Madri in guerra, figlie in esilio: il coraggio silenzioso che chiede ascolto
Domenica 12 maggio si celebra in Italia la Festa della Mamma. Una giornata
dedicata all’amore, alla cura, alla gratitudine verso una figura fondamentale
nella nostra vita. Ma per molte madri nel mondo, oggi, non c’è nulla da
festeggiare. Sono madri in fuga, madri in guerra, madri separate dai propri
figli o dai propri compagni. Alcune di loro vivono tra noi, nelle nostre città,
in silenzio.
A Napoli, nel cuore del Vomero, alcune realtà culturali e sociali hanno offerto
negli ultimi anni spazi di incontro, sostegno e condivisione. Dal 2022, con
l’esplosione della guerra in Ucraina, il quartiere ha accolto numerose donne
ucraine arrivate con i figli, spesso molto piccoli. I mariti sono rimasti nel
Paese, arruolati o comunque impossibilitati a lasciare l’Ucraina. Altre donne
hanno lasciato i figli maschi adolescenti alle soglie del servizio militare.
Sono arrivate con una valigia e un bambino per mano, e negli occhi tutto il peso
della separazione e della paura.
In questi tre anni, dal 2022 a oggi, abbiamo visto questi bambini crescere.
Alcuni parlano ormai perfettamente italiano, vanno a scuola, giocano nei parchi
come tutti gli altri. Le loro madri, invece, portano ogni giorno sulle spalle il
peso dell’attesa e della rinuncia. Alcune hanno provato a cercare un lavoro,
altre vivono in bilico tra l’assistenza e la precarietà. Nessuna ha perso la
speranza, ma tutte sono consapevoli che il ritorno a casa potrebbe non essere
mai possibile.
Secondo i dati dell’UNHCR, più di 8 milioni di ucraini sono fuggiti dal Paese
dall’inizio del conflitto. La grande maggioranza sono donne con figli. Più di 3
milioni di rifugiati vivono oggi nei paesi dell’Unione Europea. Per molte di
loro il futuro è incerto, le abitazioni distrutte, le città occupate o in
rovina. Ma nonostante tutto, continuano ad accudire, ad amare, a proteggere. La
maternità diventa così una forma di resistenza: crescere un figlio lontano dalla
propria terra è un atto di coraggio. Continuare a educare, a curare, a sperare è
una scelta politica, contro la logica della guerra e della distruzione.
Ma l’Ucraina non è l’unico teatro in cui le madri sono costrette a fuggire.
Secondo le Nazioni Unite, negli ultimi anni il numero di rifugiati e sfollati
nel mondo ha superato i 114 milioni. La maggioranza sono donne e bambini. Dallo
Yemen alla Siria, dal Sudan all’Afghanistan, fino a Gaza, milioni di madri
vivono sotto le bombe o tra le macerie, in fuga da persecuzioni, occupazioni
militari, carestie e violenze.
Molte non riescono nemmeno a lasciare il proprio Paese. Altre camminano per
giorni, attraversano confini pericolosi, salgono su barconi di fortuna. Non
portano con sé quasi nulla, se non i figli. Il loro corpo diventa rifugio,
scudo, riparo.
Ogni conflitto, a ogni latitudine, ha un volto femminile. E ovunque, le donne in
esilio continuano a svolgere un ruolo fondamentale: garantire una parvenza di
normalità, educare, curare. Anche nei campi profughi, nelle tende, tra le
rovine. In tempo di guerra, la maternità si trasforma in eroismo quotidiano: una
leadership affettiva e morale che si esercita ogni giorno, nel silenzio.
Nel quartiere Vomero di Napoli, un luogo simbolico di accoglienza è diventato la
libreria IoCiSto, che in questi anni ha aperto le sue porte a tante famiglie
ucraine. Non solo con libri o spazi di lettura, ma con laboratori per bambini,
corsi di lingua, momenti di confronto e solidarietà. Attività semplici, ma
fondamentali: occasioni per ritrovare fiducia, rompere l’isolamento, sentirsi
parte di una comunità viva e accogliente.
In un pomeriggio di incontri e racconti proprio all’interno della libreria, ho
avuto modo di conoscere Svitlana con le sue due figlie, Bozhena e Aghelina. È
stata proprio Aghelina, la maggiore, a raccontare la loro fuga dall’Ucraina. A
soli sedici anni, con una maturità che impressiona, ha ricostruito quel momento
difficile con chiarezza e semplicità: la partenza improvvisa, il viaggio lungo e
incerto, la paura, la consapevolezza di dover diventare grande in fretta. Mentre
parlava, sua madre la osservava in silenzio, con una fierezza discreta.
Quando ho chiesto a Svitlana cosa significhi essere, oggi, madre e padre allo
stesso tempo, ha risposto con lucidità: “È dura, ma il mio compito è essere un
esempio per le mie figlie.”
In quelle parole c’è tutto: la fatica quotidiana, la resilienza, ma soprattutto
la scelta consapevole di trasformare la sofferenza in guida. La maternità, in
tempo di guerra, diventa un atto di eroismo quotidiano, una forma di guida
silenziosa, di amore resistente.
Accanto a Svitlana, anche le sue figlie hanno voluto raccontare qualcosa. Prima
di salutarle, ho chiesto quale regalo avrebbero voluto fare alla loro mamma per
la Festa della Mamma. Bozhena, sette anni, ha risposto con la dolcezza
disarmante dell’infanzia: “Fiori, un disegno e un braccialetto fatto con le mie
mani.”
Aghelina, con la forza tranquilla della sua età e della sua storia, ha detto
semplicemente: “La libertà.”
Due risposte, due età, due mondi. Ma un unico, immenso desiderio: che l’amore e
la pace tornino a essere il pane quotidiano di ogni madre, di ogni figlia,
ovunque nel mondo.
La Festa della Mamma dovrebbe forse ricordarci anche questo: che esistono madri
che non ricevono fiori, ma notizie dal fronte; che non preparano dolci, ma
documenti per il permesso di soggiorno; che non festeggiano, ma resistono. In
loro, nella loro tenacia silenziosa, c’è la forza della nonviolenza. Una forza
che va riconosciuta, ascoltata e protetta.
A loro, e a tutte le donne che affrontano le difficoltà della guerra, della fuga
e della solitudine, va il nostro più sentito augurio.
Che la pace possa essere il vero regalo. Per tutte, ogni giorno. Madri in
guerra, figlie in esilio: il coraggio silenzioso che chiede ascolto.
testimonianza video a cura di Lucia Montanaro
Lucia Montanaro