportato dall’aviazione
legionaria italiana. La stampa mondiale diede da subito grande risalto
all’accaduto, sottolineando il carattere terroristico dell’azione bellica
condotta a sostegno delle forze franchiste in lotta contro i repubblicani, in
piena guerra civile spagnola. Il corrispondente del New York Times, George
Steer, mise l’accento proprio sull’intento deliberato di colpire la popolazione
inerme. Scopo dell’azione era «la demoralizzazione della popolazione civile e la
distruzione della culla del popolo basco». Con una simile azione, preceduta da
un analogo raid distruttivo contro la vicina cittadina di Durango ad opera
dell’aviazione legionaria italiana, si inaugurava l’epoca dei bombardamenti a
tappeto contro la popolazione civile, una manifestazione di quella che lo stesso
Steer aveva chiamato la «guerra moderna»: un modo di pensare l’attività bellica
come evento totale. Una volta superata una concezione limitata della guerra come
combattimento regolato fra opposte forze armate e una volta annullata la
distinzione classica fra militari e civili – inevitabile corollario del graduale
imporsi, a partire dagli inizi dell’Ottocento, dell’idea di Nazione – si faceva
del nemico un’entità unica, da colpire in modo indiscriminato, con tutti i mezzi
possibili[4].
Nonostante il progressivo rovesciamento semantico operato a livello
istituzionale, l’originaria concezione del termine terrorismo riusciva comunque
a mantenere talvolta una certa persistenza, senza dubbio in conseguenza del
succedersi di determinati eventi e processi storici, come ad esempio il fenomeno
della decolonizzazione sviluppatosi in Africa durante gli anni ’60 del
Novecento[5].
Tutelare la tranquillità dei pubblici poteri
Nei paesi dell’Europa Occidentale, ed in Italia in particolare, sarà nel corso
degli anni ’70 ed ’80 del Novecento che si compirà il deciso e definitivo
rovesciamento semantico del concetto di terrorismo, con lo scopo di contrastare,
da parte dell’ordine statale, l’insorgenza politica e sociale interna
sviluppatasi in quel medesimo periodo. A partire da tale data, terrorista sarà
sempre e solo chi svolge un’attività finalizzata ad un cambiamento radicale
dell’ordine costituito, cioè tende all’eversione dello Stato. Inoltre, sarà
sempre durante gli anni ’80 che il ribaltato concetto di terrorismo assurgerà
come nuovo termine chiave del lessico politico statale. Infatti, con l’elezione
nel 1981 alla presidenza degli Stati Uniti di Ronald Reagan, riprese decisamente
vigore, proseguendo nel solco già tracciato da precedenti amministrazioni,
l’iniziativa politico-ideologica antisovietica, sostenuta dalla tendenza ad
accrescere fortemente il budget militare e ad attaccare ideologicamente l’URSS
proprio mediante la denuncia del terrorismo come merce sovietica, strumento
d’aggressione ai danni del «mondo libero»[6]. La sottocommissione del Senato sui
problemi del terrorismo e della sicurezza fu un organo fondamentale nel processo
di reificazione del terrorismo, e cioè nella produzione di discorsi finalizzati
alla costruzione di un oggetto a sé stante, ridotto a essenza, dotato di una
propria peculiare autonomia dalla politica e dalla guerra. Nella retorica di
quella sottocommissione, e più in generale della nuova amministrazione, il
terrorismo andava concepito come un fenomeno guidato dall’alto, che promanava da
Stati sponsor che lo stesso Reagan, con un termine destinato ad essere più volte
ripreso in seguito, chiamò Stati canaglia.
Nell’alimentare il processo di autonomia discorsiva della tematica del
terrorismo, un ulteriore punto di svolta sul piano concettuale si ebbe nel 1986
con la pubblicazione del libro Il Terrorismo. Come l’Occidente può vincere,
edito da Benjamin Netanyahu e contenente gli atti di una seconda conferenza
organizzata dal Jonathan Institute di Gerusalemme, cinque anni dopo la prima.
