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Da Spoon River a Winesburg: rileggendo Sherwood Anderson
Un modo curioso – ma secondo me efficace – per farsi un’idea della popolarità di un autore nel mondo anglofono è dare un’occhiata alla lunghezza della sua voce su Wikipedia (naturalmente non quella in italiano). Seguendo questo piccolo criterio, si scopre che la voce dedicata a Sherwood Anderson è lunga circa il doppio rispetto a quella del nostro amatissimo Edgar Lee Masters. Non che l’autore dell’Antologia di Spoon River sia trascurato negli Stati Uniti: alcune sue poesie rientrano stabilmente nei programmi scolastici. Tuttavia, la sua notorietà è stata in parte oscurata dal successo di Anderson e della raccolta di racconti Winesburg, Ohio. Eppure i versi di Masters erano usciti già nel 1915, quattro anni prima, e Anderson ne era rimasto così colpito da leggerli senza sosta fino all’ultima pagina. Non sorprende, dunque, che qualcuno abbia visto in Winesburg, Ohio una sorta di versione in prosa di Spoon River. Diciamo subito che i due scrittori appartenevano alla medesima generazione, con Masters più vecchio di Anderson di otto anni – avrebbero potuto essere fratelli. Inoltre venivano dalla stessa area geografica, il Midwest: Anderson dell’Ohio, Masters del Kansas. Erano nati e cresciuti in piccole città di provincia in quello sconfinato territorio pianeggiante un tempo coperto di sterminate foreste, poi abbattute per far posto al granaio degli Stati Uniti. Erano figli di un’America agraria, non ancora industrializzata, che si muoveva col treno o a cavallo, che ricordava ancora il tempo in cui c’era la frontiera, e il Midwest era territorio indiano. Entrambi, nelle loro opere, si concentrano su quella realtà, che tutti e due avevano lasciato per andarsene – dopo varie peripezie – nella grande metropoli, che per loro non era New York bensì Chicago. È la classica storia del ragazzo di paese che va in città in cerca di fortuna; dei due quello che se la cavò meglio fu indubbiamente Anderson, che con Winesburg, Ohio non solo arrivò al successo, ma divenne un modello letterario per la generazione più giovane di scrittori, quella di Hemingway, Faulkner, Crane, e venne elogiato da critici prestigiosi come Mencken, Wilson, Stein. Certo, all’epoca della pubblicazione la raccolta di Masters ebbe un successo commerciale superiore (ottantamila copie vendute in quattro anni), fu apprezzata da Ezra Pound e Carl Sandburg, ma non si può dire che abbia esercitato sui poeti successivi un influsso paragonabile a quello di Anderson sui narratori. Non credo di dover illustrare il contenuto e soprattutto la struttura dell’Antologia di Spoon River; ma siccome da noi Anderson è molto meno conosciuto di Masters, andrà spesa qualche parola sui racconti di Winesburg. Sono 22 racconti, ognuno dei quali ha un diverso protagonista, che viene esplicitato nel sottotitolo: il primo, per esempio, è “Hands – concerning Wing Biddlebaum” (cioè “Mani – riguardante Wing Biddlebaum”). Come nella raccolta di poesie di Masters ciascun componimento dà la parola a un diverso “abitante” del cimitero di Spoon River, in Winesburg, Ohio ogni racconto è incentrato su un abitante (per lo più vivente) della cittadina, e ne rivela la personalità penetrando nella sua interiorità, spesso svelandone segreti che i suoi concittadini ignorano. Questo porta Anderson a toccare temi che nel 1919 erano decisamente scabrosi. Prendiamo per esempio Wing Biddlebaum, che in realtà si chiama Adolph Myers; il nomignolo “Wing” (ali) gli deriva dall’abitudine di muovere freneticamente le mani quando parla, come un uccello che spicca il volo. Wing ha un segreto: era un maestro elementare in una cittadina della Pennsylvania prima di trasferirsi a Winesburg, e i suoi atteggiamenti troppo affettuosi coi suoi alunni (quelle mani che si muovevano sempre e