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La salute pubblica può prosperare solo in un contesto di equità. Il Kerala ne è un esempio
Con un tasso di alfabetizzazione superiore al 96%, il più alto dell’India, la popolazione del Kerala ha sviluppato una profonda consapevolezza sanitaria e una forte partecipazione civica. Ripubblichiamo di seguito un articolo della sociologa Sara Gandini, pubblicato da Il Fatto Quotidiano, sul modello di sanità dello Stato indiano del Kerala e come sia stato un modello di salute internazionale per affrontare la crisi sanitaria da Covid-19.  di Sara Gandini e Paolo Bartolini Nel panorama globale della salute pubblica, il Kerala, piccolo Stato dell’India meridionale con circa 35 milioni di abitanti, rappresenta un unicum. Governato da una coalizione di ispirazione comunista (Left Democratic Front, LDF), eletta democraticamente, il Paese ha raggiunto risultati sanitari e sociali che competono con quelli di molti paesi ad alto reddito. L’interesse scientifico per questo modello è cresciuto notevolmente, in particolare dopo la gestione della pandemia di COVID-19 e la recente dichiarazione del 2025 secondo cui lo Stato avrebbe eradicato la povertà estrema attraverso interventi mirati e personalizzati (India Today, 1 novembre 2025). La salute pubblica in Kerala è intimamente legata al livello di istruzione. Con un tasso di alfabetizzazione superiore al 96%, il più alto dell’India, la popolazione del Kerala ha sviluppato una profonda consapevolezza sanitaria e una forte partecipazione civica ai programmi di prevenzione e controllo. Questa combinazione di istruzione universale e medicina di comunità ha portato a indicatori di salute simili a quelli dei paesi industrializzati: una speranza di vita di circa 77 anni (contro i 69 della media indiana), una mortalità infantile di 6 per 1.000 nati vivi, valori simili a quelli di paesi europei come il Portogallo o la Grecia, e una copertura vaccinale superiore al 95% in quasi tutte le fasce d’età. Un aspetto spesso trascurato ma fondamentale del modello keralese è la centralità delle donne nel sistema sanitario. Il Kerala ha la più alta percentuale di forza lavoro sanitaria femminile in India (64,5%) e una densità di dottoresse otto volte superiore rispetto a stati come Uttar Pradesh e Bihar. Oltre ad avere una ministra della Salute, tutte le principali Direttrici tecniche sono donne. Inoltre, metà dei direttori sanitari distrettuali (District Medical Officers), così come circa la metà dei medici allopatici che lavorano nel sistema sanitario pubblico, sono donne. Questa leadership femminile diffusa non è casuale: riflette una visione sistemica della salute come campo di giustizia sociale, in cui l’emancipazione femminile, l’istruzione e la partecipazione civica diventano parte della stessa infrastruttura di salute pubblica. Durante la pandemia di COVID-19, il Kerala è diventato oggetto di numerosi studi internazionali. Uno dei più citati, pubblicato su BMJ Global Health (2020), descriveva la risposta dello Stato come un modello di sostegno istituzionale: comunicazione pubblica trasparente e gestione decentrata dell’assistenza, con presidi locali in grado di seguire i casi lievi e garantire l’aiuto domiciliare. Un esempio importante da riconoscere per l’approccio integrato fra salute pubblica e giustizia sociale. Uno dei principi centrali del sistema keralese è che la salute è una funzione dell’equità sociale. Nel 2025 il governo ha annunciato di aver eliminato la povertà estrema identificando 64.000 famiglie vulnerabili e sviluppando micro-piani personalizzati per ciascuna di esse. Questo contrasta fortemente con la realtà di molti paesi ad alto reddito, come gli Stati Uniti, dove la spesa sanitaria pro capite è la più alta al mondo ma gli indicatori di salute, speranza di vita, mortalità materna e infantile, accesso alle cure, restano tra i peggiori (Commonwealth Fund, 2023). L’assenza di un sistema universale crea due mondi