Nella sua introduzione Netanyahu descriveva la situazione politica mondiale come
una lotta in corso tra civiltà e barbarie: nella comunità internazionale –
osservava – c’è un sufficiente consenso circa il ruolo di URSS e OLP nel
supporto al terrorismo internazionale e anche una discreta sensibilità rispetto
al pericolo incarnato dalla Repubblica islamica dell’Iran, ma ciò che manca è
una risposta comune ai terroristi e ai loro sponsor, a causa di un’insufficiente
concettualizzazione del fenomeno. È assurdo – egli affermava – paragonare un
atto terroristico con le perdite di civili in guerra: queste ultime sono
prodotte da atti casuali e involontari, laddove invece nel caso dei terroristi
si tratta di «scelte volute e calcolate». I terroristi di conseguenza non sono
guerriglieri, soldati irregolari che combattono contro forze nemiche molto
superiori, ma impuniti che attaccano obiettivi indifesi.
Fu Edward Said a intuire immediatamente la portata del mutamento concettuale e
d’impostazione contenuto in quelle tesi. Per Said, la definizione di Netanyahu
dipendeva da un assioma a priori: «Noi non siamo mai terroristi; sono loro, i
mussulmani e i comunisti che lo sono […] non importa che cosa abbiano fatto;
loro lo sono e lo saranno sempre». Questa nuova visione tendeva ad obliterare la
storia e la stessa temporalità, nel tentativo di «creare un nemico
essenzializzato, isolato dal tempo, dalla causalità, dalle azioni compiute in
precedenza e quindi a disegnarlo come ontologicamente e gratuitamente
interessato a scatenare il caos». Netanyahu – osservava Said – combatte una
battaglia basata su una visione del mondo che stabilisce che certi fini
ideologici e religiosi richiedano determinati mezzi, tali da comportare lo
sgretolamento di ogni inibizione morale. La giustificazione spuria di combattere
il terrorismo legittima cioè ogni atto di violenza commesso in suo nome. Non si
trattava di un mero dibattito fra intellettuali: nel 1984, al momento della
rielezione di Reagan, il segretario di Stato George Shultz aveva tenuto un
discorso alla sinagoga newyorkese di Park Avenue, incentrato sulla lotta al
terrorismo, in cui aveva proclamato che il tempo della difesa passiva era
finito. Quello che occorreva adesso era un’attiva capacità di colpire per primi
e anche di esercitare pronte ritorsioni, rispondendo agli attacchi terroristici
con la flessibilità necessaria, in una varietà di modalità belliche, scegliendo
luoghi e tempi in cui attaccare. Forte di questa tesi, la seconda
amministrazione Reagan adottò il terrorismo così inteso come nuovo nemico
globale e lo considerò un incentivo per giustificare il terrore come arma di
reazione.
Sul piano istituzionale e formale, sarà poi la risoluzione del parlamento
europeo del 30 gennaio 1997 ad adottare ufficialmente una definizione di
terrorismo in linea con il già menzionato rovesciamento semantico[7]. Inoltre,
nell’indeterminatezza di quali atti concreti siano terroristici, è il movente
ideologico che diventa fondamentale. Non è un caso che l’elenco delle
motivazioni terroristiche segua un ordine crescente di psicologizzazione:
aspirazioni separatistiche, concezioni ideologiche estremiste, fanatismo,
moventi irrazionali e soggettivi. In un crescendo esponenziale, all’indomani
dell’attentato alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre 2001, l’Unione
Europea ha avvertito l’esigenza di elaborare una disciplina sul terrorismo che
imponesse maggiori obblighi agli Stati membri. Veniva così adottata la decisione
quadro 2002/475/GAI (Consiglio Giustizia e Affari Interni dell’UE). Tale
decisione quadro verrà recepita, ed anzi aggravata nella sua valenza repressiva,
dal codice penale italiano con l’introduzione, avvenuta nel 2005, all’indomani
degli attentati alla metropolitana di Londra, dell’art. 270 sexies. Anche questa
definizione si orienta verso la sostanziale tutela dei pubblici poteri. Per la
prima volta però essi sono tutelati non solo da un loro potenziale rovesciamento
rivoluzionario, ma addirittura da possibili influenze e controversie temporanee
su questioni specifiche. In ultima analisi, anche una vertenza sindacale, uno
sciopero, potrebbe essere considerato come un atto terroristico contro l’ordine
costituito.