carezzavano) portarono i genitori a sospettare che fosse un pedofilo, al punto di malmenarlo e farlo fuggire. Ripeto: non era un tema facile da toccare all’epoca, e Anderson ci lascia nel dubbio, senza chiarire se Wing fosse semplicemente molto affettuoso o veramente nutrisse un’attrazione morbosa per i suoi scolari. Interessante notare che la pedofilia veniva toccata, in modo assai più esplicito e inequivoco, in un altro racconto, “Un incontro”, incluso nella raccolta joyciana Gente di Dublino, del 1914 – quando si parla del modernismo si tende a evidenziare soprattutto il carattere sperimentale delle opere partorite dal movimento, ma esse erano rivoluzionarie anche per il fatto di andare a toccare argomenti fino ad allora evitati o solamente sottintesi nella letteratura inglese e americana. Non dimentichiamo che Ulisse fu ritenuto per decenni un libro osceno la cui vendita era vietata; non a caso Joyce lo pubblicò a Parigi e non a Londra o New York. Di Winesburg, Ohio è nuova anche la lingua. Ci fu un fitto scambio di lettere tra Anderson e Gertrude Stein, la grande sperimentatrice, e certamente la prosa di questi racconti, pur senza arrivare alla sinteticità cubista di Hemingway (tradita da certe discutibili traduzioni italiane, ma si sta rimediando), è decisamente diversa da quella turgida dell’Ottocento (come la troviamo nelle pagine di Henry James): è lineare, essenziale, scarnificata. Anderson se ne serve per scavare nella psiche dei personaggi, e identificare quell’idea di cui si sono impossessati e che li ha fatti diventare grotteschi. Perché ognuno di essi ha una fissazione, un’ossessione, un desiderio inespresso e spesso frustrato, che è divenuto il centro della loro esistenza; questo viene detto esplicitamente nel capitolo introduttivo, “Il libro del grottesco”, nel quale Anderson rigioca il vecchio topos del manoscritto ritrovato, opera di un vecchio e anonimo scrittore restato inedito. Elizabeth Willard, la protagonista di “Madre”, ha l’ambizione frustrata di diventare un’attrice; in “Solitudine” Enoch Robinson va a New York illudendosi di poter diventare un’artista, senza riuscirvi; nell’ottavo racconto (il più lungo, diviso in quattro parti), “Devozione”, Jesse Bentley si identifica col suo omonimo biblico, padre del futuro re David, e si sforza di fare del figlio un grand’uomo. Queste ambizioni più o meno nascoste quasi sempre segnano la vita di chi ne è preda, e lo conducono al fallimento o all’infelicità – o entrambe le cose. Fa eccezione, tutto sommato, il personaggio ricorrente che in qualche modo tiene insieme i vari racconti, e cioè George Willard, figlio di Elizabeth, che lavora come cronista nel giornale locale. Per via del suo lavoro George è perennemente in giro per Winesburg in cerca del minimo avvenimento da riportare sul quotidiano, e ciò fa sì che compaia in pressoché tutti i racconti; talvolta come figura sullo sfondo, talvolta come interlocutore, o parte in causa. Ricorda un po’ quel Leopold Bloom che gira per Dublino in cerca di inserzionisti nell’Ulisse, e a tutti gli effetti è l’alter ego del suo autore – non a caso nel penultimo racconto, “Sofisticazione”, del quale è protagonista assieme a Helen White, una ragazza con la quale sta flirtando, George giunge a una sorta di maturazione che sembra innescare l’evento cruciale dell’ultimo racconto, “Partenza”, l’unico nel quale il giovane è protagonista, dove si narra il giorno in cui prende il treno per lasciare Winesburg senza poi farvi più ritorno. Un po’ quel che accadde ad Anderson, anche se in chiave assai meno melodrammatica. Lo scrittore, infatti, nel 1912 lasciò la cittadina di Elyria, nell’Ohio, dove possedeva una piccola fabbrica di vernice, dopo un esaurimento nervoso accompagnato da amnesia temporanea (sparì per quattro giorni prima di presentarsi in una farmacia chiedendo di essere identificato); lasciò