paralleli: i cittadini più abbienti, sovra-trattati e medicalizzati, e i poveri, spesso esclusi dai servizi di base. All’opposto in Kerala la medicina è preventiva, comunitaria e centrata sulla persona, non sul profitto. I medici operano spesso come parte di reti locali, con forte integrazione tra ospedale e territorio, e un’enfasi su salute mentale, nutrizione e ambiente. Il modello sanitario qui esaminato mostra che la salute pubblica può prosperare solo in un contesto di giustizia e partecipazione democratica. La coesione sociale è più importante dell’arricchimento di pochi, e questo insegnamento può tornarci utile in un passaggio d’epoca insidioso e caotico. Del resto, come dimostra l’elezione a New York del neo-sindaco Mamdani, a saper toccare le corde giuste si può invertire la tendenza alla sfiducia e all’astensionismo. Ridistribuire la ricchezza verso il basso, garantire servizi accessibili e di qualità a tutti i cittadini, arginare razzismo e ingiustizie sociali rilanciando una sensibilità “socialista” che superi le divisioni e metta in discussione i dogmi neoliberali: tutto questo, insieme a una linea intransigente che difenda la pace e contrasti le logiche di riarmo, risponde alle esigenze reali e concrete delle persone che faticano ad arrivare a fine mese, colpite dall’assenza di politiche abitative decenti, e che sperimentano il peso economico e morale di una medicina/sanità ridotta a privilegio di pochi. Se, anche dalle nostre parti, equità e salute pubblica tornassero a nutrire il dibattito, e i partiti autoproclamati di sinistra smettessero (in combutta con i mass media impegnati nel mantenimento dello status quo) di rincorrere il fantomatico “centro”, per riscoprire una radicalità democratica all’altezza dei problemi, forse potremmo uscire dall’impotenza e dare forma a un risveglio culturale e politico di cui c’è enorme bisogno. Dall’India e da New York ci arriva, in modi diversi, un insegnamento non da poco: si può iniziare a costruire qualcosa di diverso, scostandosi dalle leggi non scritte dello sconforto e dell’individualismo di mercato. Redazione Italia
British Standards Institution: “Allarme jobpocalypse, gravissima crisi nel mondo del lavoro causata dall’AI”
Era il 2020 quando l’ambientalista Sonia Savioli nel suo libro-inchiesta “Il giallo del Coronavirus. Una pandemia nella società del controllo”, metteva in guarda sugli effetti di quella che sarebbe stata la rigenerazione economica del tecnocapitalismo, durante la crisi sanitaria da Covid-19, che avrebbe avuto inizio nel 2021 con il Piano Great Reset del World Economic Forum di Davos (WEF): la Quarta Rivoluzione Industriale. Tra le innumerevoli operazioni di greenwashing spacciate per “sostenibili” (continui finanziamenti alla pesca intensiva e agli allevamenti intensivi, sfruttamento dei mari e degli oceani tramite attività estrattive, l’ingresso della cibernetica nei settori dell’economia, sanità, welfare e finanza), stando ai dati del World Economic Forum – affermava Sonia Savioli – la Quarta Rivoluzione Industriale sarebbe iniziata con l’eliminazione di circa 800 milioni di posti di lavoro nel mondo industrializzato a causa dell’irruzione sistematica dell’Intelligenza Artificiale nel mercato del lavoro. Un numero che, nonostante la grande consistenza, non fece allarmare nessun giornalista mainstream e nessun analista nostrano. A confermare questo dato però, sistematicamente ignorato, è stato il recente report “Evolving Together: AI, automation and building the skilled workforce of the future“ pubblicato dal British Standards Institution (l’ente certificatore nazionale inglese, l’equivalente del nostro Rina) (BSI), basato su interviste a 853 business leader aziendali in 8 Paesi (Cina, Giappone, Australia, Germania, Stati Uniti, Regno Unito, Francia e India), svolte da agosto 2025, analizzando anche i report annuali di 123 aziende attraverso strumenti di analisi AI. Secondo i leader globali stiamo vivendo quella che viene definita “jobpocalypse”: un collasso sistemico del modello tradizionale di ingresso nel mondo del lavoro. A darne notizia approfonditamente è stato  The Guardian. L’AI infatti sta cancellando tutte le posizioni di lavoro pensate per neoassunti o personale giovane, con competenze di base e poca (o nessuna) esperienza lavorativa. Perché investire su personale da formare senza competenze specialistiche quando quelle funzioni possono essere svolte da una AI? Secondo il BSI le riduzioni di personale sarebbero già in calo ed in numeri parlano chiaro: * 41% dei leader afferma che l’IA sta consentendo riduzioni dirette del personale; * 50% dichiara esplicitamente che l’AI sta aiutando a ridurre il numero di dipendenti; * 18% delle aziende investe in IA specificamente per ridurre il personale; Se per decenni il paradigma capitalista classico affermava “Il lavoro lo fanno le persone, le macchine aiutano”, oggi si sta invertendo la rotta: “Il lavoro lo fanno i sistemi AI, le persone intervengono quando necessario”. Si sta istituzionalizzando sempre più un diverso modo, da parte delle aziende, di pensare al mondo lavoro e lo studio lo constata senza mezzi termini: * 31% delle organizzazioni oggi esplora soluzioni AI prima di considerare l’assunzione di persone; * 40% prevede che questo diventerà la norma entro 5 anni; * 61% investe in IA principalmente per aumentare produttività ed efficienza; * 49% per ridurre i costi operativi; Il dato più allarmante riguarda anche i lavori entry-level, quelli tradizionalmente destinati a chi inizia la carriera: * 39% delle aziende ha già ridotto o eliminato posizioni junior grazie all’IA; * 43% prevede ulteriori tagli nei prossimi 12 mesi; * 55% dei leader ritiene che i benefici dell’IA compensino le distruzioni sulla forza lavoro; Le mansioni entry-level che l’IA sta eliminando non riguardano solo il “lavoro produttivo”, ma anche lo spazio formativo, dal momento che è proprio nei “primi lavori” che si insegnano competenze che nessuna scuola o università può dare: * Gestire il tempo quando hai troppe cose da fare * Comunicare in modo efficace in contesti professionali * Capire come funzionano davvero le dinamiche aziendali * Riconoscere le priorità vere da quelle apparenti * Reggere lo stress e la pressione * Imparare a sbagliare e correggersi * Costruire relazioni professionali * Navigare la politica aziendale L’IA può fare ricerche, compilare report, gestire agende, rispondere a email routine, ma non può insegnare queste meta-competenze che si sviluppano solo attraverso l’esperienza vissuta. Il report evidenzia dunque la skills latency (“latenza delle competenze”), un pericolo strutturale che fa emergere un ritardo generazionale nello sviluppo delle capacità professionali. Se un’intera generazione non ha accesso ai ruoli formativi entry-level, chi ricoprirà i ruoli senior tra 10-15 anni? Come si formeranno i futuri manager se non potranno fare esperienza sul campo? Le aziende stanno ottimizzando per l’efficienza di oggi, ma stanno creando un problema di talento per il domani. Sono gli stessi business leader globali ad ammettere questa situazione di latenza, dichiarandosi “fortunati” ad essere nati e cresciuti in un mondo pre-AI: * 56% dichiara di essere stato “fortunato” ad aver iniziato la carriera prima che l’IA trasformasse il proprio settore; * 43% ammette che non avrebbe sviluppato le competenze attuali se l’IA fosse stata disponibile all’inizio della carriera; * 28% si aspetta che il proprio ruolo attuale non esisterà più entro il 2030. Dall’analisi AI dei 123 report annuali esaminati dal BSI emerge che il termine “automation” è citato quasi 7 volte più frequentemente di “upskilling”, “training” o “education”. Le aziende comunicano l’IA principalmente come: driver di innovazione, vantaggio competitivo e strumento di efficienza. Di conseguenza c’è molta meno enfasi sulle implicazioni sulla forza lavoro, sugli investimenti in capitale umano, sulla preparazione dei dipendenti al futuro. Solo il 34% delle aziende intervistate ha un programma di formazione strutturato per preparare i dipendenti all’uso dell’IA. In Giappone questa percentuale scende al 16%, mentre in India sale al 64%. A livello geografico, a guidare questa trasformazione drastica e allarmante è l’India con il 50% delle aziende che hanno ridotto ruoli junior. Seguono Australia (57% dichiara che l’AI aiuta a ridurre il personale a livello junior) e Cina (61% prevede riduzioni future). In Italia e in Europa, il fenomeno è in crescita ma ancora meno aggressivo rispetto all’Asia-Pacifico.   