Il diritto internazionale, svalutando progressivamente l’elemento del terrore,
ha oggi due pesi e due misure per il terrorismo non statale e per quello
statale. Nel primo caso si può essere considerati terroristi persino a
prescindere dall’elemento del terrore, poiché si valorizza la finalità di
destabilizzazione del sistema politico statale o di contrasto di una sua
specifica decisione. Nel secondo caso, il terrore ingenerato manu militari nella
popolazione, attraverso ad esempio un bombardamento aereo di una città, non
basta da solo a qualificare come terrorista uno Stato, perché bisogna dimostrare
che tale stato di terrore fosse il movente principale dell’azione militare[8], e
non un semplice effetto collaterale di tale azione, ancorché previsto e voluto.
Al di fuori dello Stato, il nulla
Il rovesciamento semantico del concetto di terrorismo ha quindi provocato anche
il concomitante rovesciamento del termine indiscriminato. Se infatti
originariamente era lo Stato che terrorizzava l’intera popolazione di un
territorio attraverso atti violenti indiscriminati in vista di un fine politico
o ideologico, ora questi atti vengono addossati ad una parte, grande o piccola,
della popolazione stessa nei riguardi dello Stato. In tal modo, lo Stato prende
il posto della popolazione, sicché gli atti violenti indiscriminati risulteranno
quelli diretti contro gli apparati istituzionali. Dietro ad un tale
rovesciamento emerge l’assunto che la società sia un tutto organico e
monolitico, ed essa coincida necessariamente con lo Stato. Si va ben oltre
l’assolutezza del potere statale rispetto al corpo sociale, giungendo fino
all’assorbimento ed all’assimilazione del corpo sociale nello Stato. In base a
questo assunto, lo Stato diviene principio di intelligibilità di ciò che è, ma
anche di ciò che deve essere. Lo Stato diviene fondamentalmente l’idea
regolatrice di quella forma di pensiero, di riflessione, di calcolo e di
intervento che prende il nome di politica: la politica come mathesis, come forma
razionale dell’arte di governo.
Per edificare e rendere evidente la razionalità e necessità dello Stato, gli si
crea un mito fondante, gli si inventa una tradizione. Sarà il giusnaturalismo a
fornirgliela, nel corso del XVII secolo, proprio in quello stesso arco di tempo
in cui si andava sviluppando ed imponendo nelle scienze una filosofia
meccanicistica[9]. Poco importa che una simile teorizzazione non abbia alcunché
di reale, relativamente alla ipotizzata condizione dello stato di natura, e che
un tale mito fondante non si sia mai verificato in alcun luogo ed in alcun
tempo. La sua rilevanza sta nel fatto che ha avuto – ed ha – la forza di
modificare e modellare la realtà stessa, imprimendo e trasmettendo valori e
costumi funzionali a concetti asimmetrici quali quelli di obbedienza e
dipendenza, su cui lo Stato basa la sua ragion d’essere. In tal modo, un
regicidio, o una qualsiasi azione contro delle personalità o delle strutture
istituzionali, non sarà più diretta a terrorizzare unicamente i regnanti e le
classi dominanti, come sarebbe nelle intenzioni di chi auspica un cambiamento
radicale dell’ordine sociale, bensì potrà essere ascritta quale atto
terroristico indiscriminato, in quanto regnanti e classi dominanti rappresentano
e coincidono con l’intera società. Addirittura, come abbiamo già avuto modo di
vedere, anche una controversia su una questione specifica, tendente ad esprimere
dissenso verso particolari atti riguardanti la sfera economica, politica,
sociale e ambientale, come ad esempio una vertenza sindacale o l’opposizione ad
un progetto infrastrutturale, potranno essere considerati come atti
terroristici, perché tendenti a modificare l’ordine costituito intrinsecamente
immodificabile.