lavoro e famiglia (moglie e due figli) per trasferirsi a Chicago e intraprendere la carriera di scrittore. Inevitabilmente al centro di questa costellazione di storie c’è l’opposizione tra centro e periferia, tra la piccola cittadina sonnolenta dove non succede niente, e la grande metropoli dove c’è la vita vera. Un tema classico, ma particolarmente rilevante negli Stati Uniti. Cesare Pavese era convinto che la letteratura americana fosse compatibile con la cultura italiana perché entrambe le nazioni erano fatte di paesi e paesoni, senza una Capitale con la maiuscola (come Parigi o Londra) a fare da centro di gravità socioculturale; in realtà la particolarità americana, e in qualche modo anche italiana, è di avere più capitali (da noi, la Roma della politica e la Milano del danaro). Il mondo della piccola città rurale lontana da tutto, esplorato da Anderson, ritornerà in tanti romanzi e racconti statunitensi: basti pensare a Babbitt di Sinclair Lewis, all’opera di Ray Bradbury, che da Winesburg, Ohio prese tanto, ai romanzi di Stephen King; potremmo tranquillamente uscire dalla letteratura stampata e arrivare alla Twin Peaks di David Lynch – la lista è lunga. Quel mondo oggi sembra si stia prendendo la sua rivincita, visto che tanti sostenitori dell’attuale presidente (paradossalmente uomo della metropoli più metropolitana del mondo) provengono da o risiedono in cittadine assai simili alla Winesburg di Anderson, anche se pickup e fuoristrada hanno sostituito i calessi, e al posto del giornale locale ci sono i social media della destra razzista e omofoba. Fors’anche per questo vale la pena di andare a leggere questi racconti, perché da quest’America che non c’è più discende l’America più inquietante che c’è oggi. E in fondo, in questa galleria di casi umani, alcuni dei quali decisamente curiosi, non è escluso che ne incontriate qualcuno che vi somiglia parecchio – se è vero che il microcosmo del Midwest rispecchia il macrocosmo globale, alla fine può anche darsi che tutto il mondo sia Winesburg. Chiudiamo tornando alla considerazione iniziale: Sherwood Anderson più famoso di Edgar Lee Masters in patria, eclissato dall’Antologia di Spoon River da noi. Curioso fenomeno, tenuto conto che Cesare Pavese amava entrambi gli autori, e se non fosse stato per la censura fascista avrebbe fatto tradurre o avrebbe tradotto sicuramente Winesburg, Ohio prima della guerra, come accadde alla raccolta di poesie di Masters. Comunque, come si potrà vedere dalla piccola bibliografia in appendice, già dopo la caduta del Duce usciva la prima traduzione italiana, e nel 1950 Anderson entrava nel catalogo Einaudi. Come mai non giunse allo stato di cult book come Spoon River? La mia ipotesi è che alla fine della fiera la cultura italiana ritenesse sempre la poesia al vertice della gerarchia letteraria; inoltre, la sua somiglianza della raccolta di Masters coll’Antologia greca (alias Antologia palatina) la rendeva accettabile anche ai prof di italiano e latino; mettiamoci anche che i versi di Masters sono decisamente immediati, e che a leggere uno dei componimenti di Spoon River ci si mette meno che a finire un racconto. E poi Masters ha incontrato da noi un eccezionale influencer, un certo De André, che col suo LP Non al denaro non all’amore né al cielo ha fatto diventare quel cimitero del Midwest parte della nostra mappa mentale collettiva. Come dicono gli americani, del tutto misteriose sono le vie di Dio: e misteriose anche le strade che portano un’opera letteraria da un paese all’altro.   