Il rischio di questa jobpocalypse però è che si crei una contrazione tale della forza lavoro da portare a una mancata formazione professionale di un’intera generazione. Ancora una volta infatti ad essere penalizzate sono le giovani generazioni. Il report BSI introduce un termine nuovo e inquietante “Generation Jaded” – dall’acronimo “Jobs Automated, Dreams Eroded” (“lavori automatizzati, sogni erosi”), riferendosi a quella generazione che: 1. Ha già subito danni nella formazione scolastica a causa del Covid-19; 2. Si trova ora di fronte a un mercato del lavoro che elimina proprio i ruoli pensati per chi inizia; 3. Rischia di non sviluppare mai le competenze che si acquisivano attraverso l’esperienza entry-level. Gli studenti freschi di diploma o laurea per trovare il primo lavoro oggi non devono solo fare i conti con la concorrenza dei loro coetanei, ma anche e soprattutto con quella dell’Intelligenza Artificiale. Le conseguenze sociali ed economiche della Quarta Rivoluzione Industriale potrebbero essere devastanti, tanto da far ritenere a molti che una jobpocalypse sia solo questione di tempo anche qui in Occidente.   https://www.blog-lavoroesalute.org/sul-great-reset-e-lignoranza-dei-giornalisti-mainstream/ https://www.blog-lavoroesalute.org/il-piano-great-reset-del-world-economic-forum-per-i-profitti-delle-industrie-agro-chimiche-alimentari/ https://www.blog-lavoroesalute.org/il-grande-reset/ https://www.blog-lavoroesalute.org/tecno-bio-capitalismo/ https://documenti.camera.it/leg18/resoconti/assemblea/html/sed0610/leg.18.sed0610.allegato_b.pdf > Secondo una ricerca sta per arrivare la jobpocalypse, cioè una gravissima > crisi nel mondo del lavoro causata dall’AI > Jobpocalypse: è iniziata la rivoluzione del lavoro nell’era della IA   Lorenzo Poli
Covid-19, Studio italiano: “Aumento dei tumori dopo i vaccini a mRNA”
E’ un tema che abbiamo già trattato approfonditamente e che di recente abbiamo proposto come tema di attualità nell’ambito del diritto alla salute. Il rischio di cancro è aumentato del 23% nelle persone che hanno ricevuto il vaccino COVID-19, secondo uno studio peer-reviewed pubblicato su EXCLI Journal nel luglio 2025. Lo studio ha dimostrato che il rischio di cancro al seno è aumentato del 54% e quello di cancro alla vescica del 62% entro 180 giorni dalla prima vaccinazione. “Si tratta di dati reali e piuttosto preoccupanti”, ha affermato il commentatore medico John Campbell, nel suo programma YouTube mentre illustra i risultati. Lo studio è stato il primo a scoprire prove statisticamente significative di un aumento del rischio di cancro a seguito della vaccinazione contro il COVID-19. I ricercatori hanno esaminato la relazione a lungo termine tra le vaccinazioni contro la SARS-CoV-2 ed i ricoveri ospedalieri per cancro in una coorte di quasi 300.000 residenti della provincia di Pescara, in Italia. I residenti di età pari o superiore a 11 anni sono stati seguiti da giugno 2021 a dicembre 2023 utilizzando i dati ufficiali del Sistema Sanitario Nazionale. I modelli statistici sono stati adeguati per età, sesso, comorbilità, precedenti tumori e precedenti infezioni da SARS-CoV-2, rendendolo il follow-up più completo fino ad oggi sulle diagnosi di cancro dopo la vaccinazione contro il COVID-19.   > “Lo studio ha rilevato che il rischio di diagnosi di cancro era superiore del > 23% per le persone vaccinate con una o più dosi entro 180 giorni dalla prima > vaccinazione, rispetto ai non vaccinati. > Tra le 296.015 persone studiate, 3.134 sono state diagnosticate con cancro.”   Le persone che hanno ricevuto almeno tre dosi del vaccino contro il COVID-19 hanno avuto un aumento del 9% del rischio di diagnosi di cancro entro 180 giorni dalla terza vaccinazione, rispetto ai non vaccinati. Due fattori contribuiscono alla diminuzione dell’aumento del rischio con un numero maggiore di dosi di vaccino, ha affermato Campbell. “Uno è che le persone predisposte al cancro lo avevano già sviluppato” prima che fosse raggiunto il termine di 180 giorni dopo la terza dose, ha affermato Campbell. “Quindi forse l’aumento del 23% dei tumori a sei mesi significa che le persone che svilupperanno il cancro… potrebbero svilupparlo precocemente”. In secondo luogo, il follow-up del cancro richiede decenni per un’analisi adeguata, ha affermato. Non sono stati condotti studi a lungo termine sul vaccino COVID-19, e “questo è stato il problema”, ha affermato Campbell. “Hanno vaccinato i gruppi di controllo in tempi molto brevi… quindi l’intera faccenda è stata un completo disastro”. I tumori al seno, alla vescica e al colon-retto hanno mostrato gli aumenti più elevati e statisticamente significativi nei pazienti vaccinati rispetto a quelli non vaccinati. Il rischio di cancro al seno è aumentato del 54% e quello di cancro alla vescica del 62% nelle persone che hanno ricevuto almeno una dose del vaccino COVID-19, 180 giorni dopo la somministrazione. Il cancro al colon-retto è aumentato del 34%. Nelle persone che avevano ricevuto almeno tre dosi del vaccino contro il COVID-19, 180 giorni dopo la terza dose, il rischio di cancro al seno era aumentato del 36% e quello di cancro alla vescica del 43%. Il rischio di cancro colon-rettale è aumentato del 14%, ma questo aumento non è stato considerato statisticamente significativo a causa delle dimensioni ridotte del campione dello studio. Anche i tumori dell’utero e delle ovaie hanno mostrato un aumento dopo una e tre dosi, sebbene i numeri non fossero statisticamente significativi. Campbell ha spiegato: “Sembra che ci sia un aumento reale, ma se si tiene conto del fatto che persone sono state ricoverate con tumori, quando si suddivide per tipo di tumore, a volte i numeri non sono sufficienti per dare un risultato statisticamente significativo”. Oltre ad analizzare il rischio di cancro, lo studio ha valutato il rischio di mortalità per tutte le cause associato allo stato di vaccinazione contro il COVID-19. Durante lo studio, i risultati hanno mostrato che le persone vaccinate hanno dimostrato una minore probabilità di morte per tutte le cause. “Questo è quasi certamente attribuibile a quello che chiamiamo effetto del vaccinato sano”, ha detto Campbell. “Ci è stato detto, manipolato, mentito, chiamatelo come volete, che questo vaccino era buono per la nostra salute. Quindi, le persone interessate alla salute hanno avuto la tendenza a farsi vaccinare”. Gli autori dello studio hanno affermato che il pregiudizio del “vaccinato sano” che induce a pensare che i vaccini riducano i decessi, potrebbe sottovalutare i rischi di cancro. Si legge nello studio: “il bias dei vaccinati sani, analogamente a come probabilmente porta a una sovrastima dell’efficacia del vaccino contro la mortalità per tutte le cause, potrebbe anche portare a una sottostima del potenziale impatto negativo della vaccinazione sui ricoveri ospedalieri dovuti al cancro. Essendo, lo stile di vita più sano, tipicamente associato alla vaccinazione che può ridurre il rischio di carcinomi”.   > Video di John Campbell che analizza lo studio:     Fonte: LO STUDIO “VACCINAZIONE CONTRO IL COVID-19, MORTALITÀ PER TUTTE LE CAUSE E RICOVERO OSPEDALIERO PER CANCRO: STUDIO DI COORTE DI 30 MESI IN UNA PROVINCIA ITALIANA”  –  QUI LA VERSIONE PDF  https://childrenshealthdefense.org/defender/covid-vaccine-linked-sharp-rise-cancer-italian-researchers-find-john-campbell/ Lorenzo Poli