D’altro canto, quale logica conseguenza dell’idea della necessità ed
immutabilità dell’ordinamento statale, un bombardamento a tappeto su un
territorio densamente popolato attuato da uno Stato (ogni riferimento al
genocidio che si sta realizzando nella striscia di Gaza non è per niente
casuale), non sarà considerato un atto terroristico indiscriminato, bensì una
legittima e mirata azione di guerra. Un’azione chirurgica, come da alcuni
decenni va tanto di moda designare i bombardamenti aerei sulle città,
terminologia e concetto che tende a celare e porre in secondo piano i cosiddetti
effetti collaterali, ossia i previsti e voluti massacri di civili, senza i quali
non sarebbe possibile pervenire al reale e principale obiettivo desiderato:
abbattere il morale della popolazione, ossia, ancora una volta, seminare il
terrore.
Nonostante tutti i rovesciamenti semantici descritti, in definitiva quella
statale è la forma archetipica di terrorismo. Il terrorismo è insomma
prevalentemente una pratica di governo. E ciò è sostanzialmente dovuto al fatto
– come efficacemente dimostra il politologo tedesco Ekkehart Krippendorff
nell’opera Lo Stato e la guerra – che lo Stato, soprattutto a partire da quello
formatosi nell’era moderna (XVII secolo) e nelle sue successive declinazioni
quali lo Stato di diritto, lo Stato costituzionale, ecc., è intrinsecamente
legato alla guerra, è essenzialmente uno Stato militare, e le guerre che esso ha
continuamente condotto non sono un fatto secondario, bensì fanno parte della sua
vera essenza. L’apparato militare e coercitivo, strumento di guerra sia esterna
che interna, è la quintessenza dello Stato. Senza tale apparato, lo Stato
perderebbe la sua ragion d’essere. Non è un caso che nel 1919 il sociologo Max
Weber, nel saggio La politica come vocazione, abbia descritto lo Stato come il
detentore del monopolio della violenza. E questa violenza può e deve essere
esercitata sia all’esterno che all’interno del territorio posto sotto il suo
controllo, quindi anche – e aggiungerei soprattutto – contro i propri governati,
siano essi definiti come cittadini, sudditi, schiavi, prigionieri, ecc. Per
garantire la propria sicurezza, lo Stato ha bisogno di effettuare ed organizzare
una sempre più capillare opera di disciplinamento dei propri cittadini al suo
volere, per giungere a quell’acritico consenso generale essenziale ad ogni
ordine costituito. Sorvegliare e punire, come direbbe Michel Foucault,
attualmente declinato nel più consono ed effettivo terrorizzare e reprimere.
Tiravento
[1] Fu il deputato montagnardo Jean-Lambert Tallien, protagonista della caduta
di Robespierre, nonostante fosse stato un suo funzionario incaricato dal governo
giacobino della repressione a Bordeaux, in un importante discorso tenuto alla
Convenzione l’11 Fruttidoro (28 agosto 1794), un mese dopo il 9 Termidoro (26
luglio 1794), a svolgere una prima analisi critica del terrore inteso non come
espressione di un’unica volontà individuale, malefica e mostruosa, ma come un
vero e proprio sistema di governo. Nel suo intervento Tallien (il cui discorso
era stato scritto per lui da Pierre-Louis Roederer, un giurista, economista e
politico moderato) asseriva che il terrore non era il prodotto dell’azione
violenta di una folla in preda alle emozioni, bensì il calcolo deliberato di un
governo assoluto, autocratico, che non rende conto a nessuno dei suoi atti e che
minaccia sistematicamente il popolo.
[2] La spirale di violenza e di paura, una volta innescata, diviene dunque
pervasiva e non risparmia nessuno, neppure i membri dell’apparato repressivo, i
quali diventano essi stessi prigionieri del meccanismo, consapevoli che la paura
che instillano può in ogni momento rivolgersi contro di loro, e raggiungerli.