Nota bibliografica Mentre il libro di Masters ha avuto sempre lo stesso titolo in italiano, quello di Anderson è uscito in diverse traduzioni diversamente intitolate. Le elenco qui sotto per facilitare la vita a chi, leggendo il mio pezzo, avesse voglia di visitare Winesburg senza allontanarsi da casa. * Piccola città nell’Ohio (Polin, 194-, tr. Orsola Nemi); questa edizione non è datata, ma si può ipotizzare che sia stata stampata tra il 1944 e il 1945, dato che in precedenza la censura fascista scoraggiava le traduzioni della letteratura americana. * Racconti dell’Ohio (Einaudi, 1950, tr. Giuseppe Trevisani), successivamente riedita da Mondadori nel 1958. * I racconti dell’Ohio (Newton Compton, 1992, tr. Marina Fabbri) * Winesburg, Ohio (BCDe, 2012, tr. Giulio Pane) * Racconti dell’Ohio (Theoria, 2024, tr. Jzreel Cassata) * Winesburg, Ohio (Feltrinelli, 2025, tr. Enrico Postiglione) A questi va aggiunta la pionieristica traduzione di un singolo racconto della silloge: * Solitudine (Slavia, 1931, tr. Ada Prospero) L'articolo Da Spoon River a Winesburg: rileggendo Sherwood Anderson proviene da Pulp Magazine.
Gatsby fa 100 anni!
Arriviamo un po’ in ritardo, ma meglio tardi che mai. I cent’anni del romanzo più famoso di Francis Scott Fitzgerald cadevano il 10 aprile, e sarebbe stato più corretto fare uscire allora questo pezzo commemorativo. Ma a pensarci bene è più giusto che si arrivi in ritardo, perché quello che oggi viene considerato un classico contemporaneo (intendendo questo aggettivo con una certa elasticità, un secolo non è poco) ci mise del tempo a farsi apprezzare – e se consideriamo la vita del suo autore, il successo lo raggiunse terribilmente, tragicamente tardi. Ma torniamo a quell’aprile del 1925. Fitzgerald in quel momento era un autore di punta della scena letteraria americana. Aveva sfondato col primo romanzo, Di qua dal paradiso, nel 1920, vendendo 50.000 copie; con il secondo, Belli e dannati, del 1922, nonostante le critiche non proprio entusiastiche, era arrivato a 70.000 copie vendute. Siccome non c’è due senza tre, la casa editrice, Scribner’s, si aspettava un ennesimo successo, e vendite ancora maggiori, visto che ormai Fitzgerald era uno scrittore dalla fama consolidata. Dopo una gestazione travagliata, l’uscita de Il grande Gatsby fu invece un mezzo flop: meno di 20.000 copie vendute, nonostante le recensioni stavolta fossero per lo più positive (pur con qualche voce fuori dal coro). A poco valsero a Fitzgerald le lettere piene di complimenti che gli arrivarono da Thomas Stearns Eliot, Willa Cather, Edith Wharton. Il pubblico americano non sembrava più interessato a lui; soprattutto, da quel romanzo non vennero i dollari che lo scrittore si aspettava. FSF restò a galla con i suoi racconti, che aveva sempre alternato alla scrittura dei romanzi, ma il seguito della sua vita fu tutt’altro che sereno, come ben sappiamo, tra alcolismo, debiti, il lavoro degradante di sceneggiatore a Hollywood, l’insuccesso di Tenera è la notte nel 1934, i problemi mentali della moglie, e infine la morte a soli quarantaquattro anni. Fitzgerald muore il 21 dicembre 1940, convinto di essere sostanzialmente un fallito. Poco meno di un anno dopo i giapponesi attaccano Pearl Harbour e gli Stati Uniti entrano a piè pari nella Seconda guerra mondiale; un fatto storico apparentemente sconnesso, ma che in realtà avrà conseguenze importanti per Il grande Gatsby. Nel 1942 un gruppo di importanti case editrici americane, librai, scrittori, bibliotecari ecc., convinti di dover contribuire allo sforzo bellico, fonda il Council on Books in Wartime, un’organizzazione no-profit il cui scopo è fornire di buoni libri i soldati americani sparsi per il mondo a combattere gli eserciti e le flotte dell’Asse. Il Council doveva usare i libri come “armi nella guerra delle idee”; fare arrivare ai combattenti testi che diffondessero i valori americani e giustificassero la partecipazione alla guerra. Curiosamente tra i libri distribuiti ai soldati e marinai e aviatori americani c’era un romanzo come quello di Fitzgerald che presenta un’immagine tutt’altro che edificante degli Stati Uniti; un paese dove chi ha i soldi è intoccabile e chi vuole farli è pronto a tutto pur di arricchirsi; un paese di avvilente vuotezza morale; un paese che, come i personaggi del romanzo, sembra in un perenne stato di ubriachezza. Eppure fu proprio la scelta del Council on Books in Wartime a far arrivare il libro nelle mani di tanti potenziali lettori: ne vennero stampate e distribuite oltre 150.000 copie. Non tutti gli americani in divisa si saranno innamorati di Jay Gatsby e di Daisy Buchanan (ben difficile innamorarsi di suo marito Tom), però molti scoprirono il romanzo. E la critica non lo aveva abbandonato: appena un anno dopo la morte dello scrittore, il suo compagno di università a Princeton e amico intimo Edmund Wilson – uno dei maggiori critici del Novecento – aveva pubblicato The Last Tycoon, ultimo romanzo incompiuto, che in Italia conosciamo come Gli ultimi fuochi, o L’amore dell’ultimo milionario in un omnibus che conteneva anche Il grande Gatsby. A partire da questa uscita postuma si assiste a una vera e propria Gatsby renaissance con la pubblicazione di numerosi articoli e saggi sul romanzo; e nel 1951 un professore di Cornell University, Arthur Mizener, pubblica una biografia di Fitzgerald, intitolata The Far Side of Paradise, che diventa un bestseller. Non siamo solamente alla canonizzazione dell’opera, ma alla nascita del mito dello scrittore stesso. Come si suol dire, il tempo è galantuomo, anche se il povero Francis Scott non poté godersi la sua santificazione, e soprattutto il raggiunto traguardo dei trenta milioni di copie vendute (cui vanno aggiunte 500.000 copie acquistate ogni anno nelle varie lingue, anche per effetto della fine dei diritti d’autore). Ma dopo cent’anni, cosa abbiamo ancora da dire del romanzo in sé? O meglio, cos’ha ancora da dirci? Qualche considerazione vale la pena di farla, prendendola un po’ alla larga. Dovremmo riflettere un attimo su quell’anno, il 1925. Tanto per cominciare, solo tre anni prima erano uscite, a Parigi e Londra, due pietre miliari della letteratura del Novecento: Ulisse di James Joyce e La terra desolata di Thomas Stearns Eliot – entrambe intente a rinnovare, se non a rivoluzionare rispettivamente il romanzo e la poesia. Nel 1923 Eliot pubblicava “Ulisse, ordine e mito”, un saggio critico nel quale dichiarava perentoriamente finita la stagione del romanzo realistico ottocentesco, che cedeva il passo al metodo mitico usato dallo scrittore irlandese per tenere insieme i capitoli della sua narrazione destrutturata. Siamo nel bel mezzo dell’epoca delle avanguardie artistiche, letterarie, politiche, e ne fa parte anche il modernismo di lingua inglese, anche se, a differenza di futurismo cubismo dadaismo surrealismo, non ha manifesti programmatici, leader riconosciuti e dichiarazioni d’appartenenza. C’è comunque l’idea che bisogna rinnovare, cambiare, rigenerare, anche distruggendo il vecchio per far spazio al nuovo; Ezra Pound, probabilmente tra gli americani quello più vicino all’approccio movimentista delle avanguardie europee, intimava “make it new!”, come a dire, rifatelo nuovo. E quello che andava rifatto, come aveva argomentato Eliot (in buona compagnia, perché la pensava così anche Lukács nella sua Teoria del romanzo), era soprattutto il romanzo, troppo borghese, troppo scontato, troppo sfruttato. La via presa da Joyce è quella della destrutturazione, della sperimentazione, della trasformazione del romanzo in un laboratorio letterario, con ciascun capitolo del suo magnum opus a mettere in atto un esperimento di scrittura. Ne risulta un libro tanto citato, tanto insegnato, ma – e diciamocelo! – non tanto letto; un writer’s book, un’opera per addetti ai lavori, che siano critici letterari, docenti accademici (o di liceo), oppure scrittori. Ma non era quella l’unica via percorribile; altri modernisti optano per una scelta meno radicale ma altrettanto difficile, e cioè scrivere narrazioni