[3] Il Generale Lothar von Trotha, responsabile del genocidio, commesso fra il
1904 e il 1907, scrisse: «Io credo che la nazione come tale (gli Herero) debba
essere annientata, o, se questo non è possibile con misure tattiche, debba
essere espulsa dalla regione con mezzi operativi ed un ulteriore trattamento
specifico.[…] L’esercizio della violenza fracasserà il terrorismo e, anche se
con raccapriccio, fu ed è la mia politica. Distruggo le tribù africane con
spargimento di sangue e di soldi. Solo seguendo questa pulizia può emergere
qualcosa di nuovo, che resterà».
[4] Il terreno di coltura di una tale concezione era stata la prima guerra
mondiale, ma senza dubbio essa affondava le sue radici in periodi antecedenti,
soprattutto nell’esperienza coloniale tardo ottocentesca, come si è già avuto
modo di accennare. Durante la guerra civile americana, in particolare, si era
realizzata una sorta di circolarità fra i metodi usati dall’esercito
statunitense per sconfiggere il blocco degli Stati confederati e quelli adottati
per piegare la resistenza delle popolazioni “indiane” all’occupazione delle
proprie terre da parte dei coloni.
[5] In una risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU del 18 dicembre 1972 si
ribadiva solennemente «la legittimità dei movimenti di liberazione nazionale»,
condannando «gli atti di terrorismo statale, compiuti dai regimi coloniali,
razzisti e stranieri». Ed il Comitato speciale per il terrorismo internazionale,
costituito con la suddetta risoluzione, affermava poi che «il terrorismo
individuale è effetto di quello statale, costituendo una risposta violenta della
popolazione civile alla politica statale di oppressione».
[6] Tesi condivisa dal circolo più stretto dei consiglieri del presidente
statunitense, tra cui vi erano esponenti di punta di una nuova generazione di
politici conservatori, come Donald Rumsfeld, Dick Cheney e Paul Wolfowitz,
capace di orientare la politica estera americana nell’epoca di Reagan e che poi
sarebbe divenuta egemone al tempo delle presidenze dei Bush.
[7] Questi rappresentanti dei governi occidentali, sentendosi in fondo
autorizzati dal crollo dell’Unione Sovietica a teorizzare la fine delle
ideologie non capitalistiche e il conseguente esaurirsi della possibilità e
legittimità di qualsivoglia prospettiva rivoluzionaria di cambiamento, in tale
risoluzione affermavano che «costituisce atto di terrorismo ogni delitto
commesso da singoli individui o gruppi attraverso la violenza o la minaccia
della stessa e rivolto contro un paese, le sue istituzioni, la sua popolazione
in generale o contro specifici individui, il quale, motivato da aspirazioni
separatistiche, da concezioni ideologiche estremiste o dal fanatismo, o ispirato
a moventi irrazionali e soggettivi, mira a sottomettere i poteri pubblici,
alcuni individui o gruppi sociali o, più in generale, l’opinione pubblica ad un
clima di terrore». In ultima analisi, in una simile risoluzione, grazie ad un
intenzionale mescolamento di elementi originari ed attuali della nozione di
terrorismo, la tranquillità tutelata è unicamente quella dei poteri pubblici.
[8] Infatti, secondo i Protocolli Aggiuntivi del 1977 alle Convenzioni di
Ginevra del 12 agosto 1949 relative alla protezione delle vittime dei conflitti
armati internazionali e non, sono vietati soltanto «gli atti di violenza o le
minacce di violenza il cui fine principale sia di diffondere il terrore tra la
popolazione civile».
[9] In particolare, ciò si attuerà attraverso le riflessioni di Thomas Hobbes,
lo Stato diviene fonte del diritto e della morale, il suo potere è indivisibile
e congloba in sé anche l’autorità religiosa. Lo Stato è quindi il migliore dei
mondi possibili, anzi è l’unico mondo possibile, è la ratio unica ed assoluta
della civiltà, senza di esso gli esseri umani vivrebbero nell’insicurezza
continua, in una situazione di guerra permanente.