in apparenza convenzionali ma che nascondessero abissi di significato accessibili tramite simboli abilmente dissimulati. Potremmo dire che è il metodo mitico predicato da Eliot ispirato da Joyce, ma dissimulato. Ed è quello che applicherà nel 1926 un certo Ernest Hemingway nel suo primo romanzo, Fiesta: ci racconterà il mito del Re Pescatore (sottotesto fondamentale proprio della Terra desolata di Eliot) trasposto nella Parigi degli anni Venti, incarnato in un gruppo di espatriati americani che vivono alla giornata, esponenti di una generazione perduta. La loro vicenda si concluderà con un rituale semi-pagano, la corrida di Pamplona, sopravvivenza mitica in un mondo secolarizzato e svuotato: praticamente la versione in prosa romanzesca della Terra desolata di Eliot. E con questa mossa geniale, a Hemingway riesce di scrivere letteratura d’avanguardia (anche nel suo uso della prosa, nella sua paratassi asciutta e ritmata, nella sua visione cubista, del tutto diversa dalla scrittura vittoriana) ma in forma di best-seller – operazione che verrà ripetuta con ancor maggior successo quattro anni dopo con Addio alle armi. Ecco, se Gatsby lo mettiamo nel contesto si capisce meglio cosa stava facendo Fitzgerald. Anche lui era stato colpito dal poemetto di Eliot e dalle idee del suo autore; anche lui avvertiva che si doveva rinnovare il romanzo. E anche lui non segue Joyce sulla via della sperimentazione senza compromessi; come Hemingway dopo di lui, scriverà un romanzo accessibile, che offre al lettore una trama, personaggi ben delineati, azione, ma con un poderoso sottotesto mitico – che è a ben vedere lo stesso della Terra desolata. Anzi, Fitzgerald la terra desolata ce la fa vedere: è quella valle di ceneri davanti alla quale i suoi personaggi passano in automobile per andare da West Egg, dove c’è la monumentale villa di Gatsby e quella dei Buchanan, a Manhattan. Waste in inglese è un aggettivo, reso nelle versioni italiane come “desolata” o “devastata”, ma anche un sostantivo che significa “rifiuti, immondizia”. Il mondo moderno, decaduto e desacralizzato, è agli occhi di Eliot una grande discarica culturale, dove ci sono solo macerie con le quali il poeta puntella la sua costruzione in versi; Fitzgerald letteralizza la metafora, la riporta al suo stato di vera discarica di veri rifiuti (oggi riconvertita nel parco di Flushing Meadows, dove si gioca la coppa Davis). Ma mantenendo sempre la sua valenza simbolica: quella discarica tra le ville signorili di Long Island e la brulicante metropoli newyorkese è una sorta di memento mori, e l’emblema di un disfacimento morale. Ma non solo nella trama simbolica sta la carica innovativa del romanzo. La sua stessa architettura è modernista: ispirandosi a una geniale precorritrice, Emily Brontë, che nel suo Cime tempestose aveva affidato la narrazione a un personaggio secondario che della vicenda degli Earnshaw e dei Linton non sa nulla, Fitzgerald fa raccontare la storia a Nick Carraway, che non è né Gatsby, né Daisy, né Tom, insomma, che non è affatto il protagonista della vicenda – ricorda anche l’Ismaele di Melville (che non è il protagonista di Moby Dick) e il Marlow di Cuore di tenebra. L’io narrante, insomma, la voce che ci racconta non sa tutto, e non capisce tutto: narratore inaffidabile, decentrato, prodotto di quella rivoluzione copernicana che la Brontë aveva inaugurato troppo presto (e anche lei, come Fitzgerald, venne rivalutata post mortem, proprio in era modernista). Nick scopre pian piano chi è veramente Jay Gatsby, e quale folle idea lo guida, quella di invertire il tempo, di recuperare il suo amore perduto, un’idea folle – non a caso – come quella di un capitano americano intenzionato a vendicarsi del capodoglio albino che gli ha staccato una gamba. Anche Melville era stato un precursore sfortunato del modernismo, anche lui aveva voluto raccontare una storia di mare che avesse infiniti strati di significato nascosti sotto la superficie (come l’iceberg hemingwayano, d’altro canto). Gatsby ha qualcosa di Achab, è un eroe votato al fallimento, un eroe americano, senz’altro, con un cuore di tenebra e un sogno grandioso, splendido e irraggiungibile – un sogno americano di ricchezza e felicità, quella stessa felicità che dalle origini gli Stati Uniti si pongono come obiettivo politico (la trovate nella Dichiarazione d’indipendenza del 1776, che proclama diritti inalienabili “life, liberty and the pursuit of happiness”). La modernità del Grande Gatsby sta anche in altro. L’uso disinvolto di flashback che spezzano la linearità della storia; il taglio quasi cinematografico dei capitoli; il fatto che l’eroe della storia entri in scena non dall’inizio, ma a metà del terzo capitolo, dopo che su di lui si è detto di tutto; le due versioni parallele della vita del protagonista, quella che racconta Gatsby stesso e quella rivelata dal padre alla fine del romanzo. E in questa duplicità del personaggio principale sta un altro motivo di interesse del romanzo. A ben vedere un’altra opera di Melville, ancor più sperimentale di Moby Dick, ancor più anomala, e forse per questo meno nota, ha non poco a che fare con Il grande Gatsby; mi riferisco a L’uomo di fiducia, anche tradotto (giustamente) come Il truffatore di fiducia e L’impostore, la storia di un imbroglione che s’imbarca su un battello a vapore e assume diverse identità, impegnandosi in una serie di truffe, in un vortice di simulazioni e travestimenti che ha dato filo da torcere agli interpreti (talché per alcuni il trasformista è il Diavolo mentre per altri è Dio – o entrambi). A ben vedere, anche Jimmy Gatz, figlio di un misero agricoltore del North Dakota, assume un’altra identità, trasformandosi nel raffinato Jay Gatsby, eroe di guerra, laureato a Oxford, dallo stile britannico, nascondendo così l’origine illegale della sua ricchezza, accumulata col contrabbando di alcolici nell’epoca del Proibizionismo. Il tema del falso serpeggia nel romanzo: lo ritroviamo in Jordan Baker, la bella golfista con cui Nick Carraway ha una storia, che è sospettata di aver imbrogliato in una gara; lo ritroviamo in Meyer Wolfshiem, il losco faccendiere ebreo socio di Gatsby, del quale si dice che ha truccato il campionato di baseball del 1919; ma lo ritroviamo anche nello stesso Gatsby, che per coprire Daisy, colpevole di un omicidio stradale, intende attribuirsene la colpa; e mettiamo nel mazzo anche Tom Buchanan, che ha una tresca con Myrtle, la moglie del meccanico locale, e che attribuisce la colpa dell’incidente a Gatsby per sviare la rabbia omicida del marito di Myrtle da Daisy. Tutti hanno qualcosa da nascondere, in questo romanzo, tutti imbrogliano, e Gatsby forse più di tutti. Per questo Il grande Gatsby è la storia del sogno americano, che non coincide con la storia americana: in effetti è incentrato su una fiction, sulla creazione del personaggio Jay Gatsby, ideato (o forse sognato) da Jimmy Gatz. Insomma, a cent’anni dalla sua pubblicazione questo romanzo non sembra aver finito di raccontarci l’America, anche nella sua attuale versione post-verità; e adesso che è guidata da un miliardario specializzato in speculazioni immobiliari non sempre pulite, travestitosi da salvatore della patria, pronto a sparare balle di portata galattica, Il grande Gatsby sembra acquistare una nuova pregnanza, non proprio rassicurante. L’eroe che si inventa un’altra vita, il truffatore che cambia disinvoltamente identità, erede del mitico trickster che ben conoscevano i nativi americani, si è reincarnato nell’attuale presidente degli Stati Uniti. Alla fine della fiera, il romanzo di Fitzgerald lo apprezziamo di più adesso che siamo nel bel mezzo de Il grande Trump. 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